Tumgik
#letteratura russa del XIX secolo
gregor-samsung · 1 month
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“ «Com'è strano, — pensava Veročka — già le sapevo dentro di me, già le presentivo, tutte le cose che ha detto sulle donne, sui poveri, sull'amore. Dove le ho imparate? Forse nei libri che ho letto? No, non là. In quei libri ci sono tanti dubbi, tante riserve, e ogni cosa sembra insolita, incredibile. Come si trattasse di sogni belli, ma irrealizzabili! A me sembra invece che questi sogni siano semplici, semplicissimi, comuni, che senza di essi non si possa vivere, che si dovranno avverare senz'altro. Eppure, secondo me, questi libri sono ottimi. George Sand; per esempio, è così buona e morigerata, eppure, tutto in lei è sogno! E i nostri? No, nei nostri non si parla di questo. In Dickens, invece, sì, ma tutto è come senza speranza; certo, lui se l'augura, perché è buono, però sa bene che non si avvererà. Come fanno costoro a non sapere che in mancanza di questo non si può vivere e che bisogna darsi da fare, e si lavorerà senz'altro, perché non ci siano più uomini poveri e infelici? Ma che, forse non lo dicono? Dire lo dicono, ma provano solo pietà, mentre pensano che tutto resterà com'è ora: sì, qualcosa migliorerà, ma per il resto. No, essi non dicono le cose che io penso. Se le dicessero, saprei che le persone buone e intelligenti ragionano come me. E invece sinora ho creduto di essere l'unica a pensarla così, perché sono una stupida. Nessuno pensa come me, nessuno si aspetta che le cose cambino realmente. E ora lui assicura che la sua fidanzata ha detto a tutti coloro che l'amano che le cose andranno proprio secondo le mie idee. E ha parlato così chiaramente, dice lui, che tutti già lavorano perché tutto avvenga al più presto. Che donna intelligente! Ma chi è? Lo saprò di certo. E come sarà bello, quando non ci saranno più poveri, quando nessuno sarà costretto a ricorrere agli altri per bisogno, quando tutti saranno allegri, buoni, felici...». Assorta in queste riflessioni, Veročka si addormentò, e dormì profondamente, senza sognare.  “
Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, Che fare?, traduzione e cura di Ignazio Ambrogio, Edizioni Studio Tesi (collana Collezione Biblioteca, n° 85), Pordenone, 1990; p. 78.
 NOTA: Il testo originale (Что делать?), che Černyševskij scrisse in prigionia nella fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo, cominciò ad essere pubblicato a puntate nel 1863 sul mensile letterario russo Sovremennik sino a quando le autorità sequestrarono l’intera opera, ritenuta sovversiva. Il libro circolò quindi clandestinamente fino alla pubblicazione integrale nel 1905, all’inizio della breve stagione riformista dello zar Nicola II.
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schizografia · 2 years
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Manca Rossana Rossanda.
Ucraina, genesi di un conflitto
di Rossana Rossanda, 29 giugno 2014
Stampa e Tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare. E l’Europa sembra avere dimenticato storia, geografia e politica.
L’Europa non è certo nata in chiave antiamericana ma, date le dimensioni e il numero degli abitanti, almeno come grande mercato autonomo e con una moneta forse concorrenziale; e per alcuni anni questo è stata. Ma da qualche tempo ha sottolineato in modo sbalorditivo un ruolo che una volta si sarebbe detto “atlantico”. Non più sotto il vessillo anticomunista, il comunismo essendo scomparso da un pezzo, ma antirusso.
Qualche anno fa, Immanuel Wallerstein mi diceva che, spento ogni scontro ideologico, le nuove guerre sarebbero state commerciali. E quale altro senso dare al conflitto in corso a Kiev? Esso sembra avere per oggetto l’identità nazionale dell’Ucraina. Eccezion fatta per il manifesto, tutta la stampa e le tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo; il quale le ha già strappato la penisola di Crimea e se la vorrebbe mangiare tutta. Manca poco che la Russia non sia definita un nuovo terzo Reich. In occasione del settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, il presidente francese Hollande è stato accusato di aver invitato alle celebrazioni anche Putin – come se la battaglia di Stalingrado non avesse permesso agli Stati Uniti il medesimo sbarco, distraendo dal Nord Europa il grosso della Wehrmacht – nello stesso tempo invitando niente meno che dei reparti tedeschi a partecipare alla rievocazione del primo paracadutaggio alleato sul villaggio di Sainte-Mère-l’Eglise.
Da qualche giorno poi sappiamo che gli Stati Uniti, neppure il presidente Obama, ma il suo ex rivale Mc Cain – hanno ammonito la Bulgaria, la Serbia e gli altri paesi coinvolti in un progetto di gasdotto per trasportare il gas russo in Europa (con un tracciato che evitava l’Ucraina, perché cattiva pagatrice) a chiudere i cantieri in corso, preferendo un nuovo tragitto attraverso l’Ucraina a quello diretto per l’Europa occidentale. Stupore e modeste proteste di Bruxelles, convinta che si tratti di una minaccia simbolica. Che tuttavia va inserita nel quadro di un cambiamento delle esportazioni Usa, ormai indirizzate al commercio del gas di scisto, per altro non ancora avviato.
L’Europa teme dalla Russia rappresaglie per avere applaudito all’abbattimento del presidente ucraino filorusso Yanukovic da parte delle forze (piazza Maidan) che sono ora al governo a Kiev. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare. Il principato di Kiev è stato la prima forma del futuro impero russo, annesso da Caterina II alla Russia verso la metà del XVIII secolo, stabilendo in Crimea la sua più forte base navale. La sua cultura, il suo sviluppo e i suoi personaggi, da Gogol a Berdiaev, sono stati fra i protagonisti della letteratura russa del XIX secolo. L’intera letteratura russa resta segnata dalla guerra fra Russia, Inghilterra e Francia, che hanno cercato di mettervi le zampe sopra: si pensi soltanto a Tolstoi e alla topografia delle relative capitali ricche di viali e arterie che la commemorano (Sebastopoli). Ma il paese, che all’origine era stato percorso, come l’Italia, da una moltitudine di etnie, dagli Sciti in poi, ha stentato a unificarsi come nazione, distinguendosi per lotte efferate e non solo ideali fra diversi nazionalismi, spesso di destra. Il culmine è stato nella prima e seconda guerra mondiale: nella prima sotto la presidenza di Petliura, nazionalista di destra, quando l’Ucraina è stata l’ultimo rifugio dei generali “bianchi” Denikin e Wrangel, con lo scontro fra lui e la repubblica sovietica di Karkov. Solo con la vittoria definitiva dell’Urss si è consolidata la Repubblica sovietica nata a Karkov, destinata a diventare negli anni trenta il centro dell’industrializzazione. Industrializzazione sviluppatasi esclusivamente all’est (il bacino del Donbass, capoluogo Karkov), mentre l’ovest del paese restava per lo più agricolo (capoluogo Kiev, come di tutta la repubblica); e questo rimane alla base del contenzioso fra le due parti del paese. Nella seconda guerra mondiale, poi, l’occupazione tedesca ha incontrato il favore di una parte del panorama politico ucraino, un’eredità evidentemente ancora viva nei recenti fatti di piazza Maidan: il partito esplicitamente nazista circola ancora e non è l’ultima delle ragioni per cui il paese resta diviso fra la zona orientale e quella occidentale. Nel secondo dopoguerra, Kruscev dette all’Ucraina piena autonomia amministrativa, Crimea compresa, senza alcuna conseguenza politicamente rilevante perché restava un processo interno all’Unione Sovietica.
È soltanto dal 1991 e dal crollo dell’Urss che, anche su pressione polacca e lituana, il governo dell’Ucraina guarda all’Europa (e alla Nato) e incrementa lo scontro con la sua parte orientale. Sembra impossibile che in occidente non si sia considerato che l’Unione Sovietica non era solo una formula giuridica: scioglierla d’imperio e dall’alto, come è avvenuto nel 1991, significava creare una serie di situazioni critiche sia nelle culture che nei rapporti economici che attraversavano tutto quel vasto territorio. Da allora, Kiev non ha nascosto di puntare a un’unificazione etnica e linguistica anche forzosa delle due aree, fino a interdire l’uso della lingua russa agli abitanti dell’est cui era abituale.
