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#cucina della nonna
difensoredelfocolare · 7 months
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Polpette al sugo, tu lo sai come farle morbidissime?
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INGREDIENTI PER 4 PERSONE:
300 g di coppa di maiale tritato
400 g di cappello del prete tritato
50 g di pane secco senza crosta
1/2 bicchiere di latte
1 uovo
1 ciuffo di prezzemolo
1 spicchio d’aglio
80 di Parmigiano Reggiano grattugiato
sale, pepe e noce moscata
1 kg di pelati
1 spicchio d’aglio
olio extravergine d’oliva
sale
PROCEDIMENTO:
Ammolla il pane con il latte caldo e trita finemente il prezzemolo con l’aglio;
In una ciotola metti le carni, il Parmigiano, l’uovo, prezzemolo, aglio, il pane bagnato e non strizzato, sale, pepe e noce moscata e mescola il tutto fino ad ottenere un impasto uniforme;
In una pentola metti un filo d’olio e uno spicchio d’aglio e fallo soffriggere. Quando l’aglio è dorato aggiungi i pelati (puoi anche passarli con un passaverdura), sala leggermente, copri e porta a bollore;
Forma le polpette della misura che vuoi (io le ho fatte di circa 70 g ciascuna) e poi aggiungile al sugo che bolle e mescola muovendo la pentola;
Cuocile per almeno 40/45 minuti e se il sugo non è ben ritirato togli le polpette e fallo asciugare;
Servile tiepide con abbondante pane per la scarpetta.
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belladecasa · 5 months
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Quando ho saputo dell’ultimo femminicidio ho pensato a tutte le mie Vigilie di Natale, trascorse su due tavoli: uno, grande, alto, di legno, a cui sedevano gli uomini, l’altro, di plastica, smontabile, che veniva tirato fuori nelle occasioni in cui eravamo di più, in cui stavano le donne. Rigorosamente posizionato in modo da rendere più agevole l’accesso alla cucina. Mi ricordo che da quel tavolo veniva un dialetto urlato, grossolano, cose che non capivo che diventavano liti, tra mio nonno e mio zio. Quelle cose ce le siamo trascinate per anni, sullo stesso tavolo, finché un giorno mio zio se ne è andato durante il pranzo e non è tornato più da noi a Natale. Le donne, mia madre, le mie zie, non c’entravano nulla con quelle liti: educate a sopportare le urla, i tavoli squallidi di plastica, l’odore di fritto, la sopraffazione, la violenza, le lacrime. Era normale puzzare di cucina come di sottomissione. Mia nonna me la ricordo sempre infelice, rannicchiata su una sdraio, piangeva spesso, di lacrime mute. Mi diceva che mio nonno era cattivo e io allora non capivo perché, poi è arrivato a darmi della troia e ho capito. Mamma perdeva sempre la voce perché a differenza di mia nonna, all’apparenza, si ribellava, ma le sue grida erano mute come le lacrime della madre. Si è dovuta sposare a 23 anni per uscire di casa, essere concessa da un uomo a un altro uomo, uno che la lasciava con la suocera a togliergli il suo piatto mentre lui se ne andava. L’unica cosa che è cambiata è che oggi la suocera è morta.
Quando ho saputo ho pensato a quella volta che Arianna mi raccontò di quando, fuori dalla sua residenza universitaria, fermarono un ragazzo che stava prendendo a calci la sua fidanzata. A quella volta che Giacomo mi disse di quel ragazzo che aveva diffuso su un gruppo Telegram le foto, foto normali, in costume, della sua migliore amica, per simulare uno stupro di gruppo.
Quando ho saputo ho pensato a Moira, a Valeria, ad Adriana, ad Antonella, ad Arianna, a Luisa, a Chiara, a me. In tutte le relazioni delle mie amiche ho visto: sputi e insulti, divieti di uscire, minacce, richieste di video per controllare che fossero davvero dove dicevano di essere, pretese di tornare a casa e trovare il piatto pronto, commenti sessualizzanti verso altre donne, pressioni per fare sesso anche con la cistite, per fare sesso senza preservativo.
Quando ho saputo ho pensato a mio nonno, al fatto che ancora mi logoro perché non riesco a legargli altri ricordi che non siano, ad esempio, quella sera in cui mi disse che io non esco mai di casa ma quando lo faccio vado vestita come una troia. Che avrebbe voluto una nipote diversa, che ero brutta, che ero troppo magra. Poi sì mi diceva che lui moriva per me e mi voleva bene più di chiunque. Mentre mia zia faceva le radio per il tumore al seno arrivò a insinuare che non andasse dal medico ma “a fare la mignotta”, insieme a mia madre.
Quando ho saputo ho pensato ai quattro anni con Giorgio, a tutte le volte, innumerevoli, in cui mi diceva che ero stupida, inutile, e non sapevo fare un cazzo. E a quella volta che ubriaco mi disse, ovviamente, che ero una troia.
Quando ho saputo ho pensato che sarebbe potuto succedere a me, che potrebbe succedere a me, ora e sempre, e ad Arianna, ad Adriana, Valeria, Antonella, Moira. Ad ognuna delle mie amiche, a mia zia, a mia madre a mia nonna. Pensate che mi sorprenderei, se ci fossero, o ci fossero state, al posto degli insulti, degli sputi, dei racconti, dei tavolini di plastica, le coltellate?
#s
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yomersapiens · 7 months
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Unica regola del buon vicinato: ignorarsi.
Certe cose è meglio non saperle, penso. Cioè, nel mio palazzo io vivo quasi come un'ombra. Non credo che la gente si ricordi di me e quando si ricordano è sempre qualcosa tipo "l'italiano che ci guarda disgustati quando sente l'odore del nostro caffè". È vero, non mi sono fatto tanti amici ma perché lo so quanto è brutto conoscere sul serio i propri vicini.
C'era la vicina piccina che mi guardava in casa (c'è ancora, non è morta), un'anziana signora che monitorava lo spostamento delle visite nel mio appartamento e mi chiedeva perché non avessi una fidanzata fissa. Ecco, lei. Per descriverla, sembra una piccola prugna secca con labbra e occhi che parla gracidando e ti chiede di aiutarla a portare su e giù la spesa. L'altro giorno mi ha persino bussato per chiedermi di accompagnarla alla fermata del bus. L'ho fatto, perché comunque a me i vecchietti piacciono, anche quando sono spioni. A me non serve installare delle videocamere di sicurezza io ho lei che mi guarda in casa e mi avvisa se entrano i ladri per rubarsi quel ciccione di Ernesto. Mentre la accompagnavo ho notato che il sacchetto era pieno di viveri, così le ho chiesto dove stesse andando con tutto quel cibo. Mi ha risposto che c'era un'offerta al discount locale e che aveva fatto scorta da portare al figlio e i nipoti. Perché il costo della vita a Vienna adesso è insostenibile e quindi è il suo ruolo di nonna provvedere al benessere della famiglia. L'ho ammirata molto, mentre si spiegava in un tedesco scalcinato. Poi però siamo stati in contatto per più di due minuti e dopo due minuti le persone rovinano sempre tutto. Infatti al 2:01 ha aggiunto "E poi in questa città non funziona nulla! Ci sono troppi immigrati! Si stava meglio una volta!" allora io mi sono incupito. Mi stava simpatica accidenti. Le ho detto "Questi immigrati sono insopportabili, i peggiori sono quelli che la aiutano a portare la spesa e la accompagnano alla fermata del bus! Vero?". Lei ha sorriso e ha detto che no, io ero diverso. Forse perché sono bianco. Poi le ho chiesto "Ma mi tolga una curiosità, lei da dove viene?" e vai a scoprire che è mezza serba, mezza sinti, mezza puffo date le ridotte dimensioni. Mai parlare per più di due minuti con nessuno. Io non voglio sapere.
