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iltrombadore · 6 months
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L’opera fotografica di Enzo Ragazzini: “Gens”, tutti quei volti che aspettano Godot
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“Gens”, gente, esseri umani, persone con i loro sentimenti e passioni individuali, infatuazioni collettive, idoli della massa, miti spettacolari e raccolte intimità della coscienza che si affida ad una disciplina morale, o ad una apertura religiosa: ecco in breve il volto plurimo, sconfinato e parcellizzato dell’ umanità contemporanea, ritratta in più versioni rispecchiate dall’ ottica riflessa della tecnica riproduttiva, che la mostra in posa fotografica, digitale, tele-video-cinetica mentre esibisce sé stessa in un rituale, allusivo e scenografico “teatro del mondo”.
Stiamo tutti “aspettando Godot” , commenta Enzo Ragazzini,  per parafrasare Beckett e il suo teatro del non senso e dell’assurdo, quale sottinteso dei quaranta ritratti di uomini e donne del nostro tempo che l’estroso fotografo espone a Roma nella galleria di Maja Titonel in Via Monserrato 30, fino alla fine di Aprile.
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Enzo Ragazzini ha voluto intitolare “Gens” questa sintetica raccolta di opere prescelte da quasi mezzo secolo di intenso lavoro (1965-2022) tutto dedicato ad interrogare i volti e le circostanze di incontro collettivo che segnano illusioni, agi e disagi della nostra civiltà globalizzante: dagli stadi sportivi alle manifestazioni politiche, dalle lotte sociali alle più diverse forme di aggregazione e cultura giovanile, fino alle tumultuose e spaesanti presenze degli anonimi viadotti e cavalcavia, delle stazioni metropolitane, delle  fermate d’autobus, ripresi nel vitale scorcio di traffico urbano dai quartieri alti al suburbio delle grandi città d’ Occidente (Roma, Londra, New York) fino ai lembi delle più disagiate periferie del mondo, dall’ Africa, all’ Asia, all’America Latina.
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Viaggiatore infaticabile, anticipatore di visioni, forme di vita e interessi antropologici, fin dagli anni Sessanta Ragazzini ha sperimentato tecniche dall’ effetto ottico raffinato per cogliere istantanee che, con il retino smarginante sul bianco e sul nero, sembrano ingrandite da un teleobbiettivo in un mirabile punto d’incontro tra epos collettivo e fisiognomica esistenziale.
L’elaborazione della foto al tratto con grana originale raggiunge risultati sorprendenti nelle immagini della folla allo Stadio Olimpico, così come in quelle delle giovani ragazze nei reportages sul traffico di Roma (anni ’60), o nelle stampe analogiche di estatiche figure “preraffaellite” colte a volo nei momenti d’intimità sognante e amorosa delle comunità Hippyes nell’ Isola di Wight (primi anni ’70). Nella cornice dello stereotipo, misurato dall’ amalgama della riproducibilità tecnica, il volto umano risulta dall’artificio propagandistico: ideologia, pubblicità, coreografia sportiva e musicale,  sono le “grandi semplificazioni” che  delineano il profilo del cosiddetto “uomo massa”, in cui ciascuno di noi può riconoscersi, sentendosi al tempo stesso totalmente diverso nella sua più intima identità.
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Questa radicale distanza-vicinanza della persona umana dall’ alter-ego standardizzato nei modelli di consumo e integrazione collettiva, si esprime nelle fotografie di Enzo Ragazzini con palpitante efficacia: ogni suo singolo ritratto, sottratto ai vincoli del ritmo di comportamento collettivo, emerge come storia particolare, racconto di esistenze che vorresti interrogare, uscendo dalla patina fissa dell’ immagine fotografica, per entrare nel vivo dramma di una autentica esperienza umana.
“Nel mondo attuale- dice Enzo Ragazzini- sembra che tutti stiamo aspettando qualche cosa che non arriva: per i poveri, si capisce; ma anche i ricchi, i potenti, i vincenti possono aspettare qualcosa che non arriva…Aspettare Godot è cosa moderna, anzi modernissima; è una cosa che accade quando si perde l’identità…”.
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Nella costante ricerca di una qualche “identità” e di un recupero delle coscienze ad un’ opera collettiva collimante con soluzioni razionali condivise, il realismo fotografico di Enzo Regazzini ci conduce nei meandri inesplorati del diorama visivo della contemporaneità, dalle borgate romane a tutte le altre periferie del mondo che si è trovato a fotografare. E da quei mondi, i soggetti rappresentati, in un modo o nell’altro, con i loro sguardi inconsapevoli sembrano attori di un proscenio dove tutti stanno davvero “aspettando Godot”. Aver saputo mettere in evidenza questo spirito del tempo senza la minima retorica,  con amore di verità ,  è il principale merito dell’opera fotografica di Enzo Ragazzini.
Duccio Trombadori                                        
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iltrombadore · 8 months
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"Il patriota, il partigiano e il "sogno di una cosa": una biografia ragionata di mio padre Antonello Trombadori
di Duccio Trombadori
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Nella primavera del 2007 su iniziativa del sindaco Walter Veltroni il Comune di Roma intitolò un viale di Villa Borghese alla memoria di Antonello Trombadori. La toponomastica allora mi pregò di indicare i titoli che intendevo far incidere sulla lapide che ne portava il nome: “poeta, critico d’arte, uomo politico”, tagliai corto. E così fu. 
Oggi però a quasi vent’anni di distanza mi pento di non aver aggiunto il termine “patriota” quale richiamo al ruolo assolto da mio padre nella Resistenza romana (settembre 1943-giugno 1944) che gli valse una medaglia d’argento al valore militare. 
Ricordo ancora non senza rimorso un addolorato Rosario (Sasà) Bentivegna  - altro decorato dei Gap a Roma- quando, non senza  rammarico, mi fece notare la mancanza. 
Pensavo esagerasse, tanto era implicito l’ abito antifascista che onora la vita di mio padre. Ma Sasà aveva pienamente ragione. 
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Vedo più chiaro oggi quello che allora mi  sfuggì: era    la questione del “patriottismo” quale identità morale sofferta e controversa, rappresentativa di tutta una generazione di uomini e donne (padri e madri per me;  nonni e bisnonni, per i più giovani) che si formarono nel pieno delle illusorie mitologie nazionaliste e imperialiste, passarono il setaccio della guerra fascista, della umiliante sconfitta, della occupazione nazista e trovarono poi nella resistenza partigiana un riscatto morale per la guerra di Liberazione nazionale da combattere a fianco degli eserciti alleati. 
Della drammatica esperienza di questa generazione di italiani, forse l’ ultima coinvolta e motivata dal compimento civile di motivi ideali risorgimentali, mio padre Antonello fu un emblematico testimone e interprete. 
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“Risorgimentale” in senso analogico fu l’ animo del militante garibaldino; “risorgimentale” fu la radicalità di parte, lo spirito di sacrificio volontario che formò i ranghi della Resistenza; “risorgimentale” fu l’idea di restituire alla Patria umiliata e offesa una nuova unità morale e civile.
 Si spiega anche così l’ adesione al comunismo (il PCI di Togliatti) dell’ animoso patriota,  giovane inquieto di quegli anni difficili,  a complemento dell’ indole  di un carattere votato all’ azione, un’ impronta psicologica  che lo accompagnerà lungo l’ intensa e multiforme esperienza di vita distribuita tra l’ attività politica, la critica d’ arte,  la battaglia delle idee, il giornalismo, il cinema e la poesia.
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Giunto quasi al termine di una meticolosa e appassionata ricerca che lo ha impegnato a riassumere le tracce di un ritratto biografico, Mirko Bettozzi - giovane generoso che non si arrende al quasi procurato oblìo della memoria della Resistenza, e per questo ha già scritto un bel ricordo di Mario Fiorentini, “ultimo gappista”- si è più volte incontrato con me dopo avere consultato i documenti disponibili a partire da quelli lasciati da Antonello Trombadori ed oggi custoditi presso l’archivio della Fondazione Quadriennale di Roma.
 A lavoro quasi compiuto, l’autore ha pensato in un primo momento di sigillare il libro con un titolo -“Il comunista critico”, o giù di lì-  che forse non era inesatto ma che mi appariva piuttosto anodino e probabilmente fuorviante la particolarità di una trattazione non corrispondente a un vero e proprio saggio di storiografia politica.
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Una volta richiesto di un parere, gli consigliai perciò di evitare quella soluzione proprio perché l’argomento del “comunista critico” rischiava di ridurre l’ originalità di un lavoro più incline a figurare un carattere,  una fisionomia imbevuta dello spirito del tempo  che va ben oltre i vincoli dell’ ideologia e travalica le tematiche di partito. 
In effetti l’ adesione militante di mio padre a quel singolare organismo  che fu il PCI, ossatura politica costituente della democrazia italiana nata dalla Resistenza, non poteva rendere pienamente conto del “puzzle” intellettuale, morale e civile che rispecchia il  suo complesso profilo umano. 
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Era semmai più vero il contrario. Bisognava forse partire dalla formazione familiare, dalle radici sociali e culturali, dalle amicizie nate sui banchi di scuola, e da tant’ altra esperienza vissuta di natura pre-politica per comprendere meglio i tratti di una scelta di vita ( da “rivoluzionario professionale”, si diceva) segnata dalla permanente inquietudine, dalla tensione a spendere ogni energia per la “causa giusta”, e la pulsione a “prendere partito” volta per volta, spesso controcorrente, pagandone il prezzo dovuto. 
Tale in uomini come Trombadori fu il carattere predominante. 
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Ragionando allora  su quale fosse il titolo migliore per la sua narrazione, la parola “partigiano” a un certo punto comparve e prese quota nella riflessione di Bettozzi fino ad emergere quasi naturalmente dal computo delle diverse varianti esaminate. 
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A guardar bene, da qualsiasi punto di vista e in qualsiasi circostanza  la si osservasse, la figura di Antonello rispondeva quasi sempre all’ emblema del “partigiano”, in senso più generale:  partigiano, egli fu tale  non solo durante la Resistenza, ma in ogni occasione della vita pubblica e privata, sul piano degli schieramenti politici, culturali, esistenziali e così via. Meditando su questo singolare metabolismo psicologico, alla fine Bettozzi ha ricavato il titolo generale –“Un eterno partigiano”- che a me pare molto persuasivo e ben ritagliato a misura della ricerca. 
Non a caso nel ritratto prevale una sorta di adesione simpatetica dell’ autore all’oggetto della sua narrazione: dove le oscillazioni e le vicissitudini dell’ intellettuale organico del PCI, quale Trombadori fu fin quasi alla fine (ricordo il doloroso distacco dal comunismo, testimoniato proprio al culmine dell’esistenza) non contano tanto per quel che valsero nella vita pubblica italiana, quanto come contrassegno di una esuberante natura individuale pronta a battersi per la bandiera ritenuta giusta ma anche per rimettere sempre in questione sé stessa. 