L’Europa e la Nato non hanno mancato di appoggiare le politiche di Kiev, e poi l’insurrezione contro il presidente Yanukovic assai corrotto, costretto a tagliare la corda in Russia. Ma la zona orientale non lo rimpiange certo: non tollera il governo di Kiev e la sua complicità con la Nato, ma non perché abbia nostalgia di questo personaggio. Si è rivoltata contro la politica passata e recente di Kiev che ha tentato perfino di impedire l’uso della lingua russa, usata dalla maggioranza della popolazione all’est. L’Europa e la Nato, appoggiate da Polonia e Lituania, affermano che non si tratta di un vero e spontaneo sbocco nazionalista, ma di una ingerenza diretta della Russia, e così dicono stampa e televisione italiana. Non c’è dubbio che la Russia abbia voluto il ritorno della Crimea nel suo grembo, ma la proposta dell’est di andare a una federazione con l’ovest, garantendo l’autonomia di tutte e due le parti, è stata bocciata da Kiev e dal governo degli insorti. La decisione di votare in un referendum all’est contro Kiev è stata presa non da Putin, messo in imbarazzo, ma dalla popolazione dell’est che ha votato in questo senso al 98%. Non si tratta di un processo regolare (non accetteremmo che l’Alto Adige votasse una delle prossime domeniche la sua appartenenza all’Austria, senza alcun precedente negoziato diplomatico), ma non è stato neppure una manovra russa come l’Europa tutta ha sostenuto.
È sorprendente che perfino il poco che resta delle sinistre europee abbia sposato questa tesi e che in Italia le riserve di Alexis Tsipras sulle politiche di Bruxelles non abbiano alcuna eco. C’è perfino chi evoca in modo irresponsabile azioni armate contro Mosca. La deriva dei conflitti, anche militari, e non solo in Ucraina, rischia di segnare sempre di più un’Europa che ha dimenticato storia, geografia e politica.
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personal-reporter · 1 year
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I migliori romanzi da leggere sotto le coperte la sera
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Non c'è niente di meglio che rannicchiarsi sotto le coperte con un buon libro la sera, quando il mondo intorno sembra addormentarsi e la tranquillità regna sovrana. Se sei alla ricerca di un romanzo avvincente da leggere sotto le coperte, qui di seguito troverai una lista di alcune delle migliori opzioni. "1984" di George Orwell: Questo classico della letteratura distopica è una lettura obbligatoria per chiunque sia alla ricerca di un romanzo avvincente. Ambientato in un futuro distante, il libro segue la vita di un uomo che cerca di resistere alla tirannia del governo. "Il grande Gatsby" di F. Scott Fitzgerald: Considerato uno dei migliori romanzi americani del XX secolo, "Il grande Gatsby" è una storia di amicizia, amore e ricchezza. Segui l'affascinante Jay Gatsby mentre cerca di riconquistare il cuore della sua vecchia fiamma. "Le onde" di Virginia Woolf: Questo romanzo sperimentale segue la vita di sei amici dalla loro infanzia all'età adulta. Woolf utilizza uno stile di scrittura unico per raccontare la storia, creando un'esperienza di lettura coinvolgente e coinvolgente. "Il signore degli anelli" di J.R.R. Tolkien: Questa epica trilogia fantasy è ambientata in un mondo immaginario pieno di creature strane e avventure emozionanti. Segui Frodo e i suoi amici mentre cercano di distruggere l'anello del potere e salvare il loro mondo dalla distruzione. "To Kill a Mockingbird" di Harper Lee: Questo romanzo classico americano è una storia di giustizia, razzismo e crescita personale. Ambientato durante la grande depressione, il libro segue la vita di Scout Finch mentre cerca di capire il mondo complesso che la circonda. "Il giovane Holden" di J.D. Salinger: Questo romanzo iconico segue la vita del giovane Holden Caulfield mentre naviga tra l'adolescenza e l'età adulta. Con uno stile di scrittura vivace e una trama coinvolgente, questo libro è una lettura imperdibile. "Cime tempestose" di Emily Bronte: Questo romanzo romantico classico segue la vita di Heathcliff e Catherine mentre cercano di superare le loro differenze sociali per stare insieme. Con una trama intensa e personaggi memorabili, questo libro è una scelta perfetta per una serata sotto le coperte. "Anna Karenina" di Lev Tolstoj: Questo romanzo epico segue la vita di Anna Karenina mentre naviga tra il matrimonio, l'infedeltà e la società russa del XIX secolo. Con personaggi complessi e una trama coinvolgente, questo libro è un classico della letteratura. "Donna Tartt" di Il cardellino: Questo romanzo vincitore del Premio Pulitzer segue la vita di un giovane ragazzo che ruba un dipinto prezioso da un museo. Con una trama avvincente e personaggi memorabili, questo libro è una scelta perfetta per una serata sotto le coperte. "Orgoglio e pregiudizio" di Jane Austen: Questo classico della letteratura inglese segue la vita della giovane Elizabeth Bennet mentre naviga tra la società e la sua ricerca per l'amore vero. Con personaggi affascinanti e una trama romantica, questo libro è una lettura che sicuramente ti catturerà. Sono molti i romanzi che si possono leggere sotto le coperte, ma questi sono solo alcuni dei migliori. Che tu sia alla ricerca di un libro romantico o di un'avventura epica, c'è sicuramente un romanzo che soddisferà le tue esigenze. Leggere sotto le coperte è un'attività che può aiutare a rilassarsi e a trovare pace dopo una giornata stressante. È anche un modo per evadere dal mondo reale e immergersi in un'esperienza di lettura coinvolgente. Inoltre, leggere prima di dormire può anche aiutare a migliorare la qualità del sonno. Molti esperti consigliano di evitare dispositivi elettronici come smartphone o tablet prima di andare a dormire perché la luce blu può interferire con i cicli del sonno. Invece, la lettura di un libro può aiutare a rilassare la mente e a prepararsi per una buona notte di riposo. In conclusione, leggere sotto le coperte è un'attività che può offrire molteplici benefici. Che tu stia cercando un modo per rilassarti o per migliorare la qualità del sonno, i romanzi sopra elencati sono una scelta perfetta per una serata tranquilla a casa. Quindi, accendi la tua lampada da lettura, rannicchiati sotto le coperte e lasciati trasportare in un mondo di avventure e romanticismo. Read the full article
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iltrombadore · 3 years
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L’Egenio Oneghin, Puskin e il primo dèmone del nichilismo russo
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Il ritratto di Eugenio Oneghin che Puskin dipinge nel primo capitolo del suo romanzo in versi offre più di un motivo a chi voglia apprezzare la qualità di una poesia non riducibile alle maniere romantiche della tradizione europea. Vi è nella coloritura del personaggio di Onegin una baldanza e un ritmo canzonatorio (e anche di ‘canzone’) che travalica le affettazioni di altri acclamati eroi  ‘byroniani’, inclini a suggellare nel disincanto una sorta di passionale autoaffermazione.
In Onegin la erosione dell'ideale non esalta la personalità individuale ma la dispone al gioco distruttivo fine a sé stesso della ironìa. Proprio perché in lui non vive più la coscienza di un ‘io’ da opporre al mondo ma la percezione di un distacco irrimediabile dal senso e dalla esperienza collettiva. Entra in funzione un elemento tipico dello spirito russo quando  perde lo stimolo alla coralità ("Il popolo compone, noi ci contentiamo di elaborare",disse il contemporaneo Glinka, enunciando indirettamente le condizioni della esperienza estetica e lirica russa).
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Seguiamo lo sguardo di Puskin sul protagonista: Onegin si afferma nel dettaglio, nel ritmo di un carattere individuale come la silhouette di un figurino su carta. Vi si nota un’ immedesimazione quasi autobiografica e compiacente che bordeggia il tono sarcastico quando Eugenio entra in società abbigliato come un ‘dandy’ all'ultima moda -ovviamente ‘di Londra’- e parla perfettamente francese ballando la polacca mazurca con tanto di inchino (‘volete di più? Per la gente/ era assai caro e intelligente’).
Sulla innaturalezza dello Onegin giovin signore occidentalizzato e pietroburghese, ’artificiale’ come la sua città, si concentra il nucleo della ispirazione poetica: ne derivano antitesi efficaci e congeniali ad una melodia dei versi che lascia trasparire l' ordito di un dramma  appartenente alla Russia risvegliata alla modernità del  secolo XIX. Onegin, si sa, ‘aveva il dono fortunato/ di sfiorare in conversazione/ agevolmente ogni argomento’; e da ‘bravo alunno delle mode’ derideva Teocrito e Omero, ‘ma Adamo Smith però leggeva’ e non era punto dalla minima voglia ‘di rovistare in profondo/ la polverosa storia del mondo’.