C'era un ratto nel palazzo. Si aggira da qualche giorno senza essere stato fermato. Io mi sentivo al sicuro, Ernesto ha bisogno di un amico e tanto mica riesce a fargli del male, al massimo lo abbraccia e ci dorme assieme. Ernesto odia solo me. Un po' ho sperato che bussasse alla mia porta, chiedendo ospitalità. Invece era la vicina prugna secca di nuovo a chiedermi di aiutarla a prendere un barattolo messo troppo in alto nella sua cucina. Questi immigrati alti più di 1.80, quanto sono fastidiosi eh?
Un altro vicino sta traslocando. Un tipo strambo, ma divertente. Sicuramente ha più di sessantanni ma non ha voglia di dimostrarli. Sembra in forma, nonostante la pancia pronunciata e i capelli grigio argento. Quelli che abitano dall'altro lato del palazzo hanno il bagno fuori dall'appartamento e quindi per usare la tazza devono uscire di casa, camminare nel giroscale e giungere nella loro toilette. Inutile dire che si sente tutto e molto spesso, quando escono, sono mezzi nudi. Il vicino in questione era il re del catarro mattutino. Si svegliava presto e andava a raschiare i fondali della gola tenendo la porta del bagno esterno aperta, non sia mai che non mi rendeva partecipe dei suoi ritrovamenti. Quindi quando ho capito che si stava trasferendo, non mi sono preoccupato più di tanto. Ho pensato "Dai, magari il ratto che sta girando nel palazzo può andare a vivere a casa sua!". Lui era un tipo atletico, durante la pandemia aveva costruito una palestra nella stanza adiacente al deposito bici e lo aveva fatto per tutto il palazzo! Non solo per lui, cioè ok principalmente per lui, ma era passato porta a porta per invitare tutti a usarla. Io c'ero stato una volta e vedendo le condizioni igieniche dei manubri ho optato per tornare a fare il mio sport preferito: piangere sul divano. Però qualcosa di buono l'aveva fatta, per questo quando ieri l'ho incontrato casualmente sul bus ho pensato di andare a salutarlo e chiedergli i programmi per il futuro.
Ma quindi te ne vai?
Sì, mi trasferisco, non so ancora dove di preciso, o in Ungheria o negli USA.
Beh dai, non male!
Sì! Ho bisogno di libertà! Qua mi hanno tolto tutto.
In che senso?
Durante il Covid, quando hanno chiuso le palestre!
Senti sono passati appena dieci secondi, questi discorsi dovresti iniziare a farli dopo due minuti.
Cosa?
No non ti preoccupare, una roba mia.
Ah ok. Dicevo, hanno chiuso le palestre, a noi sani! Capito? Io ero sano e non potevo andare a fare sport! Assurdo! I malati non vanno in palestra, non hanno le forze, guarda me, io sono pieno di forza! Non sono malato! Però io dovevo stare in casa!
Ma avevi costruito la palestra per tutti, abbiamo apprezzato.
Io voglio la mia libertà!
Vabbè ma è passato tanto tempo dai...
Non abbastanza, torneranno a prendersi tutto, vedrai.
Ok, come dici tu, va bene, fai buon viaggio.
Guardo fuori dal bus, non era la mia fermata ma sapevo che sarei dovuto scendere e invece no, pioveva e ha vinto la pigrizia, errore terribile. Così sono rimasto su e l'attempato vicino negazionista ha deciso di proseguire.
Tu sei italiano, vero?
Sì, dalla nascita più o meno...
Bene bene, mi piace la tua nazione, e quella vostra presidente. Come si chiama?
Ma come, ti piace la Meloni?
Certo! È una grande!
Ma è una cazzo di fascista.
Dice le cose come stanno, non si nasconde dietro a nulla!
Ok questo glielo posso riconoscere. Era fascista da giovane e lo è ancora oggi, non lo ha mai nascosto. Almeno è coerente. Se l'hanno eletta sapevano a cosa andavano incontro. Mica come quel deficiente di Salvini, lui era un cazzo di idiota completo.
Lui anche mi piaceva!
Ovviamente ti piaceva.
Certo! Lui. Non sento più parlare di lui.
E meno male, prima odiava noi terroni, poi l'hanno eletto ed era tutto Italia Italia Italia e se la prendeva con chi immigrava. Sempre a parlare alla pancia delle gente, a cercare nuovi nemici, a bere cocktail in discoteca e mangiare alla sagra della porchetta.
Un grande!
Ma proprio no. Sai una cosa, ti dirò questo, paragonato a questi suoi scarsi derivati, ecco, mi manca quasi Berlusconi. Lui al confronto era un genio.
E poi lui si scopava le quattordicenni! Io pure mi vorrei scopare le quattordicenni!
Scendo dal bus senza nemmeno salutare. Non avevamo parlato per dieci anni di vicinato, perché ho rovinato tutto alla fine? Non potevo farmi gli affari miei? No. Dieci stupendi anni di reciproco ignorarsi gettati nella spazzatura dopo due minuti di conversazione.
Apro il portone del palazzo, visibilmente afflitto. Davanti a me, per terra, giace il cadavere del ratto che girovagava da qualche giorno. Lo guardo e gli dico: "Ti capisco amico mio, ti capisco davvero. Non sai quanto ti capisco". Salgo in casa, prendo la paletta che uso per travasare le piante e torno giù. Vado a seppellirlo nel retro del cortile. Canto "Amazing grace". Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno, perché purtroppo i peggiori traslocano solamente.
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occhietti · 10 months
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Si andava al mare e si restava
tre settimane, forse un mese.
Si passava la giornata a desiderare di fare il bagno, a supplicare gli adulti, a negare di aver mangiato; ci si buttava in mezzo alle onde monitorati dallo sguardo di sbieco di qualche genitore sulla riva; si calciava la marea con gli stinchi, fino a fare male. E quando si beveva l’acqua salata, per il dispetto di qualche altro bambino, il desiderio di vendetta durava non più di qualche secondo e comunque da lì alla seconda onda spumosa. I piedi bruciavano dal lettino alla riva e si correva verso la battigia con le urla e i richiami che si sperdevano alle spalle e si dissolvevano fra gli stabilimenti.
