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#romanzi russi del XIX secolo
gregor-samsung · 1 month
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“ «Com'è strano, — pensava Veročka — già le sapevo dentro di me, già le presentivo, tutte le cose che ha detto sulle donne, sui poveri, sull'amore. Dove le ho imparate? Forse nei libri che ho letto? No, non là. In quei libri ci sono tanti dubbi, tante riserve, e ogni cosa sembra insolita, incredibile. Come si trattasse di sogni belli, ma irrealizzabili! A me sembra invece che questi sogni siano semplici, semplicissimi, comuni, che senza di essi non si possa vivere, che si dovranno avverare senz'altro. Eppure, secondo me, questi libri sono ottimi. George Sand; per esempio, è così buona e morigerata, eppure, tutto in lei è sogno! E i nostri? No, nei nostri non si parla di questo. In Dickens, invece, sì, ma tutto è come senza speranza; certo, lui se l'augura, perché è buono, però sa bene che non si avvererà. Come fanno costoro a non sapere che in mancanza di questo non si può vivere e che bisogna darsi da fare, e si lavorerà senz'altro, perché non ci siano più uomini poveri e infelici? Ma che, forse non lo dicono? Dire lo dicono, ma provano solo pietà, mentre pensano che tutto resterà com'è ora: sì, qualcosa migliorerà, ma per il resto. No, essi non dicono le cose che io penso. Se le dicessero, saprei che le persone buone e intelligenti ragionano come me. E invece sinora ho creduto di essere l'unica a pensarla così, perché sono una stupida. Nessuno pensa come me, nessuno si aspetta che le cose cambino realmente. E ora lui assicura che la sua fidanzata ha detto a tutti coloro che l'amano che le cose andranno proprio secondo le mie idee. E ha parlato così chiaramente, dice lui, che tutti già lavorano perché tutto avvenga al più presto. Che donna intelligente! Ma chi è? Lo saprò di certo. E come sarà bello, quando non ci saranno più poveri, quando nessuno sarà costretto a ricorrere agli altri per bisogno, quando tutti saranno allegri, buoni, felici...». Assorta in queste riflessioni, Veročka si addormentò, e dormì profondamente, senza sognare.  “
Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, Che fare?, traduzione e cura di Ignazio Ambrogio, Edizioni Studio Tesi (collana Collezione Biblioteca, n° 85), Pordenone, 1990; p. 78.
 NOTA: Il testo originale (Что делать?), che Černyševskij scrisse in prigionia nella fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo, cominciò ad essere pubblicato a puntate nel 1863 sul mensile letterario russo Sovremennik sino a quando le autorità sequestrarono l’intera opera, ritenuta sovversiva. Il libro circolò quindi clandestinamente fino alla pubblicazione integrale nel 1905, all’inizio della breve stagione riformista dello zar Nicola II.
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frabooks · 1 year
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Povera gente, considerazioni generali
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Direttamente da Wikipedia:
Povera gente è il primo romanzo di Fëdor Dostoevskij, che riuscì a scrivere in nove mesi. Fu pubblicato per la prima volta nel 1846, e fu subito acclamato dal critico letterario Vissarion Grigor'evič Belinskij, che definì l'autore come il nuovo Gogol'. Infatti questo romanzo è in parte ispirato al racconto di Gogol' Il cappotto, di cui il protagonista maschile è un copista. 
Proprio come il racconto di Gogol', Povera gente dà un resoconto delle vite dei russi di umili condizioni nella metà del XIX secolo. Dostoevskij, dopo aver ascoltato i critici della prima edizione, modificò tre volte l'opera per finalizzarla: nel 1847, nel 1860 e nel 1865.
Attenzione quindi a tre aspetti: 
1) è il primo romanzo mai scritto da Dostoevskij; fino allora aveva solo tradotto testi dal francese.
2) lo modifica più volte; dopo questo primo successo, infatti, anche a causa delle altissime aspettative che si erano create, è andato incontro a tantissime delusioni. I romanzi subito successivi, almeno fino al 1849, anno della condanna, non furono ben accolti dalla critica e Dostoevskij fu considerato un sopravvalutato.
3) è, appunto, l’unico romanzo pre condanna davvero significativo. Neanche Le notti bianche, a mio parere (e secondo anche molti critici letterari), è a livello del Dostoevskij post condanna.
È un romanzetto lungo circa 100 pagine molto godibile e leggibile, consigliatissimo per chiunque voglia approcciare Dostoevskij. Non ha la profondità dei romanzoni post condanna, né dal punto di vista filosofico nè di quello strutturale, però c’è Dostoevskij e si sente.
Ispirato al cappotto. Il protagonista ha similitudini per minutezza, carattere mite e timido e chiuso, limitato.
Povertà totale ed estrema, che Dostoevskij racconta bene. Le scene sono spettacolari: si parla di corridoi, scale, stambugi. Sofferenza, limitatezza, disperazione di mezzi.
Il giudizio altrui, l’essere accettato dalla società: makav non è preoccupato di non poter bere neanche il tè da quanto è povero, è preoccupato dalle chiacchiere della gente.
Makav è un personaggio di Dostoevskij: enorme, vastissimo. È un trascrittore, piccolo funzionario senza responsabilità né ambizioni. Non ha studiato, legge pochissimo, non ha relazioni sociali se non con Varen’ka.
In ufficio si fa piccolissimo, invisibile. Viene preso in giro sia in ufficio sia nel condominio e non capisce mai davvero quanto venga preso in giro. È succube, sciocco. Lo scrittore che a un certo punto lo schernisce , prima lo fa stare male; poi le cose cambiano e lo scrittore, da classica persona normale ipocrita, dice che non lo prendeva in giro veramente e che pensa bene di lui, e lui ci crede. 
Un’altro fatto che lo rende normale: cambia idea più volte su Fedora, l’amica e padrona di casa di Varenk’ka; è una banderuola.
Varen’ka è un’altra disperata. Orfana, limitata nel fisico soprattutto, non sa fare altro che cucire, è sempre malata. Non sa cosa fare, come vivere. Si fa dare, inconsapevolmente, soldi dal poverissimo Makav, poi quando scopre i sacrifici di lui si strugge. Alla fine, come unica soluzione c’è sposarsi con un uomo ricco che non conosce, lei non conosce altri modi.
Romanzo brevissimo, scorrevolissimo che racconta la disperazione e i rapporti strazianti tra esseri umani vastissimi. Un piccolo concentrato del Dostoevskij che arriverà 10-15 anni buoni più tardi.