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Bettozzi ha prescelto alcuni episodi centrali: tra questi la lotta partigiana contro i tedeschi, l’impegno per l’ arte realista, in pittura e nel cinema, la campagna per la pace in Vietnam, la particolare sensibilità verso la Chiesa del dialogo e del Concilio vaticano II . 
Di fronte al mosaico dai mille tasselli in cui si è risolta l’ attività di mio padre (la poesia in dialetto romanesco e in lingua italiana, la critica cinematografica, l’ attività politica e parlamentare, ecc…) non tutto è stato possibile riassumere e approfondire, né tantomeno Bettozzi ha preteso di offrire una versione storiografica esaustiva e sistematica.
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 Nel presentare la materia trattata egli ha avuto piuttosto il merito di cogliere un certo ritmo psicologico, che sembra condividere a tal punto fino a riconoscersi in esso, quasi per vocazione, quasi spontaneamente.  Il narratore diventa lo specchio di un’ anima il cui tratto fondamentale corrisponde all’ irrisolta ansia di chiarezza dell’ uomo laico moderno ( vedi la “freischwebende Intelligenz” di Mannheim) 
che insegue incessante il “ filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità” (Montale, “I limoni”). 
 
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Questo spirito disperato  ma combattivo, questo temperamento “montaliano” tipico degli anni formativi (siamo nel pieno degli anni Trenta) portò a suo tempo Trombadori a riconoscersi nelle inquietudini dei giovani insofferenti la dittatura, a partire dal mondo antifascista per giungere all’ acquisita “verità marxista” e a quel comunismo che tracciò il corso principale della sua esistenza. 
 L’ emblematico “sentire partigiano”, che punta all’ azione politica come urgente prova di  verità, Trombadori  lo condivise con la parte più sensibile della sua generazione, penso al gruppo romano (intellettuali liberal-socialisti e filo-comunisti) tanto bene descritto da Albertina Vittoria: da Paolo Alatri a Bruno Zevi, da Carlo Muscetta a Mario Alicata da Pietro Ingrao a Lucio Lombardo Radice, da Antonio Amendola a Paolo Bufalini e tanti altri personaggi che hanno distinto la cultura e la politica italiana nella  democrazia “post-borghese” del secondo dopoguerra. 
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Una simile posizione morale accompagnò il “partigiano” Trombadori fino all’ età avanzata, quella delle amare disillusioni riguardo al socialismo sovietico, ma anche  del rilancio di nuovi traguardi di verità da conseguire per il futuro dei valori democratici e socialisti. Rivelatrice è in proposito la chiusa malinconicamente filosofica del poemetto (pubblicato nel 1998 in “Foglie perse”, per l’Associazione Amici di Villa Strohl-fern)  in memoria dell’ amico dirigente del PCI Mario Alicata che per  analoga “ansia di verità”  divenne anch’ egli intellettuale organico:
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“…Adesso sei,
forse come io solo ti conobbi
atrocemente intatto e lacerato,
ritornato al momento in cui Guttuso
ti dipinse ventenne, scapigliato:
fu allora che con Marx scoprivamo,
nella lettera a Ruge,"Il nostro motto
deve essere dunque: riforma 
della coscienza 
non per mezzo di dogmi, ma mediante
l'analisi della coscienza
non chiara a se stessa, o si presenti
sotto forma religiosa o politica.
Apparirà allora che il mondo
da lungo tempo ha il sogno d'una cosa…" 
La citazione di Marx -che tra l’altro fa non a caso da epigrafe al romanzo di Pasolini, “Il sogno di una cosa”- rivela di quale pasta spirituale fossero  gli uomini come Antonello Trombadori e spiega perché egli spese la vita nella partigianeria, scontando  illusioni ed errori, sempre pronto però a rivederli in nome della verità. 
Bisogna perciò  rendere grazie a Mirko Bettozzi per avere realizzato un ritratto che ha il merito di fare emergere, dall’attivismo proteiforme di mio padre, un filo di continuità che ne illumina le ragioni di fondo:  corrispondere alla leggenda di Prometeo (il gigante punito da Zeus per aver portato l’uomo a conoscere il fuoco) quale metafora del coraggio di chi sfida gli dèi per liberare l’umanità dai dogmi che la opprimono. Così, ripensato in chiave libertaria, anche il “sogno di una cosa” che animò Antonello può tornare di lampante attualità.  
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iltrombadore · 9 months
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Quando posai per Tommasi Ferroni e il suo "Sacrificio di Isacco"
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Riccardo Tommasi Ferroni
'Il sacrificio di Isacco'
cm.2,60x1,80
1983
Tra il 1982 e il 1983 vissi in uno studiolo ricavato dentro un cortile di Via della Lungara, dove abitava anche il mio amico Enrico Manera assieme a Lilli Marcotulli, ed altri artisti.
Ero quasi adiacente a Via dei Riari, potevo così recarmi più facilmente nel grande studio dove operava Riccardo Tommasi Ferroni, e faceva scuola di pittori a giovani suoi allievi e aiuti, tra cui ricordo Piero Salustri e Claudio Bogino, un argentino venuto da Cordoba a Roma per imparare le tecniche della pittura rinascimentale italiana.
Fu in quel tempo che Riccardo un giorno mi chiese di fargli da modello per una rappresentazione del sacrificio di Isacco; io, nelle vesti di Abramo, avrei dovuto impugnare una sciabola e tendere il braccio sul capo di Bogino, che impersonava il giovane Isacco, nell'attimo in cui il padre si ferma, richiamato com'è dalla voce del Signore...
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La posa durò una mezza mattinata (Riccardo era esecutore prensile e veloce), poi qualche tempo dopo vidi l'opera finita. Mi riconobbi nella tensione forzata del volto, ma mi sembrò di essere stato volutamente raffigurato un po' più calvo e attempato di quanto allora non fossi. Il quadro era molto convincente e suggestivo, per i fasci di luce e la istantanea riproduttiva: un 'caravaggismo' di spirito, qual era quello di Tommasi Ferroni, capace di restituire soggetti religiosi e simboli rituali nelle vesti di una mondana attualità. Rivedere oggi quel quadro mi emoziona per il tempo passato e per l'amicizia e la stima che sempre conservo nel ricordare l'uomo e l'artista Riccardo Tommasi Ferroni.
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iltrombadore · 9 months
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Ricordando Attalo: "Il gagà che aveva detto agli amici", "Genoveffa la racchia", ecc...
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Gioacchino Colizzi, col nome d'arte di Attalo (Roma, 1894 – Roma 1986),lo ricordo ancora quando nei primi anni Sessanta parodiava su 'Paese Sera' con vignette intitolate alle 'guerre pacioccone'...Ma Attalo aveva un passato di vignettista satirico di fama, esercitata sul periodico 'Serenissimo' (primi anni Venti') e successivamente sul 'Marc'Aurelio', una delle poche riviste di satira italiane degli anni Trenta, dove si fece le ossa tra gli altri anche il giovanissimo Federico Fellini. Fu nel 1931 che Attalo inventò il personaggio del 'Gagà che aveva detto agli amici...", figura di elegantone vanitoso e sbruffone sempre impegnato a mascherare da avventurosi successi quelle che erano in verità magre figure...Si dice che Attalo, per disegnare il "Gagà" si fosse ironicamente ispirato all'aspetto dell' amico Attilio Battistini, che fu corrispondente di guerra de "Il Messaggero" (e nel dopoguerra direttore responsabile di "Playmen") il quale ostentava un abbigliamento vistoso accompagnato da naso e mento più che pronunciati.
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Oltre alle vignette del "Gagà", Attalo inventò per il "Marc'Aurelio" altri personaggi, tra i quali "Genoveffa la racchia" e "La contessa Algisa". Il giovane Federico Fellini, che conobbe Attalo durante la sua collaborazione al settimanale romano, prenderà spunto da lui per tratteggiare alcuni personaggi del film "Roma".
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Nel 1947 Attalo tornò a collaborare al "Travaso delle idee" con nuovi personaggi come "Gastone il frescone" ed il "Cavalier Precisetti" (che “quando fa una cosa la fa bene o per niente”).Per il settimanale "La Sigaretta", pubblicato tra il 1947 ed il 1948 creò le vignette de "La famiglia Cocottini", la cui protagonista è una signora che propone a maturi e decrepiti signori la compagnia di avvenenti e disponibili signorine, di cui lei si finge madre.
Tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni 60 Attalo inizia allora a collaborare al quotidiano romano "Paese Sera" con una serie di vignette denominata "Le guerre pacioccone". Continuerà inoltre fino agli anni '70 a disegnare le vignette del "Gagà che aveva detto agli amici..." per il settimanale milanese "Candido", diretto da Giorgio Pisanò.
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iltrombadore · 9 months
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Roma 1949: quando Picasso fece il ritratto di Rita Pisano, la "jeune fille de Calabre"...
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Nel catalogo dell' opera di Picasso compilato da Christian Zervos compare un disegno intitolato 'Jeune fille de Calabre' firmato e datato il 30 Ottobre 1949. La 'jeune fille' è Rita Pisano (1926-1984), comunista, antesignana del movimento femminile nel Mezzogiorno, che poi fu sindaco del PCI del suo paese Pedace, dal 1964 fino alla prematura scomparsa.
Lo sguardo di Picasso si concentrò sul volto di Rita a Roma durante una cena da Piperno a Monte Cenci, cui partecipavano, con Picasso, Antonello Trombadori, Renato Guttuso, Mario Alicata, Ernesto Treccani, Giulio Einaudi, Giuseppe De Santis e altri.
C' era appena stata una grande manifestazione dei Partigiani della Pace (infuriava la 'guerra fredda') cui la Pisano era stata delegata dopo avere guidato lo sciopero delle raccoglitrici di castagne di Malito ed avere subito gli arresti della polizia di Scelba.
In Parlamento si votava per l'adesione italiana alla NATO. Lo scontro politico era molto aspro, l'opposizione dei partiti della sinistra aveva coinvolto l'intero Paese.
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Il giorno prima, il 29 ottobre, a Melissa la polizia aveva sparato sui contadini che reclamavano la terra del fondo Fragalà (restarono assassinati Francesco Nigro, Giovanni Zito e Angelina Mauro).
A un certo punto della cena, Carlo Muscetta suggerì a Picasso l'idea di un ritratto della giovane 'paesana calabrese'...e Antonello Trombadori, nel rievocare l'episodio su "Repubblica" («Zavattini, Picasso e noi nel '49») ricorda che "fu lì che, presa carta e matita, egli disegnò lo splendente volto di Rita Pisano...".