Il lettino era una conquista da adulti, i bambini potevano solo sedersi a terra, sopra a un telo che si riempiva di sabbia. Lo scrollavano le madri lamentose, con i granelli che volavano via con il vento e che andavano guidati, lontano dagli occhi, dalle borse appese agli ombrelloni, dagli altri. I ghiaccioli si scioglievano a toccarli con le labbra e sgocciolavano sulle dita dei piedi, diventando colla colorata da lavare a riva. Si scavavano buche per trovare l’acqua e a volte si trovavano conchiglie dure, da farsi male, spezzarsi le unghie. Non si smetteva di cercare, si continuava con l’altra mano.
Le regole erano chiare e sicure: tre ore lontano dai pasti ogni bagno, al primo richiamo risalire, al calcio balilla non frullare, non allontanarsi mai. Solo l'ultima non rispettavo e mi chiamavano al microfono con il mio nome o, se proprio non tornavo, con il colore del mio costume. Era bello parlare con gli adulti sdraiati che facevano finta di comprare le conchiglie che si andava a vendere, tutte, anche quelle più brutte o spaccate. Accadeva il miracolo semplice dello scambio, il segreto incontrovertibile nell’atto: io che davo e qualcuno che prendeva e ridava indietro, senza condizione. Io ho qualcosa da darti e tu lo prendi. Ho un’acqua e tu una sete.
Il tempo non c’era, non esistevano i giorni che consumano, esisteva la luce per andare in spiaggia, la penombra per rientrare e il buio per girare sui marciapiedi gremiti, con l’odore delle creme degli altri e i salvagenti appesi nei negozi illuminati al neon.
A un certo punto, si preparavano le valigie si lavavano bene le posate della casa e si andava via, dopo avere riconsegnato le chiavi a un’agenzia con la vetrina spoglia. Il viaggio del rientro era lungo, fatto di nausea, di aria che usciva tiepida dai bocchettoni della macchina stipata. Il cane boccheggiava con la lingua fuori a tratti e mia nonna teneva stretta la maniglia alla sua destra, in alto, come se dovesse cadere da un momento all’altro.
Era il segno che l’estate stava finendo, i compiti delle vacanze erano stati fatti per metà, ci sarebbero stati altri pomeriggi, nella penombra del soggiorno, a casa dei nonni materni, con mia nonna a riposare nella stanza accanto o a farsi fare la tinta dall’amica Vera, con l’odore forte di ammoniaca in cucina.
La vita era davanti e si poteva aspettare, senza morirsi addosso, trattenere il respiro fino al primo temporale a segnare una nuova stagione, la seconda delle uniche due. Si poteva aspettare l’inverno come non fosse una fine, un ridursi, un passare.
Era il tempo fisso dell’infanzia, con i volti eterni, per sempre fermi sulla battigia a tenere il telo ad asciugare. Si poteva credere ricominciasse tutto da capo, nel suo cerchio, in eterno identico. Attendere ritornasse il presente caldo, il presente vacanziero, ma attenderlo d'inverno... come fosse un futuro.
- Beatrice Zerbini
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3nding · 11 months
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Thread by @FrancyontheMoon Riassunto degli ultimi 3 anni secondo i complottisti novax. Non mi assumo le responsabilità per le reazioni che potreste avere leggendo, affari vostri. 🤧🤒😷
Il covid non esiste, la pandemia è stata tutta una farsa. Se per caso il covid esiste, è un semplice raffreddore, al massimo una banale influenza che non ha mai ucciso nessuno, le bare erano vuote.
I decessi ci sono stati perchè è stato curato in modo sbagliato il raffreddore, pompando ossigeno a caso con dei compressori rubati in officina e facendo scoppiare i polmoni, quando bastavano una spruzzata di Vicks Sinex e due Brufen.
Che poi non si capisce perchè i malati di raffreddore siano andati in ospedale, quando è da centinaia di anni che il raffreddore si cura in casa con i rimedi della nonna. Probabilmente si sono fatti condizionare ed erano in insufficienza respiratoria psicosomatica.
Il virus (che non esiste) è stato creato in laboratorio appositamente per sterminare la popolazione (causando un semplice raffreddore), ma siccome è troppo poco letale (ma non era stato creato come arma di sterminio?), l'obiettivo vero era indurci tutti a vaccinarci.
Infatti la vera arma letale è il vaccino, il finto virus era solo la scusa per vaccinare. Il vaccino era già pronto, visto che il piano era allo studio da anni, però ci hanno messo troppo poco tempo a svilupparlo e metterlo in commercio, quindi non è sicuro.
Ma in ogni caso il vaccino è stato ideato per essere dannoso, è un siero genico sperimentale tossico magico, progettato per alterare il DNA delle persone e farle morire di malore improvviso, il vero obiettivo del piano di sterminio di massa a livello mondiale.
Però, per non dare troppo nell'occhio con i malori improvvisi, si è deciso di moderare lo sterminio di massa previsto dal piano iniziale, quindi alla maggior parte della gente è stato iniettato placebo o sono state fatte finte iniezioni con siringhe con l'ago incappucciato.
Come si capisce chi ha ricevuto il vaccino per finta? Ovvio, tutti quelli che non sono morti di malore! Ai vip e ai politici è stato fatto di default il finto vaccino, però se qualcuno di loro muore è stato il vaccino, che si è magicamente trasformato in vero vaccino.
La trasformazione avviene grazie al grafene, inserito a tradimento nel vaccino, e l'ha scoperto un tizio usando un microscopio ottico Clementoni sul tavolo della cucina. La composizione del vaccino si può leggere nel foglietto illustrativo, ma è un segreto militare.
Il vaccino te lo possono fare a tua insaputa, vai in ospedale per altri motivi e ti ritrovi inoculato, senza accorgertene, direttamente con la 3° dose, saltando 1° e 2°. I poteri forti sono tremendi!
La tecnologia è talmente avanzata che dal vaccino non si salva nessuno. Se non sei vaccinato e non vai in ospedale, subirai la vaccinazione passiva stando nelle vicinanze di un vaccinato. Per fortuna il vaccinato nel 95% dei casi ha ricevuto il finto vaccino.
Se un non vaccinato ha un malore o si ammala, deve essere per forza venuto in contatto con uno di quei 5 vaccinati su 100 che hanno ricevuto il vero vaccino. È risaputo che i non vaccinati puri sono immortali e inattaccabili da qualsiasi malattia!
Il virus non esiste, ma se usi la mascherina il virus inesistente resta intrappolato tra te e la mascherina (è più grande rispetto alla trama della mascherina, un virus dopato insomma) e ti ri-contagi in continuazione con il raffreddore.
La mascherina è inutile, il virus può passarci attraverso (è dotato di propulsione nucleare RNAindotta, non viene diffuso dai droplets come gli altri virus), mentre tu ti intossichi respirando la tua CO2, che è una molecola gassosa ma si impiglia nel tessuto della mascherina.
Ci facevano il tampone per perforarci la barriera ematoencefalica (che nei novax dev'essere tipo la muraglia cinese, impenetrabile anche da parte di ossigeno e glucosio, il che spiegherebbe molte cose). Però, pur di non vaccinarsi, vai di tampone perforante ogni 48 ore.