Eugenio Onegin appare il protagonista di un già annunciato fallimento: è in sé stesso una caricatura, un derivato, il prodotto psicosociale di un connubio impossibile, anima ‘russa’ e ‘moda’ europea. Un ritratto intraducibile al punto che il dettaglio, dice ironicamente Puskin, non si può riferire senza l'ausilio della espressione forestiera: ‘ma parola russa non c'é/ per 'pantalons','frac' e  ‘gilet'… ".
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Nell'animo del poeta, del decabrista, del raffinato intellettuale Puskin si agitano molte passioni: cosa è veramente Onegin? Ci si può leggere il suo autoritratto? Nella scrittura poetica Puskin diventa lo spietato osservatore della sua immagine pubblica, mondanamente ridotto a letterato alla moda tra  appuntamenti cortesi, salotti e spettacoli di teatro.
E' una dissociazione che si riconosce al momento di definire il suo disagio di vivere: quasi uguale al britannico ‘spleen’ ma esprimibile piuttosto con la parola russa ‘chandrà’, uno stato dell'anima che guarda freddamente alla vita (‘nulla ormai più lo smuoveva/ di niente più si accorgeva"…).
E' la presenza della ‘chandrà’ a suggerire il motivo nichilistico che sostiene l'andamento del poema. Esso procede per otto capitoli che snodano il romanzo in versi tra puntigliose descrizioni di oggetti, azioni, ambienti e situazioni umane .
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L' amore ‘wertheriano‘ appare sottotono come appendice della trama la quale va oltre il destino dei personaggi -da Tatiana a Lenskij alla volubile Olga- e non suggerisce architetture conclusive proprio perché non vi è altro al di fuori dell' avventura senza limiti e cioè sprofondata nel ‘nulla’ di Eugenio Onegin, questo ‘dandy’ insoddisfatto della sua identità la quale ormai gli appare come abito tagliato in foggia d'altre lingue, d' altre culture, d' altre civiltà.
Ben oltre il tributo alle nuove mode poetiche – ‘quello stile oscuro e fiacco-scrive Puskin-che chiamiamo Romanticismo’- siamo in presenza di una temperie espressiva corrispondente ad elementi tipici dello ‘spirito russo’, al contrastato rapporto con la cultura occidentale europea, abito troppo misurato per un sentimento che si riconosce nella perdita di misura, quando abbandona le vie di una liturgìa dei suoni, delle immagini, delle parole tradizionali.
Puskin supera molti codici espressivi riducendoli alla vena sincera di un canto che mescola citazioni culturali  a motivi della tradizione russa: dalla invocazione alla terra (con omofonìa tra l'oraziano ‘O rus!‘ e la parola Russia) ai romanzi di formazione (Rousseau, Richardson) a Shakespeare e Chateaubriand, tutto è ragione di presentare l'anima bella di Tatiana, questa Gretchen col samovàr destinata ad incarnare la persistenza di costume morale, grazia e  regola, che aveva  nel nome sentore ‘di antichità e di serva’, stemperando il suo sentimentalismo nel gioco permanente delle felici abitudini’.
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E spetterà significativamente a Tatiana, personificazione dei valori tradizionali, il ruolo di eroina di una catastrofe da camera come quella dell'amore non corrisposto da Onegin e vissuto idealmente-letterariamete come vuole la ‘moda romantica’, come il ribelle infelice Werther o il senza pari Grandison (‘che invece a noi fa venir sonno’). E sarà Vladimir Lenskij, l'amico aspirante poeta, innamorato e tradito dalla vivace Olga, testimone ancor più fedele di un certo sentimentalismo mescolante ‘Lindori e Leandri del cuore’ con la lettura di Chateaubriand e Goethe per avvincere nel tono elegiaco il cuore della amata.
Sappiamo come andrà a finire: con Tatiana respinta e congiunta in matrimonio ad un onesto benestante e Lenskij ucciso in duello dall'amico Onegin dopo avere egli teso con successo una trappola di seduzione ad Olga durante un ballo in una residenza di campagna.
Morale: sono i sentimentali e i beneducati a soccombere nel gioco della vita, o pure nel sogno leggero di un gioco passionale ‘accomodato’ da versioni letterarie, o meglio inautentiche. Così il pensiero poetante e ‘spiritoso’ (‘Geistreich’, ricco di spirito, aveva scritto Hegel nella Fenomenologia sul potere della ironìa ) perviene ad una composizione davvero ‘diabolica’ del  romanzo in versi,  capo d'opera della letteratura russa.
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Onegin, eroe del tempo moderno, è già in qualche modo aldilà del bene e del male, supera l'orizzonte romantico ed anticipa nel connubio caratteriale di freddezza e ironìa la temperie di un Kirillov e di un Raskolnikov.
Non a caso Dostoevskij  apporrà in calce a  ‘I dèmoni’ i versi di una omònima poesia di Puskin la cui allusività è più che eloquente: ‘...Non c'é traccia! Siamo perduti, cosa fare? / Un demònio ci conduce per il campo / e ci fa girare di qua e di là / Quanti sono ? Dove ci portano ? / Perché si lamentano così ? / Forse seppelliscono un folletto / O pure celebrano le nozze di una strega....’.
Quel che in Dostoevskij è definizione psicologica in Puskin è azione, situazione, ambiente e fisiognomica. Onegin mette in scena con più di mezzo secolo d'anticipo il tipo  del dèmone dostoevskijano. Questo profilo umano che lascia dietro di sé la romanticheria letteraria e fissa lo sguardo senza mèta del nichilismo non fu perseguito da Puskin in consapevolezza piena: ma scomponendo i tratti della sua stessa personalità-metà Onegin, metà Lenskij- egli ottenne uno straordinario effetto lirico con voce narrante fuori campo che assume i tratti del canto popolare, storia sceneggiata da intepretare coralmente in una pubblica recita di versi.
Non a caso del resto la lettera d'amore di Tatiana a Onegin è mandata a memoria ancora oggi dalle ragazze russe (‘…Perché da noi siete venuto ? / In questo villaggio spento / io non avrei mai conosciuto / né voi né il mio aspro tormento…’) e tutto il poema in versi è ricco di digressioni (paesaggi di Russia, coloriture fiabesche, vita di campagna, canti di giovincelle in primavera, vita di società, inverni ghiacciati, sogni divinatori) che sposano il sottile e raffinato gusto letterario ad un impulso emozionale di grande portata per la vita russa, i suoi colori, le sue forme, le sue immagini inconfondibili.
Se molti guardarono a Puskin come fonte di ispirazione letteraria o musicale lo si deve alla sua capacità di riassumere i più disparati fattori del sentimento russo. Anche l' occidentalizzante Ciaikovskij nel suo arioso sinfonismo lo amò (come del resto per altri versi Musorgskij) riconoscendovi gran parte di quel  patetismo eloquente che pure gli apparteneva: languore ed esultanza, attimi di esaltazione e di depressione, e la capacità di stemperare in architetture brillanti e garbate le pulsioni del sentimento.
Temperamento lirico, amante del ritmo nella parola e nella strofa, Puskin si nutre della intensità di immagine e del suo potenziale figurativo (amico e protettore di pittori, è da ricordare la sua intimità col raffinato ritrattista di gran dame, Brijullov). Valga la precisionedi dettaglio, istante, sensazione e immagine con cui si narra un attimo del duello tra i due ex amici, Onegin e Lenskij: "…Brillano le pistole / lucenti e sollevate contro il sole./ Si sente già picchiettare / la bacchetta, i piombi che entrano / in canna e il cane scattare. Grigiastro rivolo scende / nel fondello la polvere, mentre / rialzano l'acciarino avvitato / stretto....".
In questa poesia del particolare Puskin rivela originali qualità per il motivo lirico dell'immagine che scandisce ritmi di azione, modula i toni della parola in una perfezione di verso. Capriccioso e folleggiante, temperamento visivo e rappresentativo, Puskin ebbe il merito di fare ‘poesia solenne, grandiosa e come fuori del tempo con elementi e oggetti particolari, minuti, consistenti, insomma quotidiani e contingenti’( T. Landolfi). In questa paradossale leggerezza è tutta la sua profondità: il fine intellettuale allevato alla scuola europea, il decabrista non slavofilo, l' uomo elegante attraversato dalle passioni, poteva solamente accennare al profilo di una vita morale della poesia.
Ma il suo Onegin, nato come romanzo byroniano, prese col tempo una andatura che rovesciava le sue premesse, mettendone radicalmente in dubbio la consistenza. E quel progressivo rigetto di moduli romantici, oltre a segnare il più autentico travaglio del poeta, avrebbe anticipato la fioritura successiva di una delle più straordinarie stagioni della letteratura russa.