Il disegno, infine, lo prese Carlo Muscetta (è ancora nella sua collezione privata) e fu poi pubblicato in copertina di una edizione Einaudi che egli curò di un libro di Vincenzo Padula ('Persone in Calabria') .
Antonello Trombadori, più malizioso, la mise così: '...Carlo Muscetta fu il più lesto degli altri commensali, appena Picasso l'ebbe terminato l'afferrò senza che gli fosse opposto un rifiuto... Intanto Pablo scherzava con Cesare Zavattini sui molti modi, secondo lui, di essere ladri di biciclette, tanto che all'uscita fece più volte e in diversa guisa l'atto di afferrarne una sulla soglia del vicino meccanico ciclista e un fotografo riprese la scena del simulato furto con Giulio Einaudi che in veste di guardia ferma il ladro Picasso...».
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iltrombadore · 11 months
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Elodia Manservigi, la fiera comunista che conobbe il Gulag ma non condannò l' operato di Stalin
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Non dovevo avere ancora compiuto i dodici anni quando conobbi Elodia Manservigi (1893-1968) che si era da poco trasferita a Roma dalla Urss dove aveva passato più di metà della vita, e buona parte nei campi di lavoro forzato al tempo delle purghe staliniane. Me ne avevano parlato i miei genitori, annunciandola come persona che aveva avuto una vita piena di tormenti. Era stato effettivamente così ma lei non ne aveva l'aria. Era una robusta plurisessantenne dai capelli bianchi, di buon umore e sempre con la sigaretta in bocca alla sovietica, cioè la immancabile 'Bielomor kanal' dal lungo bocchino di cartone. Aveva stretto amicizia con mia madre Fulvia, con la quale lavorava in una associazione collaterale del PCI. Ne aveva passate tante, ma era rimasta una militante di ferro, devota al Partito comunista ai suoi ideali di gioventù. Emiliana di Pontelagoscuro, nella bassa pianura ferrarese, di famiglia socialista, si era iscritta al PCI fin dal 1921. Operaia tessile, dopo l'espatrio clandestino del marito Angelo Valente, fu arrestata a Torino, e nel 1923 raggiunse l' Urss assieme al piccolo figlio Sergio. Da quel momento la vita di Elodia si fuse con quella del 'primo stato socialista del mondo' : studiò alla università Zapada, fu inviata dal PCI a Parigi, lavorò come dattilografa e annunciatrice delle trasmissioni di propaganda in lingua italiana. Nel 1936 prese la cittadinanza sovietica. La sua esuberanza e sincerità di espressione, che disapprovava apertamente i difetti di regime, e la tragica vicenda di suo fratello Lino Manservigi -condannato a morte nel 1938 come 'agente trotzkista', poi riabilitato-precipitarono la situazione all'inizio della guerra. Arrestata il 31 ottobre 1940 con l'accusa di "propaganda antisovietica e diffusione di invenzioni calunniose antisovietiche", Elodia Manservigi, fu internata nelle carceri del NKVD, condannata a 5 anni di lavori forzati nel campo di Karaganda (Kazachistan). Nel 1946, scontata la pena, lavorò a Tokarevka, in Kazachstan, fu inserviente in un bagno pubblico e infine operaia in un calzaturificio di Karaganda. In questo periodo venne a sapere che anche suo figlio Sergio, militare della Armata Rossa, era stato confinato in una località siberiana dove era morto. La pena per le sorti familiari accompagnò la vita di Elodia Manservigi fin dopo la morte di Stalin. L'avvento di Krusciov le consentì di fare valere le sue ragioni: venne riabilitata nella estate del 1955 e le fu assegnata una pensione. Giunta in Italia Elodia Manservigi non smise di battersi per le sue idee. Si riteneva sempre una 'rivoluzionaria di professione'; e a me che le domandavo curioso spiegazioni sul regime in URSS, Elodia rispondeva con una sicurezza sorridente, quasi 'gogoliana'. La sua prima preoccupazione era difendere la Urss da ogni attacco, e temeva che si potesse approfittare del suo 'caso personale' per condannare il regime sovietico, e non solo quello...Stalin restava per lei un grande rivoluzionario: ' era bravo ed aveva tante buone ragioni-ripeteva- ed ha molte meno colpe di quelle che si dicono: è stato vittima della burocrazia e dei personaggi altolocati del regime'. Era piena di fiducia, e di tenacia, Elodia Manservigi. E la trasmetteva a chi la stimava e le era vicino. Di comuniste così, ma soprattutto di donne così, oggi se ne trovano poche... Morì a Roma nel 1968.
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iltrombadore · 1 year
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1999: l'attacco NATO alla Jugoslavia e il primo SI alla guerra della sinistra italiana...
Era il 18 Maggio 1999. La campagna militare Nato contro la Jugoslavia di Milosevic era in pieno corso mentre alla guida del governo italiano era Massimo D'Alema. L'acquiescenza solidale con il preteso 'intervento umanitario' mi spinse a reagire ed indirizzai un testo a Sandro Curzi, allora direttore di Liberazione (giornale di Rifondazione comunista),che lo pubblicò. Quel testo, riletto oggi, e misurato sugli sviluppi della attuale politica Nato nella "questione Ucraina", mi sento ancora di condividerlo come puntuale e, direi, premonitorio.
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LETTERE DALLA SINISTRA
LA DOCILE ACQUIESCENZA
DELLA SOCIALDEMOCRAZIA EUROPEA
di Duccio Trombadori 
Caro Curzi,
la coraggiosa protesta di tanti italiani vecchi e giovani, unitasi alle grida di chi condanna la sporca guerra della Nato e la passiva acquiescenza dei governanti italiani ci dà la misura di quante risorse morali siano disponibili per combattere con efficacia quel ‘pensiero unico’ che si vorrebbe imporre alla coscienza e allo spirito pubblico del nostro paese.
E’ una mobilitazione spontanea, che parte dal cuore degli uomini prima ancora che dalle idee, per la ripulsa istintiva della violenza e per l’offesa recata all’intelligenza dallo spudorato spettacolo di menzogne quotidianamente ammannito dai responsabili politici e dalla informazione ufficiale.
Loscandalo infatti consiste in ciò: che una civiltà democratica e della libera circolazione delle idee, quale la nostra presume e pretende di essere, continua a presentare questa sciagurata impresa contro la Jugoslavia di Milosevic come un ‘intervento umanitario’ e non invece come un piano di espansione imperiale che deve portare la Nato al controllo totale dell’area balcanica liquidando ogni residua posizione di indipendenza nazionale.
Tutti sappiamo come i popoli della Jugoslavia hanno eroicamente difeso la loro autonomia negli anni della guerra fredda, sia dall’Est che dall’Ovest.
E ricordiamo con quale determinazione il comunista Tito seppe dire di No a Stalin collocandosi tra Usa e Urss in una politica che poi tanto ha giovato all’ equilibrio e alla pace tra i popoli. 
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Oggi non esiste più una ‘minaccia’ dall’Est, e certi signori ad Ovest debbono aver pensato di poter agire a loro piacimento.
Il progressivo appoggio dato allo smembramento territoriale della ex Jugoslavia si basa proprio sul principio ‘etnico’ contro il quale invece si afferma di voler combattere: gli sloveni con gli sloveni, i croati con i croati, gli albanesi con gli albanesi, i serbi con i serbi, eccetera, eccetera.
Non deve sfuggire infatti che la repubblica jugoslava a maggioranza serba, guidata da Milosevic, si richiama ad un principio statuale federale e non razziale.
E’ la propaganda infame della Nato a chiamare ‘serbo’ l’esercito jugoslavo(nel quale sono attivi elementi di varia nazionalità, compresa l’albanese) mentre non si chiamano così tra loro neppure i più fanatici guerriglieri di Arkan.
Siamo dunque ad un insopportabile travisamento dei fatti che rende ancora più ingiusta e odiosa la vile carneficina compiuta dai ‘signori della guerra’ ai danni di popolazioni inermi e impossibilitate a reagire.
L’operazione Nato, condotta in nome del ‘separatismo’, si sposa con le mire del peggiore nazionalismo serbo, il quale vuole andare ben oltre la politica di Milosevic e condivide la logica spartitoria su basi ‘etniche’ della Jugoslavia.
Ne vedremo delle belle.
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Ancora maggiore è dunque la riprovazione verso i governi europei che hanno condiviso questa politica distruttiva, contrai agli interessi dell’Europa, della pace e dello sviluppo, perché alimenta le spinte alla frammentazione e agli odii di tutti i generi nel continente.
Permettimi a questo punto caro Curzi di ricordare ai lettori del tuo giornale come sia necessario in questi frangenti delicati ed estremi individuare bene i responsabili giudicandoli per le loro intenzioni e per ciò che effettivamente rappresentano.
Assistiamo di questi tempi al drammatico coinvolgimento nella sporca guerra di esponenti socialdemocratici, liberalsocialisti, radicaldemocratici e perfino di comunisti.
Quale nome dare alla cieca acquiescenza che porta uomini e forze dal nobile passato ad assumere una così rovinosa responsabilità politica?
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Ho visto in queste settimane di protesta e di lotta campeggiare sovente tra la folla striscioni e manifesti accoppianti il nome della Nato, o di Clinton, o di D’Alema, al simbolo triste della croce uncinata di Hitler o a quello famigerato delle SS nazionalsocialiste.
Se posso comprendere lo stato d’animo, non posso condividere il giudizio contenuto in quei simboli di denuncia e condanna che lasciano pensare all’erronea campagna contro il ‘socialfascismo’ condotta dai comunisti in difesa dell’ Urss, e possono fuorviare il giudizio sui caratteri ben più inquietanti e inediti dell’attuale conflitto. La guerra odierna infatti non è come nella Europa di allora una guerra degli ‘stati autoritari’ contro le ‘democrazie liberali’. La guerra odierna è combattuta dalle ‘democrazie occidentali’ contro tutto ciò che non si adegua o non risponde a regole da esse riconosciute come principi di diritto. I nostri governanti bontà loro ritengono di essere nel giusto quando concorrono alla macelleria. E si sentono nel giusto tanto quanto quei soldati ‘yankee’ persuasi di agire secondo il volere di Dio quando uccidono donne e bambini (è noto il motto ‘God  is American’).
Non è dunque lo spirito ‘fascista’ che anima gli attacchi dei bombardieri Usa che tanto esaltano i commentatori di casa nostra, ispirano la ineffabile radicale Emma Bonino, il ghandiano Marco Pannella, il giustiziere Di Pietro, il buonista Prodi e il neo socialdemocratico Umberto Ranieri, tra gli altri zelatori della campagna antijugoslava.