I poteri forti, per essere sicuri di sterminare tutto il mondo, hanno inventato i termoscan che fanno una cosa a caso tra le 3: bruciano la ghiandola pineale, controllano i microchip installati con il vaccino (anche con quello falso), cancellano la memoria.
Il sangue dei vaccinati si è trasformato in catrame nero, con i globuli rossi che fanno il trenino come nelle feste di capodanno, ma quelli dell'Avis sono dei tonti e non se ne sono mai accorti, per cui i vaccinati continuano a donare marmellata di more invece che sangue.
Come previsto, i vaccinati sono morti dopo 2 mesi dalla 1° dose, anzi dopo 2 mesi dalla 2°, anzi dopo 6 mesi dalla 1°, anzi dopo 18 mesi dalla 1°, anzi dopo 2 mesi dalla 3°. Oh insomma, sono morti! Ma solo se avevano un cugino novax, chi non ha cugini novax può stare sereno.
Tutto ciò che succede dopo il vaccino, è causato dal vaccino. Muore il gatto, il partner ti tradisce, ti rompi una gamba, buchi la gomma dell'auto, ti bocciano all'esame, ti va di traverso l'acqua, perdi il treno, ti viene un brufolo? È il vaccino (anche quello finto)!
Se un vaccinato fa una RMN è spacciato, con tutto il grafene magnetico che è stato inoculato in quei 0,3 ml di vaccino. Le liste d'attesa sono così lunghe perchè dopo ogni risonanza ad un vaccinato devono riparare il magnete (non scendo nei dettagli, sono troppo splatter).
Per poter fare scoppiare i polmoni con più facilità, i medici si sono inventati la sedazione pre-intubazione con Propofol o Midazolam. Fino al 2020 chi necessitava di intubazione subiva la procedura da sveglio, o al massimo con una botta in testa se non collaborava abbastanza.
Big pharma vuole avvelenarci con i suoi vaccini al feto, ma qua non ci si fa fregare! Si cura (il raffreddore) con antiparassitari per cavalli, dosi - da cavallo - di FANS e anticoagulanti, e altri farmaci un po' a caso. Tutta roba che cresce spontanea nei campi di biada eh!
Se vaccinazione diretta e passiva non funzionano e c'è ancora gente che non ha malori, niente paura! Ci sono le antenne 5G che attivano i microchip, che combinati alle scie chimiche (che contengono vaccino, virus e spike pura), trasformano tutti in zombie telecomandati.
Se muori mentre sei covid+, bisogna fare distinzione tra PER covid e CON covid. Se ti pugnalano al petto, puoi morire PER pugnalata o CON pugnalata. Chi sarebbe morto in ogni caso entro i successivi 85 anni, è morto CON covid o CON pugnalata ma non PER covid o PER pugnalata.
Se un non vaccinato prende il raffreddore del virus che non esiste, e per curarlo segue le cure da cavallo ma sviluppa lo stesso la polmonite e finisce in ospedale, è perchè nelle compresse c'era nascosto del grafene. Non ci si può fidare nemmeno dei farmaci da cavallo!
I medici che consigliano il vaccino (il 99,5% dei medici esistenti) sono assassini, corrotti, inetti, infami, pagati per tenere nascosta la vera verità. I rianimatori che intubano a tradimento la gente con il raffreddore, dopo averla rapita per strada, sono ancora peggio.
Fino a 2 anni fa le morti improvvise erano 2-3/anno in tutta Italia, ora sono decine di migliaia. Ma era tutto pianificato, altrimenti perchè avrebbero cominciato anni fa ad installare un po' dappertutto i DAE? Sapevano che le morti improvvise sarebbero aumentate del 38495%!
Capiamoci bene: ti provocano la morte improvvisa con il vaccino, ma allo stesso tempo mettono ovunque strumenti che possono salvarti da quella morte. Sempre per non dare troppo nell'occhio con numeri eccessivi di decessi, logico.
Chi non muore dopo il vaccino (PER vaccino o CON vaccino, tra l'altro?), grazie al microchip sarà attratto dai cibi a base di insetti che vengono pubblicizzati in questo periodo. Sul DNA modificato si innesteranno pezzi di DNA di insetto. Kafka aveva già previsto tutto.
Medici e infermieri hanno ucciso deliberatamente migliaia di pazienti ricoverati, e nelle pause tra un'uccisione e l'altra ballavano nei corridoi vuoti dei reparti vuoti, visto che il virus non esiste, la pandemia era una farsa e i pazienti erano attori. Tutto chiaro, vero?
I pazienti sono stati uccisi con 2 tecniche principali: 1) Tachipirina e vigile attesa, famosa per causare la morte certa dei malati di raffreddore; 2) intubazione e ventilazione, letali in caso di lieve raffreddore da virus inesistente.
Lo sterminio a base di tubi endotracheali e Paracetamolo è avvenuto prima del vaccino, ovviamente. Da quando c'è il vaccino ci pensa lui a provocare i decessi, per cui non serve più intubare o consumare il glutatione. Tutto pensato alla perfezione, fase per fase!
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forzadiavoloale · 3 months
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literarylandscapes · 2 months
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~( On a late June afternoon in 1905, Maud Montgomery sat in her grandmother’s kitchen, writing. She sat not at the kitchen table, but perched on top of it, her feet set neatly on a nearby sofa, her notebook propped against her knees. From here she could jump down if someone stopped by for their mail, as was likely to happen — for the kitchen doubled as the post office of Cavendish, a tiny seaside village on Prince Edward Island. )~
In un tardo pomeriggio di giugno del 1905, Maud Montgomery sedeva nella cucina della nonna, scrivendo. Non sedeva al tavolo della cucina, ma vi si appollaiava sopra, i piedi appoggiati ordinatamente su un divano vicino, il taccuino appoggiato alle ginocchia. Da lì poteva saltare giù se qualcuno si fosse fermato a ritirare la posta, come era probabile che accadesse, perché la cucina fungeva anche da ufficio postale di Cavendish, un minuscolo villaggio sul mare dell'Isola del Principe Edoardo.
✒️Liz Rosenberg
~~•House of Dreams
The Life of L.M Montgomery•~~
🖌illustrated by Julie Morstad
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sottileincanto · 5 months
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Rivoglio indietro i miei nonni. I miei nonni ancora giovani e in salute e le tate che lavoravano in casa per nonna e che mi volevano bene. E le infinite commari della nonna che mi riempivano sempre di biscotti e complimenti per come ero buona ed educata e per quanto leggevo bene a messa la domenica. Voglio indietro la nonna che mi aspettava sulla porta della cucina quando tornavo la sera dopo essere stata tutto il pomeriggio a giocare con i figli dei contadini, tra i campi, le stalle, i pagliai, i cortili, le conigliere e i pollai, le cucine delle donne del paese dove si rimediava sempre un dolce o il rosso dell' uovo fresco con un po' di vino cotto "perché vi fa crescere bene", e mi metteva nella vasca da bagno con tutti i vestiti, perché se mi avesse spogliato fuori dalla vasca poi avrebbe dovuto pulire tutto il bagno. E che quando mi mette a letto mi dice "Fatti il segno della croce nonnì, che la Madonna ti protegge sempre". Rivoglio indietro il nonno che mi fa stare con lui quando prepara le cartucce per la caccia e poi mi porta a spasso per la campagna con i cani e mi insegna a sparare con il fucile a piombini mirando alla frutta. Così poi nonna s'arrabbia che trova i piombini nelle pere. Voglio indietro la famiglia che mi proteggeva da tutti i mali del mondo, dove si trovava sempre una soluzione, un piatto caldo, un sorriso (o un rimprovero) e un abbraccio. Voglio indietro il mio rifugio.
