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#letteratura araba contemporanea
gregor-samsung · 2 months
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“ Ahmad aveva la febbre. Strofinare preparati a base di erbe sul suo corpo in fiamme non sortiva alcun effetto. A quel punto, Salima era andata a chiedere aiuto a suo zio Shaykh Sa‘id. Era invecchiato, certo, ma non abbastanza da lasciare che il suo cuore si sciogliesse davanti alle suppliche della nipote. Lo aveva implorato, gli aveva ricordato che era la figlia di suo fratello Shaykh Mas‘ud, l’aveva pregato di avere compassione, di dimostrare la sua fede, la sua signorilità, la sua generosità, magnanimità e saggezza. Si era appellata a tutto quello cui si può appellare una madre con il figlio dilaniato dalla febbre. Ma la risposta dello shaykh non era cambiata: “La Range Rover non lascerà mai ‘Awafi senza di me.” Il giorno dopo, la febbre di Ahmad era aumentata, il bambino aveva cominciato a delirare. Salima era tornata dallo zio accompagnata dal marito. ‘Azzan si era trattenuto a lungo con il vecchio, gli aveva spiegato che suo figlio peggiorava e che l’unico ad avere una macchina con cui portarlo all’ospedale al-Sa‘ada di Maskade era lui, Shaykh Sa‘id. Se ci fossero andati a dorso d’asino, ci avrebbero messo quattro o cinque giorni e non sarebbero riusciti a salvare il bambino. Gli disse che avrebbe pagato qualsiasi cifra gli avesse chiesto, compreso il salario dell’autista. “Non ho altro da dire,” aveva replicato Shaykh Sa‘id. “La Range Rover non esce da ‘Awafi. Tuo figlio guarirà anche senza dottori. Che sarà mai, tutti i bambini hanno la febbre e poi guariscono.”
‘Azzan e Salima erano usciti da casa dello shaykh cercando di non guardare il fuoristrada verde parcheggiato vicino al portone. Quando Shaykh Sa‘id l’aveva comprato, due anni prima, e l’autista l’aveva portato in paese, erano tutti usciti in strada per vederlo. Persino l’anziana madre dello shaykh si era avventurata fuori facendosi sostenere dalle sue schiave ma poi, quando aveva sentito il rombo del motore e visto le ruote nere che giravano velocissime, si era spaventata e gli aveva tirato una pietra urlando ai quattro venti che quella era opera del diavolo. La pietra aveva rotto un finestrino e Shaykh Sa‘id aveva ordinato alle schiave di riportare dentro la madre minacciando di frustarle sotto il sole se solo l’avessero fatta uscire di nuovo. Da quel giorno la Range Rover si era mossa solo quando lo shaykh sedeva al posto del passeggero. E se con lui c’era una delle sue mogli, i finestrini venivano oscurati con delle lenzuola. Salima aveva pianto per tutta la strada fino a casa e, da quel momento, ‘Azzan aveva nutrito un unico sogno: possedere una macchina. Aveva giurato che avrebbe chiesto al Sultano il permesso di comprarne una, esattamente come aveva fatto Shaykh Sa‘id, e poco importava se avesse dovuto vendere i campi ereditati dal padre. Ma Ahmad non aveva aspettato che ‘Azzan mantenesse fede al suo giuramento, la febbre era stata più veloce e lo aveva ucciso. Gli avevano tolto vestiti e amuleti e predisposto la rituale pedana di rami di palma in mezzo al cortile. I vicini avevano portato secchi d’acqua dal canale per lavarlo, l’avevano cosparso di incenso e di olio di oud, lo avevano avvolto in un sudario candido e avevano portato il feretro al cimitero a ovest del paese. Il giudice Yusuf aveva detto ad ‘Azzan: “Tuo figlio adesso è in paradiso, e quando verrà la tua ora ti porterà dell’acqua fresca per spegnere la tua sete.” ‘Azzan era stato zitto, non aveva detto che lui aveva sperato che suo figlio l’acqua gliela portasse lì, sulla terra, negli anni della sua vecchiaia. Si era mostrato fermo e paziente come si conviene e aveva stretto la mano di chi gli porgeva le condoglianze. Le aveva strette tutte, persino quella di Shaykh Sa‘id. “
Jokha Alharthi, Corpi celesti, traduzione dall'arabo di Giacomo Longhi, Bompiani (collana Narratori Stranieri), 2022¹; pp. 122-124.
[Edizione originale: سيدات القمر (Sayyidat el-Qamar; Le signore della luna), editore Dār al-Ādāb, Beirut, Libano, 2010]
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pangeanews · 4 years
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“E gridarono sopra il crepitare delle fiamme la benedizione”. Lion Feuchtwanger, Giuseppe Flavio e la prima testimonianza storica sulla vita di Gesù
Il tradimento nel nome. Giuseppe Flavio. Yosef, Giuseppe, “Dio accresce”; Flavio, Flavius, dalla gens a cui apparteneva Vespasiano, l’imperatore che lo affranca, che lo fa romano. Giuseppe Flavio si chiamava Yosef ben Matityahu e a voler credere al destino circoscritto nel nome, ha ricalcato le orme del figlio di Giacobbe, il sognatore. A contrario. Giuseppe Flavio fu un fariseo di Gerusalemme, di nobile schiatta sacerdotale. Guidava i ribelli di Galilea, contro l’esercito romano: subendo l’assedio, presso Iotapata, elabora uno stratagemma. I suoi si ammazzano ritualmente, uno dopo l’altro, per evitare di cadere nella rete nemica. Lui si salva – vedi alla voce: permutazione di Giuseppe –, passa con i romani. Per granitica intelligenza e arte nel divinare i segni – predisse il futuro imperiale a Vespasiano – fu risparmiato, estratto dalla gabbia, reso romano, usato come interlocutore di genio tra i riottosi, enigmatici ebrei. La Guerra giudaica è un capolavoro di disonestà: superba propaganda romana per mezzo di un intellettuale ebreo. (Va verificata questa sfilza di ispirati ebrei che avrebbero custodito l’essenza dell’ebraismo in territorio nemico, in tradimento e apostasia: si pensi a Sabbatai Zevi).
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Giuseppe Flavio – fedele intransigente, schifoso traditore, opportunista, scrittore di talento – è figura straordinaria. A lui per altro, tra le maglie delle Antichità giudaiche – la storia del popolo ebraico fino alla guerra del 66 – dobbiamo il testimonium che costituisce la prima traccia storica dell’esistenza di “Gesù, uomo saggio, se puro lo si può chiamare uomo: compì opere sorprendenti e fu maestro di chi accoglieva la verità”. Nel testo appaiono, come riflessi su una lama, la vicenda di Giovanni Battista e il volto di Giacomo. Il caso ha qualità divina: da un giudeo traditore – da un Giuda… – riceviamo la prima testimonianza del Gesù storico. Naturalmente, il dibattito intorno al testimonium flavianum chiede un romanzo ulteriore, un nido borgesiano. “Per alcuni sarebbe un’interpolazione cristiana da respingere in blocco… Secondo un buon numero di studiosi, occorre distinguere tra un testo base, risalente allo storico ebreo Giuseppe Flavio, e alcune glosse di mano cristiana. Il testo base si troverebbe in una versione araba del testo greco, versione che risale al secolo X e fa parte della Storia universale di Agapio, vescovo di Hierapolis in Siria” (così Pius-Ramon Tragan in La preistoria dei Vangeli, Servitium, 1999).
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In effetti, la storia di Giuseppe Flavio ha sedotto uno degli scrittori più popolari del secolo scorso, che in quella vicenda, come sullo scudo su cui si specchia Medusa, rivedeva la propria storia. Lion Feuchtwanger, ebreo tedesco – nasce a Monaco nel 1884 –, è un vespaio di contraddizioni. Drammaturgo di successo, ‘scoprì’ Bertolt Brecht, fu antisionista – era per un ebraismo cosmopolita –, intuì subito la pericolosità di Hitler, eppure il suo libro di maggior successo, Süss l’ebreo (1925), fu manipolato da Veit Harlan per farne un film (1940) antisemita. Mentre il nazismo mandava al rogo – letteralmente – i romanzi di Feuchtwanger, lui, nel 1936, veniva accolto a Mosca come una star, intervistò Stalin, firmò un reportage (Mosca 1937) in fondo indulgente verso lo stalinismo. Morì a Los Angeles tre giorni prima del Natale del 1958: si era trasferito negli Stati Uniti dal 1941 dopo essere fuggito da un campo di internamento, nella Francia occupata. Su questo episodio si concentra il reportage Il diavolo in Francia, ora edito da Einaudi (per la traduzione di Enrico Arosio): fin dal primo capitolo Feuchtwanger avvicina la sua esperienza a quella degli ebrei in Egitto (“Un giorno, mentre sotto i rudi ordini di un sergente i mattoni volavano di mano in mano, e noi, professori, avvocati, medici, agricoltori, operai, anziché occuparci dei nostri libri e atti giudiziari, delle nostre diagnosi, previsioni del tempo e parti meccaniche, ammucchiavamo mattoni che l’indomani avremmo buttato giú, un giorno, di colpo, mi sovvenne quel passo della Bibbia sui figli d’israele che sotto il Faraone d’Egitto dovevano cuocere i mattoni per le città-tesoro di Pithom e Ramses”).