Essi probabilmente si ritengono antifascisti ‘puri’, democratici consonanti con la politica e la cultura ‘liberal’ americana, e in qualche maniera pensano pure di rispondere a una missione di ‘civiltà’.
Questo abbozzo di psicologia politica diffusa tra le nuove élites del nostro paese è sicuramente approssimativo ma non è esagerato.
La cultura che sembra distinguere i dirigenti del ‘socialismo europeo’ rispetto al loro più recente passato consiste proprio nella totale adesione al modello di ‘civiltà democratica’ disegnato negli Usa, con i suoi connotati ‘liberal’ e la relativa aggressività imperiale che lo distingue.
E’ del tutto evidente che quando si identifica la ‘libertà’ nel modo di vita e nel sistema politico di un paese (nella fattispecie gli Usa)ci si sente in diritto conseguente di esportarla anche con la forza qualora ragioni di ‘ingerenza umanitaria’ ne reclamino l’urgenza.
Ricordiamoci con quale atteggiamento di simpatia venne accolta in certi ambienti la rozza ma eloquente mentalità di un film come ‘Air Force One’ dove un presidente ‘buonista’ faceva piazza pulita dei ‘cattivi’, dei ‘terroristi’, dei ‘comunisti incalliti’, et similia.
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Non sono dunque ‘socialfascisti’ i nostri liberalsocialisti, i nostri radicali, i nostri neosocialdemocratici che in Europa gareggiano con gli strateghi Nato a chi prende la mira più giusta contro il regime di Milosevic.
Non c’è in loro la tracotanza che dava ai governi di Hitler e Mussolini una immagine vanagloriosa di potenza europea,
Essi sono piuttosto inerti e inconsapevolmente succubi sul piano ideologico e politico di fronte a ragion imperiali che li sovrastano, e li usano e li spingono a lavorare contrariamente agli interessi del proprio paese.
All’ epoca della dura polemica con l’Urss, i cinesi di Mao coniarono a ragion veduta per certi comportamenti di complice sudditanza il termine di ‘social-imperialismo’. 
Ed io ritengo che fatte le dovute proporzioni sarebbe più opportuno chiamare ‘social-imperialisti’ tutti i pappagalli che si ostinano a fare le mosche cocchiere della attuale strategia Nato, persuasi di combattere una battaglia di principio in nome della Dea Libertà.
Augurandomi sempre un rinsavimento prossimo dei governi europei, nell’interesse primario dell’Italia e della pace, vorrei ancora una volta mandare un augurio al popolo jugoslavo, alla sua tenace resistenza contro gli aggressori, associandomi alla crescente richiesta di sospensione delle attività militari per l’avvio di vere trattative di pace e stabilità nei Balcani.
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iltrombadore · 1 year
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Luciano Ventrone, la pittura del vero e la passione civile
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Del mio caro amico e compagno Luciano Ventrone, incontrastato re della natura morta ”più vera del vero” , è in corso a Venezia ( Palazzo Pisani Revedin, fino al 16 Luglio)  una importante retrospettiva, a due anni dalla sua scomparsa, che mette in luce la straordinaria qualità di un artista battezzato da Federico Zeri senza mezzi termini come “il Caravaggio del XX secolo”. 
Ventrone possiede una tecnica prodigiosa. Realizza col pennello la quasi impossibile impresa di tradurre l’ immagine istantanea in una sintassi cromatica corrispondente al punto che la pittura diventa un perfetto duplicato della realtà. 
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Questa continua e sorprendente sintesi calligrafica, assai distante dal fotografismo iperrealista, è rimasta finora senza rivali ed ha reso famoso l’ artista per quella continua “scoperta ottica della realtà” (Zeri) che testimonia il valore  sempreverde della pittura figurativa. 
A questo risultato estetico Luciano Ventrone è giunto dopo un lungo sperimentare tecniche e poetiche d’avanguardia di cui è ricco il suo catalogo giovanile fin dalla metà degli anni ’60 quando chi scrive lo ricorda ancora studente di architettura che disegnava come un padreterno ed era attivo militante di sinistra nei dibattiti alla facoltà di Valle Giulia. 
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La mostra di Venezia non tocca questo aspetto perché si concentra sui risultati ultimi di trentacinque spettacolari dipinti di nature morte con fiori e frutta, un nudo di donna e una spiaggia col mare in burrasca che avvalora come non mai altro il titolo stesso della esposizione, curata da Luca Beatrice: “Ventrone. La natura è morta, la pittura è viva”. Stretto tra le urgenze della vita e le regole ferree del sistema dell’arte, Luciano Ventrone ha lasciato un’ opera da cui emerge la precisa “volontà d’arte” di aderire alla realtà delle cose viste, ma solo in rare occasioni il suo occhio ha avuto modo di rivolgersi a temi civili e di attualità come invece indicherebbe l’ inclinazione militante fin dai tempi della contestazione e delle lotte studentesche. 
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Ma dove battesse il cuore della sua cultura politica resta segnato dal ritratto che fece nella primavera del 1987 per la copertina di un numero speciale di “Rinascita” dedicato al 50esimo della morte di Antonio Gramsci. 
Glielo chiesi io e lui fu felice di collaborare. Decise di ritrarre un’ immagine fotografica di Gramsci emergente  da una catasta di libri suoi, di avversari e interlocutori: era un messaggio allusivo alla “riforma intellettuale e morale” coltivata nei Quaderni del carcere. Il quadro, così fedele alla calligrafia stilistica di Ventrone, è una preziosa testimonianza civile ed una eccellente opera d’arte che conservo ed ho il piacere di citare in questa circostanza, perché mi pare vada ad integrare validamente la figura e l’opera di uno dei più significativi artisti italiani della fine del ‘900.
Duccio Trombadori
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iltrombadore · 1 year
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Ennio Flaiano, lo specchio e l'enigma
ENNIO FLAIANO,
LO SPECCHIO E L' ENIGMA
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L’ attenzione posta dal libro di Minore e Pansa sulla più intima personalità di Ennio Flaiano richiama il rapporto complesso con Pescara, città dove è nato tanto Gabriele D’Annunzio, la cui retorica apre il ‘900 letterario italiano, quanto uno scrittore come lui, la cui anti-retorica giunge a chiusura di quello stesso secolo.
Ne emerge così l’ arguto profilo di uno “straniero in patria”, come indica il documentario di Corallo e Parisi, e rilancia domande sullo scrittore la cui fama non può essere ridotta alla “flaianite”, cioè al gusto del pettegolezzo mondano, termine opportunamente coniato dall’amico Giovanni Russo.
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Ripercorrere la vicenda umana dello “straniero in patria” ha qualcosa per me di molto familiare, per avere assistito fin dai primi anni ’50 al battibecco acceso e incessante che opponeva in fatto d’ arte e libertà della cultura un tipo come mio padre Antonello agli accenti ben più liberali di mio nonno Francesco, il pittore, amico stretto di Maccari e Bartoli, vignettisti emeriti del “Mondo” di Pannunzio, e frequentatore anche lui della fiaschetteria di Cesaretto, punto di riferimento di artisti, letterati, uomini di cinema nella Roma del secondo dopoguerra. Lì era di casa Flaiano, che all’epoca dava il meglio di sé con un giornalismo colto e bene informato, di un liberalismo senza partito, coraggioso e radicale, ostile a tutti i poteri contrastanti il principio dell’ intelligenza critica e dell’autonomia artistica.
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Quel “battibecco” tra padre e nonno, nella distanza di cultura e vita morale, vissuto tra le mura di famiglia stemperava la eco di sinceri e appassionati scontri nella Roma intellettuale e dei caffè letterari, che investivano i rapporti tra politica, ideologia e cultura, mediante schermaglie e ironiche punzecchiature in cui Flaiano era maestro (“Non ho letto Marx, ma sono amico di Trombadori”).
La polemica non faceva tuttavia velo alle amicizie, come quella tra Flaiano e mio padre Antonello che venne stringendosi via via per la comune intesa e dimestichezza con l’uomo e l’opera di Federico Fellini.
C’ era poi la comune passione per il cinema quale spettacolo dei tempi moderni e fonte di moderna pedagogia di massa, cui si dedicarono l’ intellettuale e l’organizzatore di cultura.
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Non deve sfuggire infatti il nesso tra la qualità del giornalista Flaiano e l’ istintiva, brillante, quasi non ragionata disposizione all’ efficace narrazione cinematografica.
Si dice, e Flaiano diceva di sé, che l’ intellettuale prestato alla brechtiana “fabbrica dei sogni” (il cinema), sarebbe stato una sorta di ripiego esistenziale ( per il noto motivo secondo cui “carmina non dant panem”).
Ma non deve tuttavia sfuggire che la vera maestria di Flaiano era tutta nella capacità di fissare metaforicamente in parole il senso delle cose viste.
Aveva uno spirito formidabile di osservazione, capacità di classificare e far emergere verità “sconosciute” da situazioni solo apparentemente “note”.
E’ il segreto del “titolo” di giornale efficace, dell’ inquadratura cinematografica sorprendente, della figuratività dell’ immagine poetica.
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Ennio era come uno “specchio”, rifrangente situazioni umane, sociali, eccetera, che leggeva come un riflesso del proprio male di vivere.
Ecco l’ enigma irrisolto e permanente, il tratto distintivo di una personalità che a stento si riconosceva nell’ albero frondoso costituito nel tempo dalla sua straordinaria prolificità espressiva.
Al contrario, si sa, che egli viveva nell’ intimo suo lo strazio di non avere mai attinto alla soddisfatta compiutezza dell’ opera (teatrale, cinematografica, e soprattutto letteraria).
L’ uomo coltivava piuttosto una immagine di sé che non accettava , per introspezione autocritica, il riconoscimento dei suoi meriti.
Per l’appunto Minore e Pansa ricordano, citando Maria Corti, il dilemma tra il mancato esito come regista diverso e trasgressivo (non riuscì mai a portare a termine un suo film) e il tempo perduto a sceneggiare film altrui, a scapito di una coerente attività di scrittore. È l’appunto fatto alla dispersività, al gusto del flaneur, del perdigiorno, che torna in ogni accurata riflessione sul diorama avventuroso dell’ uomo e della sua opera, polverizzata in lampi di intelligenza inventiva, suggerimenti e meditazioni effimere, che lasciano il lettore nel vago sentimento di un colpo di scena tutto ancora da venire, e sempre rinviato di puntata in puntata.
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Intellettuale “roso dal dubbio”, come un giorno disse Leonardo Sciascia di sé a Renato Gutttuso, per converso uomo “roso dalle certezze”, ecco Ennio Flaiano col cuore messo a nudo, coll’ animo dell’ estroverso che fa il controcanto a se stesso, giudicandosi a futura memoria come “scrittore minore nell’ Italia del benessere”.