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ross-nekochan · 2 years
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Lunedì ho risposto ad un annuncio di lavoro. Era un annuncio per camerieri. Proprio così.
Ma sei scema? Sei laureata e ti metti a fare la cameriera? Sì. Ho sempre detto che non disegno il lavoro manuale. È un po' come la palestra: sei stanco, ma di quella stanchezza che ti fa sentire vivo. In secundis, l'avrei fatto come cosa momentanea, nell'attesa di qualcosa di più "grosso", per darmi un impegno e per racimolare qualche soldo, dato che la paga era anche più di quanto mi aspettassi (poi arriviamo alla fregatura). Era questa l'idea.
Già dal primo giorno, questa nuova realtà mi ha fatto riflettere (un po' troppo). Strano quanto possa accenderti il cervello lavorare fisicamente. Avevo venduto il mio tempo e le mie energie, un'altra volta. Ero delusa da me stessa, ma che ci posso fare se in questo mondo si campa a suon di compravendita? Non avevo più il tempo di leggere un libro, né le forze mentali per farlo. Il secondo giorno sono caduti altri altarini, come accade in quasiasi azienda: nel momento in cui si lavora, si lavora; prima e dopo, via di frecciatine, inciuci e lamentele, quando basterebbe avere le palle di parlare in faccia. Il terzo giorno il mio corpo ha cominciato a chiedere pietà (ovviamente è anche una questione di poca abitudine, but still stare in piedi quasi 10h no stop per tre giorni non è bello per nessuno). Il quarto e ultimo giorno è stato oggi: mi sono svegliata alle 11:30 perché fortunatamente avevo la mattina libera ma con un dolore lancinante alle cosce, non dico da non riuscire a camminare ma comunque molto doloranti (cammino regolarmente 10km al giorno senza dolori). Oggi, sabato sera con un turno dalle 17:00 alle 02:00, perché, come è normale che sia, dopo il servizio, non hai finito di sgobbare: tocca la mazzata finale del lavare e pulire a terra.
Parlare dei social è essenzialmente autoreferenzialità quindi quello che scrivo non arriverà a chi vorrei che arrivasse perché siamo così tanto due mondi distanti che mai leggerà queste parole, ma lo scrivo comunque: la schiavitù non è scomparsa. Nemmeno in Italia, figuriamoci nel mondo. Non dovete essere gentili con chi vi serve al tavolo, di più. Se sono lì a sgobbare chiedetevi in che cazzo di condizioni vivono. Siate umani, più del solito. Dove ho lavorato per questi 4 giorni, come cameriera c'era una madre di famiglia di 44 anni. Una madre che torna a casa alle 2 di notte e che i figli forse li vede 3h al giorno. Un'altra madre di famiglia che per mestiere lava i piatti. Un'altra che aiuta in cucina. Tutto questo per cifre ridicole. Io non lo so chi glielo fa fare. Perché ovviamente si sanno lamentare, ma pochi hanno il coraggio di cambiare. E chi sono io per dire che è mancanza di coraggio e non necessità?
Mi ha fatto male rendermi conto della mia situazione di privilegio. Non sono povera, non ho bisogno di soldi per vivere. Già questo mi mette in una condizione di superiorità a chissà quanta altra gente. Mi sono quasi commossa al pensiero di quelle madri.
Posso capire i datori di lavoro, ma non li posso giustificare quando si trovano di fronte a queste realtà, come fanno a non adeguare il compenso alla fatica messa dagli altri. D'altro canto non riesco nemmeno a capire la scelta di vita, dato che il passo da datore a imprenditore non lo si vuole compiere e per questo si finisce per vivere per lavorare. Ok bravo guadagni 1000€ al giorno ma poi lasciate vostro figlio dalla nonna per 3/4 di giornata. Quand'è che godrete di questi guadagni se sgobbate pure voi per dirigere la baracca? Questa è vita, per voi?
Stasera ho finito il turno alle 2:00, adesso sono le 5 del mattino e non voglio sapere domani quali saranno i dolori alle gambe che avrò, dopo che ho camminato altri km sui dolori che già avevo e che non ho sentito più a causa dell'adrenalina che devi necessariamente avere per essere scattante in tutto quello che fai. Lo considero un lavoro usurante eppure nessuno lo penserebbe mai, ma sì, usura. Non penso sia un lavoro da fare oltre alle 3/4 volte alla settimana e non ci voglio pensare a quelle madri di famiglia (o anche ai ragazzi più piccoli o miei coetanei) che lo fanno 6 o 7 volte alla settimana, per anni. Che macchine da guerra - letteralmente: macchine. Perchè o fai così o perisci: questo è lo schiavismo figlio diretto del capitalismo contemporaneo.
In questi 4 giorni ho lavorato (per non dire sgobbato) 26h e ho guadagnato 140€ ovvero 5€/h. Pensateci tutte le volte che venite serviti da qualcuno, al bar, al ristorante o in pizzeria.
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scheggesparse · 12 days
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Soul Kitchen - Bugs Bunny Crazy Castle 3
Sono preso male quindi scrivo. Vediamo se mi passa...
Non sono qui per parlare del gioco in se, ma piuttosto delle sensazioni di un momento, in un posto che per qualche motivo riesco ancora a ricordare abbastanza vividamente.
Mi trovo nella cucina di casa di mia nonna.
E' un martedì pomeriggio, giorno di chiusura dell'attività  dei miei nonni all'epoca (avevano un bar), e si stanno preparando per andare a fare la spesa per casa/bar.
Io sono in questa cucina che gioco a Crazy Castle 3 e di base non c'è¨ niente di strano, normale amministrazione di me che gioco allo stesso gioco da un sacco di tempo perché sono bloccato all'ultimo livello della seconda tranche cioè la Hall (le tranche sono, in ordine: Garden > Hall > Basement > Treasury).
Fuori fa freddo, è febbraio.
Il sole è già in procinto di salutarci, sono circa le 16.30.
Dalla porta semiaperta della cucina vedo la sala del bar, buia e vuota.
Ogni tanto anche ripensare al bar pieno mi fa quasi strano.
In quel periodo, ovvero inverno del 2000 ("ritmo del duemila / adrenalina puraaaaah" cit. Ritmo - Litfiba - Mondi Sommersi - 1997) come si confà a un individuo di 7 anni (manco compiuti, fai anche 6) non ho un accesso a internet e quindi ignoro bellamente cosa mi si parerà davanti dopo questa sequela di livelli della Hall di sto castello sempre più difficili e ostici.