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levysoft · 4 years
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Nel 1924 l’Enciclopedia britannica pubblicò una storia in due volumi della parte del XX secolo trascorsa fino a quel momento. Più di 80 autori – professori e politici, militari e scienziati - contribuirono scrivendo i vari capitoli dell’opera, intitolata These Eventful Years: The Twentieth Century in the Making as Told by Many of Its Makers. In tutte le sue 1300 pagine, però, l’opera non citava neppure una volta la catastrofica ...
Nel 1924 l’Enciclopedia britannica pubblicò una storia in due volumi della parte del XX secolo trascorsa fino a quel momento. Più di 80 autori – professori e politici, militari e scienziati - contribuirono scrivendo i vari capitoli dell’opera, intitolata These Eventful Years: The Twentieth Century in the Making as Told by Many of Its Makers.
In tutte le sue 1300 pagine, però, l’opera non citava neppure una volta la catastrofica pandemia influenzale che aveva ucciso tra 50 e 100 milioni di persone in tutto il mondo appena cinque anni prima. E molti dei testi di storia dei successivi decenni si limitano ad accennare di passata alla pandemia del 1918-19, quando pure lo fanno, come nota al discorso sulla Prima guerra mondiale.
Rispetto ad altri grandi eventi del XX secolo, la pandemia è rimasta stranamente sbiadita nella sfera pubblica fino a tempi molto recenti. Monumenti e festività nazionali commemorano le vittime delle due guerre mondiali. Musei molto frequentati e film di grande successo raccontano il naufragio del Titanic e le missioni lunari del progetto Apollo. Ma non si può dire lo stesso dell’influenza del 1918 (“la Spagnola", come fu chiamata a causa di convinzioni sbagliate sulla sua origine). Certo, la pandemia non è stata dimenticata del tutto: molti sanno ancor oggi che è avvenuta, o persino che qualche lontano parente ne rimase vittima. Ma l'evento occupa un posto sproporzionatamente ridotto nella narrazione con cui la nostra società ricorda a se stessa il proprio passato.
Che una pandemia tanto devastante possa diventare così latente nella nostra memoria collettiva ha sconcertato Guy Beiner, storico dell’Università del Negev “Ben Gurion”, in Israele, spingendolo a dedicare decenni di studio alla sua eredità. "Siamo vittime di un'illusione: crediamo che se un avvenimento è storicamente significativo – se colpisce davvero tante persone, se cambia il destino di interi paesi del mondo, se fa morire molta gente – allora è inevitabile che ne resti il ricordo", dice. "Ma non è affatto così che vanno le cose. E il caso della Spagnola dovrebbe appunto metterci in guardia."
Beiner ha cominciato a collezionare libri sulla pandemia del 1918 vent’anni fa. Per un bel po' ne ha visto uscire pochi, e a rilento. Ma adesso che il mondo fa i conti con COVID-19, fatica a stare al passo con il flusso delle nuove uscite, sia di narrativa che d’altro genere. "In ufficio ho tre pile [di romanzi] che mi aspettano, pile enormi", puntualizza.
Rimasta fin qui un argomento di nicchia anche per gli storici, la pandemia del 1918 è stata messa a confronto con quella attuale per i tassi di mortalità, i dati sull’efficacia di mascherine e sul distanziamento sociale, e per il possibile impatto economico. Nel solo mese di marzo del 2020, la pagina di Wikipedia in lingua inglese dedicata alla Spagnola è stata vista più di 8,2 milioni di volte, polverizzando il precedente record di 144.000 volte stabilito nel 2018, centenario della pandemia.
La "dimenticanza" mondiale e l’attuale riscoperta dell’influenza del 1918 aprono una finestra sullo studio scientifico della memoria collettiva. E offrono indicazioni di grande interesse su come le generazioni future potranno forse guardare all’attuale epidemia di coronavirus.
Che cos’è la memoria collettiva? Avviato agli inizi del XX secolo dal pionieristico lavoro del sociologo Maurice Halbwachs, negli ultimi anni lo studio della memoria collettiva ha riscosso grande interesse in tutti i settori delle scienze sociali. Henry Roediger III, psicologo alla Washington University di St. Louis, definisce la memoria collettiva come "il modo in cui ricordiamo noi stessi come parte di un gruppo […] costitutivo della nostra identità". Gruppi come le nazioni, i partiti politici, le comunità religiose e le tifoserie sportive, spiega, inseriscono gli avvenimenti del proprio passato collettivo in una narrazione che rafforza il senso di sé condiviso dai singoli membri del gruppo.
Per studiare la memoria collettiva dei gruppi rispetto a famosi avvenimenti storici, i ricercatori adottano spesso metodi di sollecitazione dei ricordi con domande aperte. Per esempio, Roediger, insieme al suo collega James Wertsch, anch’egli alla Washington University di St. Louis, ha chiesto a soggetti statunitensi e russi di indicare i dieci eventi più importanti della Seconda guerra mondiale.
Gli statunitensi hanno citato soprattutto l’attacco a Pearl Harbor, le bombe atomiche sul Giappone e l’Olocausto. La maggior parte dei russi ha messo invece in primo piano la battaglia di Stalingrado, la battaglia di Kursk e l’assedio di Leningrado. L’unico evento che appariva in tutte e due le liste era lo sbarco in Normandia, che negli Stati Uniti era il “D-day" e in Russia "l’apertura del secondo fronte". Gli avvenimenti ricordati con maggior forza dalle persone di ciascuno dei due paesi, dicono i ricercatori, riflettono la cornice narrativa, lo schema, entro cui quel paese ricorda il passato.
Uno studio analogo potrebbe indicare quali elementi specifici della pandemia del 1918 siano presenti alle persone. Ma "a quanto ne so, non l’ha fatto nessuno", dice Wertsch. "Se qualcuno facesse un’indagine si ritroverebbe a mani vuote." Anche mettendola a confronto con COVID-19, sottolinea, ben pochi sono in grado di citare qualche dettaglio sulla pandemia del secolo scorso.
L'importanza di una storia chiara Wertsch osserva che la memoria collettiva sembra dipendere in larga misura da narrazioni con un inizio, una parte centrale e una fine ben chiari. "Se c’è uno strumento cognitivo più ubiquitario, più naturale […] di tutti gli altri, è la narrazione", osserva. "Non tutte le culture umane hanno sistemi di numerazione aritmetica, e non parliamo del calcolo differenziale. Ma in tutte le culture umane si raccontano storie."