La lingua maestra dell’ ironia concentra e allude qui ad una pluralità di significati.
Il linguaggio di Flaiano risulta leggibile e interpretabile a strati, in profondità, come una registrazione obbiettiva, una accusa indiretta al mondo delle telecomunicazioni e del benessere, una velata nostalgia di chi cavalca la tigre del progresso nel momento in cui coltiva un’ intensa nostalgia del passato.
In questa ambiguità esistenziale la personalità del liberale e del radicale Ennio Flaiano bordeggia quella del mistico Pier Paolo Pasolini in rivolta contro il mondo moderno.
Ma resta in conclusione da smentire proprio la sua più intima convinzione, e cioè che Flaiano non ha affatto consumato e dissipato il suo tempo: il frammentismo, la fugace e icastica sentenziosità, le moralità leggendarie, sono il condimento principe di un protagonista del nostro giornalismo e della sceneggiatura, due esemplari forze propulsive della civiltà letteraria nel XX secolo.
Grande comunicatore, controcorrente sempre, si potrebbe dire di Ennio Flaiano.
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Il cinema, luogo ideale per catturare il morale del pubblico, arma privilegiata dei nascenti regimi di massa (vedi Mussolini: “il cinema è l’arma più forte”) diventava occasione per descrivere i tipi umani in chiave umoristica, castigando per l’ occasione i costumi con il sorriso, per ripiegare sui classici latini.
C’era sicuramente nel Flaiano libertario e individualista, anche molto dell’ uomo attento alla cosa pubblica, del testimone civile, secondo la scuola intellettuale e politica da cui discendeva per li rami (v. il sottaciuto azionismo, la parola poetica di Eugenio Montale) e gli imponeva l’adozione metaforica del linguaggio corrente, venato da una corrente vivida di ironia, assai distante dai modi dei poeti laureati ( come se il suo dirimpettaio d’ origine, l’ immaginifico Gabriele D’Annunzio, fosse lì apposta per fare da bersaglio e al tempo stesso da giudice della sua irresolutezza espressiva).
Fu scrittore di un solo romanzo? D’accordo. Ma ancora oggi a mezzo secolo dalla sua scomparsa, bisogna riconoscere che dello zibaldone di scritti lasciati all’ improvvisazione ben poco risulta caduco, inutile, superfluo e sorpassato.
La pagina frammentata di Flaiano è sempre una ricca fonte di pensiero, traccia di variabili interpretative che ci dicono fino a quale punto l’ aforisma, l’ epigramma, la battuta (sale del giornalismo, e anche del cinema come arte) vadano ben al di là di uno sguardo superficiale, e la cosiddetta dispersività dell’autore suggerisca il profilo di un dramma spirituale che si staglia come esperienza vissuta da una intera generazione.
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Una generazione intellettuale, quella di Flaiano, come anche quella di mio padre Antonello, tormentata dai fragori e rumori di un formidabile passaggio d’epoca ( l’ epoca dei regimi e della cultura di massa :fascismo, comunismo, americanismo) che ha situato l’ intellettuale nella particolare condizione freischwebend ( libertà galleggiante nel vuoto) per aprire e rendersi permeabile a due opposte forme di isolamento e inquietudine, quella intima-individuale e quella estroversa-collettiva.
Laico e libertario, conservatore perché assai diffidente verso tutte le emergenti novità (“l’Italia di domani sarà fatta dalla televisione”) Ennio Flaiano visse la sua scelta disincantata di libertà individuale, cavalcando come “satiro solitario” le onde lunghe del costume contemporaneo e rifacendone il verso, non senza un distillato d’ interiore amarezza, che affiora in tutta la sua produzione scritta e filmata (proverbiale è la chiusa simbolica di Oceano Canada, con gli appunti di lavoro gettati in mare).
La modernità stilistica, il successo del comunicatore e dello scanzonato scettico riguardo ai miti e riti della civiltà di massa, confermano l’ omogeneità espressiva del moralista che potrebbe farlo apparire addirittura quale esempio di altezzosità aristocratica, mentre nulla era più lontano dal suo temperamento, fin troppo umano e civile.
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Non a caso, d’altra parte, sapeva anche ironizzare sulla condizione solitaria dell’ intellettuale prendendo di mira l’ esemplare più rarefatto e raffinato: ”A Elèmire Zolla, preferisco la folla”, motteggiava. C’è da giurare che lo spiritaccio dell’ inseparabile Mino Maccari, sorridente anti-eroe della caricatura, nel sentire l’uscita dell’amico fosse lì accanto a lui nell’ atto di stropicciarsi le mani. E forse è proprio questa ennesima birichinata, rivelatrice del suo scanzonato spirito critico, che compendia il vero miracolo che in vita gli riuscì di compiere: “di essere riuscito a non diventare in questo Paese-disse bene Giovanni Russo-neppure da morto, un notabile della cultura ufficiale”.
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iltrombadore · 1 year
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VILLA STROHL-FERN, "La Casa della vita": una mostra del 1998 in omaggio al valore sempreverde di pittura e scultura...
Nel maggio del 1998 dedicai alla memoria di Villa Strohl-fern una piccola e ben calibrata esposizione di amici artisti, tutti o quasi emergenti dalle selezioni della Quadriennale, con una impostazione stilistica nel solco della tradizione moderna italiana, per una scelta in favore della pittura figurativa. La mostra fu promossa e sostenuta da mia zia Donatella, quale titolare dello studio di Piazzale Flaminio, sede della Associazione Amici di Villa Strohl-fern. Riguardo oggi quel prezioso e memorabile omaggio, e il testo che ne ricavai, con una certa soddisfazione per non dovermi pentire della scelta compiuta: la qualità degli amici pittori ( e di uno scultore eccellente, qual è Giuseppe Bergomi) si è venuta consolidando nel tempo, tanto che la stima nei loro confronti è arricchita dal frondoso albero sempreverde che nutre la loro opera.  Elenco di seguito le opere degli artisti partecipanti alla mostra, che intitolai "Villa Strohl.fern. La Casa della Vita", non solo come riferimento allo studio abitazione di mio nonno Francesco, ma dedicato all' intero parco e al sogno che fu di Alfred Strohl: un modello ideale e al tempo stesso esperienza di reale"hortus conclusus" dove il binomio arte-vita segnava uno spazio incantato, lontano dai fragori e dalle tempeste di questo mondo.
1-Giovanni Arcangeli Villa Strohl-fern, 1997
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2-Ubaldo Bartolini Incontro a Villa Strohl-fern 1998
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3-Giuseppe Bergomi Busto di Marta 1992
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4-Aurelio Bulzatti La tela bianca 1998
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5-Valeria Cademartori Atelier a Villa Strohl fern 1998
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6-Paolo Fiorentino Fulmine non fulmini 1998
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7-Giovanni Frangi Souvenir 1998
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8-Paola Gandolfi La Villa 1998
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9-Paolo Giorgi Nell’aria dove fluttuano le foglie 1997
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10-Pierluigi Isola Il parco della memoria 1998
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11-Anna Keen L’ingresso nascosto 1998
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12-Luca Pignatelli Il volo di Alfred Strohl 1998
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13-Franco Polizzi Il pino nello studio 1998
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14-Tito Rossini La notte a Villa Strohl fern 1998
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15-Nicola Verlato Figura salvata 1998
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16-Wainer Vaccari Mistero a Villa Strohl fern 1998
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iltrombadore · 1 year
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Storia di Mario Fiorentini, valoroso partigiano combattente dei GAP romani...
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E’ morto Mario, l’ultimo sopravvissuto dei GAP romani. Aveva quasi 104 anni, che avrebbe compiuto il prossimo 7 Novembre. Se ne va un eroe (tre medaglie d’argento al valore militare),uno studioso di matematica e un protagonista discreto ma sempre attivo e presente nella vita della democrazia italiana in nome del suo spirito antifascista.
Mario era ebreo per parte di padre e rischiò la deportazione in Germania nello sciagurato 16 Ottobre del ’43, quando duemila ebrei vennero rastrellati dai tedeschi.
Fin da studente si era avvicinato ai gruppi antifscisti di Giustizia e Libertà, ma divenne ben presto comunista e fin dal 1943 operò in concomitanza della cellula di Via Margutta, assieme a Plinio De Martiis coltivando con lui la passione per la pittura e il teatro, e vi animò una rete cospirativa cui si unì anche Lucia Ottobrini, anch’essa eroina partigiana e compagna della sua vita.
Dopo il 25 Luglio 1943, passò subito all’organizzazione militare e fu presente in Porta San Paolo nel Settembre ’43 per opporre l’unica disperata difesa di Roma dall’ occupazione tedesca.
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Entrò nella rete clandestina dei Gap comandata da Carlo Salinari e Antonello Trombadori; con Lucia Ottobrini e altri, partecipò con coraggio e sprezzo del pericolo a ripetuti attacchi contro ufficiali tedeschi e militi fascisti.
Il 26 dicembre del 1943, Fiorentini, in bicicletta, dal lungotevere sovrastante via della Lungara, lanciò un pacco con due chili di tritolo in direzione del carcere di Regina Coeli occupato dai tedeschi.
Il 10 marzo 1944, Fiorentini con la audacia consueta lanciò alcune bombe contro un corteo di fascisti in via Tomacelli; e si deve a lui, che aveva la residenza clandestina nei pressi, l’osservazione del regolare passaggio di militi tedeschi dove il 23 marzo 1944 fu consumato l’attentato di Via Rasella.
Nelle settimane successive Fiorentini e la Ottobrini lasciarono Roma per dirigere le operazioni militari tra Tivoli e Castel Madama.
Dopo la liberazione di Roma, a partire dal luglio del 1944, egli fu posto al comando della missione "Dingo", dell'Office of Strategic Services (OSS) e proseguì la attività partigiana nel Nord Italia, in Emilia e Liguria.
Dopo la guerra, Mario Fiorentini tornò alla vita civile e alla professione di matematico, nella quale eccelleva, specializzandosi in problemi di algebra commutativa e geometria algebrica. Dal 1º novembre 1971 fu professore ordinario di geometria superiore all'Università di Ferrara.
Nel novembre del 2018, in occasione del suo centesimo compleanno, Mirko Bettozzi gli dedicò un libro-intervista, L'ultimo gappista, cui seguì una mia testimonianza in cui segnalavo la sorprendente figura del partigiano centenario che viveva la passione politica con lo spirito di un ventenne.
Gli volevo bene. Ogni volta che lo incontravo era come si ripresentasse, di fronte a me, quello slancio di giovanile energia inflessibile che guidò nella lotta antinazista il gruppo indimenticato dei protagonisti della Resistenza romana.
Riposa in pace, compagno Mario.