Ad un certo punto il miracolo. Supero il (per me) famigerato livello 39, mi prodigo di trovare carta e penna per segnarmi la password per continuare poi dal livello 40, siccome in quel momento mi chiama mio nonno dicendomi esser pronti per andare.
E proprio in quell'istante qualcosa da qualche parte del mio cervello si materializza, e rimane li ancora oggi come una fotografia che riesco a rivedere se ci ripenso. Come una fotografia su pellicola di quel tempo, che a lungo andare perde in dettagli ma rimane sempre riconoscibile.
"La camera ha poca luce
E poi è molto più stretta di come da giù immaginavo"
diceva Ligabue in Bambolina e Barracuda, e devo dire che la descrizione corrisponde quasi del tutto.
Questa cucina è una stanza dalla forma rettangolare, ma non troppo lunga. Un rettangolo un po' tozzo ma comunque non Umberto.
Al centro un grande tavolo con piano in marmo grigio la fa da padrone, sopra di esso una fruttiera in vetro verde, sempre piena.
Ai lati del tavolo (punto di vista dalla porta d'entrata) rispettivamente:
A sinistra
subito dietro la porta un piccolo angolo credenza zeppo di libri di cucina (sopra), incarti di vari prodotti, sacchetti di carta per il pane (nel mezzo) e due piccole ante contenenti ogni sorta di attrezzo quali chiavi, cacciaviti o anche prodotti spray tipo insetticida e simili che ovunque stan bene tranne che in una cucina (sotto). Superato questo angolo il frigorifero, un vecchio frigorifero incassato ricoperto dall'anta in legno, seguito dal piano cottura, un doppio lavello e alla fine della parete una delle due finestre.
A destra
subito all'altezza del gomito inizia quello che è un mobile angolare in legno anch'esso con piano di marmo grigio che fa il paio con suo fratello The Table, che proseguirà sino all'altro capo della stanza.
La parte sotto è composta di semplici ante che nascondono il loro contenuto fra vecchie riviste, la stecca di MS Bionde e attrezzi da cucito in capo, il posto dove viene tenuto il pane della giornata nell'angolo e poi (perdonate la ridondanza) lungo la parte lunga tovaglie, tovagliette, tovaglioli, pentole, bicchieri (che non erano li da ieri), insalatiere, e altri suppellettili TASSATIVAMENTE DA NON USARE MAI.
Sopra questo mobile vi sono diverse situazioni, anche abbastanza diverse fra loro. Sempre in prossimità del gomito, qualora si stesse entrando, è visibile con la coda dell'occhio un posacenere blu dell'Aperol cui da che ho memoria ha sempre ospitato al suo interno un mazzo di chiavi del quale ho sempre ignorato quali porte avrebbe potuto aprire, un elastico giallo, una graffetta e una 200 lire.
A fianco immancabile è la combo Sorrisi&Canzoni + rivista di gossip a piacere. Ma più ci si addentra con lo sguardo e più la situazione si fa complessa.
L'angolo viene dominato da una tv a tubo catodico della Mivar (top orgoglio italiano non ironicamente), con lo schermo bombato che mangia buona parte delle barre dell'energia in quasi tutti i picchiaduro che era possibile giocare su ps2 da li a pochi anni.
Dietro questo Golia ai fosfori osserviamo un buco nero nel quale nemmeno la luce fa in tempo a venire assorbita, non lo raggiunge proprio.
Letteralmente la camera dei segreti, nella camera.
Si dice vi sia stato ritrovato di tutto dietro a quel monolito grigio opaco, da svariate sorprese di ovetti kinder a un centrotavola che sembrava essere andato perduto per sempre.
Li giaceva anche un misterioso contenitore grigio, in metallo, che ricordava la forma di quelli che si appendono in doccia per poggiarvi i vari shampoo, bagnoschiuma e simili. Forse il suo scopo in origine era proprio quello, ma poi qualche sconvolgimento spazio-temporale ha fatto si che venisse dimenticato in quell'anfratto nascosto.
Sempre dietro al televisore, oltre al suo cavo di alimentazione se si disponevano di arti lunghi a sufficienza ci si poteva addentrare fino a scoprire sia ben tre prese a muro più una spina volante, anche lei senza padrone.
Un cavo di alimentazione si, ma per chi?
Se ci si chiede chi controlla i controllori allora sarebbe giusto anche chiedersi cosa alimenta l'alimentazione? Who watches the Watchmen?
Superata la Notte Eterna ritorna la luce, e a fianco del televisore spunta un cesto di vimini con al suo interno vari giochi e fumetti miei fra cui macchinine, volumi di Topolino, quaderni di disegni, pennarelli e cosi via.
Accanto vi è quella che per forma e scopo risulta esser a tutti gli effetti un'anfora. Non dell'avidità ma quasi. "Quindi chi sei tu per giudicare?" direbbe qualcuno a riguardo.
La sua forma ricorda una donna di Willendorf per le sue rotondità  che suggeriscono fertilità  e abbondanza. E di abbondanza in quell'anfora ce n'era, sicché era stata riempita fino all'orlo di documenti, ricevute, scontrini, un blocchetto di assegni, collane, bracciali, orecchini, alle volte anche monete. Ovviamente era imperativo il "LASCIA STARE NON TOCCARE".
E noi senza toccare, limitandoci a guardarla in tutta la sua bianca e lucente ceramica, gettiamo l'occhio (e non il cuore) oltre l'ostacolo per incontrare un piccolo forno a microonde che termina l'allestimento del piano.
Fra il piano e il muro vi è un angusto spazietto di 1 metro circa, nel quale viene confinata una rossa sedia da giardino.
Quello che per anni ha rappresentato un angolo strategico in quanto era l'angolo del termosifone, luogo di sollievo per i lunghi inverni passati col Game Boy fra le mani, a cercare sia calore che un angolo illuminato in epoca pre GBA SP.
Ah, che male al collo.
A parete troviamo una composizione di pensili che segue il perimetro del mobile di cui sotto, anche questo pieno di situazioni abbastanza varie dietro alle sue ante marroni.
Anche qui si nascondono servizi di piatti e bicchieri che si e no si vedevano a natale, alcuni calici "griffati" di varie bevande che si servivano nel bar ma la sezione più pittoresca rimane quella perpendicolare al tv, che precedentemente abbiamo battezzato come Notte Eterna.
Anta ad angolo, che si apre piegandosi su se stessa rivelando due mensole dalla conformazione quasi simile ad una casa delle bambole. Mancava solo una piccola scala per rendere comunicanti primo piano e piano terra. Videocassette, nastri vergini, palette di trucchi, altre collane e gioiellini fra bigiotteria e non sono solo alcuni dei generi che si possono trovare all'interno. E, come sotto, un infinita oscurità.
"Putèl, andom?"
Le parole di mio nonno che mi chiama per andare con loro,
spengo il gbc dopo aver segnato la password e inizio a fantasticare su cosa troverò poi nel Basement, del quale ho visto solo la schermata di selezione del livello.[continua nei commenti]
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gonetoosoon · 3 months
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E stasera è proprio una di quelle sere.
Sono ormai sei anni che sei andata via e dio, quante cose che avrei da raccontarti.