Ai paesi coinvolti nella Prima guerra mondiale il conflitto propone un chiaro arco narrativo, con tanto di buoni e cattivi, vittorie e sconfitte. Da questo punto di vista, un nemico invisibile come l’influenza del 1918 si prestava pochissimo a entrare in un racconto. Non è chiaro da dove sia venuta, ha ucciso persone per il resto in buona salute in più ondate successive, e se n’è andata di soppiatto, senza che nessuno l’avesse capita. Gli scienziati dell’epoca non sapevano neppure che l’influenza è causata da un virus e non da un batterio. "I medici provavano vergogna", dice Beiner. "Fu un’enorme sconfitta per la medicina moderna." Senza uno schema narrativo in cui inquadrarla, la pandemia di fatto svanì dal discorso pubblico poco dopo la sua fine.
A differenza dell’influenza del 1918, COVID-19 non ha una grande guerra con cui competere nella memoria collettiva. E nel secolo trascorso da allora la scienza ha progredito in modo impressionante nella comprensione dei virus (anche se su COVID-19 restano molti misteri). Per certi aspetti, però, non è cambiato molto rispetto alla pandemia che colpì i nostri predecessori.
"Anche se i nostri esperimenti di lockdown, già solo perché su larga scala e molto rigidi, non hanno veri e propri precedenti, stiamo ragionando sulla stessa falsariga" su cui si erano orientati i nostri antenati più di cent’anni fa, nota Laura Spinney, autrice di 1918. L'influenza spagnola: la pandemia che cambiò il mondo [Venezia, Marsilio, 2018]. "Fino a che non c’è un vaccino, il nostro principale mezzo di protezione è il distanziamento sociale, che era anche il principale mezzo con cui potevano proteggersi allora." Anche le attuali controversie sulle mascherine hanno un precedente in quei tempi: nel 1919, per esempio, 2000 persone parteciparono a un raduno della “Lega contro le mascherine” di San Francisco.
Le ricerche sul modo in cui la polarizzazione degli schieramenti politici influenza la formazione dei ricordi collettivi sono scarse. Roediger e Wertsch sospettano che un evento che provoca forti divisioni rafforzi la rilevanza del relativo ricordo nei singoli. Ma Wertsch dubita dell’importanza che potrà avere questo effetto nel dar luogo a una coesiva memoria collettiva della pandemia in corso: "Il fatto è che il virus non è il personaggio ideale per una narrazione ideale".
Anche la corsa a sviluppare e distribuire un vaccino non ha grandi probabilità di dar luogo a una narrazione forte, secondo Wertsch. "Si può pensare che possa emergere una figura eroica di scienziato, come quella di Louis Pasteur nel XIX secolo", dice. "Ma vale la pena di notare che nella nostra memoria è rimasto appunto Pasteur e non una qualche specifica […] epidemia." Comunque, con o senza una buona storia, COVID-19 sarà documentato assai meglio dell’epidemia di cent’anni fa. È possibile che un’esauriente copertura da parte dei media rafforzi la memoria collettiva?
I media e la memoria visiva Mentre infuriava l’influenza del 1918, giornali e riviste in realtà ne parlarono ampiamente. Meg Spratt, docente di comunicazione alla University of Washington, nota che nel modo in cui fu trattata la pandemia dalla stampa statunitense figurò in modo preponderante un linguaggio "bio-militaresco". In molti articoli la situazione fu inquadrata come una battaglia tra gli esseri umani (e soprattutto i funzionari governativi) e la malattia.
Ma la stampa dell'epoca pubblicò "molto poco sulle effettive esperienze delle vittime e dei sopravvissuti", rileva Spratt. Gli articoli davano invece grande rilievo agli esperti e ai rappresentanti dell’autorità: quasi sempre bianchi e maschi. Spratt ha trovato anche alcune indicazioni di come la Prima guerra mondiale avesse messo in ombra la malattia. "Nell’autunno del 1918, quando le morti per influenza [negli Stati Uniti] superarono quelle dovute alla guerra, il ‘New York Times’ relegò la notizia in un breve articolo di una pagina interna”, ha scritto Spratt in un suo lavoro del 2001 sull’argomento.
Spratt trova un parallelo tra il modo in cui fu trattata l’influenza del 1918 e quello in cui oggi si parla di COVID-19. "Si dà di nuovo grande risalto agli esperti di sanità pubblica che cercano di tirar fuori qualche tipo di norma o raccomandazione per proteggere la gente", dice. "Ma oggi è tutto amplificato. Penso che derivi anche dalla diversa tecnologia dei media."
Poiché Internet e i social media hanno messo in grado i cittadini comuni di documentare pubblicamente la propria vita durante la pandemia, prosegue Spratt, "ci sarà molto più materiale su ciò che la gente ha effettivamente vissuto". In questo modo, dai racconti di prima mano degli operatori sanitari ai rapporti sulle disparità razziali e socioeconomiche dell’impatto di COVID-19, il complesso dei media del 2020 sta dando un’immagine più completa della pandemia attuale.
Anche le fotografie potrebbero contribuire a costruire una memoria collettiva di COVID-19. Le ricerche degli psicologi mostrano che negli esseri umani la memoria visiva è molto più forte del ricordo delle parole o delle idee astratte. E dunque la maggior diffusione delle immagini può costituire la spina dorsale di una memoria collettiva, dice Roediger.
La storia è piena di immagini ormai iconiche: le truppe statunitensi che innalzano la bandiera a Iwo Jima, il collasso delle Torri gemelle l’11 settembre, Colin Kaepernick inginocchiato sul campo di gioco durante l’esecuzione dell’inno nazionale. Ma "le fotografie si fermano per lo più alla porta della camera del malato, o dell’ospedale", osserva Spinney. "È uno spazio in cui tendiamo a non entrare."
Poche immagini mostrano i drammatici sintomi – la faccia blu, il sangue che cola dalle orecchie – di cui soffrirono molti di coloro che contrassero l’influenza del 1918. Allo stesso modo, sono poche le immagini forti che potrebbero rafforzare la memoria collettiva delle notizie odierne, che pure parlano di ricoverati in soprannumero negli ospedali, carenze di dispositivi di protezione personale ed elevate perdite di vite umane nelle case di riposo.
Anche se non emergeranno immagini memorabili, però, le persone ricorderanno di sicuro l’effetto di COVID-19 su di sé e sulle proprie famiglie. È accaduto anche per l’influenza del 1918: nel 1974 lo storico Richard Collier ha pubblicato un libro che raccoglie i ricordi personali di 1700 persone di tutte le parti del mondo. Ma, come hanno scoperto gli storici, la memoria collettiva conosce alti e bassi, che dipendono dal contesto sociale del tempo.