Medaglia d'argento al valor militare:
«Comandante di Gruppi di Azione Patriottica (G.A.P.), alla testa di pochi coraggiosi effettuava numerose azioni contro formazioni naziste e fasciste. Durante una manifestazione politica, mentre un corteo di fascisti repubblicani, preceduto da una compagnia di allievi ufficiali della G.N.R., sfilava lungo una delle principali arterie della Capitale, non esitava, insieme ad altri compagni, ad attaccare con lancio di bombe a mano la testa del corteo, abbattendo nove avversari. Esempio di coraggio, di freddezza e di decisione.» Roma, Via Tomacelli, 11 marzo 1943
Medaglia d'argento al valor militare:
«Comandante di Gruppi di Azione Patriottica (G.A.P.), alla testa di pochi compagni eseguiva con audacia e decisione colpi di mano contro formazioni tedesche e fasciste. Da solo, in pieno giorno, attaccava in bicicletta il corpo di guardia delle carceri in Regina Coeli dove erano 26 soldati della polizia tedesca, abbattendo con improvviso lancio di bombe otto nemici ed aprendosi poi, con l'arma in pugno, la via della ritirata. Esempio di coraggio, di prontezza e di decisione.»— Roma, Regina Coeli, 26 dicembre 1943
Medaglia d'argento al valor militare:
«Audace combattente della resistenza romana, alla liberazione della Capitale, benché in condizioni fisiche debilitate, non esitava ad offrirsi volontario per importanti incarichi nell'Italia ancora occupata, nell'assolvimento dei quali ben quattro missioni erano tragicamente fallite. Fattosi aviolanciare dietro le linee tedesche in Emilia portava a termine rischiosissime imprese contribuendo notevolmente, con la sua attività di informazione e di organizzazione alle spalle del nemico, al trionfo della libertà.»— Italia settentrionale, luglio 1944 - aprile 1945
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iltrombadore · 1 year
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In memoria di Cesare Brandi, l'arte prima di tutto...
Conobbi Cesare Brandi nel 1984, quando feci una inchiesta nel mondo della critica d'arte in Italia, intervistando lui, Giuliano Briganti, Giulio Carlo Argan e tanti altri. Di tutta quella inchiesta mi resta vivo e prezioso solo il ricordo della sua intelligente ed ironica presa di distanza dal pervicace modernismo e dall'acefalo postmodernismo. Il 20 Febbraio del 2006, in occasione del centenario, lo ricordai così sul 'Giornale':
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"...Correva il lontano 1984. Chiamato a dire la sua sulle correnti post-moderne che andavano predicando un «ritorno alla pittura», Cesare Brandi, ammiccante, rispondeva: «Lintenzione cè, però non basta: se vuoi tornare alla pittura prima devi sapere dove la sta di casa, la pittura». In quella battuta cera tutto luomo col suo pronto carattere di arguto toscano. Ma cera soprattutto lo stile di un intellettuale che aveva sempre diffidato delle «tendenze» (più o meno davanguardia) proprio in nome di una idea aristocratica dellarte come eccellenza individuale non riducibile alle mutevoli oscillazioni del gusto.
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«Larte è una cosa elitaria - tagliava corto Brandi - e se non la si vuole definire come tale allora non la si guardi neppure». Una simile visione del problema estetico non poteva incontrare, come infatti non incontrò, i favori della politica in genere e tanto più della cultura progressista sempre a caccia di comode ricette funzionali all«impegno», alla funzione «sociale» dellarte, eccetera. Del resto, coerente con questa vocazione «impolitica» di studioso liberale e umanista, Cesare Brandi (1906-1988) non si volle mai uomo di potere come invece fu lamico e sodale (ma sempre concorrente) Giulio Carlo Argan, tanto di lui più incline alla carriera dirigenziale tra «misteri dei ministeri», sovrintendenze alle Belle Arti e mondo delle cattedre universitarie, sia negli anni del fascismo che in quelli antifascisti della prima Repubblica. Anche Brandi naturalmente fu professore emerito nonché uomo di ispettorati e provveditorati. Ma lincarico gli servì soprattutto a soddisfare lamore per larte del passato tanto che la sua dottrina del restauro (fondò con Argan nel 1939 lIstituto Centrale del Restauro e lo diresse magistralmente fino al 1960) resta ancora oggi una pietra miliare per la tutela e la conservazione non «falsificante» del patrimonio culturale italiano e mondiale.
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Tuttaltro che freddo e calcolatore, Brandi era dunque soprattutto un esteta affascinato dalle «civiltà formali» che diventavano oggetto della sua attenzione di storico e critico. I libri monografici sui primitivi senesi e fiorentini, sul Canaletto, le magistrali osservazioni su Morandi, Burri, Manzù, Guttuso, Ceroli e Pascali, gli studi di architettura, i resoconti di viaggio (in Grecia, in Egitto, in Puglia, in Umbria, in Sicilia), le riflessioni sui rapporti tra «segno» e «immagine» e sulla figura «astante» (cioè presente, ma «non di questo mondo») nellautentica opera darte, sono esempio eloquente delle diverse passioni che animarono la sua vita di scrittore e di intellettuale.
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La penna sempre levigata, intelligente e puntuale, irrobustita da un originale e ben meditato pensiero estetico (egli si collocava a metà strada tra lidealismo di Croce e la fenomenologia esistenziale di Heidegger) non fece mai di lui un ideologo astruso e avulso dallo specifico manufatto darte che catturava di volta in volta la sua amorosa cura di analista e intenditore.
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Brandi aveva una maniera quasi «poetante» di ricostruire la radice tecnico-espressiva di questo o quel capolavoro, secondo un metodo che intendeva rispettare e fare emergere la particolare «via della forma» perseguita da ogni artista. E per venire al contemporaneo, nulla lo infastidiva più dei critici che «inventano tendenze» anziché «seguire, indirizzare gli artisti, indicare eventuali errori di gusto» mediante una «lettura particolarizzata» capace di fare emergere la tanto venerata «epifania della forma».
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Questa preziosa indicazione di metodo, nonché la tirata dorecchie agli esegeti del nascente e invasivo «sistema dellarte» («rispetto ai primi del secolo - diceva ancora nel 1984 - la situazione è rovesciata: oggi non sono gli artisti a suscitare le teorie, ma è il critico che fa nascere gli artisti») conferma ancora oggi tutto il suo pungente valore polemico. E nel momento in cui di Cesare Brandi ricorre il centenario della nascita sarebbe più che utile celebrare nella sua opera non solo uno dei maggiori «monumenti» della letteratura artistica italiana del 900, ma soprattutto una salutare lezione da non dimenticare per il bene della libertà di critica e di espressione nella civiltà della comunicazione contemporanea.
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6Vito Giannoccaro, Mario La Carrubba e altri 4
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iltrombadore · 1 year
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Ricordo di Foucault, un irregolare oltre la contestazione
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Conobbi Michel Foucault a Parigi nel 1978. Scrissi di lui su l'Unità. Dopo di che ci fu tra di noi un lungo e approfondito colloquio da cui venne fuori un libro ('Colloqui con Foucault', prima edizione ed. 10/17, nel 1982 e successivamente, nel 1998, editore Castelvecchi) che ancora oggi fa testo come sua autobiografia intellettuale. Di Foucault, in seguito, non mi sono più occupato. Una decina di anni fa (4. 08. 2006) commentai così sul 'Giornale' una antologia di saggi a lui dedicati:
"...Un lucido avversario della tradizione filosofica occidentale - col primato della «coscienza» e della «ragione»: da Socrate, per intenderci, fino a Kant ed Hegel - quale fu Michel Foucault (1926-1988) non poteva non incontrare e privilegiare nella sua accanita riflessione il tema misterioso e sempre attuale della «follìa», come alter ego di ogni sistema di pensiero e suo indicibile «al di là».
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A quasi ventanni dalla scomparsa prematura di questo singolare esponente del cosiddetto «strutturalismo francese» (altri esponenti furono Louis Althusser e Jacques Lacan) due studiosi italiani ripropongono ancora oggi con evidente simpatia gli argomenti e gli scritti che portarono il pensatore dopo il 68 ad affiancare con le sue tesi la convulsa contestazione delle istituzioni psichiatriche (ma anche cliniche, carcerarie, ed altro) e lo fecero applaudire come indiscusso guru ideologico della sinistra radicale (Michel Foucault, Follia e Psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, prefazione di Mauro Bertani e Pier Aldo Rovatti, Cortina, pagg. 280, euro 25,50).
Eppure Foucault non si riconobbe mai in pieno nella veste dellintellettuale impegnato «a sinistra», per quanto la sua posizione di pensiero lo facesse apparire come il mentore di un libertarismo senza confini tanto sul piano dei costumi (la morale sessuale, eccetera) che su quello degli ordinamenti (lo Stato, i sistemi di governo).
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La raccolta di testi e interviste rilasciate nellarco di un trentennio (dalle riflessioni sui limiti di Freud e sull«analitica esistenziale» di Binswanger alle ricognizioni sulle strutture del «sapere-potere» nel governo delle società moderne) ci restituiscono piuttosto limmagine di un irregolare della cultura che nellEuropa della Guerra fredda ebbe tra laltro il merito di mettere in questione proprio un luogo comune principe della ideologia «di sinistra» (riguardo alla concezione marxista e classista come «verità interna» della storia umana).
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La storica e irrisolta questione della malattia mentale (da sempre una vera e propria bestia nera per la scienza moderna nella sua pretesa di rispondere integralmente alla domanda di conoscenza) diventava però per Foucault il grimaldello critico onde rilanciare la nota idea irrazionalista (ripresa pari pari da Nietzsche) secondo cui non si dà nel mondo altra «verità» oltre gli effetti di potere che una forma di cultura (pensiero e linguaggio) storicamente realizza.
Di qui a considerare la istituzione psichiatrica (il manicomio) come metafora del funzionamento di un intero sistema sociale (e del «sapere-potere» che lo informa) il passo era brevissimo. Michel Foucault lo percorse fino in fondo, in una sorta di «contro-sociologia» della cultura occidentale (dai Greci e i Romani fino ai tempi nostri) considerata più o meno come la maschera dei rapporti effettuali di potere che distinguono gli uomini, i gruppi sociali, le differenze sessuali, i «folli» e i «normali», eccetera.
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Foucault si mosse così sulla strada irrazionalista già aperta dai principali «filosofi del sospetto» (Marx, Nietzsche e Freud) allo scopo di mettere in soffitta oltre alla metafisica di un Dio-creatore anche quella dellUomo-creatura e per ciò titolare della «coscienza» e del soggetto pensante.