È da un po' che non ti scrivo, forse troppo, ma non mi sono dimenticata di te. Non potrei mai.
Sai, mi manchi.
Mi manca vederti preparare in cucina la tua insalata, le tue cotolette. Niente ha più lo stesso sapore senza te, e non sto parlando del cibo.
Sai? Ancora è Febbraio ma io stavo pensando alla primavera, a come ci divertivamo all'arrivo della primavera, noi due.
Piene di gatti in giro per il giardino, a montare l'amaca e le due altalene: una per la tua nipotina ed una per me, perché mi avevi viziata anche tu ed io volevo la mia altalena personale.
E tu e lui, nonostante io non fossi vostra nipote o vostra parente, l'avete costruita e appesa. Per me.
Non ti ho mai ringraziato abbastanza per esserti presa cura di me, per avermi fatto sentire amata e parte di una famiglia, io che quella che avevo era così instabile e piena di mancanze.
Scusami se non l'ho fatto prima, scusami per non averti ringraziata abbastanza e per non averlo fatto in tempo.
Ti chiedo scusa se a volte, presa dai miei drammi adolescenziali, non sono riuscita a capirti e a starti vicino come avrei voluto e come avresti meritato.
Sei stata una nonna, una mamma, un'amica, una zia e tutto questo senza essere niente.
Perché noi non eravamo nulla, nessun legame di sangue ci legava ma eravamo felici così.
Mi ha fatto tanto male vederti esalare l'ultimo respiro e vederti in quella bara..non potevo crederci.
Mi avevano detto di non venire quella sera perché stavi male ma io lo sapevo. Sapevo che sarebbe successo e ho deciso di restare fino alla fine al tuo fianco. Quando ci hai lasciati mi hai stretto la mano e mi hai guardata, poi hai guardato tutti gli altri e te ne sei andata.
Beh..devo dirti che è stata una bella botta. Penso che proprio queste siano le batoste della vita di cui si parla. Al tuo compleanno stavamo celebrando il tuo funerale e io avrei tanto voluto stare lì nella tua cucina a festeggiare, a bere brasilene che tu con tanta cura avresti messo in frigo per me. E invece non è stato così. E invece è andato tutto a rotoli.
Mi manchi tanto, oggi e sempre.
-gonetoosoon
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susieporta · 2 years
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Si andava al mare e si restava tre settimane, forse un mese. Si passava la giornata a desiderare di fare il bagno, a supplicare gli adulti, a negare di aver mangiato; ci si buttava in mezzo alle onde monitorati dallo sguardo di sbieco di qualche genitore sulla riva; si calciava l’acqua con gli stinchi, fino a fare male. E quando si beveva l’acqua salata, per il dispetto di qualche altro bambino, il desiderio di vendetta durava non più di qualche secondo e comunque da lì alla seconda onda spumosa.
I piedi bruciavano dal lettino alla riva e si correva verso la battigia con le urla e i richiami che si sperdevano alle spalle e si dissolvevano fra gli stabilimenti.
Il lettino era una conquista da adulti, i bambini potevano solo sedersi a terra, sopra a un telo che si riempiva di sabbia. Lo scrollavano le madri lamentose, con i granelli che volavano via con il vento e che andavano guidati, lontano dagli occhi, dalle borse appese agli ombrelloni, dagli altri.
I ghiaccioli si scioglievano a toccarli con le labbra e sgocciolavano sulle dita dei piedi, diventando colla colorata da lavare a riva.
Si scavavano buche per trovare l’acqua e a volte si trovavano conchiglie dure, da farsi male, spezzarsi le unghie. Non si smetteva di cercare, si continuava con l’altra mano.
Le regole erano chiare e sicure: tre ore lontano dai pasti ogni bagno, al primo richiamo risalire, al calcio balilla non frullare, non allontanarsi mai.
Solo l’ultima non rispettavo e mi chiamavano al microfono con il mio nome o, se proprio non tornavo, con il colore del mio costume. Era bello parlare con gli adulti sdraiati che facevano finta di comprare le conchiglie che si andava a vendere per finta, tutte, anche quelle più brutte o spaccate. Accadeva il miracolo semplice dello scambio, il segreto incontrovertibile nell’atto: io che davo e qualcuno che prendeva e ridava indietro, senza condizione. Io ho qualcosa da darti e tu lo prendi. Ho un’acqua e tu una sete.
Il tempo non c’era, non esistevano i giorni che consumano, esisteva la luce per andare in spiaggia, la penombra per rientrare e il buio per girare sui marciapiedi gremiti, con l’odore delle creme degli altri e i salvagenti appesi nei negozi illuminati al neon.
A un certo punto, si preparavano le valigie si lavavano bene le posate della casa e si andava via, dopo avere riconsegnato le chiavi a un’agenzia con la vetrina spoglia.
Il viaggio del rientro era lungo, fatto di nausea, di aria che usciva tiepida dai bocchettoni della macchina stipata.
Il cane boccheggiava con la lingua fuori a tratti e mia nonna teneva stretta la maniglia alla sua destra, in alto, come se dovesse cadere da un momento all’altro.
Era il segno che l’estate stava finendo, i compiti delle vacanze erano stati fatti per metà, ci sarebbero stati altri pomeriggi, nella penombra del soggiorno, a casa dei nonni materni, con mia nonna a riposare nella stanza accanto o a farsi fare la tinta dall’amica Vera, con l’odore forte di ammoniaca in cucina.
La vita era davanti e si poteva
aspettare, senza morirsi addosso,
trattenere il respiro fino al primo temporale a segnare una nuova stagione, la seconda delle uniche due.
Si poteva aspettare l’inverno come non fosse una fine, un ridursi, un passare.
Era il tempo fisso dell’infanzia,
con i volti eterni, per sempre fermi sulla battigia a tenere il telo e ad asciugare.
Si poteva credere ricominciasse
tutto da capo, nel suo cerchio, in eterno identico.
Attendere ritornasse il presente caldo, il presente vacanziero, ma attenderlo d’inverno, come fosse un futuro.
Beatrice Zerbini, dal libro “Mezze stagioni”, edito da AnimaMundi.
Foto di Giuseppe Conoci - Alimini, Otranto
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rosateparole · 10 months
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«[...] Che questi drusi ci hanno rovinato la vita, ci hanno rovinato. Ben per noi che tutti coloro che hanno liberato l’Istria sono andati a farse ciavar», commentava nonna.