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pangeanews · 5 years
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“Discendere dentro il proprio cuore”. Alieni al tempo, prediligiamo la via dei folli… Cristina Campo e i “Racconti di un pellegrino russo”, il libro insostituibile
“Vegliate e pregate in ogni momento”, dice Gesù secondo Luca (21, 36). Su questo versetto poggia l’idea – a tratti, nell’arco della storia cristiana, presa come eresia, dacché all’agire nel mondo si prediligeva la contemplazione dell’altro mondo, alla sapienza tra i grandi del tempo l’insipienza e l’estasi dell’eremitaggio – che quintessenza dello stare in Dio sia pregarlo. Si riduce il vocabolario all’orazione, la retorica a una formula: “Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, pietà per me peccatore”. Lo zenit della “preghiera incessante” ha il campione in Evagrio Pontico (“De Oratione”) e nell’enigmatico Macario/Simeone, stanziato in eresia, secondo cui “per l’uomo insidiato dal male, la preghiera è anzitutto sforzo, perseveranza nel gridare a Dio, nel bussare e nel cercare da lui la liberazione… la vera preghiera deve essere continua, perché il male opera sempre” (in Macario/Simeone, “Discorsi e dialoghi spirituali”, 1988, p.17). “I saggi… devono essere sempre solleciti e pregare sempre. Infatti il male che è in essi, il fumo e il peccato cresciuto con loro, scorrono sempre, come una fonte; i pensieri fanno guerra all’anima non stanno mai in ozio: non vi sono pensieri solo quando preghi, ma germinano sempre, anche quando fai qualcosa di necessario, e quando riposi. Allo stesso modo, anche tu devi combattere sempre”. Il cristianesimo è inteso da Macario/Simeone – o Pseudo-Macario – come una lotta costante, da contrastare con la preghiera incessante. Da questo terreno, s’elevano, mirabili, i “Racconti di un pellegrino russo”, testo carismatico e narrativo sorto dal polmone ortodosso nel XIX secolo, che forgia la figura dello ‘jurodivyj’, lo ‘stolto in Cristo’, il ‘folle di Dio’, alieno al mercato umano, al mercanteggio clericale. Quel testo, necessario, reso da Milli Martinelli per Rusconi nel 1973, è stato introdotto da un insuperabile testo di Cristina Campo di cui qui propongo alcuni brandelli. (d.b.)
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“Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pan secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null’altro”. Questa apertura, tra le più ammalianti della letteratura di ogni paese – comparabile a quella dell’Amleto o della Storia del facchino di Bagdad – inaugura insieme un grande trattato spirituale, un romanzo picaresco, un risplendente poema russo e una fiaba classica. Nel misterioso testo anonimo trascritto sull’Athos dall’abate Paissy del monastero di S. Michele Arcangelo dei Ceremissi presso Kazan’ intorno al 1860, la fiaba per una volta si mostra senza maschera, mostra cioè quello che tutte le grandi fiabe sono copertamente: una ricerca del Regno dei Cieli, l’inseguimento di una visione ignota e inesplicabile, spesso soltanto di un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, ci si fa appunto pellegrini e mendichi, beati folli dal cuore in fiamme dei quali il mondo intero si fa beffe e che il mondo “che è dietro quello vero” soccorre e guida con meravigliosi segni e portenti. Come quell’eroe nordico che a ogni prezzo voleva “imparare a rabbrividire”, il Pellegrino russo è risoluto a procedere all’infinito dinanzi a sé oltre le steppe e le foreste, le città e i villaggi, oltre l’interminata curva del globo se occorra, purché gli sia svelato il senso di tre parole dell’apostolo Paolo udite per caso entrando in una chiesa: “Pregate senza intermissione”. Di questo comando, che gli appare subito fatidico ed iperbolico (come pregare senza intermissione, occupati come siamo a pressoché ininterrottamente vivere?), il Pellegrino trova abbastanza presto la chiave. Un incantevole genio, quello starets che è difficile dire se egli lo incontri in corpo o in ispirito, tanto la morte che li separa poco dopo si rivela incidente trascurabile, dal quale il loro estatico dialogo non è neppure momentaneamente sospeso, gli consegna una antica e possente formula sacra, una invocazione brevissima nella quale è contenuto il Nome “che è sopra ogni nome e al quale piegano il ginocchio il cielo, la terra e gli inferni”: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me”. Altri due talismani accompagnano il dono e hanno, come lo schiavo della lampada di Aladino, il compito di insegnarne l’uso: un libro dal titolo singolare: Filocalia o Amore della Bellezza, e un rosario ritualmente intrecciato, ogni nodo formato da sette nodi, sul quale scandire infinitamente la formula. Il racconto del Pellegrino russo non è se non la cronaca della sua stupefatta ed ebbra convivenza con la Preghiera del Nome. È questa la gemma portentosa il cui fulgore protegge il corpo e illumina l’intelletto, disvela cose lontane e ammansisce le fiere, vince tutti i cuori, sazia tutti i bisogni e tramuta tutti i paesaggi. Non solo: è anche una presenza, vivente al punto, e al punto dolcemente imperiosa, che un bel mattino “è la Preghiera a svegliarlo”, e dopo sarà sempre lei a sollecitarlo, a stringerlo nel suo anello di prodigi, nella sua mandorla di beatitudine…
Resta l’enigmatico precetto che è il cardine su cui ruota non il Pellegrino soltanto ma tutta la contemplazione bizantina: “discendere dentro il proprio cuore”, “riportare la mente nel cuore”, “ricondurre l’attenzione dalla mente nel cuore”, perché là dentro dimora Iddio e là dentro bisogna incontrarlo. Sembra il rovescio perfetto dell’uscire dall’io della mistica occidentale, del suo “gettare il cuore e la mente in Dio” dimenticando il corpo dietro di sé come una casa deserta. Talché è dell’Occidente il rapimento estatico che trae l’anima fuori dai sensi, la levitazione che svelle il corpo da terra quasi a fargli seguire la mente scoccata in alto. In Oriente, il corpo inabitato da Dio nel segreto del cuore si accende di luce e quasi di gloria, come quello di san Serafino di Sarov, che rifulse come un sole dinanzi agli occhi di un atterrito signor Motovilov. Ma poiché in tali dimensioni non vi è alto né basso non fuori né dentro, e il centro del cuore non è altra cosa dall’infinito dei cieli, né l’atomo dalle galassie, e le parole perdono ogni precisa direzione, le due esperienze non sono in realtà due ma una sola. Si potrebbe parlare di un doppio e simultaneo movimento dello spirito che si ritrae cercando Dio nella segreta stanza del cuore e trova in quel centro l’infinito nel quale lanciarsi… Così la grande stirpe russa degli iurodivi e degli stranniki, i vagabondi e folli per amor di Dio, ha la sua testimonianza occidentale, più ancora che negli antichi pellegrini e romei quali Rocco di Montpellier, in quel gaudioso, tenero ed inflessibile accattone perennemente “errante di luogo in luogo”, da Compostella a Bari, da Loreto a Montserrat e di basilica in basilica romana fino a morire sui gradini di una di esse, Benedetto Labre: tra le cui reliquie, puri stracci irrigiditi dal fango, sono un rosario e due libri: il Breviario e le Vite dei Santi Padri. Quei Padri stessi che il Pellegrino ritrova nella Filocalia. Quelle Vite che, tramandate da scribi greci, copti, siriaci, attraverso Bisanzio e la letteratura ecclesiastica slava fondarono in qualche modo lo stile narrativo puramente russo, dal Pellegrino a Gogol a Dostoevskij a Cekhov. Stile narrativo che non ha l’aria di voler finire se molto della sua monumentale innocenza e dignità troviamo ancora nel linguaggio liturgico di Pasternak, nei brevi apologhi severi di Solzenitzin, nei bianchi fogli di taccuino di Andrej Siniawski.
Cristina Campo
L'articolo “Discendere dentro il proprio cuore”. Alieni al tempo, prediligiamo la via dei folli… Cristina Campo e i “Racconti di un pellegrino russo”, il libro insostituibile proviene da Pangea.
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tmnotizie · 5 years
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di Stefania Mezzina
CAMPLI –Nella sala Giammario Sgattoni, Portico di Palazzo Farnese,  a Campli, è stato presentato il celebre racconto “La leggenda di S. Giuliano l’ospitaliere” di Flaubert (Di Felice Edizioni), tradotto dal francese e commentato da Roberto Michilli. Oltre all’autore, sono intervenuti il presidente Memoria e Progetto Onlus Roberto Ricci, il presidente dell’Istituto Int. del Teatro del Mediterraneo, Leandro Di Donato e l’editrice Valeria Di Felice.