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Feuchtwanger fu davvero uno scrittore di grandissimo successo. Nella fatidica collana ‘Medusa’ Mondadori sono stati tradotti otto romanzi. Poi, come dire, passò di moda. Per darci il senso palpabile della sua notorietà così scrive Wlodek Goldkorn nell’introduzione a Il diavolo in Francia. “Feuchtwanger è un autore di romanzi molto popolare in tutto il mondo. I suoi libri sono tradotti in una ventina di lingue e sono letti da persone di tutti i ceti sociali, dagli operai (una volta i partiti politici di sinistra e i sindacati facevano di tutto per incoraggiare gli operai e leggere romanzi ma pure libri di filosofia) agli intellettuali, ai politici. Fra i suoi fan pare ci sia stato perfino il presidente degli Stati uniti Franklin Delano Roosevelt. Sicuramente un suo ammiratore è Iosif Vissarionovič Stalin, capo dei comunisti dell’universo intero e indiscusso e feroce dittatore dell’unione Sovietica. A sua volta, Feuchtwanger, oltre a essere un’icona della letteratura mondiale, è anche uno degli intellettuali antifascisti più importanti in Europa”.
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L’opera più ambiziosa, più vasta, più ampia, Feuchtwanger la scrive tra il 1931 e il 1941. Dieci anni per elaborare la “Trilogia di Giuseppe”, costituita da La fine di Gerusalemme (edita in Italia da Mondadori nel 1933), Il giudeo di Roma (Mondadori, 1936; recuperato da Castelvecchi nel 2015), Il giorno verrà (Mondadori, 1948). Nella nota biografica su Feuchtwanger, Einaudi ricorda alcuni libri – come I fratelli Oppermann, riediti da Skira nel 2014 – ma non la “Trilogia”. Ne scrive, invece, Goldkorn. “La sua opera piú importante (dal punto di vista personale) è la trilogia su Flavio Giuseppe, comandante delle truppe ebraiche ai tempi della guerra contro Roma, passato dalla parte dei romani. Flavio Giuseppe era un traditore? O piuttosto un uomo colto che odiava i fanatici integralisti ebrei e ammirava il cosmopolitismo dei romani? In ogni caso è lui il fondatore del canone della narrazione laica ebraica e forse il primo vero cronista di guerra. Feuchtwanger con ogni probabilità si identificava con Flavio Giuseppe, se non altro perché professava il cosmopolitismo come un modo di vivere e pensare”.
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Il ciclo di romanzi, grandioso, pionieristico – Thomas Mann pubblica la tetralogia “Giuseppe e i suoi fratelli” tra 1933 e 1943 – è stato riscoperto da Guaraldi, nel 2013, e ‘riassunto’, secondo l’antica traduzione di Ervino Pocar – che è quello che in Mondadori traduceva Mann e Kafka, Hesse, Hamsun, Trakl – in La distruzione del Tempio e le prime Comunità Cristiane. Il libro fu un piccolo ‘caso’, una pietra nello scandaloso stagno. Nella Nota dell’editore Mario Guaraldi non stimolava semplicemente la lettura di “un vero capolavoro di cultura storiografica in forma di romanzo storico”, ma accusava il “crimine strutturale della nostra editoria, che condanna un autentico tesoro culturale del proprio passato alle catacombe delle bancarelle antiquarie; e alimenta una produzione letteraria contemporanea spesso non all’altezza dei propri trascorsi”. Il ‘risarcimento’ era compiuto pubblicando l’intero catalogo della ‘Medusa’ Mondadori che pubblicava, quel dì, Feuchtwanger. Una miniera di scrittori e di testi spesso dileguati in un ingiusto oblio, l’obolo al millennio.
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Nel ciclo di romanzi ricorre l’idea teologica di Feuchtwanger – “Con la loro unica esegesi espellono il mondo dalla Scrittura e vi insinuano una stolida e megalomane nazione. Se Iahve non è il Dio di tutto il mondo, che cos’è? Un Dio fra tanti, un Dio nazionale”. Alcuni passi sono epici, possenti. “E così erano giunti sul tetto, sul più alto comignolo, mentre sotto di loro c’erano le fiamme e i romani. Fino a loro salivano l’urlo dei morenti e le rozze canzoni dei legionari, mentre dalla città alta arrivavano candide grida. Ed ecco che lo spirito invase quelli che erano sul tetto, mentre la fame provocava davanti a loro visioni magiche. Dondolando ritmicamente cantarono, con la solita nenia, canti di guerra e di vittoria. Strapparono le lance d’oro che erano fissate sul tetto del Tempio per proteggerlo dagli uccelli e le scagliarono sui romani. Ridevano, così sopra le fiamme, e sopra di loro era Iahve ed essi ne sentivano il soffio. Venuta l’ora della benedizione, alzarono le braccia e allargarono le dita com’era prescritto, e gridarono sopra il crepitare delle fiamme la benedizione e la professione di fede; si sentivano leggeri e santi”. Ogni fanatismo è ambiguo, pregare è un addestramento, il tempio, in verità, è una tenda, chi lo abita determina al vento gli attributi: anche se lo distruggi, non lo distruggi. (d.b.)
*In copertina: Caravaggio, “Deposizione”, 1602-1604, particolare
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scaldasolebooks · 4 years
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tmnotizie · 6 years
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MACERATA – Un’altra giornata densa di appuntamenti venerdì 4 maggio alla festa del libro Macerata Racconta giunta all’ottava edizione e organizzata dall’associazione ConTESTO con il Comune e l’Università di Macerata.  Appuntamento clou della giornata l’inaugurazione, alle 16.30, nei locali dell’ex Upim, della Fiera dell’editoria Marche Libri, giunta alla settima edizione, che ha come protagonista l’eccellenza della produzione editoriale che si realizza nelle Marche.
Unica nel suo genere nel territorio marchigiano, Marche Libri si conferma uno spazio in cui trovare le migliori produzioni editoriali dell’intera regione e non solo, visto che al suo interno saranno ospitati anche alcuni editori provenienti da altre regioni italiane.
Marche Libri rappresenta un appuntamento importante per la cultura e l’imprenditoria editoriale che presenta in questa nuova edizione 47 case editrici le quali torneranno a esporre nello spazio dell’Ex Upim in corso Matteotti, sia direttamente con propri stand che rappresentate dalla libreria del festival gestita dall’associazione Libri in città.  Le case editrici che daranno vita alla Fiera Marche Libri sono:
Affinità Elettive | Altreconomia | Andrea Livi Editore | Aras Edizioni | Arpeggio Libero | Biblohaus | Bravi | Cattedrale | Claudio Ciabochi Editore | Controvento Editrice | Cromo Edizioni | Donzelli Editore | Editoria Studi Superiori | Edizioni Artemisia | EUM – Edizioni Università Macerata | EV | Fara Editore Giaconi Editore | Giometti & Antonello | I Luoghi Della Scrittura | Il Lavoro Editoriale | Ilari Editore | Infinito Edizioni | Ippocampo Edizioni | Italic Pequod | Lavieri Edizioni | Le Mezzelane | Ledra | Librati Edizioni | Libri d’aMare | Linfa Eintertainment | Lirici greci | Metauro Edizioni | Montag | Progetti Sonori | Quodlibet | Raffaello Editrice | Rivista Argo | Roi Edizioni  Rrose Sélavy | Simple Edizioni | Taschen Logos | UT | Ventura Edizioni | Vydia Editore | Zefiro Edizioni.
Tra gli altri appuntamenti alle 11.30 nell’aula Shakespeare del Polo didattico Tucci a palazzo Ugolini, in collaborazione con il Dipartimento di Studi umanistici UniMc la presentazione del libro Gramsci Una nuova biografia di Angelo D’Orsi alla che verrà introdotto da Carla Carotenuto e Michela Meschini. A ottant’anni dalla morte capire la vita e la vicenda intellettuale di Antonio Gramsci può ancora servire  per capire il mondo in cui viviamo, o per provare a rimetterlo in discussione
Angelo D’Orsi insegna Storia delle dottrine politiche nella facoltà di Scienze politiche   dell’Università di Torino. Si è occupato di militarismo e pacifismo, di nazionalismo e di fascismo. Spesso ospite di Agorà (Raitre) e ideatore del FestivalStoria è uno dei massimi esperti di Antonio Gramsci. Una nuova biografia di Antonio Gramsci è attenta soprattutto agli aspetti intellettuali e politici della complessa personalità di Gramsci, ma non trascura l’universo affettivo in cui si colloca la breve esistenza di questo personaggio.
Il libro, diviso in quattro parti, ciascuna corrispondente a un ben preciso periodo della vita di Gramsci, si snoda secondo una narrazione lineare ma che mostra di volta in volta le riprese che Gramsci farà in epoche successive di spunti che lancia nei diversi periodi. Il libro è rivolto tanto agli studiosi quanto a coloro che di Gramsci sanno a malapena il nome, in un tentativo di farlo conoscere agli uni e farlo rimeditare dagli altri, nella convinzione da cui l’autore è animato che Gramsci sia oggi terribilmente inattuale (in quanto lontanissimo dai modelli dominanti dell’agire dei politici ma anche di quello degli intellettuali), ma nel contempo drammaticamente necessario.