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In questa forzatura radicale del pensiero che «pensa contro la coscienza» (sottraendosi al suo stesso fondamento: fine del principio di realtà) Foucault perveniva per ciò a considerare il malato di mente come «ribelle del reale» ed utile cartina di tornasole per la comprensione autentica del mondo storico e della «cultura». Della follia come problema clinico, cioè come male da curare, al nostro filosofo «contro - ragione» (epigono tanto di Nietzsche quanto di Heidegger e del libertinismo surrealista francese) importava di conseguenza poco o nulla.
Diversamente da come la pensano gli autori dellantologia dei suoi scritti, secondo cui il pensatore sarebbe invece entrato in relazione addirittura «compassionevole» e di «amicizia» col mondo dei folli. Ma pretendere di individuare le tracce di una simile pietas è patente fin troppo lusinghiera per il disperato positivismo antiumanista di chi come Foucault sosteneva di pensare «nel vuoto dellUomo scomparso» considerando questultimo nientaltro che un «prodotto del potere» piuttosto che il «soggetto» di valori universali, innati e più o meno trascendenti.
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2Lorenza Foschini e Raffaele G. Gorgoni
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iltrombadore · 1 year
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Ricordi nel cassetto: quando leggevo "L'infanzia di Lenin"
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Ognuno ha i suoi ricordi nel cassetto. Io ho questo, che conservo rilegato in biblioteca: è “L'infanzia di Lenin”, un libretto per fanciulli -più esattamente, aspiranti ‘pionieri’-che mi venne dato in regalo nel 1952 dal caro Giuseppe Mariano, amico fraterno di mio padre, comunista ed esperto slavista che in quel tempo di ferro (guerra fredda e maccartismo)lavorava a Praga, di cui oggi cade il 15° della scomparsa, e che voglio ricordare così assieme ai figli, Renato e Vladimir. “L'infanzia di Lenin’ venne pubblicato dalle Edizioni di Cultura Sociale nel 1951, e fu scritto dalla sorella di Lenin, Anna Ilicna Ulianova, che racconta la prima giovinezza del padre della Rivoluzione russa d'Ottobre, quando 'Volodia’ - il "piccolo Vladimir” - “era un gran discolo, un bricconcello, ma aveva la buona qualità di essere sincero”. La traduzione dal russo è di Diego Carpitella.
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Ricordo che lo sfogliai avidamente soffermandomi soprattutto sulle immagini di Lenin bambino, della sua dolce e austera madre, e dei dipinti illustrativi della sua impresa rivoluzionaria (dalla Costituzione dei Soviet allo Smolny, sempre accompagnato dalla figura fedelissima di Stalin) che tanto aveva coinvolto ed esaltato i mei genitori.C'erano poi da leggere i capitoli sulla abilità di Lenin nel gioco degli scacchi, delle sue birichinate, dello spirito indipendente, dello studente con 'tutti dieci’, sempre di aiuto, esempio e di sostegno ai compagni di scuola e agli amici…Insomma, da piccolino mi avvicinavo pedagogicamente al modello ideale dell'uomo che sarebbe divenuto un grande rivoluzionario il cui nome-conclude il libro- “è caro a milioni di operai e di lavoratori di tutto il mondo”…Fu anche grazie quell'opuscolo che mi incamminai nell'alba della vita e cominciai a delineare una morale, perciò ne custodisco geloso la memoria.
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iltrombadore · 1 year
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Il libro non finito di Casa De Martiis
             
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Il prototipo è di sicuro la Roma degli anni Venti: con la società degli “amici al caffè” dipinti da Amerigo Bartoli mentre siedono uno accanto all’altro nella terza saletta di Aragno e sono poeti, letterati, pittori in concione antiaccademica e post-futurista che montano la guardia di un sentimento estetico distaccato dai tempi vigenti e pure emblema puntuale  di un’epoca difficile con i suoi propositi di gusto e la sua distinta vocazione artistica.
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Plinio De Martiis, con sua moglie Ninnì Pirandello, erano invece giovani ribelli nella Roma amara dei primi anni Quaranta, appena liberata dall’esercito americano e ancora grondante il sangue versato nella guerra clandestina sui selciati della “città aperta”.
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E furono tanto eredi quanto contestatori di quell’ ambiente intellettuale di liberal-conservatori che li aveva  preceduti e che dopo le passioni d’avanguardia si era tenuto manzonianamente ben lontano dai tumulti e dalle più ferventi lotte civili (vedi i “patròn”  del quadro di Bartoli: Cardarelli, Soffici, Baldini, Barilli, Cecchi, Longhi con tutto il mondo di “Valori Plastici”) mentre emergevano invece le avanguardie di una giovane temperie artistica tutta drammaticamente coinvolta sul piano morale ed esistenziale ( tra questi Pirandelllo, Mafai, Leoncillo, Ziveri, Scialoja, Guttuso, Turcato, Consagra, Scarpitta, Dorazio, Perilli e tutti gli altri).
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Continuità di una esperienza e pure soprattutto volontà di rottura col passato per il bisogno di una espressione liricamente misurata con  il sentimento del tempo e l’alta tensione della vitalità contemporanea: essere assolutamente moderni senza perdere, e per non perdere, la più intima aura dell’arte. 
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Ed ecco allora la storia non dimezzata di Plinio De Martiis , da leggere in filigrana sui passaggi del lungo dopoguerra ideologico nell’Italia del secondo ‘900. Dopo l’ansioso “bisogno di realtà”, con l’America democratica di Hemingway e Dos Passos, la Francia di René Clair, Matisse e Picasso, la Spagna di Garcia Lorca e dei fotogrammi di Robert Capa, si consumava la luce di una cultura agganciata a ideali libertari e fantasmi rivoluzionari di giustizia.
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Anche in Italia, come nel resto d’Europa, tutto ciò si impastò più del dovuto “a sinistra” col miraggio del comunismo russo, fin tanto che questo durò, non senza  cocenti disillusioni e la ripresa di un cammino in salita per una generazione rimasta orfana dei miti collettivi d’avanguardia nell’enfasi di una “solitudine dell’arte” misurata sul contrasto tra esistenza individuale e  nuovi riti e miti della civiltà di massa. 
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Di questa tumultuosa esperienza umana e culturale, vissuta a pieno ritmo, Plinio è stato tanto un osservatore attento  quanto un esplicito “comédien et martyr”. Uomo di teatro, militante politico, fotografo, gallerista, sensibilissimo cacciatore di talenti, editore dilettante per troppa passione: tipi come lui non si incontrano ad ogni angolo di strada. 
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La sua esistenza in presa diretta con la comunità artistica di Roma ne ha fatto  naturalmente un protagonista di eventi culturali d’eccezione. Primo fra tutti, il singolare e preveggente incontro di sensibilità  estetiche che mise in sintonia valori acuti dell’arte di New York ( prima Johns, Kline e Rauschenberg, poi Twombly) con i fermenti espressivi più originali maturati a Roma (Burri, Rotella, Scialoja, Novelli, Consagra, Scarpitta, per fare solo qualche nome prima della effervescente fioritura degli anni Sessanta: con Kounellis, Schifano, Ceroli, Festa, e tutti gli altri). 
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Sempre presente, in posizione laterale e guardinga come per essere più acuto e istantaneo nelle intuizioni e nelle scelte, Plinio ha composto più vite in una (forse sette, come  i gatti che tanto prediligeva) in un sintetico diorama di sequenze scenografiche che rispecchia esperienze individuali tanto distanti tra loro e pure attraversate da una analoga maniera di vedere e di stare al mondo, vale a dire di uno stile. Ci ritrovi l’ ironia, l’ eleganza, la discrezione come contrappunto di una teatralità spettacolare che non tralascia mai di raccontare visivamente il dramma della pianta umana  secondo una indagine topografica appuntata senza psicologismi sulla cronaca e i documenti della esperienza vissuta.
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Del “clima felice degli anni Sessanta” per esempio, ma non solo, Plinio De Martiis è stato l’amalgama, il testimone e l’antefatto. E solo a lui poteva spettare il compito di aggiornare alla misura della Roma anni Cinquanta e Sessanta la poetica immagine degli “amici al caffè” (la sua “università” l’aveva fatta sui tavolini di Canova e Rosati) con l’originale effervescenza di pensieri e di opere che hanno fatto il vanto dell’arte italiana nel mezzo secolo appena trascorso.
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Per intima vocazione, Plinio compose e concepì il ritratto del mondo artistico circostante in unità parallela al ritmo ondeggiante della sua vita: come l’ occhio di un osservatore che raffigura mentre partecipa a ciò che intende rappresentare.
Vita di gallerista o vita di artista fanno tutt’uno col suo personaggio di regista e primattore, ché tale si volle  come gli fu possibile sfuggendo alle classificazioni professionali. Di queste navigate professioni aveva quasi pudore o timore: e ragionava, guardando al futuro, con l’occhio fisso alle testimonianze di una esperienza perduta in gioventù col fracasso avventuroso di Casa Bragaglia (che tale fu sempre il suo modello: tanto che a modo suo realizzò una “Casa De Martiis”) secondo le regole di una bohème animata tra la gente assieme ai compagni di strada che di volta in volta erano amici, artisti, poeti, e attori.
Romano di adozione, Plinio De Martiis diceva di somigliare al carattere della città, un po’ sprecona, distratta e incapace di capitalizzare. Aveva ragione. Mezzo secolo di esibizioni, di trovate, di scoperte hanno attraversato una esistenza in fuga (“non mi voglio autorappresentare”, diceva) proprio mentre gli cresceva attorno l’albero frondoso della sua attività. Via del Babuino, Via Ripetta, Piazza del Popolo, Via Principessa Clotilde, Piazza Mignanelli, Via Pompeo Magno, Passeggiata di Ripetta, Via di Sant’Anna, sono alcune delle stazioni dove è passata traccia de “La Tartaruga” (il nome della galleria lo pescò nel 1954 a sorte e il caso volle fosse prescelto proprio quello escogitato da Maccari) e dove si è esibita o è maturata tanta parte dell’arte che abbiamo  ammirato nello scorcio del secolo appena passato. 
Propositivo e però sfuggente, De Martiis aveva tanto in uggia i movimenti e le tendenze per quante gliene toccò di tenere a battesimo iniziale (solo qualche data per non dimenticare: 1959, ”Giovane pittura di Roma”, con Rotella, Bignardi, Perilli, Novelli, Accardi, ed altri; 1960, Jannis Kounellis; 1961, Mario Schifano; 1962, ”La materia a Roma”, con Festa, Angeli, Scarpitta, Burri, tra gli altri; 1964, Mario Ceroli, e “Otto giovani pittori romani”, con Fioroni, Bignardi, Angeli, Festa, Kounellis, Mambor, Tacchi, Lombardo; 1965, Pino Pascali; 1968, ”Teatro delle mostre”; 1979, ”Mostra di sei pittori”, con Piruca, Abate, Di Stasio, Marrone, Panarello e Pizzi Cannella; poi, negli anni Ottanta,vennero Gandolfi, Bulzatti, Frongia e Ligas) non senza ricusarne la messa in piega come moneta del gusto o della ideologia corrente.