I cicli del ricordo e dell’oblio Non è la prima volta che una nuova pandemia innesca un riesame di quella del 1918. Il XX secolo ha conosciuto altre due pandemie influenzali, nel 1957 e nel 1968. In entrambi i casi, "improvvisamente si ripresenta il ricordo della grande epidemia", dice Beiner. "La gente inizia a cercare precedenti, e a cercare una cura risolutiva."
Anche durante la grande paura per l’influenza aviaria e quella per l’influenza suina del 2009, le ricerche su Google dedicate alla "influenza spagnola" ebbero dei picchi in tutto il mondo (anche se neppure paragonabili, in entrambi i casi, a quello dello scorso marzo). E in tutto questo tempo una crescente massa di ricerche storiche ha dato via via corpo alla storia dell’influenza del 1918, ponendo le basi per una significativa ripresa del suo ricordo nella sfera pubblica.
Beiner vede nella crisi attuale un punto di svolta per il ricordo della pandemia del 1918 che resterà nella società. Nella sua collezione di libri che ne parlano, dice "nessuno è mai diventato un grande successo, il romanzo che tutti stanno leggendo. Credo che adesso qualcosa potrebbe cambiare." Beiner prevede che COVID-19 ispirerà un best seller o un grande film centrato sull’epidemia del 1918, un tipo di caso culturale potrebbe dare un fulcro al discorso pubblico su questo avvenimento, rinforzando l’attuale ondata di crescita del ricordo nella società.
Per COVID-19, Beiner si aspetta un andamento analogo, "con successivi alti e bassi del ricordo", nei decenni venturi: "Sarà una storia complicata. E ci sarà sempre una dialettica, con dinamiche di dimenticanza e recupero del ricordo che lavorano in contemporanea, con differenze tra ciò che accade nella sfera pubblica e ciò che resta relegato in quella privata".
Una memoria collettiva più forte dell’influenza del 1918 potrebbe anche contribuire a creare lo schema narrativo necessario a mantenere alto il profilo pubblico di COVID-19 dopo la fine dell’attuale pandemia. Se si faranno monumenti, musei e commemorazioni, anch’essi potrebbero dar luogo a una cornice sociale per continuare a parlare sulla crisi in corso. In effetti, la New York Historical Society sta già raccogliendo materiale legato a COVID-19 per una futura mostra. "Io penso che stavolta l’impatto sarà molto più forte perché ci siamo resi conto che non ci ricordavamo, a livello pubblico, dell’influenza spagnola del 1918", dice José Sobral, antropologo sociale dell’Università di Lisbona.
Wertsch ne è meno sicuro: "Nel giro di qualche anno potremmo dimenticarcene." Sospetta che il modo in cui finirà la pandemia – e se a questa ne seguiranno altre – sarà determinante nel consentire di costruire una narrazione su COVID-19 come parte di una memoria collettiva. "Solo quando sappiamo come va a finire - conclude Wertsch - comprendiamo davvero l’inizio e la parte centrale."
https://outline.com/M5tduD
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pangeanews · 6 years
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“Passai una notte indimenticabile con Borges, un vero dissacratore”: dialogo infinito con Sylvia Iparraguirre
Bisogna osare azioni controcorrente, contro l’ordine imperante. Una delle regole della comunicazione è che intervistato un tizio si passa al prossimo, senza soluzione di affetto né di coinvolgimento. D’altronde, dopo che uno ha detto quello che ha da dire, basta. Non funziona così in letteratura, perché lo scrittore, quando è grande, è un mondo e le interviste, di solito, non sono ‘promozionali’ né ‘elettorali’, ma sostanziali. Da tempo dialogo con Sylvia Iparraguirre (qui e qui), che è tra i grandi scrittori latinoamericani di oggi, per fortuna tradotta in Italia (in catalogo Einaudi il suo capolavoro, La terra del fuoco): un dialogo ‘infinito’. Sylvia non è soltanto una grande scrittrice, è una donna che ha attraversato il periodo più luminoso e più buio della storia argentina. Ha visto la dittatura militare ed è stata allieva di Jorge Luis Borges, ha scritto quando scrivere, negli anni Settanta, era di per sé un gesto ribelle e ha conosciuto Cortázar (“gli ho voluto bene immediatamente”), ha sguardi grevi di anni, colmi di futuro. La sua generosità, tanto limpida e disarmata, non smette di sorprendermi in questo tempo in cui anche gli insulsi si credono divi.
Qual è stato il suo rapporto con gli scrittori argentini, ad esempio con Borges e Cortázar?
Il mio debito con la tradizione letteraria argentina riempirebbe una biblioteca. C’è una linea che inizia nel XIX secolo – il passato di tutti noi –, che costituisce il DNA di tutti gli scrittori argentini. Nell’epoca contemporanea: l’avanguardia degli anni Venti, quando cominciano a scrivere i grandi maestri come Borges, Roberto Arlt e Leopoldo Marechal. Poi, negli anni Quaranta, quando pubblicano Ernesto Sábato, Adolfo Bioy Casares, Silvina Ocampo e Cortázar. Quella è la costellazione più luminosa di grandi scrittori argentini. La loro eredità viene ripresa dalla generazione degli anni Sessanta, che la trasforma e la rinnova (Tizón, Castillo, Piglia, Fogwill, Heker, Di Benedetto, Briante). Di quella tradizione, Arlt e Borges sono stati, per motivi diversi, i miei maestri. E Cortázar, con i suoi racconti. Ciò che mi colpì veramente, da adolescente, delle opere di Borges e Cortázar, come anche di Sábato, fu l’avere portato alla ribalta un linguaggio: la lingua letteraria degli argentini. Fu una scoperta cruciale. Un colloquialismo legato alla quotidianità che riusciva a trattare questioni che non avevano niente a che fare con il quotidiano. E un umorismo tipicamente argentino. è difficile da spiegare a un europeo. In Argentina abbiamo due canoni: lo spagnolo di Spagna e il nostro, il rioplatense. Le traduzioni che leggevamo da bambini o da adolescenti provenivano principalmente dalla Spagna: con tú e vosotros. Da qui la fascinazione nel leggere in tali autori la mia propria lingua, la “parlata” argentina. Successivamente, nel 1968, un autore come Manuel Puig fece di quei registri di linguaggio, di quegli stili colloquiali, materia dei suoi romanzi, veramente unici, come Il tradimento di Rita Hayworth (La traición de Rita Hayworth) e Una frase, un rigo appena (Boquitas pintadas). Molto interessante, nella storia della letteratura latinoamericana, il suo rapporto conflittuale con la Real Academia Española. è esilarante uno degli articoli che Borges dedica proprio al tema della lingua degli argentini: I timori del dottor Américo Castro (Las alarmas del doctor Américo Castro; in Italia è leggibile nel libro Altre inquisizioni, ndr). Ma qui ci sarebbe da scrivere un altro articolo.