Nel pomeriggio di Macerata racconta, alle 16.30, al Museo della scuola ci sarà l’incontro, valido come formazione per insegnanti, educatori e genitori, “Viaggio nella letteratura contemporanea per bambini” con Nadia Terranova, giovane autrice italiana dotata di grande talento che ha esordito nel romanzo nel 2015 con “Gli anni al contrario” – Einaudi – , definito da Roberto Saviano uno dei libri migliori del 2015 e vincitore di numerosi premi tra i quali Bagutta Opera Prima, Brancati e Fiesole. Prima di allora si era dedicata con successo alla scrittura di libri per ragazzi. Collabora con diverse riviste ed è tradotta in Francia, Spagna, Messico, Polonia e Lituania.
Gli anni al contrario di Aurora e Giovanni passano attraverso sentimenti e passioni, eventi umani potenti e delicati sullo sfondo di anni belli e terribili come gli anni Settanta, vissuti però a Messina, dove è difficile essere e sentirsi protagonisti. Di Lei Elena Stancanelli dice:” Nadia Terranova scrive un romanzo capace di nascondere, sotto una prosa leggera, un’anima robusta, una precisa idea del mondo. (…) Per fortuna che ci sono romanzi come Gli anni al contrario che ci fanno sentire meno soli”.
Alle 17 nell’aula 11 dell’Università di Macerata, introdotto da Maurizio Verdenelli e Matteo Zallocco verrà presentato il libro “Pamela Dall’omicidio al “lupo” Traini: i fatti di Macerata che hanno sconvolto l’Italia” con Giuseppe Bommarito, Gianluca Ginella, Marco Ribechi e Giovanni De Franceschi.  Alle 17.30 alla Biblioteca Mozzi Borgetti , introdotto da Valerio Calzolaio, ci sarà Corrado Dottori con il suo La musica Vuota (Italic Pequod)
Edoardo Alessi, consulente finanziario di successo in crisi di identità, ritrova sette scatoloni pieni di diari, fotografie e lettere, conservati nella casa di montagna dei nonni paterni. I suoi scritti di gioventù si mescolano con le memorie del padre adolescente e rivoluzionario a formare una strana commistione di storie mai raccontate, sensi di colpa e recriminazioni. Il racconto di una storia familiare complessa. L’assenza dei genitori, militanti di estrema sinistra negli anni di piombo, tormenta Edoardo spingendolo a ricostruire il proprio passato e quello di un padre poco conosciuto, a cui lo lega una passione sfrenata per la musica rock.
Un album in particolare, “Exile On Main Street” dei Rolling Stones ritorna in maniera circolare a scandire i momenti salienti del romanzo, potentissimo catalizzatore in grado di innescare una continuità culturale e politica tra due mondi. Perché Edoardo, dopo un’adolescenza da militante nei movimenti studenteschi, spesa tra contestazione nei centri sociali, feste e concerti rock, è diventato ciò che non avrebbe mai voluto essere, un private banker? Tra viaggi in California, Marocco e Messico, tra affetti del presente (il vecchio amore mai dimenticato Maria e l’attuale bellissima compagna Raffaella, l’amico di infanzia Ceska) e di un passato che a volte incombe (il padre morto, la madre latitante, i nonni che lo hanno cresciuto e infine Joe, suo zio), “La Musica Vuota” è una sorta di memoir di un’intera generazione a cavallo e in bilico tra due secoli.
Protagonista dell’appuntamento alle 18 alla Galleria degli Antichi forni, introdotto da Renata Morresi, sarà invece Marco Benedettelli con il suo Chi brucia. Nel Mediterraneo sulle tracce degli harraga (Vydia editore).  Marco Benedettelli ha collaborato come giornalista freelance con Avvenire, Il manifesto, Sole24ore.it, D di Repubblica, Popoli e Missione, Vita no profit, Il Corriere della Sera e vari quotidiani locali, specializzandosi nel genere del reportage da zone di crisi. È tra i fondatori e coordinatori di Argo, rivista ventennale di letteratura. Ha scritto su Nazione Indiana ed è stato parte del collettivo 48ore.com (oggi off-line). Ha pubblicato la raccolta di racconti La regina non è blu (Gwynplaine edizioni, 2012).
Harraga. È il termine arabo che indica i migranti che bruciano i propri documenti d’identità per attraversare illegalmente la frontiera e tentare una via d’ingresso in Europa. Marco Benedettelli, testimone attento e sensibile, ne ha seguito nel 2011, anno infiammato dalla Primavera araba, gli spostamenti, le speranze, le paure, in un lungo itinerario che lo ha condotto nelle zone nevralgiche del fenomeno migratorio tuttora in atto nel Mediterraneo e in particolare in Italia, terra di approdo e di transito per quelli che cercano una nuova vita in fuga da povertà, guerre, dittature. Dalla Tunisia a Lampedusa, dalla Libia a Ventimiglia, da Malta a Roma e fino alla problematica realtà dell’Hotel House di Porto Recanati nelle Marche, Chi brucia è un diario di viaggio coinvolgente e appassionato in cui la verità scottante del reportage s’intreccia a brani di felice invenzione narrativa.
Franco Lorenzoni, invece, maestro elementare a Giove, in Umbria sarà alle 18.30 al Teatro della Filarmonica  con il suo Orfeo, la ninfa Siringa e le percussioni pazze dei Coribanti (Rrose Sèlavy) in compagnia di Lucia Tancredi. Lorenzoni ha fondato e coordina dal 1980 ad Amelia la Casa-laboratorio di Cenci, un centro di sperimentazione educativa che ricerca intorno a temi ecologici, scientifici, interculturali e di inclusione. Per questa attività ha ricevuto nel 2011, insieme a Roberta Passoni, il Premio Lo Straniero.  C’è un bambino straordinario, Orfeo, che non piange appena nato ma si mette a cantare in modo così dolce da incantare gli uccelli che volano lì intorno.
C’è la ninfa Siringa, che si trasforma in canne mosse dal vento per sfuggire a Pan, il dio dei boschi innamorato di lei, che costruirà con quelle canne il primo flauto per ricordare il suo amore. C’è un gruppo di ragazzi scatenati, chiamati Coribanti, che battendo bastoni, pietre e metalli, coprono il pianto del piccolo Zeus e gli salvano la vita.All’origine della musica c’è una relazione intima e totale con la natura e gli spiriti che la abitano. Paura, amore, solitudine, struggente nostalgia e ricerca di armonia trovano nel canto e nel suono il loro primo linguaggio e, forse, la loro origine remota.
A conclusione della ricchissima giornata di Macerata Racconta, alle 19.30 alla galleria degli Antichi forni, torna Valerio Calzolaio con Enonoir: La camera chiusa.
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redazionecultura · 7 years
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sede: Studio Museo Francesco Messina (Milano).
Le notti di Tino di Bagdad è il nuovo progetto transmediale di ConiglioViola: un esperimento post-cinematografico di arte pubblica che combina l’utilizzo di nuove tecnologie, quali la Realtà Aumentata, con il recupero di tecniche tradizionali, dalle incisioni su rame al Teatro delle Ombre. A otto anni dalla retrospettiva al PAC, il duo composto da Brice Coniglio e Andrea Raviola torna a Milano, nello Studio Museo Francesco Messina e in altre dieci sedi in città, per presentare un progetto che trasforma lo spazio urbano in un “cinema diffuso” e per ingaggiare il pubblico in una caccia al tesoro il cui obiettivo non è altro che la ricostruzione del senso di una narrazione.
Il punto di partenza è un’opera letteraria, Le notti di Tino di Baghdad (1907) di Else Lasker-Schüler. Le fiabe espressioniste “orientali” della poetessa tedesca sono un piccolo caleidoscopio di contaminazioni inattese: il fascino dell’esotismo e l’esperienza della metropoli moderna, il richiamo delle radici ebraiche e il gusto per la sperimentazione avanguardistica, l’indagine pittorica e il manierismo letterario, il gioco infantile e l’erotismo. La protagonista è Tino, principessa e poetessa d’Arabia, costretta a rinunciare alla vita per rendere immortale la poesia.
Giocando sulla struttura non lineare del testo, ConiglioViola ne ha lacerato la trama per dare vita a ventisei episodi autonomi, ognuno dei quali ha ispirato una diversa tavola incisa sul rame e un diverso episodio cinematografico da fruire in realtà aumentata.
Negli spazi del museo le opere vengono presentate all’interno di piccoli lightbox realizzati in cemento a forma di finestra araba. Basta inquadrare le opere attraverso il proprio smartphone, utilizzando l’app gratuita, per osservare le immagini prendere vita sul proprio display e ammirare i video realizzati combinando animazione digitale, animazione a mano e le performance di danzatori. Gli spazi della ex-chiesa barocca vengono completamente reimmaginati dai due artisti. Al piano terreno sono esposti, oltre ai lightbox in cemento, il dittico animato di grandi dimensioni “Tino und Apollides” ispirato a una delle scene più celebri de “Il fiore delle mille e una notte” di Pier Paolo Pasolini e un cortometraggio di animazione, proiettato sui muri del museo. La cripta ospiterà invece le opere e i manufatti realizzati durante il complesso processo di produzione: le incisioni su rame, le foto realizzate durante le riprese del film, i disegni preparatori, le maschere di grandi dimensioni realizzate dagli artisti e indossate da attori e danzatori durante le riprese, infine il documentario che illustra l’intera preparazione del progetto.