«La leggenda di san Giuliano l’Ospitaliere è, come scrivono Proust e Joyce -scrive Roberto Michilli- la più perfetta delle opere di Flaubert, e quindi il capolavoro assoluto di uno che scrisse solo capolavori.  Assomiglia a un ingenuo racconto di fate, ma la sua trasparenza e la sua semplicità sono solo apparenti, e  lo smalto di miniatura da codice medievale nasconde in realtà un testo complesso, febbrile, enigmatico, ambiguo e crudele, e proprio per questo coinvolgente, indecifrabile, inquietante. Un testo  che permette di scrutare negli abissi dell’opera e della vita di Flaubert, e forse non solo della sua. Senza la pretesa di fornirne una interpretazione esaustiva, questo libro vuole invitare a una sua lettura attenta, penetrante, non ingenua, che permetta se non altro di intuirne le profondità e di cogliere almeno qualcuno dei suoi molteplici aspetti nascosti».
Michilli ha pubblicato le raccolte di poesie Aprire un giorno (1996); Attraverso la vita (con una prefazione di Giuseppe Pontiggia, 2001); Nuovi versi (2004); i romanzi Desideri (2005), Fate il vostro gioco (2008), La più bella del reame (2011), Il sogno di ogni uomo (2013), L’attesa della felicità (2018); il libro intervista La chiarezza enigmatica – Conversazione su Giuseppe Pontiggia (con Simone Gambacorta, 2009).
È presente nei libri collettivi di poesia 4 poeti abruzzesi (2004) e L’orma lieve (2011). Si interessa di letteratura francese e russa del XIX secolo. Ha tradotto e curato una raccolta delle poesie di Lermontov (Michail Jur’evič Lermontov, Quaranta poesie, 2014) che ha ricevuto la Menzione d’Onore alla VIII edizione (2014) del premio letterario internazionale “Russia-Italia. Attraverso i secoli”.
Di Lermontov ha scritto anche la biografia, la prima  pubblicata in Italia sul grande autore russo (Il prigioniero. La vita, il tempo e le opere di Michail Jur’evič Lermontov, 2015). Il suo libro più recente è Atlante con figure (2016). Tiziano Scarpa, che ne ha scritto la prefazione, lo ha definito: “Un libro che fa onore alla nostra lingua e alla letteratura di questi anni.” Oltre che dal russo (Lermontov, Puškin, Tjutčev, Baratynskij, Achmatova, Mandelštam, Pasternak), ha tradotto poesia anche dal francese, dall’inglese e dal tedesco (Mallarmé, Verlaine, Byron, Keats, Goethe, Heine e altri).
Inoltre, è nella giuria del premio Teramo dal 2006 e dal 2007 al 2012 ha curato la rassegna internazionale “Perché i poeti…”, inserita nel progetto culturale “Teramo città aperta al mondo”. Dal 2010 ha un blog: larmegliamori.wordpress.co
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La letteratura russa antica proviene principalmente dalla Rus' di Kiev ed è prevalentemente rappresentata dalla traduzione in paleoslavo di letteratura bizantina, soprattutto religiosa e generalmente anonima. Si considera punto di partenza della letteratura russa il componimento Discorso sulla Legge e sulla Grazia, risalente all'XI secolo per opera di Ilarione di Kiev. Il modello annalistico bizantino viene utilizzato per le poche opere scritte in russo antico che ci sono note: il racconto del Pellegrinaggio in Palestina del priore Daniil Palomnik (1107); la Cronaca degli anni passati, rielaborate dal monaco Nestor nel 1113 con il titolo di Cronaca dei tempi passati, e successivamente da Silvestr'; l'anonimo Canto della schiera di Igor da cui Aleksandr Borodin trasse il libretto della sua opera Il Principe Igor, la più nota del periodo, il cui manoscritto fu pubblicato per la prima volta nel 1800. Il racconto in lingua slava poggia sulla tradizione orale delle byliny, canti epici nel cui racconto si stratificarono, lungo i secoli, tradizioni pagane, memorie tribali e influenze della letteratura cristiana bizantina. Questi racconti furono diffusi dai cantastorie in tutta l'area slava fin dall'XI secolo, e solo dall'inizio del XIX secolo cominciarono a circolare in forma scritta, divenendo poi oggetto di appassionati studi filologici. ------- Letteratura russa moderna: La scrittura in russo moderno si afferma solo nel XVII secolo. Se ne considera punto di partenza l'autobiografia del pope Avvakum (moscovita, vescovo tradizionalista morto nel 1682, martire dei conflitti religiosi scatenati dalle riforme del patriarca di Mosca Nikon). Sotto l'influenza di Pietro il grande il paese si occidentalizza. L'uso del russo è facilitato dalla riforma dell'alfabeto cirillico e questo consente l'accesso alla cultura ad un maggior numero di persone, che trova assai apprezzabile l'idea di utilizzare una lingua profana popolare per la letteratura. La prima generazione letteraria russa compare all'inizio del XVIII secolo, ed è rappresentata da autori come Antioch Dmitrievič Kantemir, (Costantinopoli 1708 - Parigi 1744), Vasilij Kirillovič Tredjakovskij (Astrachan' 1703 - San Pietroburgo 1768) e Michail Vasil'evič Lomonosov (1711 - 1765), poeta e scienziato, fondatore nel 1755 a Mosca della più grande e antica università russa. Gavriil Romanovič Deržavin (1743-1816) per la poesia, Aleksandr Petrovič Sumarokov (San Pietroburgo 1717 - Mosca 1777) e Denis Ivanovič Fonvizin (1746-1792), per il teatro, sono coloro che inaugurano generi letterari fino ad allora inesistenti. Nikolaj Michajlovič Karamzin (1766-1826) e Aleksandr Nikolaevič Radiščev (1749-1802) sono i principali sentimentalisti russi. Il Classicismo, all'inizio del XIX secolo, è rappresentato da Ivan Andreevič Krylov (favole), da Aleksandr Sergeevič Griboedov (teatro), e da Vasilij Trofimovič Narežnyj (prosa).
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gregor-samsung · 4 months
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“ Immaginatevi un vasto cortile, di un duecento passi di lunghezza e centocinquanta circa di larghezza, tutto recinto all'intorno, in forma di esagono irregolare, da un'alta palizzata, cioè da uno steccato di alti pali, profondamente piantati ritti nel suolo, saldamente appoggiati l'uno all'altro coi fianchi, rafforzati da sbarre trasverse e aguzzati in cima: ecco la cinta esterna del reclusorio. In uno dei lati della cinta è incastrato un robusto portone, sempre chiuso, sempre sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle; lo si apriva a richiesta, per mandarci fuori al lavoro. Di là da questo portone c'era un luminoso, libero mondo e vivevano degli uomini come tutti. Ma da questa parte del recinto ci si immaginava quel mondo come una qualche impossibile fiaba. Qui c'era un particolare mondo a sé, che non rassomigliava a nessun altro; qui c'erano delle leggi particolari, a sé, fogge di vestire a sé, usi e costumi a sé, e una casa morta, pur essendo viva, una vita come in nessun altro luogo, e uomini speciali. Ed ecco, è appunto questo speciale cantuccio che io mi accingo a descrivere.