A parte la letteratura argentina e tutti i suoi meandri, nella mia genealogia letteraria hanno svolto un ruolo significativo la letteratura nordamericana (Faulkner, Hemingway, Carson McCullers, Flannery O’Connor, Salinger, Capote, Thomas Wolfe) e quella inglese, per non dire irlandese: Woolf, Joyce, le sorelle Brontë, Katherine Mansfield, Dylan Thomas, William Trevor, per citarne alcuni. La letteratura giapponese è molto presente tra di noi e nelle mie letture, come Mishima, Kenzaburo Oé, Akutagawa. Di base, ho una venerazione anche per i russi, da Pushkin a Chejov. Veniamo ora all’altra parte della tua domanda.
Sylvia Iparraguirre insieme a Jorge Luis Borge
Borges è stato il mio professore di letteratura inglese alla Universidad de Buenos Aires. Avevo letto Fervore di Buenos Aires (Fervor de Buenos Aires) a scuola; il tono delicato, intimo, colloquiale di tutti i versi di Borges fece sì che, a quindici anni, mi avvicinassi a lui e alla sua opera con assoluta naturalezza. Dopo l’università, incontrai molte volte Borges, in occasione di conferenze, incontri, nella sua casa di via Maipú. Nel 1983 condividemmo una notte indimenticabile io, Borges e Abelardo. Da scrittrice, l’esempio di Borges è stato fondamentale: la sua volontà stilistica era, come disse tante volte, muoversi verso la semplicità. Il suo vivere per la letteratura era un modus operandi; il suo dilettarsi nell’uso delle parole, nelle espressioni idiomatiche, nell’umorismo anacronistico di certe frasi, e la sua perspicacia semantica sono stati esempi di devozione per l’arte di scrivere; la constatazione che la letteratura era il suo tema imprescindibile – a tal punto che qualunque interlocutore, per assurda che fosse la domanda, si ritrovava immediatamente immerso nell’universo di Borges – e la sua reiterata affermazione di sentirsi, prima che scrittore, orgoglioso lettore hanno rafforzato incessantemente la mia ammirazione per la sua opera. Come lettore, Borges era un maestro, con la sua arbitrarietà genuina e dissacrante. Si aggiungano la sua modestia autentica, esemplare, che conosco per esperienza diretta, una umiltà quasi sconcertante e il suo essere di una onestà totale quando l’argomento era di tipo letterario. Possedeva una ironia e un sarcasmo letali. Penso che Borges, come Almotásim, irradiasse, se non santità, letteratura, e che noi scrittori argentini abbiamo desiderato tutti, in un modo o nell’altro, avvicinarci a quel magisterio, a quel fulgore.
Sempre in quegli anni, quando avevo tra quindici e sedici anni, lessi per la prima volta Cortázar, Il viaggio premio (Los premios). Successivamente lessi Il gioco del mondo (Rayuela), una rivoluzione per il lettore argentino, ma è stata la lettura di Il viaggio premio (Los premios) quella che mi ha segnato maggiormente. E i suoi racconti fantastici. Cortázar ha impostato il racconto fantastico (una tradizione argentina) in termini inediti: una crepa in pieno giorno. Ciò che è insolito, terrificante, in mezzo a quanto di più innocuo e quotidiano: il rovescio della tela. Cortázar era una persona incantevole, estremamente gentile, che parlava con voce sommessa, in una curiosa relazione inversa con la sua statura di quasi due metri. Era avvolto da una certa aura da indifeso, cosa che, al di là dell’ammirazione che lui suscitava, faceva sì che uno gli volesse bene immediatamente. Io gli ho voluto bene immediatamente. In seguito, nel periodo della dittatura, El Ornitorrinco alimentò una polemica con Cortázar riguardo all’esilio, ma questo non modificò né il nostro affetto né la nostra ammirazione per lui come scrittore.
A mia memoria, dagli anni Settanta in Argentina nessun altro scrittore è passato dalla gloria all’ingiuria più velocemente di Cortázar: da parte della destra, per il suo coinvolgimento etico ed emotivo con Cuba e Nicaragua; da parte della sinistra, per la sua lontananza dall’Argentina e la frivolezza di Libro de Manuel. Dovette anche barcamenarsi in un fraintendimento: quello di una certa avanguardia superficiale degli anni Sessanta che, sedotta dai suoi giochi di parole e sfrontatezze tipografiche, li ripeteva ad nauseam e che furono per lui una sorta di semente del diavolo. Comunque, se questo accadde fu perché l’opera di Cortázar, forse come quella di nessun altro scrittore argentino prima o dopo, generò un lettore che, a sua volta, generò un tavolo di discussione in cui si mescolarono politica e letteratura e in cui vennero giudicate a caldo le sue opere e il suo coinvolgimento politico. Placate quelle acque turbolente, che devo assolutamente menzionare quando lo ricordo, Cortázar continua a essere ciò che è, uno scrittore immenso, un maestro per gli scrittori e un trasformatore della loro eredità letteraria argentina, dai cui maestri si distinse.
Sylvia Iparraguirre parla con Lawrence Ferlinghetti, Chicago, 2001
La sua ricerca letteraria ha avuto luogo in solitudine?
Il lavoro dello scrittore è solitario per natura. Ho avuto la fortuna di condividere la vita con un altro scrittore, cosa che ha messo la letteratura al centro delle nostre conversazioni e discussioni di ogni sorta: su stili, preferenze, autori e opere. Leggevamo vicendevolmente i nostri testi, le bozze, come ho già detto, con amore ma senza indulgenza.
Che ruolo ha lo scrittore, oggi, nel contesto della società argentina? Viene trattato con indifferenza, con rispetto, ha un ruolo “pubblico”?
Nessun ruolo, o comunque un ruolo molto limitato, sempre più limitato. Il suo posto è stato preso dai personaggi televisivi, dalle modelle o dagli sportivi. Basta guardare alla velocità con cui si riproduce la realtà nei cosiddetti ‘media’ per capire che lo scrittore non solo non è una notizia, ma che non ha un posto in essa. Un buon libro, come un grande libro, sembrano cadere in questo contesto come una goccia nel deserto. Il posto dello scrittore oggi è quello che gli assegnano i supplementi letterari, le riviste e le tavole rotonde. Lo scrittore non ha un ruolo pubblico, come lo ha avuto, e di grande peso, nella generazione del Sessanta, in cui rappresentava (alcuni scrittori, per lo meno) una riserva etica. Ora ha cessato di interessare come personaggio, come qualcuno che ha qualcosa da dire. La presenza dello scrittore perdura in modo laterale, in modo meno evidente, tramite le interviste e gli articoli di giornale. Ci sono eccellenti programmi televisivi dedicati ai libri che invitano gli scrittori. Sono spazi dove lo scrittore o la scrittrice possono dire ciò che pensano del mondo e ragionare su certe questioni di estetica letteraria che non precipitano nella propria opera. Tuttavia, penso che sia salutare, oggi, per lo scrittore, questa condizione appartata. Nelle case, nei bar, nelle riunioni tra amici scrittori la letteratura e la poesia proseguono il loro cammino.