L’esperimento non si conclude nel museo ma coinvolge altre dieci sedi in tutta la città di Milano ognuna delle quali ospita una diversa tappa del racconto. Lo spettatore errante sarà costretto a spostarsi tra gli spazi del museo Messina e gli altri punti in città – indicati attraverso una mappa sul sito http://www.tinobagdad.com – per ricostruire gli episodi di una narrazione che varia con il variare di ogni singolo itinerario. Il viaggio può iniziare da qualsiasi punto: si tratta di un gioco attraverso il quale bisogna ricostruire una storia e poi condividerla, perché l’ultimo invito che gli artisti rivolgono al pubblico è quello di tornare a casa e riscrivere il testo. Una ricombinazione delle tessere che permetterà di assistere a una moltiplicazione delle narrazioni, attualizzando nello spazio urbano le teorie della Letteratura Combinatoria e trasformando lo spettatore in co-autore.
ConiglioViola ConiglioViola è un duo artistico fondato nel 2000 da Brice Coniglio e Andrea Raviola. Dalla videoart al teatro multimediale, dalla musica elettronica alla performance, dalla net. art alla fotografia, non c’è quasi settore della creatività contemporanea che Coniglioviola, “bottega rinascimentale nell’era digitale”, non abbia esplorato e provato a sobillare con le armi dell’ironia, muovendosi tentacolarmente come un vero e proprio marchio. Noto per imprese spettacolari come l’Attacco Pirata alla Biennale di Venezia (2007), ConiglioViola è impegnato in un’indagine trasversale sul territorio della cultura POP-olare. Il multilinguismo e la transmedialità sono risultato di una riflessione intorno al medium digitale concepito come meta-linguaggio, a partire dalla quale è in grado di declinare ogni progetto attraverso più linguaggi. Tra i vari progetti ricordiamo il già citato l’Attacco Pirata alla Biennale di Venezia, l’opera net. art La meditazione di Yolanda (2001–2003), la produzione musicale-teatrale Recuperate Le Vostre Radici Quadrate, la copertina delle Pagine Bianche Piemonte del 2007, l’opera Ecce Trans (balzata alle cronache internazionali per via della censura all’interno della mostra Arte e Omosessualità a Milano), la mostra Nous deux a Parigi con Unicredit & Art nel 2007, la collaborazione con la cantante Loredana Bertè, con gli stilisti Etro, Vivienne Westwood e Antonio Marras, con il critico d’arte Achille Bonito Oliva e con Patrizia Sandretto Re Rebaudengo (questi ultimi nell’inedita veste di attori), con la compagnia teatrale IRAA Theatre e, sempre in ambito teatrale, con Valter Malosti. Nel 2009 il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano ha dedicato a Coniglioviola (i più giovani artisti ad avere avuto una personale in questa sede) una mostra antologica dal titolo “Sono un pirata / Sono un signore” visitata da oltre diecimila persone in dieci giorni. La mostra è accompagnata dalla pubblicazione del catalogo edito da Silvana Editoriale con testi critici di Antonio Arevalo, Alessandro Bergonzoni, Achille Bonito Oliva, Martina Corgnati, Maurizio Ferraris, Tommaso Labranca, Milva, Domenico Quaranta, Laura Serani, Massimiliano Finazzer Flory. Sempre nel 2009 ha debuttato nel cartellone del Teatro Stabile di Torino all’interno del Festival Prospettiva con lo spettacolo teatrale Concerto senza titolo interpretato da Antonella Ruggiero: un’investigazione sulla collisione tra il tema-tabù della morte e la cultura pop. Nel 2011 partecipa alla Biennale di Venezia, tra gli eventi legati ai Padiglioni nazionali, con il progetto collettivo Pirate Camp – The stateless Pavillion, che coinvolge oltre trenta giovani artisti provenienti da tutto il mondo, ospitati all’interno di un campeggio pirata allestito in laguna. Dall’anno successivo fioriscono i progetti legati all’organizzazione Kaninchen-Haus, che produce, con il sostegno della Compagnia di San Paolo, il programma sperimentale di residenza viadellafucina nel quartiere di Porta Palazzo a Torino, e che da vita all’artist run space K-HOLE, nello stesso quartiere. Nel 2015 viene pubblicato il disco Recuperate Le Vostre Radici Quadrate, presentato insieme al nuovo video “Non domina sum” e al riallestimento dello spettacolo, il cofanetto cd+dvd Requiem Elettronico nato dalla collaborazione con Antonella Ruggiero, e l’opera d’arte pubblica in realtà aumentata Le notti di Tino di Bagdad prodotta da Kaninchen-Haus in collaborazione con TIM, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e Salone Internazionale del Libro. Nel 2016 con il progetto Ulysses Now, che verrà prodotto nel 2017 da Accademia degli Artefatti, vince il Bando ORA! della Compagnia di San Paolo.
Il progetto è prodotto da Kaninchen-Haus in collaborazione con care/of e con la galleria Montoro12 di Roma.
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ConiglioViola. Le notti di Tino di Bagdad sede: Studio Museo Francesco Messina (Milano). Le notti di Tino di Bagdad è il nuovo progetto transmediale di ConiglioViola: un esperimento post-cinematografico di arte pubblica che combina l'utilizzo di nuove tecnologie, quali la Realtà Aumentata, con il recupero di tecniche tradizionali, dalle incisioni su rame al Teatro delle Ombre.
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Ritratti di scrittori egiziani: Nagib Mahfuz
Ritratti di scrittori egiziani: Nagib Mahfuz
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Ritratti di scrittori egiziani: Nagib Mahfuz
Narratore, drammaturgo, giornalista e sceneggiatore, è stato il solo scrittore arabo a essere insignito del premio Nobel per la letteratura, nel 1988. Nato al Cairo in una famiglia della piccola borghesia, ha raccontato nelle sue opere l’universo della sua amata città natale. Scrittore molto prolifico, nella sua lunga carriera ha dato alle stampe più…
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gregor-samsung · 2 years
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“ Il 25 settembre 1926, ‘Ankabuta detta Canna di bambù stava facendo legna nel deserto quando, senza preavviso, le iniziarono le doglie. In quel preciso momento, mentre lei dava alla luce la sua bambina e con un coltello arrugginito tagliava il cordone ombelicale che le univa, alcuni uomini riuniti a Ginevra firmavano la convenzione che aboliva la schiavitù e dichiarava reato la tratta di esseri umani. Quel giorno, ‘Ankabuta compiva quindici anni e di certo non sapeva niente di quel trattato, così come ignorava bellamente che esisteva una città chiamata Ginevra. ‘Ankabuta strappò in due il velo impolverato che le copriva la testa, avvolse la bambina in una delle metà, si risistemò l’altra sulle spalle e tornò ad ‘Awafi scalza e a capo scoperto. Quando arrivò a casa di Shaykh Sa‘id – che con quella nascita guadagnava una schiava in più – le altre donne l’aiutarono a entrare e a sdraiarsi su una stuoia. Una di loro strofinò un dattero sulle labbra della neonata. Poi gliela posarono accanto e ‘Ankabuta, vedendo quel corpicino grinzoso avvolto nel suo velo, scoppiò in lacrime. Era l’unico che non si era ancora strappato impigliandosi in qualche ramo. Non l’aveva tinto con l’indaco scuro per farlo diventare blu come l’altro che aveva e che ormai era tutto sbrindellato, però la trama teneva ancora bene e, a parte la polvere che scuriva il bianco, poteva passare per nuovo. Ed ecco, adesso era rovinato. Una settimana dopo, lo shaykh annunciò che la bambina appena nata si sarebbe chiamata Zarifa. Disse, però, che non avrebbe sacrificato nemmeno un animale per lei perché quell’anno, purtroppo, la raccolta dei datteri era andata male. Sedici anni dopo l’avrebbe venduta al mercante Sulayman, che avrebbe fatto di lei la sua schiava, poi la sua concubina e, infine, l’unica donna che fosse mai stata vicina al suo cuore. Lui, il mercante Sulayman, sarebbe stato l’unico uomo che Zarifa avrebbe amato e rispettato fino alla fine dei suoi giorni. In lui avrebbe visto per sempre la persona che l’aveva liberata dalle angherie dei figli di Shaykh Sa‘id, l’amante che le aveva insegnato i piaceri del corpo, l’uomo che le aveva insegnato il sottile gioco della crudeltà e della gelosia. Nonché il vecchio che era tornato da lei per morire tra le sue braccia. “
Jokha Alharthi, Corpi celesti, traduzione dall'arabo di Giacomo Longhi, Bompiani (collana Narratori Stranieri), 2022¹; pp. 147-148.