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In ciò consisteva il suo temperamento laico, di  incorreggibile bastian contrario, sempre più o meno in fuga dai rituali delle case madri o dalle convenzioni di parte e di partito: le sue erano in genere “fughe in prigione”, come quelle di Malaparte, ma per quel carattere andava comunque bene così.
Gallerista per amore (“faccio le cose solo per passione, se no non le faccio”) Plinio aveva una nozione toccante e sintetica del fatto artistico ed un particolare gusto dell’immagine come  intersezione dell’istante effimero con la forma pura. Sempre pieno di dubbi concepiva la sua attività come implicazione globale: vita, arte e una buona dose di follìa chiamate a darsi la mano fino al 1968, quando con lo spettacolo provocatorio del “teatro delle mostre” c’è il distacco annunciato dalle poetiche del comportamento e dell’ambiente e si accentua il fastidio  per il linguaggio più che prevedibile dell’arte povera o concettuale.
Ancora una volta sul finire degli anni Settanta, De Martiis avrebbe ripreso a coltivare una idea della pittura come “piccolo vizio solitario”  al di là di ogni tentativo neo-movimentista come poi invece accadde quando si diffuse il gusto postmoderno dello anacronismo o della più chiassosa e vincente transavanguardia. E pure in questo caso entrò in gioco la passione al di là del mestiere e del puro affare: scoperte e massacri, lavoro e vita con gli artisti andavano assieme come il piacere disinteressato di pubblicare una rivista inattuale (dai caratteri longanesiani con  singolare impasto di passato e presente nella collezione di testi e immagini) a titolo di autobiografia non scritta, ma incisa nel dramma della esistenza.
Così per Plinio anche la fotografia era un appunto e un documento, ma soprattutto un momento decisivo della sua espressione, un segnale di quel complesso modo di “stare al mondo” accanto e dentro le cose d’arte in un bagno di esperienza totale. L’intenzione dell’uomo puntava all’archivio e all’autoritratto in veste di flâneur e tesseva una tela densa di tracce, appunti, piccole grafìe, cartelli, disegni e volti fotografati con la timida impressione di una incantata pagina  di diario.
Entriamo così nell’intimo di una raccolta che narra una storia e compone il profilo di una personalità impegnata a definire il senso della vita dentro il  mosaico della esperienza estetica. Piccoli disegni con dedica di Afro; una litografia di Daumier, qualche breve caricatura di Maccari, Mezio e Bartoli; una misteriosa incisione del sempre amato Giorgio De Chirico; un giovane ritratto da Comisso al modo di De Pisis; i mercatini e i paesaggi romani di Ziveri, un dimesso e imbandito tavolo da cucina inciso da Mafai; figurette femminili cesellate da Orfeo Tamburi ed evocate da fausto Pirandello; monocromìe estenuate di Schifano; crittografie di Twombly; segnali con aquile e frecce di Franco Angeli; nervosi tratti a matita di Eliseo Mattiacci; fantasie lirico-metafisiche e fotocollages di Tano Festa; ”tipi” di Renato Mambor; superfici anonime di Castellani; linee segnaletiche di Kounellis; scambi tra parola e forma di Paolini; schermi grafici di Lombardo; oggetti rivisitati di Tacchi; effusioni fotocromatiche di Giosetta Fioroni; tracce di Marca-Relli e Rotella; sbavature di Scarpitta; sagome di Burri; impronte di Scialoja; geometrie di Perilli; reticoli di Dorazio; schemi frontali di Consagra; un acquarello astratto di Corpora; emblemi di Marotta; giochi formali e scherzi di Gaul e Victor Brauner; figure della memoria sottratte alla “Traumdeutung” da Piruca…..
Nello scrigno di un simile archivio privato più che il gusto del collezionista o l’intelligenza del gallerista si nota la passione estetica come possibile identità di arte e vita. Gli oggetti si sottraggono alla misura della cronistoria e appaiono appena sorretti dalla esile trama di una autobiografia in controluce.
Ripensando al mondo dell’arte che la biografia di Plinio De Martiis riassume ci si ricorda non a caso di quanto osservò su di sé Mario Schifano conversando un giorno con Goffredo Parise (“l’intelligenza è capire la vita nella sua immediatezza”) e subito si comprendono i termini di una avvincente affinità elettiva. Come Schifano anche  Plinio era una natura elegante. E la vera eleganza, diceva Schifano, “…si espone raramente al contatto con la multiforme, pregnante e violenta realtà”. 
L’eleganza è per essenza  timida, e, nel caso di Plinio, non di rado anche scontrosa. Si potrebbe allora facilmente scambiare per una predilezione al nomadismo da “coscienza errante” la intermittente serie di interruzioni o riprese di mestieri  (fotografo, editore, amateur marchand)  attraversati da De Martiis, fino all’ultimo chiodo fisso della sua vita: la redazione di un libro-documento inteso quale specchio della sua identità e al tempo stesso tela di Penelope che mai, fin che lui vivo, avrebbe potuto o dovuto conoscere ragionevole conclusione. Ma  era anche questa incompiutezza una forma di eleganza estrema, o di represso narcisismo: enunciare le intenzioni e poi sottrarsene quel tanto sufficiente ad evitare la definitiva “messa in posa” o autocelebrazione.
Uomo pubblico per eccellenza che ha segnato le oscillazioni del gusto Plinio riusciva così a tenere sempre aperta la via del dubbio come guscio della sua  autentica avventura estetica. Imparare allora a conoscerlo (attraversando il mondo privato delle amicizie, degli entusiasmi e delle situazioni d’arte collimanti con la sua vita) non è altro che un modo di scrivere una pagina in più di quel suo libro non finito sul quale di sicuro -per eleganza, timidezza o altro- egli non avrebbe mai gradito di dover mettere a un certo punto la parola fine. 
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iltrombadore · 1 year
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Il "mistero chiaro" di Maurizio Ligas
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Il 23 Aprile del 1986 nella galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis in Passeggiata di Ripetta, il mio caro amico pittore Maurizio Ligas esponeva alcuni dipinti che resteranno nella esperienza della cultura artistica italiana come una lirica ariosa, con visioni incantate di oggetti e situazioni senza tempo e luogo, come residui di volontà smarrite, propositi dimenticati, armonie confinate alla sfera inattingibile del sogno.
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Era il suo 'mistero chiaro', di cui parlò tanto bene Marisa Volpi, scaturito "da una specie di registrazione autobiografica dei sogni dell'artista, è come se egli, dipingendo, rivelasse un doppio diaframma, con la vita e la natura".
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Le pagine di Marisa, accoppiate alle immagini di Maurizio, sono commovente testimonianza del valore di una pittura che resiste al tempo e se ne avvantaggia come di un solido testimone e garante.
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Ligas fece poche altre mostre del suo estro espressivo così bene avviato in quegli anni, quando pareva che una linfa di autentica vena d'arte si andasse precisando in Italia con il 'ritorno alla pittura'.
Non fu così per l'avventato ricorso a freddi citazionismi ed esercitazioni neoaccademiche. Ma fu così per artisti come Maurizio Ligas, che a tal punto rimase deluso, quando scontò la sordità del gusto prevalente, da interrompere radicalmente la carriera di pittore, limitandosi di tanto in tanto ad arredare qualche pregevole e lussuosa residenza agreste per tirare a campare.
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Quando scomparve Plinio nel 2004, fu il fedele amico e allievo Maurizio che piangendo ne depose le ceneri in campagna, a San Quirico d'Orcia ... meno di un anno dopo se ne andò anche lui, per l' improvvisa sbandata della sua automobile lungo una via sterrata delle colline senesi. Si dice che avesse bevuto di troppo, com'era solito fare...Aveva cinquantuno anni, quando morì...
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iltrombadore · 1 year
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Breve storia di Mimise, la compagna inseparabile nella vita di Guttuso
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Mimise (Maria Luisa Dotti) se ne andò improvvisamente e inaspettatamente tre mesi prima di Renato Guttuso, nell' autunno del 1986.Lui era gravemente ammalato da quasi un anno, si era chiuso al mondo, aveva vicino a sé solo i più cari amici, e lei, Mimise, che lo aveva accompagnato durante l'arco di tutta una vita. Era più grande di lui di qualche anno. lo aveva conosciuto a metà degli anni Trenta, quando a Roma era un giovane immigrato senza il becco di un quattrino, un 'bohemien' siciliano, combattivo 'antiborghese' e pittore insofferente, intellettuale da pensieri sull' arte e sulla sua influenza morale nel vivo dei contrasti umani, politici, sociali.
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Mimise era invece una nobildonna milanese nel pieno della età: molto bella, signora di gran portamento, esperta del mondo, che ebbe un incidente d'auto e si procurò deformazioni al volto che ne alterarono la fisionomia.
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Era un tipo altero ma non altezzoso, Mimise. Sempre allegra, con tono alto della voce squillante, capace di sottigliezze ma anche di franca e aperta polemica con chi non le poteva garbare.
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Guttuso le si legò subito appassionatamente. La dipinse in quasi tutti i suoi quadri rilevando figure umane femminili che portavano allusivamente il suo corpo maestoso e imponente.
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Di ritratti ne fece di meno. Ma molto significativi e indagatori. Erano due tipi, lei e Renato, che si appaiavano anche alla distanza. Lui viveva di giorno nel suo studio, con frequentazioni promiscue di ogni tipo. Lei nelle sue stanze, per conto suo, ma sempre vigile e pronta a consigliare il suo uomo, ad evitare 'dirottamenti facili' in quella personalità di cui conosceva più di ogni altro le debolezze, le fragilità, le incertezze e gli sviamenti passionali...
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Mimise fu amante, moglie e madre di renato guttuso. Era la 'regina' della sua vita. E quando, sapendolo incurabilmente ammalato, lei decise di uscire di scena prima del suo uomo, fu come ispirata da un Dio.
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Alla sua scomparsa, Renato abbandonò ogni difesa che fino allora aveva opposto alla malattia e alla morte. Chiuse ancora di più i battenti rimasti appena aperti sul mondo, e in poche settimane si spense, suggellando il senso più intimo di una unione con la donna della sua vita.
Tutto il resto, politica, donne amori e passioni, che avevano attraversato e ancora lambivano la sua vigorosa esistenza, rimasero da parte, vennero messi da parte. Facevano la letteratura e la cronaca a suggello di una unione più che duratura e che adesso si proiettava oltre il palcoscenico.
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