(traduzione italiana di Marianna Marchi, revisione di Mercedes Ariza; servizio e interventi di Davide Brullo)
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gregor-samsung · 2 years
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“ Veročka ebbe un sogno. Sognò di essere rinchiusa in un sotterraneo umido e buio. D'improvviso la porta si spalancò, e Veročka uscì all'aperto, cominciò a correre e a saltare, pensando: «Come non sono morta nel sotterraneo? Forse, non avevo mai visto i campi. Se li avessi visti, sarei morta di certo in quel sotterraneo!». E continuò a correre e a saltare. Sognò, poi, di essere diventata paralitica e di pensare: «Come mai? La paralisi colpisce i vecchi, non i giovani». «Anche i giovani, spesso anche i giovani, — mormorò una voce sconosciuta, — ma presto guarirai; anzi, guarda, ti tocco il braccio, sei già guarita, alzati!». Ma chi sta parlando? Oh, come tutto è leggero! Ecco, il male è passato. E Veročka si alza, cammina, corre di nuovo per i campi, salta e di nuovo pensa: «Ma come ho potuto sopportare la paralisi? Forse, sono nata paralitica, e non ho mai saputo come si camminasse e corresse; se l'avessi saputo, di certo non avrei resistito!». E continua a correre, a saltare. Ma ecco venire per il campo una ragazza — com'è strano! — che si trasforma continuamente nel viso e nei gesti: ora è inglese, ora francese, o tedesca, o polacca, poi diventa russa e poi, di nuovo, inglese, o tedesca, o russa; ma come mai conserva sempre lo stesso volto? Un'inglese è diversa da una francese, e una tedesca da una russa, e lei muta volto, ma rimane sempre uguale... com'è strano! E l'espressione del volto cambia continuamente: eccola ora mite, ora adirata, ora malinconica, ora gioconda, ma sempre molto buona. Perfino quando s'adira è sempre buona. E molto bella! E diventa sempre più bella a mano a mano che si trasforma. Si avvicina a Veročka. «Chi sei?». «Prima lui mi chiamava: Vera Pavlovna, ora mi chiama: amica mia». «Ah, sei tu quella Veročka che mi ama?». «Sì, l'amo molto, ma lei chi è?». «Sono la fidanzata del tuo fidanzato». «Quale fidanzato?». «Non lo so. Io non conosco i miei fidanzati. Essi mi conoscono, ma io non posso, perché sono troppi. Scegline uno tra loro, quello che preferisci, purché sia uno di loro». «Ho scelto...». «Non importa il nome, tanto non li conosco; soltanto scegli tra loro. Io voglio che le mie sorelle e i miei fidanzati si scelgano solo tra loro. Eri in un sotterraneo? Eri paralitica?». «Sì». «Ma ora sei libera?». «Sì». «Bene, sono stata io a liberarti, a guarirti. Ricordati che ancora molte sorelle sono prigioniere, paralitiche. Guariscile, liberale! Lo farai?». «Sì, lo farò. Ma lei come si chiama? Ho tanto desiderio di saperlo». «Ho molti nomi diversi e dico a ognuno come preferisco essere chiamata. Tu chiamami amore per gli uomini. Questo è il mio vero nome. Pochi mi chiamano così, e tu sei tra loro». Veročka si avvia verso la città. Ed ecco un sotterraneo, in cui sono rinchiuse molte fanciulle. Veročka tocca il chiavistello, e il ferro cede subito. «Uscite!», e le ragazze escono. Ecco una stanza, in cui giacciono molte ragazze paralitiche: «Alzatevi!» ed esse si alzano, cominciano a camminare, a correre per i campi e a saltare. Che gioia! Veročka è molto più felice con loro che da sola! Che allegria! “
Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, Che fare?, traduzione e cura di Ignazio Ambrogio, Edizioni Studio Tesi (collana Collezione Biblioteca, n° 85), Pordenone, 1990; pp. 106-108.
NOTA: Il testo originale (Что делать?), che Černyševskij scrisse in prigionia nella fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo, cominciò ad essere pubblicato a puntate nel 1863 sul mensile letterario russo Sovremennik sino a quando le autorità sequestrarono l’intera opera, ritenuta sovversiva. Il libro circolò quindi clandestinamente fino alla pubblicazione integrale nel 1905, all’inizio della breve stagione riformista dello zar Nicola II.