[Edizione originale: سيدات القمر (Sayyidat el-Qamar; Le signore della luna), editore Dār al-Ādāb, Beirut, Libano, 2010]
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gregor-samsung · 2 years
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“ Il maestro Mamduh ci insegnava tutte le materie. La nostra era una classe di soli maschi, ma a volte Zayed si intrufolava nell’aula di prima dove, oltre ai maschi, c’erano quattro ragazze, tirava i capelli a una a caso e poi scappava via. Questo finché Khawla è andata a lamentarsi da suo padre e ‘Azzan l’ha fatto smettere. Una volta stavamo studiando la Sura del diffamatore e ripetevamo i versetti: Badi bene il diffamatore, il denigratore, che ammassa denaro, lo conta e lo riconta e pensa che il suo denaro lo renda immortale [Corano, 104:1-3] e Zayed si è girato verso di me e mi ha guardato malissimo. E mentre il maestro Mamduh recitava la sua filippica contro i ricchi che accumulano denaro e i mercanti che accumulano oro, lui, Zayed, quasi mi inceneriva con le sue occhiate di fuoco. E così, il giorno in cui il maestro Mamduh ci ha chiesto che lavoro facevano i nostri padri – e lui le risposte già le conosceva – io mi sono sentito morire di vergogna e non ho avuto il coraggio di dire che il mio era un mercante. Gli altri rispondevano sicuri: “Contadino, fabbro, contadino, falegname, sarto da uomo, giudice, muezzin, contadino…” e io, invece, sudavo freddo, terrorizzato all’idea di rispondere. Mi sembrava che la parola “mercante” indicasse un orrendo ciccione con la pancia che gli ballonzola, uno che accumula oro e tormenta i poveri. Pensavo che quando tutti avessero scoperto che ero figlio di un uomo ricco – in paese era stato il secondo, dopo Shaykh Sa‘id, a dotarsi di un’automobile – sarei diventato lo zimbello della classe. Zayed ha gridato: “Suo padre è il mercante Sulayman. Il proprietario della Grande Casa, quello che ha campi e terreni da qui fino a Maskade.” Nessuno mi ha preso in giro, però mi sono vergognato come un ladro, non so cos’avrei dato perché mio padre fosse un contadino come la maggior parte degli altri. Durante l’intervallo io e Zayed eravamo gli unici della mia classe a non scendere nello spaccio della scuola, e questo perché non avevamo un soldo da spendere. Per tutte le elementari mio padre è stato irremovibile: lui i dieci centesimi al giorno da portare a scuola non me li avrebbe mai dati. E alle medie, quando finalmente me li ha concessi, gli altri genitori ormai ne davano ai figli venti o trenta e io mi ritrovavo a dover scegliere tra pane e formaggio o un succo Suntop. Ho potuto averli entrambi solo alla fine del liceo. “
Jokha Alharthi, Corpi celesti, traduzione dall'arabo di Giacomo Longhi, Bompiani (collana Narratori Stranieri), 2022¹; pp. 76-77.
[Edizione originale: سيدات القمر (Sayyidat el-Qamar; Le signore della luna), editore Dār al-Ādāb, Beirut, Libano, 2010]
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gregor-samsung · 4 years
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Avrebbe ricordato centinaia di volte le umiliazioni e gli insulti subiti. Non si sarebbe mai perdonato di essere crollato, di essersi arreso. Per autopunirsi paragonava il rispetto di cui aveva goduto tutta la vita con l’umiliazione che lo aveva distrutto al commissariato. Lo avevano trattato come uno scippatore, un magnaccia, ma ciò che più lo faceva stare male era la sua sottomissione. Se l’avessero picchiato, non avrebbe reagito. Perché si era arreso e si era trasformato in uno straccio sudicio nelle loro mani? Come aveva potuto perdere la volontà e l’onore fino a quel punto? Avrebbe dovuto affrontarli fino alla fine, a ogni costo, se non altro per difendere il suo onore, per salvare la dignità di Buthayna. Cosa avrebbe detto di lui adesso, come avrebbe affrontato il suo sguardo? Era stato incapace di proteggerla, non l’aveva difesa neppure con una parola! La guardò. Lei camminava in silenzio accanto a lui. «Andiamo a fare colazione all’Excelsior. Sarai sicuramente affamata» le disse improvvisamente senza pensare. Lei non proferì parola, lo seguì in silenzio nel grande ristorante di fronte a Palazzo Yacoubian che a quell’ora del mattino era completamente vuoto, a parte gli impiegati delle pulizie che stavano lavando il pavimento con acqua e sapone, e un unico avventore, uno straniero anziano seduto in fondo al locale che beveva il caffè completamente immerso nella lettura di un giornale francese. I due si sedettero l’uno di fronte all’altra a un tavolino ad angolo vicino alla vetrata, sull’incrocio fra via Suleyman pasha e via ‘Adly. Zaki ordinò due tazze di tè con il dolce incluso nel prezzo. Un silenzio grave e pesante li avvolse finché non ebbe svuotato la tazza. Poi si mise a parlare lentamente come se brancolasse nel buio: «Buthayna, ti prego di non angosciarti. L’uomo si espone a molte situazioni assurde nel corso della sua vita, ma sarebbe un errore soffermarsi su di esse. Gli ufficiali di polizia in Egitto sono come cani rabbiosi e purtroppo sono onnipotenti a causa della Legge d’emergenza».
‘Ala al-Aswani, Palazzo Yacoubian, traduzione di Bianca Longhi, Feltrinelli (collana Universale Economica), 2008²; pp. 182-83.
[ Ed.ne Or.le:  عمارة يعقوبيان (Imārat Yaʿqūbiān), American University in Cairo Press, in Arabic, 2002 ]
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gregor-samsung · 5 years
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«I nostri governanti lottano per i loro interessi e per le loro ricchezze illecite, noi lottiamo per la religione di Dio. Noi aspiriamo alla vita eterna, loro aspirano ai beni terreni. Le loro mercanzie sono corrotte, abiette, noi abbiamo promesso a Dio la vittoria e lui mantiene sempre le promesse». Come se Taha stesse aspettando una parola dello sheikh per sfogare le sue pene, disse con voce roca: «Mio signore, mi hanno umiliato. Mi hanno talmente umiliato che ho avuto la sensazione che i cani della strada fossero più rispettati di me. Mi hanno fatto cose che non avrei mai immaginato un musulmano potesse fare». «Non sono musulmani. Sono miscredenti con il consenso dei dotti.» «Anche se fossero stati degli infedeli, non avrebbero avuto un minimo di pietà? Non hanno figli, figlie, mogli che amano e di cui si prendono cura? Se fossi stato arrestato in Israele, gli ebrei non mi avrebbero trattato così. Neanche se fossi stato una spia che ha tradito la sua religione e il suo paese, mi avrebbero fatto ciò che mi hanno fatto. Mi chiedo quale reato meriti una tale punizione. Il fatto di essere devoti alla legge coranica è diventato un peccato così terribile? A volte in carcere mi sembrava che tutto quello che avveniva di fronte a me non fosse reale. Era come un incubo dal quale mi sarei risvegliato. Se non fosse stato per la mia fede in Dio, mi sarei suicidato per porre fine a quella tortura.»
‘Ala al-Aswani, Palazzo Yacoubian, traduzione di Bianca Longhi, Feltrinelli (collana Universale Economica), 2008²; p. 142.