«No, resteranno qui. Come sono sempre restati i più forti; e loro, i più forti, fisseranno le regole», ribatteva piano mio padre. Parlava rivolto alla finestra, senza foga o ira. Poi, dimenticando per un momento quella tristezza che sarebbe durata finché durava la vita, dimenticando che mai e poi mai sarebbe finita, metteva mano all’Italia; ritagliava angoli d’Italia, chiudeva la porta di casa, ché «in gioia e in lutto, la casa è tutto», cosicché tutti i posti che non c’erano più servivano a far brillare l’unico che c’era: la cucina Italia. La cucina diventava un’invenzione, una fiaba: papà accendeva la radio e faceva entrare l’Italia, con la radio a sei valvole noi eravamo sempre Italia. Prego, s’accomodi, lei è la benvenuta, e lei cantava e suonava, e diceva tutto quello che il cuore desiderava o che paventava, anche il discorso di Togliatti: «Mandiamo dal nostro Congresso un saluto ai popoli della Jugoslavia, ai comunisti jugoslavi, al loro grande capo ed eroe nazionale, il Maresciallo Tito...». Allora papà spegneva la radio, accendeva una sigaretta, girava la manovella del giradischi e metteva la sua canzone preferita. Il fonografo si metteva in moto, la puntina strisciava in cerca del suono e quando si metteva a raschiare arrivavano le voci di Petrolini e di Mistinguette, il cane sotto la tromba – simbolo dei dischi della «Voce del Padrone» –, se ne stava inchiodato dalla meraviglia ad ascoltare Caruso o il comico Angelo Cecchelin, che soleva deliziare spesso il proletariato polesano al teatro Ciscutti. Papà ascoltava e canticchiava qualche aria più nota, mentre batteva il tempo con il piede.
Anna Maria Mori & Nelida Milani, Bora. Istria, il vento dell’esilio
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Questa è una storia di vuoti, ad ognuno il suo. Chi negli occhi, chi nel cuore, chi sotto i piedi.
Mia madre era malata.
La diagnosi della depressione post partum arrivò dopo il suo tentato suicidio.
Ai miei quattro anni anni, lei aveva appena avuto il suo secondo figlio e una brutta separazione.
Prima di questo, passarono i gelidi mesi di novembre e dicembre, nei quali io e mio fratello neonato vivevamo il nostro primo trasferimento. Un temporaneo soggiorno dai nonni materni, che non fu poi tanto temporaneo.
Il 21 dicembre 2005 i miei occhi di figlia videro il tempo fermarsi. Ero in cucina, stavo mangiando un ovetto kinder, non ci fu la sorpresa.
Mia madre mi diede un bacio sulla fronte e mi disse “ti voglio bene”. Per un tempo interminabile le urla e la forza della sua testa contro il mobile mi impedirono di risponderle.
Lì, sulle mie spalle gravarono i futuri ed indelebili decenni di gesti suicidari.
Sulle sue, solo il vento che sfiorava la pelle marcita, trapassandole la camicia da notte. E un unico gesto. Inconsulto. Disperato. Estremo.
I suoi piedi non fecero quasi in tempo a salire sul marmo del davanzale che lei si era già arresa alla forza di gravità.
Da quel momento ricordo solo pochi passi, su macerie di carbone ancora caldo. Mi ricordo mia nonna che venne a prendermi, dal soggiorno, seguita da uomini vestiti di arancione. Mi ricordo le lacrime di mio nonno mentre mi teneva in braccio. Non ricordo il Natale di quell’anno. Non ricordo nemmeno chi, a cinque mesi di vita, fu privato di colei che gli aveva donato quella stessa vita.
Ricordo i letti di improbabili case in cui ho dormito, ricordo il letto di ospedale in cui dormiva Elisa.
Smisi di parlare. Per alcuni mesi preferii il silenzio. Questo, ad esempio, non me lo ricordavo.
Elisa era in coma, le erano stati tagliati i capelli, aveva cicatrici che percorrevano ogni centimetro di carne, la più evidente era sulla fronte.
Intercorsero nove cicli lunari prima che quel corpo esanime si riprendesse da una miserabile Gibbosa calante in Vergine.
Elisa si risvegliò, mia mamma forse no.
Dopo mesi di riabilitazione, in cui conobbe “la vita dopo essere morti” tornò a casa. Io non la chiamavo più ‘mamma’ e lei non si ricordava né il nome di mio fratello, né il mio.
In quell’eternità, evidentemente, io avevo cessato d’essere figlia.
Adesso Elisa porta il ciuffo, ma io vedo attraverso.
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ninoelesirene · 1 year
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Una sera d’estate eravamo in balcone e guardavamo la semioscurità del parco. Si potevano ancora vedere i profili degli ulivi e in lontananza cominciavano a brillare le finestre accese al confine opposto. Una era la veranda della cucina di nonna, appena sopra il palazzo dove abitavano Cristina, Cristiano e Claudia, povera Claudia.
A un tratto scorgemmo in mezzo al campo una figura barcollante. Provava a reggersi su uno degli alberi appena piantati nell’area che avrebbero di lì a poco riservato ai cani. Un uomo nero che poteva essere chiunque. Un assassino, un martire, un poveraccio divorato dalla solitudine.
Avrai avuto 15 anni. Ci volle poco perché ti intendessi con mamma e ti avviassi al salvataggio. Le chiavi prese al volo, le scarpe probabilmente ancora addosso.
Ricordo che seguimmo dal balcone il tuo avvicinamento come si segue una diretta giornalistica. La sagoma della tua giovinezza bellissima si avvicinava lentamente all’uomo lungo il sentiero. Strizzammo gli occhi per focalizzarvi uno di fronte all’altro. Un braccio sulla spalla, forse. Qualche parola confidenziale. Sembravi conoscerlo, sembravi conoscere il suo dolore per natura. Oh come mi è chiaro ora: ciò che eri. E ciò che eri per me. Lo conducesti fuori dal buio, dove l’ultimo lampione illuminava l’ingresso del parco, laggiù. Casa sua non era lontana.
Sotto la luce vedevo mio fratello maggiore mentre si congedava da uno sconosciuto. Eri simile a un arcangelo, così diverso da me, così bello da non sembrare reale. Così vibrante da assordare. Limpido e torbido, come al cinema.
Non ricordo ancora il tuo ritorno verso casa, ma farò più luce. Ancora più luce. La mia luce è la tua luce, la tua oscurità è la mia.
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turuin · 1 year
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Una sera delle tante che la guerra quotidiana si era tramutata nel suo alleato in trincea, l'indifferenza ostile, una di quelle sere non avevamo fatto nulla per cena tanto i pargoli cenavano dalla nonna, una di quelle sere un ricordo di me stesso mi ha salvato la cena. Ho mollato la cuffia lasciando alla deriva il mio presidio inutile del serale da remoto, da casa, e sono andato in cucina. C'è del pane in busta, a fette? C'è. Del pomodoro? Ci vorrebbero dei pomodorini, in verità, ma no, però c'è della polpa. Olio buono, sale, un forno, c'è tutto. Ho rivisto un'immagine del me stesso a ventitre, ventiquattro anni, a Roma, in una casa non mia, in compagnia di gente che per la gran parte conoscevo poco, a passare una serata intera ad infornare fette di pancarrè condite con pomodorini, olio e sale, che venivano fuori croccanti, e c'era chi chiedeva: ancora, ancora. L'ho rifatto. Con la polpa Mutti, con l'olio a crudo. L'ho rifatto e ho salvato la mia cena e anche quella dell'ostile indifferente, che li ha mangiati. Per cui da qui, dal futuro, dico grazie al me stesso ventitre/ventiquattrenne: eri una testa di cazzo per moltissimi versi, ma ogni tanto qualche idea geniale ti veniva.
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