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gregor-samsung · 4 years
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“ Riusciva a fare moltissime cose, perché anche nel distribuire il suo tempo, come nel suo rapporto con le cose materiali, si era imposto di imbrigliare ogni capriccio. Neppure un quarto d'ora al mese dedicava al divertimento o al riposo: «Le mie occupazioni sono molto varie, e il cambiamento è riposo». Nel circolo di amici, i cui centri di attrazione erano Kirsanov e Lopuchov, non andava più spesso di quanto fosse necessario per rimanere in stretti rapporti con esso: «È necessario: i fatti di tutti i giorni provano l'utilità di avere un solido legame con un circolo di persone: bisogna aver sempre sotto mano varie fonti d'informazione». Tranne che alle riunioni generali del circolo, non andava mai da nessuno, se non per affari, né si tratteneva cinque minuti di più dello stretto necessario; e anche a casa sua non tollerava deroghe a questa regola; senza troppi complimenti diceva all'ospite: «Dunque, del suo affare abbiamo già parlato; ora mi permetta di occuparmi di altre cose, perché devo far tesoro del mio tempo». Nei primi mesi della sua rigenerazione, Rachmetov trascorreva quasi tutto il suo tempo leggendo, ma la cosa non durò più di un semestre: quando si avvide di aver acquisito un sistema organico di idee, i cui princìpi erano, secondo lui, giusti, disse: «Adesso la lettura diventa un affare secondario, da questo lato sono pronto alla vita». Cominciò così a dedicare ai libri solo il tempo libero, che in realtà era poco. Ma, ciò nonostante, ampliò le proprie cognizioni con straordinaria rapidità: a ventidue anni era già un uomo dalla cultura profonda e vasta, soltanto perché si era imposta la regola: niente lusso e niente capricci, ma soltanto il necessario. Che cos'era il necessario? Lui diceva: «Su ogni argomento le opere fondamentali sono poche, tutte le altre non fanno che ripetere, dilungare e guastare ciò che con assai maggiore pienezza ed evidenza è racchiuso in questo e poche opere. Esse soltanto sono da leggere, ogni altra lettura è una perdita di tempo. Prendiamo la letteratura russa. Io dico: leggerò prima di tutto Gogol. Nelle migliaia di altri racconti vedo subito, sin dalle prime righe o dalle prime pagine, che non vi potrò trovare altro che una degenerazione di Gogol; perché non dovrei smettere di leggerli? Così accade nelle scienze, anzi in esse il confine è più netto. Se ho letto Adam Smith, Malthus, Ricardo e Mill, conosco l'alfa e l'omega in questo campo e non ho bisogno di leggere neppure uno delle centinaia di economisti politici, per quanto famosi essi siano; dalle prime righe o dalle prime pagine mi accorgo che non troverò in essi neppure una loro idea originale, ma soltanto prestiti e deformazioni. Per parte mia, leggo soltanto le cose originali». Pertanto in nessun modo si sarebbe potuto costringerlo a leggere Macaulay; dopo averlo sfogliato per un quarto d'ora, Rachmetov avrebbe concluso: «Conosco già tutti gli elementi di cui è composto questo polpettone». Lesse con diletto La fiera della vanità di Thackeray, ma chiuse Pendennis a pagina venti: «È una pura ripetizione della Fiera della vanità, non c'è nulla di più, e perció non c'è bisogno di leggerlo. Ogni libro che leggo mi esime dalla necessità di leggerne cento altri», diceva Rachmetov. “
Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, Che fare?, traduzione e cura di Ignazio Ambrogio, Edizioni Studio Tesi (collana Collezione Biblioteca, n° 85), Pordenone, 1990; pp. 276-77.
Nota: Il testo originale (Что делать?), che Černyševskij scrisse in prigionia, cominciò ad essere pubblicato a puntate nel 1863 sul mensile letterario russo Sovremennik sino a quando le autorità sequestrarono l’intera opera, ritenuta sovversiva. Il libro circolò clandestinamente fino alla pubblicazione integrale nel 1905, all’inizio della breve stagione riformista dello zar Nicola II.
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pangeanews · 6 years
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Quando Montanelli diede a Burgess del “mercenario”. Il grande scrittore inglese compie (nell’oblio quasi totale) 100 anni
In un Paese culturalmente di nani è ovvio che si dimentichino i giganti. Il gigante, in questo caso, è Anthony Burgess (lo dice anche la Cassandra dei gonzi, Wikipedia: “è considerato uno dei più grandi autori inglesi del Novecento”), scrittore metamorfico, polimorfico, nato 100 anni, nel 1917, insieme alla Rivoluzione di febbraio, e oggi bestemmiato nell’oblio. La sua bibliografia sterminata – una trentina i romanzi – è ridotta in Italia pressoché ad Arancia meccanica, dimenticando altri libri, forse più belli, Il seme inquieto, Abba Abba, Un cadavere a Deptford e soprattutto Gli strumenti delle tenebre, un sontuoso capolavoro dell’eccesso narrativo. Burgess, in Italia, dove vanno di moda i romanzi-sottiletta, non va più di moda, basta guardare su un portale qualsiasi (ibs.it, ad esempio): libri disponibili, Arancia meccanica, la Trilogia malese (stampa Einaudi) e un saggio su Hemingway (minimum fax). Nuove pubblicazioni per il centenario, zero. Della vicenda ho scritto, con le pantofole del critico, un po’ di tempo fa su il Giornale ed è proprio il Giornale a recare, vivaddio, il dono bibliografico più inatteso per l’anniversario. Per la collana editoriale “Firme fuori dal coro”, il quotidiano milanese manda in edicola – allegato al giornale – A lettere maiuscole, che è una raccolta dei ‘pezzi’ più belli scritti da Burgess per il Giornale. Già. Burgess, che aveva un certo amore per il Belpaese – oltre ad aver impalmato la traduttrice italiana Liliana Macellari, ha collaborato con Franco Zeffirelli per il suo Gesù di Nazareth e ha vinto, nel 1983, la prima edizione del Premio Malaparte – fu arruolato quarant’anni fa da quella volpe di Montanelli. “Il risultato furono una serie di pezzi, scritti fra il 1978 e il 1981, per le pagine della gloriosa Terza del Giornale. Burgess, che era autore prolifico e ‘plurimologo’, firmò – tra tanti altri – articoli su Edgar Allan Poe, su Dumas, su Hemingway, Conrad, Rabelais, Beethoven, Shakespeare… La sua cultura era prodigiosa, la sua velocità di scrittura leggendaria. Burgess poteva scrivere ciò che voleva, e Montanelli gli pubblicava ogni cosa che gli mandava”, racconta Luigi Mascheroni in un intro piuttosto partecipe. Dove ci spiega, tra l’altro, perché il rapporto idilliaco tra il grande scrittore e il grande giornalista (caratteracci entrambi) si ruppe. Burgess andò a scrivere al Corriere della Sera. Pagavano meglio. E Montanelli non gliela mandò a dire. “Montanelli spiega che Burgess se n’è andato ‘perché il Corriere lo paga tre volte più di me: un milione ad articolo, mi dicono. Il Corriere può farlo, visto che ha alle spalle delle banche che gli hanno concesso crediti per tre-quattrocento miliardi. Io, per ottenerne uno di trenta-quaranta milioni, devo fare salti mortali’. E poi, la staffilata: ‘Aver perso lo scrittore Burgess mi dispiace molto, aver perso l’uomo Burgess non mi dispiace affatto. In una pattuglia come la nostra, per i mercenari non c’è posto’”. Mirabile. Il succo è un florilegio di articoli che stendono sul lettino anatomico di Burgess i grandi della letteratura, da Hemingway – ancora lui – a Edgar Allan Poe, da Joseph Conrad a Chesterton. Se volete altre ‘chicche’ per fare la festa a Burgess, dovete trasbordare oltremanica. Il Times Literary Supplement, ad esempio, pubblica un inedito ‘italiano’ di Burgess, il quale, poco prima di essere arruolato al Giornale, nel 1976, scrive all’editor della Faber, “non penso di averti mai detto che a mio avviso il Belli è il più grande poeta del XIX secolo”. Si riferisce a Giuseppe Gioacchino Belli, il grande poeta romanesco. Burgess si mette a tradurlo, va matto per lui – detto da un inglese che gorgheggia Keats e Shelley… Pubblicati nel 1977 in calce al romanzo Abba Abba (che ha per protagonisti Keats e Belli), i sonetti del Belli sono lo spunto per una riflessione, Belli into English, finora inedita. Incipit: “Belli è uno di quei poeti che ci fanno rivedere le nostre nozioni di grandezza in campo letterario. Troppo spesso si presume che l’importanza di un grande scrittore sia la sua universalità – cioè la capacità di parlare direttamente, senza note o senza glosse, alla maggior parte degli uomini. Insegnando letteratura occidentale in Malesia, a malesi, cinesi, indiani, mi sono accorto che Dante e Shakespeare erano molto meno universali di quanto supponessi. I miei studenti non capivano il cattolicesimo di Dante e avevano difficoltà a capire i costumi dell’Inghilterra di Shakespeare… Ora. La prospettiva di Belli è davvero stretta. Scrive di romani ai romani, in romanesco. Il suo pubblico è un pubblico da osteria. Gogol’ fu impressionato da lui, Sainte-Beauve scrisse di lui, ma egli non era destinato a superare le frontiere letterarie come Tolstoj o Dickens. Usava un linguaggio misero, inesportabile dalle strade romane… eppure, un certo numero di stranieri – americani, soprattutto – affermano increduli che Belli è uno dei più grandi poeti del XIX secolo; l’altro è John Keats, il quale, sepolto a Roma, è una sorta di romano onorario”. Bizzarro. L’ennesimo omaggio di Burgess all’Italia, lo dobbiamo leggere in Inghilterra. Ma le sorprese sono innumerevoli. Basta fare una gita nel sito della International Anthony Burgess Foundation (nel cui comitato d’onore figurano personaggi come Harold Bloom, William Boyd, A.S. Byatt, Martin Scorsese e Max Saunders) per entrare nel burgessiano mondo delle meraviglie. Esempio. Cosa pensava Burgess di 1984 di George Orwell? “Una delle rare visioni distopiche o cacotopiche che abbiano cambiato il nostro modo di pensare. Possiamo dire che il terribile futuro profetizzato da Orwell non è accaduto perché lo ha predetto lui”. E di Shakespere, cosa pensava Burgess di Shakespeare? “Posso presentarmi soltanto come un uomo che ha letto Shakespeare, che ha idolatrato Shakespeare, che ha tentato di essere influenzato da lui nell’arte della scrittura. Credo che lui sia ancora il migliore modello: l’uomo che ha saputo meglio di chiunque altro come gestire quella bestia intrattabile che è la lingua inglese”. Micidiale. Tra le tante belle cose, sono pubblici alcuni spartiti musicali costruiti da Burgess, instancabile compositore, tra l’altro. Ne segnaliamo due. Quello che mette in musica La terra desolata di Thomas S. Eliot e quello che fa suonare La pioggia nel pineto, la più nota tra le poesie di D’Annunzio. Composta nel 1988, è bello vedere il testo del Vate (“Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane…”), Molto moderato, chiosato dalle note di Burgess. Un dialogo tra giganti.
Per gentile concessione, pubblichiamo un brano tratto da “A lettere maiuscole” ed edito dal quotidiano il Giornale nella collana “Firme fuori dal coro”.
Il mondo di Hemingway tra vigore e dolore
Il giorno della morte di Hemingway ero in Russia. La Pravda pubblicò un titolo di testa, Smert Gemingvaya, mi sembra che fosse. Molti giovani russi con i quali mi trovavo a bere mi chiesero, come se io fossi in grado di saperlo meglio di loro, se si trattava di assassinio o suicidio. Le loro anime russe leggevano «in trasparenza» la dichiarazione, molto sensata, di Mary Hemingway che lo scrittore era morto pulendo uno dei suoi fucili. Una giovane, piangendo lacrime nel suo bicchiere di vodka, disse: «Yerniest Gemingway, lo amavamo tutti quanti». Era un ottimo elogio funebre. «Assomigliava molto a Jack London» proseguì. Verissimo. Aveva la barca, era un buon marinaio, andava a caccia di bestie feroci, prendeva pesci enormi, combatteva per le cause giuste, faceva della composizione letteraria un aspetto della vita fisica. Ma la morte di Jack London a 40 anni era stata prematura; il suicidio di Hemingway a 62 si compiva quando il suo cervello era in sfacelo, quando il piacere fisico che comprendeva anche lo scrivere, si era esaurito. Lo scrittore di un tempo, chiuso nella custodia senile di un corpo venerato come un E.M. Forster per intendersi, andrà bene per l’Europa: l’America lo ricusa, Hemingway era americano al cento per cento. Ho ripensato ai suoi ultimi anni quando, l’autunno scorso, camminavo lentamente sull’erba impietrita dal gelo e mi accostava alle macchine da presa che erano state piazzate nel cimitero di Ketchum, vicino alla sua tomba. Giravamo un filmato televisivo su Hemingway, e non tanto per onorare i suoi successi letterari. Non propriamente. Era anche per solleticare il palato del pubblico televisivo presentando l’immagine di un uomo riuscito come scrittore (cioè aveva fatto molti soldi) ma in ultima analisi un essere umano mancato. Il vasto pubblico che non è ricco, non ha talento né gloria, ama sempre sentirsi raccontare le storie del fallimento dei grandi. Così giustifica in un certo modo la nullità della propria esistenza seguendo in televisione lo sfacelo e la caduta di grandi uomini e donne. Hemingway era stato un uomo grande e stupendo, alto, vigoroso, robusto, un bel fisico di atleta, un buon boxeur, bevitore «solenne», aficionado della plaza de toros, scrittore di genio. Improvvisamente, nell’età di mezzo, divenne difficile e scontento, uno che si arrovellava sui soldi e sul peso eccessivo dei bagagli nelle sale d’imbarco degli aeroporti. Gli venne la mania di persecuzione: quei due laggiù in fondo al bar erano dell’Fbi, lo spiavano; non far guidare la macchina a Bill, vuole farmi ammazzare; quest’anno non ho guadagnato abbastanza, siamo a corto di quattrini (nonostante le centinaia di migliaia di dollari annui di diritti d’autore, gli investimenti immobiliari, i titoli). Ma anche nel decennio che precedette il suo suicidio, mentre nuotava, andava a pesca d’altura e a caccia grossa, seguiva le corride da un capo all’altro della Spagna, già si manifestava un vago sentore del sopraggiungere della nemesi.
Anthony Burgess
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