[ Ed.ne Or.le:  عمارة يعقوبيان (Imārat Yaʿqūbiān), American University in Cairo Press, in Arabic, 2002 ]
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scaldasolebooks · 4 years
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pangeanews · 5 years
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Era come Hemingway e amava 007. Riscopriamo Bartolo Cattafi, il poeta più sottovalutato del Novecento (e tra i più grandi)
L’ultimo sgarbo glielo fecero poco prima di morire. Morì il 13 marzo di quarant’anni fa. L’anno prima, il 2 gennaio del 1978, aveva sposato, in forma religiosa, Ada: erano all’Ignatianum di Messina, Vanni Scheiwiller tra i suoi testimoni, si legge una sua poesia, Oggi. “Oggi ignorando tutto/ di questo giorno,/ se d’Avvento o Passione,/ ignorando i colori, le pianete,/ m’inginocchio nella tua casa/ sotto la tenda che portiamo ovunque/ per aprirla per chiuderla a tua offesa,/ aprirla ancora, nei boschi/ in fuga, su secche, su frangenti,/ dal capolinea a un punto della corsa”. La figlia Elisabetta era nata nel 1975. Quella poesia, Oggi, appartiene a una delle raccolte più grandi del poeta, L’osso, l’anima. Pubblicata da Mondadori. Come altri libri, personalissimi, feroci come morsi, come ideogrammi slanciati su una stele. L’aria secca del fuoco, La discesa al trono, Marzo e le sue idi. Eppure, Pier Vincenzo Mengaldo non ritiene di installare Bartolo Cattafi tra i Poeti italiani del Novecento. Il poeta si arrabbia, pensa, scrive. Il 18 gennaio 1979 spedisce una lettera ufficiale alla Mondadori, che forse riassume il rapporto anticonformista, polemico – per natura propria, mica per spirito di polemica –, alieno di Cattafi riguardo al piccolo mondo della poesia italiana. “L’antologia del Prof. Mengaldo è a mio avviso il frutto di un’operazione bizzarra, snobistica, estremamente opinabile, rozzamente partigiana”. Non è il solo a pensarla così – di solito Cattafi non le mandava a dire. Morirà, appunto, meno di due mesi dopo. Fu l’ultima lotta. “Nel quadro della poesia italiana del secondo Novecento quello di Bartolo Cattafi rappresenta il caso più clamoroso di sottovalutazione critica”, scrive, da subito, Raoul Bruni, introducendo il volume-monstre che raccoglie Tutte le poesie di Cattafi (Le Lettere, 2019), quasi mille pagine, comprese Notizie dei testi e Bibliografia della critica, per la cura di Diego Bertelli. Ribadendo i fatti oggettivi (poi non li dico più): Cattafi è tra i cinque/sei poeti potenti degli ultimi sessant’anni. Cioè: è uno che impone una lingua nuova, ricca di svariate, contradditorie fonti – Bruni fa un ottimo lavoro sviscerando la biblioteca di Cattafi, che va da Kafka e Michaux a “molteplici riferimenti all’alchimia”, fino all’hard boiled, la spy story (con una certa predilezione per Ian Fleming, citato in una poesia, L’aliscafo), “certa letteratura e cinematografia noir” – un linguaggio lirico che il tempo non ha degradato, anzi. Poi, certo, c’è la leggenda del poeta conradiano, che fa il dandy esistenzialista a Milano, zona ‘Giamaica’, già amico dei poeti, Un poeta alla Hemingway, come sintetizzò Giovanni Giudici – d’altronde, a lui piaceva alimentare la corrusca vitalità: “certi suoi viaggi in Europa e in Africa e relative situazioni avventurose sono già oggetto di favola tra gli amici”, scrive, autoritraendosi, nel 1955. Giocava all’enigma e al vizio della virilità, Cattafi: “A Siviglia sfuggii per un soffio alla lama di un gitano geloso della sua splendida e infedele fidanzata. Ad Orano, nel 1953, ero perseguitato da alcuni contrabbandieri: la polizia mi dette una scorta di due flic con i quali potei visitare anche le case più segrete della città araba… A Dublino, non sapevo una parola d’inglese e non avevo in tasca un soldo: decisi di fare il cieco e mi misi a battere col bastone sul marciapiede”, racconta, questa volta nel 1972. Eppure, la balordaggine del vitalismo – a volte un giogo – non intacca la disciplina pura con cui il poeta lavora, a colpi di bisturi la sua poesia. “Tu continui a scrivere delle bellissime poesie in un modo sempre più alieno dalla poesia… la poesia resta ancora il primo mezzo di dissenso, di protesta, di revisione”, gli scrive Vanni Scheiwiller. L’alieno, l’avventuriero, il poeta che si avventa nell’avvenire. (d.b.)
Intanto. In sede introduttiva Bruni sottolinea un paio di cose sacrosante. Primo: la letteratura italiana è fatta, in gran parte, di “irregolari”, “marginali”, “eccentrici”. Tra cui va inserito Cattafi, “il caso più clamoroso di sottovalutazione critica”. Come si spiega questa sottovalutazione? Cecità congenita a certa critica; inappetenza di Cattafi ai club intellettuali; idiosincrasia politica; voce lirica, la sua, troppo ‘altra’ rispetto al canone dominante?
Raoul Bruni: Molte sono le ragioni che possono spiegare la travagliata fortuna critica di Cattafi, anche se nessuna di esse è tale da giustificare un simile ostracismo: a quelle da te suggerite, va aggiunta la scarsa attitudine autopromozionale e la sua assoluta refrattarietà a ogni programma poetico condiviso. Il capolavoro poetico di Cattafi, L’osso, l’anima esce sintomaticamente nel 1964, giusto un anno dopo la fondazione del Gruppo 63; eppure la distanza di Cattafi dall’esibito sperimentalismo dei protagonisti di quella stagione poetica appare siderale. Cattafi rimase sempre una figura appartata, non perché gli mancassero amici e estimatori influenti (da Sereni a Raboni), ma per scelta, anzi per vocazione.
Vi chiedo di riassumere in pochi tratti il carisma lirico di Cattafi: da cosa si compone, dove nasce?
Diego Bertelli: Volendo adoperare un termine caro a Raboni e usato a proposito da Adele Dei, Cattafi non è stato un poeta “tempestivo”. Con questo intendo dire che a differenza di molti altri poeti a lui coetanei la sua lingua non ha risentito del peso del tempo e del suo tempo. Pensiamo alla vicinanza temporale tra Qualcosa di preciso, L’osso, l’anima e la Neoavanguardia (di cui si parlava prima), oppure tra Cattafi e Pasolini, nati entrambi nel 1922, o tra Cattafi e Giudici, di poco più giovane. Se leggiamo questi altri poeti, in parecchi casi sentiamo una distanza, è un fatto inevitabile; per quel che riguarda Cattafi, invece, quella distanza non si percepisce: la sua lingua non si è storicizzata come le altre. Il suo carisma lirico, come lo definisci, risiede prima di tutto in questo. In più, c’è lo sviluppo di un ritmo, di una prosodia cattafiana, specie nelle serie di nomi, verbi, aggettivi che si accumulano e variano all’ultimo, come un dribbling. Con questa lingua Cattafi arriva da solo a conclusioni cui anche altri poeti sono arrivati negli stessi anni ma senza il sostegno di poetiche forti o di ideologie forti. Sua è la forza di un’intuizione lirica portata alle estreme conseguenze. Specie gli anni Sessanta sono il momento in cui si ha un cambiamento di registro e di stile epocale per la poesia italiana del tempo; per Cattafi, nello specifico, in quegli anni si compie una maturazione dei temi e dello stile personalissima. Cattafi in un curioso articolo a suo nome del 1961 nel quale annunciava la vittoria al Premio Carducci con Qualcosa di preciso afferma questo di sé: “è considerato tra le voci più valide della ‘linea lombarda’”. Si tratta di un raro esempio di auto-classificazione, che nel caso di Cattafi risuona ancor più significativo, considerando l’idiosincrasia del poeta al riguardo. In ogni caso partire da qui, dalla poesia in re che serve come base di una visione straniante ma netta del reale, in cui impulso biologico e prosodia danno vita a uno dei risultati più originali della poesia italiana della seconda metà del Novecento.
Nell’introduzione si citano alcune fonti di Cattafi. Certe sono ‘sporche’, penso alla “letteratura poliziesca”, a Ian Fleming, a Chandler. Cosa c’entrano queste letture con il poeta, come entrano nella sua poesia? Soprattutto: cosa leggeva Cattafi?
Raoul Bruni: Un aspetto che anche i critici più attenti di Cattafi avevano finora trascurato riguarda la sua cultura eclettica, molto più profonda di quanto comunemente si creda. Nel catalogo della biblioteca personale dell’autore si trovano, accanto a classici della letteratura contemporanea, volumi di esoterismo e alchimia, e, appunto, molti polizieschi, hard boiled e spy stories (di Ian Fleming, per esempio, Cattafi possedeva un’ampia collezione di volumi e, a quanto testimonia la vedova Ada De Alessandri, andava spesso al cinema a vedere i film della serie 007). Anche queste lettura che, soprattutto all’epoca in cui Cattafi scriveva, erano confinate tra la letteratura di consumo, hanno contribuito a rendere unica la poetica dell’autore. Nell’opera di Cattafi compaiono infatti pistole e armi da fuoco, e alcune poesie sono attraversate dallo stesso sentimento di suspense che distingue i romanzi noir. Tornando a Fleming, nessuno aveva notato che in una poesia dell’Aria secca del fuoco (L’aliscafo), Cattafi rende esplicitamente omaggio al romanzo Thunderball (da poco ritradotto presso Adelphi).
Mi sorprende il lungo tratto di silenzio lirico – “più di otto anni”, testimonia Raboni – di Cattafi, quasi che la poesia sia mostro e turbamento, cosa che non ha stagionatura quotidiana, lotta al silenzio. Cosa accade in quegli otto anni?
Diego Bertelli: Io credo che nulla valga di più di queste parole di Raboni: “[…] per più di otto anni, Cattafi non scrive una sola poesia, un verso che non sia uno. Chi non conosce Cattafi (voglio dire l’uomo Cattafi) può credere che si tratti di un’esagerazione o di un modo di dire. Non è così. Posso assicurare che, in quegli anni, Cattafi ha fatto di tutto – ha viaggiato, pagato debiti, offerto pranzi; si è costruito una casa; ha dipinto dei quadri, alcuni dei quali decisamente belli; si è persino sposato – tranne che scrivere poesia. A chi gli chiedeva notizie o spiegazioni della cosa, opponeva un sorriso cortese e un po’ ironico. Non ha mai teorizzato il silenzio, né durante né dopo; si è limitato a praticarlo, per quanto ne so senza alcuna particolare fierezza ma anche senza pentimenti o patemi e, in ogni caso, senza il minimo trucco o patteggiamento. Niente abbozzi cestinati, tentativi, dubbi, crisi. Niente di niente; non una riga, non una parola”. Eppure è molto interessante un documento inedito ritrovato da Giada Moneti, che ha recentemente ricostruito il carteggio Cattafi-Machiedo, l’amico e traduttore croato, di cui abbiamo riportato poche ma significative righe nel libro: “Ora dovrei spiegarti perché non ti ho scritto in tutti questi anni. La medesima risposta dovrei darla a tutti gli altri amici che ho sparsi per il mondo. La risposta è semplice, brutale, veritiera: pazzia, blocco psichico, nevrosi, astenia, grafofobia”. Siamo nel 1970, Cattafi sarebbe tornato a scrivere di lì a poco poesia e quel riferimento a Machiedo e agli altri amici può essere letto anche in relazione agli anni in cui non scrive versi.