Appena entrate nel recinto, vedete lì dentro alcune costruzioni. Dai due lati del largo cortile interno si stendono due lunghi baraccamenti di legno a un piano. Sono le camerate. Qui vivono i detenuti, distribuiti per categorie. Poi, in fondo al recinto, un'altra baracca consimile: è la cucina, divisa in due corpi; più oltre ancora una costruzione dove, sotto un sol tetto, sono allogate le cantine, i magazzini, le rimesse. Il mezzo del cortile è vuoto e costituisce uno spiazzo piano, abbastanza vasto. Qui si schierano i reclusi, si fanno la verifica e l'appello al mattino, a mezzogiorno e a sera, e talora anche più volte durante il giorno, secondo la diffidenza delle guardie e la loro capacità di contare rapidamente. All'interno, tra le costruzioni e lo steccato, rimane ancora uno spazio abbastanza grande. Qui, dietro le costruzioni, taluni dei reclusi, più insocievoli e di carattere più tetro, amano camminare nelle ore libere dal lavoro, sottratti a tutti gli sguardi, e pensare a loro agio. Incontrandomi con essi durante queste passeggiate, mi piaceva osservare le loro facce arcigne, marchiate, e indovinare a che cosa pensassero. C'era un deportato la cui occupazione preferita, nelle ore libere, era contare i pali. Ce n'erano millecinquecento e per lui erano tutti contati e numerati. Ogni palo rappresentava per lui un giorno; ogni giorno egli conteggiava un palo di più e in tal modo, dal numero dei pali che gli rimanevano da contare, poteva vedere intuitivamente quanti giorni ancora gli restasse da passare nel reclusorio fino al termine dei lavori forzati. Era sinceramente lieto, quando arrivava alla fine di un lato dell'esagono. Gli toccava attendere ancora molti anni; ma nel reclusorio c'era il tempo di imparare la pazienza. Io vidi una volta come si congedò dai compagni un detenuto che aveva trascorso in galera venti anni e finalmente usciva in libertà. C'erano di quelli che ricordavano come egli fosse entrato nel reclusorio la prima volta, giovane, spensierato, senza pensare né al suo delitto, né alla sua punizione. Usciva vecchio canuto, con un viso arcigno e triste. In silenzio fece il giro di tutte le nostre sei camerate. Entrando in ciascuna di esse, pregava dinanzi all'immagine e poi si inchinava ai compagni profondamente, fino a terra, chiedendo che lo si ricordasse senza malanimo. Rammento pure come un giorno, verso sera, un detenuto, prima agiato contadino siberiano, fu chiamato al portone. Sei mesi avanti aveva ricevuto notizia che la sua ex-moglie aveva ripreso marito, e se ne era fortemente rattristato. Ora lei stessa era venuta in vettura al reclusorio, lo aveva fatto chiamare e gli aveva messo in mano un obolo. Essi parlarono un paio di minuti, piansero un poco tutti e due e si salutarono per sempre. Io vidi il suo volto, mentre tornava nella camerata... Sì, in questo luogo si poteva imparare la pazienza. “
Fëdor Dostoevskij, Memorie dalla casa dei morti [Testo completo]
 NOTA:  Questo romanzo, pubblicato negli anni 1861-62 a puntate sulla rivista Vremja, pur non essendo un resoconto è fedelmente autobiografico. Nel 1849 l'autore era stato condannato a morte per motivi politici e, dopo un'orribile messa in scena che tra l'altro peggiorò la sua epilessia, la sentenza di morte fu commutata in condanna ai lavori forzati a tempo indefinito; ottenne la liberazione per buona condotta nel 1854 ma le sue condizioni di salute erano ormai irrimediabilmente compromesse.
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gregor-samsung · 2 years
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“ Veročka ebbe un sogno. Sognò di essere rinchiusa in un sotterraneo umido e buio. D'improvviso la porta si spalancò, e Veročka uscì all'aperto, cominciò a correre e a saltare, pensando: «Come non sono morta nel sotterraneo? Forse, non avevo mai visto i campi. Se li avessi visti, sarei morta di certo in quel sotterraneo!». E continuò a correre e a saltare. Sognò, poi, di essere diventata paralitica e di pensare: «Come mai? La paralisi colpisce i vecchi, non i giovani». «Anche i giovani, spesso anche i giovani, — mormorò una voce sconosciuta, — ma presto guarirai; anzi, guarda, ti tocco il braccio, sei già guarita, alzati!». Ma chi sta parlando? Oh, come tutto è leggero! Ecco, il male è passato. E Veročka si alza, cammina, corre di nuovo per i campi, salta e di nuovo pensa: «Ma come ho potuto sopportare la paralisi? Forse, sono nata paralitica, e non ho mai saputo come si camminasse e corresse; se l'avessi saputo, di certo non avrei resistito!». E continua a correre, a saltare. Ma ecco venire per il campo una ragazza — com'è strano! — che si trasforma continuamente nel viso e nei gesti: ora è inglese, ora francese, o tedesca, o polacca, poi diventa russa e poi, di nuovo, inglese, o tedesca, o russa; ma come mai conserva sempre lo stesso volto? Un'inglese è diversa da una francese, e una tedesca da una russa, e lei muta volto, ma rimane sempre uguale... com'è strano! E l'espressione del volto cambia continuamente: eccola ora mite, ora adirata, ora malinconica, ora gioconda, ma sempre molto buona. Perfino quando s'adira è sempre buona. E molto bella! E diventa sempre più bella a mano a mano che si trasforma. Si avvicina a Veročka. «Chi sei?». «Prima lui mi chiamava: Vera Pavlovna, ora mi chiama: amica mia». «Ah, sei tu quella Veročka che mi ama?». «Sì, l'amo molto, ma lei chi è?». «Sono la fidanzata del tuo fidanzato». «Quale fidanzato?». «Non lo so. Io non conosco i miei fidanzati. Essi mi conoscono, ma io non posso, perché sono troppi. Scegline uno tra loro, quello che preferisci, purché sia uno di loro». «Ho scelto...». «Non importa il nome, tanto non li conosco; soltanto scegli tra loro. Io voglio che le mie sorelle e i miei fidanzati si scelgano solo tra loro. Eri in un sotterraneo? Eri paralitica?». «Sì». «Ma ora sei libera?». «Sì». «Bene, sono stata io a liberarti, a guarirti. Ricordati che ancora molte sorelle sono prigioniere, paralitiche. Guariscile, liberale! Lo farai?». «Sì, lo farò. Ma lei come si chiama? Ho tanto desiderio di saperlo». «Ho molti nomi diversi e dico a ognuno come preferisco essere chiamata. Tu chiamami amore per gli uomini. Questo è il mio vero nome. Pochi mi chiamano così, e tu sei tra loro». Veročka si avvia verso la città. Ed ecco un sotterraneo, in cui sono rinchiuse molte fanciulle. Veročka tocca il chiavistello, e il ferro cede subito. «Uscite!», e le ragazze escono. Ecco una stanza, in cui giacciono molte ragazze paralitiche: «Alzatevi!» ed esse si alzano, cominciano a camminare, a correre per i campi e a saltare. Che gioia! Veročka è molto più felice con loro che da sola! Che allegria! “
Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, Che fare?, traduzione e cura di Ignazio Ambrogio, Edizioni Studio Tesi (collana Collezione Biblioteca, n° 85), Pordenone, 1990; pp. 106-108.
NOTA: Il testo originale (Что делать?), che Černyševskij scrisse in prigionia nella fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo, cominciò ad essere pubblicato a puntate nel 1863 sul mensile letterario russo Sovremennik sino a quando le autorità sequestrarono l’intera opera, ritenuta sovversiva. Il libro circolò quindi clandestinamente fino alla pubblicazione integrale nel 1905, all’inizio della breve stagione riformista dello zar Nicola II.
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gregor-samsung · 4 years
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“ Riusciva a fare moltissime cose, perché anche nel distribuire il suo tempo, come nel suo rapporto con le cose materiali, si era imposto di imbrigliare ogni capriccio. Neppure un quarto d'ora al mese dedicava al divertimento o al riposo: «Le mie occupazioni sono molto varie, e il cambiamento è riposo». Nel circolo di amici, i cui centri di attrazione erano Kirsanov e Lopuchov, non andava più spesso di quanto fosse necessario per rimanere in stretti rapporti con esso: «È necessario: i fatti di tutti i giorni provano l'utilità di avere un solido legame con un circolo di persone: bisogna aver sempre sotto mano varie fonti d'informazione». Tranne che alle riunioni generali del circolo, non andava mai da nessuno, se non per affari, né si tratteneva cinque minuti di più dello stretto necessario; e anche a casa sua non tollerava deroghe a questa regola; senza troppi complimenti diceva all'ospite: «Dunque, del suo affare abbiamo già parlato; ora mi permetta di occuparmi di altre cose, perché devo far tesoro del mio tempo». Nei primi mesi della sua rigenerazione, Rachmetov trascorreva quasi tutto il suo tempo leggendo, ma la cosa non durò più di un semestre: quando si avvide di aver acquisito un sistema organico di idee, i cui princìpi erano, secondo lui, giusti, disse: «Adesso la lettura diventa un affare secondario, da questo lato sono pronto alla vita». Cominciò così a dedicare ai libri solo il tempo libero, che in realtà era poco. Ma, ciò nonostante, ampliò le proprie cognizioni con straordinaria rapidità: a ventidue anni era già un uomo dalla cultura profonda e vasta, soltanto perché si era imposta la regola: niente lusso e niente capricci, ma soltanto il necessario. Che cos'era il necessario? Lui diceva: «Su ogni argomento le opere fondamentali sono poche, tutte le altre non fanno che ripetere, dilungare e guastare ciò che con assai maggiore pienezza ed evidenza è racchiuso in questo e poche opere. Esse soltanto sono da leggere, ogni altra lettura è una perdita di tempo. Prendiamo la letteratura russa. Io dico: leggerò prima di tutto Gogol. Nelle migliaia di altri racconti vedo subito, sin dalle prime righe o dalle prime pagine, che non vi potrò trovare altro che una degenerazione di Gogol; perché non dovrei smettere di leggerli? Così accade nelle scienze, anzi in esse il confine è più netto. Se ho letto Adam Smith, Malthus, Ricardo e Mill, conosco l'alfa e l'omega in questo campo e non ho bisogno di leggere neppure uno delle centinaia di economisti politici, per quanto famosi essi siano; dalle prime righe o dalle prime pagine mi accorgo che non troverò in essi neppure una loro idea originale, ma soltanto prestiti e deformazioni. Per parte mia, leggo soltanto le cose originali». Pertanto in nessun modo si sarebbe potuto costringerlo a leggere Macaulay; dopo averlo sfogliato per un quarto d'ora, Rachmetov avrebbe concluso: «Conosco già tutti gli elementi di cui è composto questo polpettone». Lesse con diletto La fiera della vanità di Thackeray, ma chiuse Pendennis a pagina venti: «È una pura ripetizione della Fiera della vanità, non c'è nulla di più, e perció non c'è bisogno di leggerlo. Ogni libro che leggo mi esime dalla necessità di leggerne cento altri», diceva Rachmetov. “
Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, Che fare?, traduzione e cura di Ignazio Ambrogio, Edizioni Studio Tesi (collana Collezione Biblioteca, n° 85), Pordenone, 1990; pp. 276-77.