Che rapporti ha – di affinità letteraria, di amicizia – Cattafi con i poeti del suo tempo?
Diego Bertelli: Cattafi è stato un poeta e un uomo che ha avuto strenui sostenitori (per quel che riguarda nello specifico Raboni sarebbe il caso di andare a vedere quanto Cattafi abbia esercitato su di lui un’influenza vera e propria come poeta) o, viceversa, strenui oppositori. Alla sua poesia, così come alla sua figura di uomo, non si addicono le vie di mezzo. A Milano Cattafi ha conosciuto davvero tutti a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta e ancor più tra la fine degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta. Ora, Cattafi non è il tipo che fa complimenti a nessuno né tanto meno recensisce gli amici o i poeti che potrebbero a sua volta recensirlo. Quell’atteggiamento schietto è stato in certo senso il motivo del suo isolamento, insieme al fatto di non partecipare, vestendo i panni dell’intellettuale organico, al dibattito ideologico del suo tempo. Le affinità letterarie vanno cercate fuori dei confini italiani, come si sottolinea nell’introduzione, ampliando nella sua introduzione il ventaglio dei riferimenti finora fatti. Quello che mi ha sempre sorpreso è invece l’atteggiamento dei molti, specie dopo la sua morte, che ben riassume Andrea Inglese quando scrive: “Cattafi era conosciuto da tutti ma nessuno ne parlava. Se proprio se ne doveva parlare, se ne parla bene, ma per subito passare ad altro”.
Estrapolate una poesia esemplare di Cattafi, oppure un verso, un distico e spiegateci perché è importante. 
Diego Bertelli: Ho recentemente tradotto una serie di poesie di Cattafi insieme alla poetessa statunitense Catherine Barnett per una prossima pubblicazione su rivista, e tra queste ho scelto quella che amo di più. Si tratta di Niente, una poesia recuperata tra i suoi inediti da Paolo Maccari nel 2003 e uno dei testi più esemplari di Cattafi:
È questo che porti arrotolato con cura, piegato in quattro, alla rinfusa sgualcito, spiegazzato
ficcato ovunque negli angoli più oscuri. Niente da dichiarare niente devi dire niente. Il doganiere non ti capirebbe. La memoria è sempre contrabbando.
Credo che il testo sia un esempio efficace della lingua cattafiana, con quei suoi accumuli e scarti e impennate, distesa e poi veloce oppure il contrario, quasi sempre imperniata su una seconda persona singolare che è tutto tranne un istituto come in Montale; lingua dominata da un elemento di inquietudine costante, che riassorbe passato e presente in oggetti descritti o più spesso osservati, fissati a lungo, come attraverso una lente deformante.
**
Un’area
Un’area molto estesa nel tempo e nello spazio. Ebbe feste, bandiere, usi e costumi rilassati, abitanti abili dediti a commerci redditizi, mercanti, meretrici, giocolieri. Nazione di losco splendore fu sempre amata dall’intimo dell’anima per la pronta destrezza, l’ingegno perverso, l’impossibile ingresso nel suo cuore.
*
La pesca delle aguglie
Protesi sugli abissi di nottetempo mettono a soqquadro con clamore e lampare le acque chete con forcine fiocine forchette bucano il banco d’aguglie i mille rivoli d’argento filante. Ed i colpi più forti dove più fitte sono le fibre notturne a proteggere la vita che comunque offre il fianco baluginante.
*
Ripudio
Chi entra in una chioma d’albero si sofferma là dentro si rigira e rinverdito ne esce rinfrescato inerme e agguerrito in un’altra sfera le pianure riarse ripudia le masse impure operanti nel cuore i nemici lucenti come scaglie in ordine sparso sulle nostre pianure.
*
Ossi
Ora spoglie di tutto – vesti e carni corrotte – sono linee e giunture ossi liberi e lieti in un mondo più puro.
Bartolo Cattafi
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pangeanews · 5 years
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“Troppi poeti sono terribilmente obbedienti. Io tento di essere disobbediente, perché la poesia è una festa!”: ode a Les Murray, il “titano gentile” della poesia australiana, che non credeva nella scienza e nella politica ma si affidava a Dio
L’anno scorso, caratura del segno, aveva raccolto i “Collected Poems”, chiudendo il cerchio di un’opera miliare, cominciata nel 1965 con “The Ilex Tree”, ma soprattutto, esattamente 50 anni fa, con “The Weatherborard Cathedral”. Ora il suo editore scrive, “Piangiamo la sua creatività senza limiti, la sua visione originale. La sua poesia ha creato una repubblica vernacolare per l’Australia, un luogo dove la nostra lingua è perennemente custodita e rinnovata”. Les Murray, classe 1938, è morto sul calare di aprile, il mese crudele, ed è stato il più grande poeta australiano di sempre, uno dei grandi in lingua inglese. Ha vinto – se vi importano le medaglie – i grandi premi destinati alla poesia anglofona: il ‘T.S. Eliot Prize’, nel 1996, e la ‘Qeen’s Gold Medal for Poetry’ (vent’anni fa), l’onorificenza regale che è andata, tra gli altri, a Ted Hughes, a Philip Larkin, a Robert Graves, a Wystan H. Auden.  Era cattolico, sposato con Valerie nel 1962, aveva cinque figli. Thomas Keneally ha proposto per lui il Nobel postumo, John Kinsella, che chi legge questo foglio conosce, lo ha ricordato sul Guardian, con ferma tenerezza. Ha scritto poesie bellissime, come questa (nella traduzione di Mariadonata Villa):
Chiesa in memoriam Joseph Brodsky
Il desiderio di essere giusti ha perlopiù tagliato la corda ma alcuni vengono a Dio nella speranza di essere sbagliati.
Alto sulla parete di fondo pende il Vangelo, da prima che fosse libri. Tutti i giudizi hanno fine in lui, tutti, compreso il suo.
È sorto da una evoluzione giudea, non inglese, e ha detto che la luce che innalzava sopra tutte le nazioni era giudea.
La libertà divora ancora libertà, giustizia divora giustizia, amore – perfino amore. Un uomo ritardato ha detto la chiesa mi fa venir voglia di essere cattivo,
ma nudo in una trincea di fango con mille e mille altri, qualcuno sta dicendo il vero dio dà la sua carne e il suo sangue. Gli idoli a te chiedono il tuo.
Quando l’Italia era un paese editorialmente decente, ci fu data quasi subito notizia del talento di Murray. Nella bella antologia sulla “poesia australiana moderna”, “Da Slessor a Dransford. Mito Società Individuo” (Edizioni Accademia, 1977), lo si descriveva così: “Anti-elitista profondamente australiano in tutte le sue espressioni, Murray è un poeta che non ha perso la speranza nella Terra Promessa”. Ha avuto un passato editoriale interessante: nel 2004 l’editore Giano pubblica “Freddy Nettuno”, poi Adelphi si premurò di pubblicare l’antologia di culto “Un arcobaleno perfettamente normale”. L’anno dopo, nel 2005, in piena ubriacatura Murray, sempre Giano pubblicò la raccolta di saggi “Lettere dalla Beozia”. Ricordo che fummo galvanizzati da questo poeta libero, liberatorio, narrativo, corrosivo, che non aveva paura di ingarbugliare Dio in versi tonanti. E che vinse anche un Premio Mondello. Poi ce ne siamo dimenticati, lasciando spazio a poeti di ben più modesto talento, di ben più modeste visioni. Lo ricordiamo pubblicando parte di una bella “Conversation with Les Murray” a cura di J. Mark Smith, edita nel 2009 su “Image” (per la cura di Andrea Bianchi).  
***
Vedi una differenza tra poesia vecchio stile e poesia contemporanea?
Les Murray: Ho scritto da entrambi i lati della barricata, diciamo così. Ci sono certi effetti che ottieni solo con la poesia ‘classica’, con il suo verso. È parte dello strumento. Suoni un po’ qui e un po’ lì. Dipende poi da quando intendi con ‘vecchio stile’. Uno dei miei favoriti viene dalla Beozia: Esiodo. Poi ci sono vari latini come Catullo, Virgilio e qualche altro.
Senti il bisogno di qualcosa che risponda alle condizioni sociali che ci sono adesso rispetto a quelle, per dire, del 1980? O del 1972?
“Adesso” sarà obsoleto tra vent’anni. Non puoi farne a meno. Poi cerchi di raggiungere un posto fuori dal tempo, ma ce la fai solo poche volte. Ora mi guardo indietro e dico: quello sembrerà datato per un bel po’, ma se ci sopravvive potrebbe anche andare bene. Altre poesie che pensi siano atemporali ti potrebbero invece sorprendere e dimostrare che non erano così limitate al loro tempo.
A partire dall’esperienza con tuo figlio, pensi che l’autismo abbia legami con l’arte moderna? Che sia emblema dei suoi problemi?  
Non mi sono avventurato a pensarlo ma probabilmente è vero. Molta arte oggi, perlomeno, è autistica. Perché si dà per assodato che non devi essere sentimentale, quasi non devi avere sentimenti. Vorrebbero un’arte automatica, diamine se questo è autismo! Ho appena letto, senti, di questi tizi che scrivono contro il partito conservatore canadese e descrivono, in via di parodia, Harvard come “grande palazzo d’inverno delle moderne élite”. Senti, è tutto intelletto, i sentimenti non sono permessi.
A volte i miei studenti si lamentano che la poesia li fa sentire stupidi.
Allora meglio dargli la pappa e nient’altro. Mi ripugna sentire che la poesia non li diverta. Quando al contrario: poesia è festa.
E come scopri quel che veramente è sentimentale? 
Probabilmente consiste nel non dire menzogne. Vi è sempre del falso nel sentimentale. Quando è sentimento puro allora spaventa, non è sentimentale. Quindi è importante per gli studenti che provino qualcosa. Non la stupidità. Questo è bello e impossibile per vittime della Riforma protestante. Anche se poi ti dicono che hanno superato la religione. (…) Quanto al mio popolo, conosco gente che quando parla si aspetta sempre di essere contraddetta, e allora ripetono le cose due o tre volte perché non sono convinti di essere ascoltati. Non hanno autorità per imporsi, e nemmeno la presenza, così porgono ossequi: mentalità puritana. Il contrario è la confidenza. Ma se scoprissero la differenza tra adulazione e confidenza, sai che disperazione per loro? Gli Australiani sono portati alla codardia morale perché sono un popolo collettivo, lo stesso come i Tedeschi. O gli Irlandesi: è una cosa ancestrale. Dipendono come disperati dall’accettazione e puniscono chi li domina. Mia moglie Valerie capì da immigrata che non poteva risaltare a scuola. Le affibbiavano nomignoli come “Shakespeare” e “genietta”, e non erano complimenti… Quindi qui non ci sono eroi, ed è un impaccio per tutta la cultura.
Nella sua celebre “Preface” Wordsworth parla della poesia che segue a ruota la scienza.
Io la vedo al contrario. La scienza è arrivata alla fine della corsa, la poesia sta sorgendo. La scienza è una specie di cannibalismo: mangia se stessa e chi la pratica. In certa misura la letteratura ha già sofferto questa fase: poco tempo e le cose muoiono come obsolete; sono divorate mentre sono ancora vive. Le persone provano la stessa sensazione dei loro smartphone esauriti, ancor prima che muoiano. E la scienza, che è fiera di essere antireligiosa, deve ri-creare il mondo ogni volta. Non può prendere nulla come già dato. Allora ri-crea e divora la vecchia versione con i suoi alfieri. Arriveranno al punto che metteranno da parte anche Darwin. Questo modo di relegare le cose, mandare a morte le cose perché il meglio deve ancora arrivare, è lo stigma degli ultimi quattrocento anni.
Credi che la religione in generale – e il Cristianesimo in particolare – abbia la funzione di un livellamento sociale? Protegge – o potrebbe proteggere – le persone dall’esclusione sociale?
Davvero spero che il Cristianesimo redistribuisca la ricchezza, che sia una forza, uno scudo contro inutili primati e classifiche. È ancora possibile un elogio moderato, in giusta misura, della religione e dei suoi santi da adulare come questi lo consentono. Spero in quello che i Cristiani compiono: salvano dall’esclusione sociale, quando si ricordano di farlo. E poi le promesse, mondane e oltremondane, sono le stesse. Il Regno è qui e di là anche se incontra resistenza e sopraffazione.
Ti dici cattolico. Dati i tuoi antenati scozzesi e tedeschi, qual è la loro eredità protestante? Non-conformismo, scetticismo verso la legge? Anche l’immaginazione austera, credo.  
Sì sono un cattolico e convertito prima dei vent’anni, ma non sono lo stereotipo del fanatico neoconvertito. Mia moglie dice che sente ancora puzza di calvinista, specie quando non perdono. Forse ha ragione. Mi fondo sulla Bibbia, la lessi tutta tra i dieci e i dodici anni. Mi sembra che prima del Vaticano II questo fosse impossibile per un bambino cattolico. Io lo feci. Ma l’atmosfera calvinista, la santità personale e competitiva, il gretto vantaggio imposto sui poveri della comunità, la superiorità su loro e sugli sfortunati – questo mi disgustava. E la dottrina, allora moribonda, della predestinazione, “sei quel che hai avuto in denaro, in sesso e attenzioni”, mi faceva schifo. Eravamo i più poveri, il vento soffiava negli interstizi delle porte della nostra casa. I miei genitori affondavano nell’umiliazione. Nel cattolicesimo non hai austerità prevaricatrice o grettezza di spirito, hai cielo e terra ben collegate. Mentre i calvinisti che non perdonano sono in realtà degli snob in campo morale, se guardi bene. Molti miei antenati evitavano il peccato perché se ne sentivano indegni. Altri erano irreligiosi e disperati per lo stesso escamotage dell’indegnità. Alcuni si sentivano superiori agli Aborigeni, altri li aiutavano con lo scodellino perché gli sembravano predestinati a sopportare.
Il tuo poeta cristiano. John Donne o George Herbert?
Ammiro Donne per l’esattezza matematica, da piastrellatore, con la quale crea intrecci e rientri. Come una moschea araba. Ma George Herbert mi scuote di più, come certi poeti scozzesi e irlandesi del Medioevo. Amo alcuni inni della Riforma protestante, ma il sommo Milton non mi ha influenzato. Lo lessi nei lunghi finesettimana dei sedicenni e non ci sono più tornato. L’unico tra i suoi miti che mi piaccia è Sansone agonista. Ma Lucifero pare un broker che sia stato incastrato. Meglio Pope, mi ha insegnato la dizione barocca, a mescolare il linguaggio modellandovi le mie composizioni. (…) Certamente quasi tutto il popolo ha mollato la poesia come ha fatto con la religione. Anzi in modo anche più risoluto. Pensa però che nella vallata dove abitavo da bambino c’erano solo due persone che leggevano poesie da sobrie. Un eremita scozzese che era legato alla sua tradizione e poteva battere tutti in una notte di bevute [quando si celebra l’eroe e poeta nazionale a gennaio, Burns]. Poi c’era un allevatore inglese che sapeva tutto Pope e ha trascorso mezzo secolo a recitare mentre guidava il bestiame. Recitava Pope e aveva come panorama il culo delle vacche. Poesia!
La poesia ti ha tirato fuori dalla depressione?
Penso di sì. Anche se dicevo di non usarla come terapia. Ma ti confido che quando stai male tutto è terapeutico. È stata come un pistone per tirar su una vecchia roba ed esaminarla.
Sogni in direzione politica?
LM: Nessuno, ecco il patema. Non credo nei politici. Non penso facciano del gran bene, nemmeno quando sono in stato di grazia. Hollywood e le ideologie connesse hanno spodestato la politica, l’hanno ridotta all’obbedienza.
Faresti una distinzione tra politica e cultura?
Sì. Politica è mantenimento, tenere tutto fresco e presentabile. Amministrazione. Conservare le cose nei loro limiti e mantenere i privilegi per quelli che già li detengono. Laddove la cultura lancia in aria tutte le idee che la politica non vorrebbe vedere.
Il poeta deve seguire il cambiamento culturale?  
Negli anni Sessanta ci fu una rivoluzione bohemienne che era come una pellicola sottilissima in capo a un antico oceano di forze. E questa pellicola cambia sempre la sua forma, si allunga e si distende per le forze che arrivano da laggiù. E manda scintille! Richiama le persone. Pericoloso, ti dico, non ci puoi fare affidamento. Dunque puoi dedurre che non sono mai stato il tipo del carino facilmente avvicinabile. La gente di successo, di bell’aspetto, notano queste cose. Sono troppi impegnati a cavalcare l’onda. A restare a galla. 
Quindi la poesia opera una contro-spinta a tutte le mode?
Quasi sempre la poesia è obbedienza, come tutte le forze. Molti poeti sono terribilmente obbedienti. Io tento di essere un poeta disobbediente. Il bello della poesia è che ti lascia fare lo zuccone quando vorrebbero omologarti. Ma se tutti rispettano i valori correnti, questo è un surrogato della poesia. Disobbedire rende tutto più intricato. E più interessante. Non dovrei lagnarmi solo perché so scrivere. Chi scrive bene si oppone al flusso attuale. È come preparare il riflusso. 
L'articolo “Troppi poeti sono terribilmente obbedienti. Io tento di essere disobbediente, perché la poesia è una festa!”: ode a Les Murray, il “titano gentile” della poesia australiana, che non credeva nella scienza e nella politica ma si affidava a Dio proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2V5zSnU
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