Nota: Il testo originale (Что делать?), che Černyševskij scrisse in prigionia, cominciò ad essere pubblicato a puntate nel 1863 sul mensile letterario russo Sovremennik sino a quando le autorità sequestrarono l’intera opera, ritenuta sovversiva. Il libro circolò clandestinamente fino alla pubblicazione integrale nel 1905, all’inizio della breve stagione riformista dello zar Nicola II.
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gregor-samsung · 4 years
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“ «Vedete», cominciò Ivàn Sever’janyè, «il mio principe era d’animo buono, ma volubile. Se gli veniva voglia di una cosa, subito a qualsiasi costo tirala fuori e mettigliela lì, altrimenti usciva di senno, e in quei momenti, pur di ottenerla, era pronto a qualsiasi sacrificio, ma poi, quando l’aveva avuta, non si teneva cara la sua felicità. Così gli accadde anche con questa zingara, e il padre di lei, di Gruša, e tutti gli altri zingari della loro tribù, questo aspetto del suo carattere lo avevano subito capito alla perfezione e gli avevano domandato per lei Dio sa quale prezzo, più di quanto tutto il suo patrimonio familiare gli consentisse, perché lui possedeva sì una bella proprietà, ma in dissesto. Tanti soldi, quanti la tribù ne voleva per Gruša, il principe allora in contanti non ne aveva, ed egli perciò fece un debito e non poté più prestar servizio nell’esercito. Conoscendo tutte queste sue abitudini, da lui non mi aspettavo granché di buono, e nemmeno per Gruša, e tutto andò come pensavo. La colmava d’attenzioni, la guardava e sospirava senza staccarsene un momento, ma a un tratto cominciò a sbadigliare e a chiamarmi perché gli facessi compagnia. “Siediti”, dice, “ascolta”. Io prendo una sedia, mi siedo da qualche parte vicino alla porta e ascolto. Spesso andava così: lui talvolta le chiedeva di cantare e lei rispondeva: “Per chi dovrei cantare? Tu”, dice, “ti sei fatto freddo, mentre io voglio che al mio canto l’anima di qualcuno si infiammi e si tormenti”. Il principe allora mandava subito a chiamarmi e io e lui ascoltavamo; poi però Gruša stessa cominciò a ricordargli di chiamarmi, e a trattari molto affabilmente, e dopo che aveva cantato più di una volta bevvi il tè nel suo appartamento assieme al principe, soltanto, si capisce, su un tavolo separato, oppure da qualche parte accanto alla finestrella, ma se rimaneva sola, mi faceva sedere sempre accanto a sé, alla buona. Passò così un certo tempo, ma il principe si faceva sempre più cupo e una volta mi disse: “Sai una cosa, Ivàn Sever’janyè, così e così, le mie faccende vanno assai male”.Io dico: “Perché vanno male? Sia lode a Dio, vivete come si deve e avete tutto”. Ma lui all’improvviso si offese. “Come siete stupido”, dice, “mio semistimabilissimo,‘ho tutto’, eh? E che cosa ho?” “Ma tutto”, dico, “quel che vi occorre”. “Non è vero”, dice, “sono diventato povero, adesso devo lesinarmi anche la bottiglia di vino per il pranzo. È mai vita questa? È mai vita?”. “Ecco”, penso, “quello che ti cruccia”, e dico: “Be’, se qualche volta manca il vino, non è una gran disgrazia, si può sopportare, in compenso avete quel che è più dolce del vino e del miele”. Ma lui capì che alludevo a Gruša, e provò come vergogna davanti a me; cammina avanti e indietro, fa un gesto con la mano, e dice: “Naturalmente… naturalmente… si capisce… soltanto però… Ecco ormai sei mesi che vivo qui e in casa mia non ho visto anima viva di fuori…” “Ma che ve ne fate”, dico, “di uno di fuori, quando avete l’anima agognata?”. Il principe avvampò. “A-hà”, penso, “è questa dunque la canzone che hai intonato?” e dico: “E allora che fare adesso?” “Mettiamoci”, dice, “a commerciare in cavalli. Voglio”,dice, “che gli ufficiali di rimonta e gli allevatori riprendano a venire da me”. È una faccenda stupida e non da signori commerciare in cavalli, ma, penso, purché il bambino sia contento e non pianga… e dico: “Come volete”. E cominciammo ad allevare puledri. “
Nikolaj Leskov, Il viaggiatore incantato, Adelphi (Traduzione di Tommaso Landolfi, a cura di Idolina Landolfi; collana Biblioteca Adelphi n° 280), 2004; pp. 139-41.
[Edizione originale: Очарованный странник; romanzo pubblicato ad episodi in 18 uscite non consecutive della rivista di orientamento conservatore Russkiy Mir nell’anno 1873]
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gregor-samsung · 3 years
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“ Mi è parso che in realtà il calcolo significhi molto poco e comunque non abbia affatto tutta l’importanza che gli attribuiscono molti giocatori. Certi se ne stanno lì seduti davanti a dei pezzi di carta rigata, segnano tutti i colpi, li contano, ne deducono le probabilità, fanno i loro calcoli e alla fine puntano e perdono proprio come noi, semplici mortali che giochiamo senza calcolare niente. Sono comunque giunto a una conclusione che mi sembra giusta: effettivamente nel gioco alterno delle probabilità si può scorgere – se non un sistema – perlomeno un certo qual ordine, il che naturalmente è molto strano. Capita, per esempio, che dopo le dodici cifre mediane, escano le dodici ultime; queste escono, mettiamo, due volte, e poi si passa alle prime dodici. Dopo che sono uscite le prime dodici, ecco che si passa di nuovo alle dodici di mezzo; queste escono tre o quattro volte in fila e poi di nuovo si passa alle ultime dodici, che di nuovo escono un paio di volte per poi passare alle prime, che escono una sola volta e quindi escono ancora per tre volte di seguito le mediane; e così il gioco va avanti per un’ora e mezzo e magari due. Uno, tre e due; uno, tre e due. Questo è molto interessante. Un altro giorno o un’altra mattina capita invece, per esempio, che il rosso si alterni col nero e viceversa senza nessun ordine, quasi di continuo, tanto che il rosso e il nero non escono mai più di due o tre volte di fila. Un altro giorno o un’altra sera capita invece che esca quasi sempre solo il rosso; capita, per esempio, che il rosso esca anche più di ventidue volte di seguito, e immancabilmente continua a uscire in questo modo per un pezzo, magari anche per tutta una giornata. Su questo mi ha spiegato molte cose mister Astley, che aveva passato tutta una mattina nelle sale da gioco, senza puntare neppure una volta. Per quanto mi riguarda, ho perduto tutto fino all’ultimo soldo, e molto presto. “
Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, traduzione di Gianlorenzo Pacini, Garzanti, 1977. (Libro elettronico)
[ 1ª ed. originale: Игрокъ, Fyodor Stellovsky editore, 1866 ]
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gregor-samsung · 4 years
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De Grieux era come tutti i francesi, cioè allegro e amabile quando ciò era necessario e vantaggioso, e insopportabilmente noioso quando non era più necessario essere allegro e amabile. Di rado i francesi sono allegri per natura; sono sempre allegri su ordinazione o per calcolo. Se, per esempio, un francese ritiene necessario fare l’originale, il capriccioso, insomma il tipo un po’ eccezionale, ebbene i suoi capricci – incredibilmente sciocchi e innaturali – assumono invariabilmente delle forme già comunemente accettate e involgarite. Il francese «al naturale» è una quintessenza del più borghese, meschino e comune «spirito positivo», è insomma l’essere più noioso di questo mondo. Secondo me, soltanto dei novellini – e specialmente le signorine russe – possono lasciarsi sedurre dai francesi. A qualsiasi persona perbene appare immediatamente evidente e insopportabile il burocraticismo di quelle forme di amabilità, disinvoltura e allegria da salotto accettate una volta per tutte.
Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, traduzione di Gianlorenzo Pacini, Garzanti, 1977 [Libro elettronico]
[ 1ª ed. originale: Игрокъ, Fyodor Stellovsky editore, 1866 ]
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gregor-samsung · 4 years
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“ Io so con sicurezza di non essere un avaro; penso, anzi, di essere prodigo, eppure, tuttavia, con quale tremito, con che stretta al cuore ascolto sempre l’annuncio del croupier. Trente et un, rouge, impaire et passe, oppure: quatre, noir, pair et manque! Con quale avidità contemplo i tavoli di gioco, su cui sono sparsi qua e là i luigi d’oro, i federici, i talleri, oppure le colonnine di monete d’oro che, abbattute dalla paletta del croupier, si trasformano in mucchi ardenti come fuoco, o le colonnine di monete d’argento, alte anche più di mezzo metro, che si elevano intorno alla ruota della roulette! Mi basta arrivare in vicinanza delle sale da gioco, anche a due sale di distanza, tanto da sentire il tintinnio delle monete, per essere quasi preso dalle convulsioni. Anche quella sera che ho portato i miei settanta fiorini sul tavolo da gioco è stata una serata memorabile. Ho cominciato puntando di nuovo sul passe dieci fiorini. Ho un certo pregiudizio favorevole per il passe. Ma ho perduto. Mi rimanevano così sessanta fiorini in monete d’argento; ci ho pensato un po’ su e ho deciso per lo zero. Ho cominciato così a puntare sullo zero cinque fiorini per volta, e alla terza puntata lo zero è uscito; c’è mancato poco che morissi dalla gioia quando mi hanno pagato centosettantacinque fiorini; non ero certo così contento quando avevo vinto centomila fiorini! Allora ho subito puntato cento fiorini sul rouge, e ho vinto; poi tutti e duecento ancora sul rouge, e ho vinto ancora; poi tutti e quattrocento sul nero, e ho vinto! Ancora tutti e ottocento sul manque e ho vinto. Contando anche la vincita precedente, avevo ora millesettecento fiorini, e tutto questo in meno di cinque minuti! Sì, in momenti come quelli ti dimentichi di tutti i tuoi precedenti insuccessi. Quel denaro io l’avevo vinto rischiando più che la vita; avevo osato rischiare, e ora ero stato riammesso nel consorzio umano! “
Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, traduzione di Gianlorenzo Pacini, Garzanti, 1977. (Libro elettronico)
[ 1ª ed. originale: Игрокъ, Fyodor Stellovsky editore, 1866 ]
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gregor-samsung · 4 years
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Da qualche tempo gli Stati Nord Americani attirano in Europa l'attenzione delle menti più curiose. La causa non va ricercata negli avvenimenti politici: l'America prosegue tranquilla il suo cammino, è sempre sicura e prospera, forte della pace assicuratale dalla sua posizione geografica, orgogliosa dei suoi ordinamenti. Ma alcune menti profonde recentemente si sono dedicate allo studio dei costumi e delle istituzioni americane, e le loro osservazioni hanno riaperto questioni che già da tempo si credevano risolte. Il rispetto per questo nuovo popolo e per la sua costituzione, frutto della più recente cultura, è stato fortemente scosso. Con stupore abbiamo visto la democrazia nel suo più ripugnante cinismo, nei suoi crudeli pregiudizi, nella sua intollerabile tirannide. Tutta la nobiltà, l'abnegazione, tutto ciò che esalta l'animo umano è soffocato da un implacabile egoismo e dalla passione per il benessere (comfort); una maggioranza che opprime sfacciatamente la società; la schiavitù dei negri che convive con l'istruzione e la libertà; la persecuzione della nobiltà in un popolo che non possiede aristocrazia; da parte degli elettori cupidigia e invidia; da parte dei governanti pavidità e opportunismo; il talento, per rispetto dell'uguaglianza, costretto ad un volontario ostracismo; il riccone che indossa una palandrana stracciata per non offendere sulla strada l'arrogante miseria che segretamente disprezza: questo è il quadro degli Stati Americani quale recentemente ci si è presentato. I rapporti degli Stati con le tribù indiane, gli antichi padroni della terra oggi abitata da oriundi europei, sono stati anch'essi sottoposti all'analisi rigorosa dei nuovi osservatori. Le evidenti ingiustizie, gli abusi e la disumanità del Congresso sono condannati con indignazione; comunque, in un modo o nell'altro, col ferro e col fuoco, col rhum e gli abusi, o con mezzi più etici, è certo che all'approssimarsi della civiltà la barbarie deve scomparire. Questa è una legge inesorabile. I superstiti degli antichi abitanti dell'America presto saranno completamente sterminati e le steppe sconfinate, i fiumi immensi, dove con le reti e le frecce si procuravano il cibo, si trasformeranno in terreni coltivati, ricoperti di alberi, e in porti commerciali, dove fumeranno i piroscafi e sventolerà la bandiera americana.
Brano di un articolo di A.S. Puškin pubblicato in Sovremennik (1836, n. 3, pp. 205-59) nel quale sono esposte le impressioni avute dalla lettura del celebre saggio di Tocqueville (De la démocratie en Amérique, 1835). Il testo, tradotto da Giuseppina Cavallo, è raccolto in:
AA.VV., E i russi scoprirono l' America. Diari, memorie, testimonianze, a cura di Nicoletta Marcialis, Editori Riuniti (collana Albatros), 1989¹; pp. 167-68.
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gregor-samsung · 4 years
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Un autentico gentleman non deve mai agitarsi, neppure se perdesse tutta la sua sostanza. Il denaro dev’essere tanto al disotto del gentleman che per lui non vale quasi la pena di preoccuparsene. Naturalmente poi è un tratto estremamente aristocratico non accorgersi minimamente della marmaglia né dell’ambiente circostante. Ma viceversa talora può essere non meno aristocratico un atteggiamento opposto, e cioè invece osservare e guardare perfino con attenzione – magari col monocolo – tutta quella marmaglia: ma ciò va fatto come se si considerasse tutta quella folla e quel sudiciume come una forma sui generis di divertimento, come uno spettacolo organizzato appunto per distrarre il gentleman. Ci si può perfino confondere nella folla, ma sempre con l’assoluta convinzione di essere soltanto un osservatore e di non appartenere a essa. Del resto, non sta nemmeno bene osservare troppo fissamente; nemmeno questo si addice a un vero gentleman, giacché comunque lo spettacolo non è degno di una troppo concentrata o prolungata attenzione. In generale poi vi sono pochi spettacoli che siano degni di prolungata attenzione da parte di un vero gentleman. E invece a me personalmente sembrava che tutto questo fosse degnissimo della più attenta considerazione, specialmente per chi non fosse capitato lì soltanto in veste di osservatore, bensì si considerasse sinceramente e semplicemente parte della marmaglia. Per ciò che riguarda le mie più recondite convinzioni morali, per esse naturalmente non c’è posto in queste mie considerazioni. Ma lasciamo pure che sia così; parlo soltanto per sgravio di coscienza. Ma almeno questo voglio osservare: che in tutti questi ultimi tempi per me era assolutamente intollerabile riferire tutti i miei pensieri e azioni a un qualsiasi criterio morale.
Fëdor Dostoevskij, Il giocatore, traduzione di Gianlorenzo Pacini, Garzanti, 1977 [Libro elettronico]
[ 1ª ed. originale:  Игрокъ, Fyodor Stellovsky editore, 1866 ]
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