Tumgik
ufficiosinistri · 25 days
Text
What will you be reading this weekend? Luca Baccolini - "Bravi e dannati"
Ogni volta che ci passavo davanti, mi incuriosiva. Esposto lì, in una grande libreria, assieme ad improbabili autobiografie, libri fotografici e manuali sul calcio. Il titolo che parafrasava un film epico di Gus Van Sant, “Belli e dannati” con Keanu Reeves e River Phoenix. Un libro che a prima vista, dalla copertina, mi sembrava commerciale e scontato. Dopo una, due, tre volte che ci passai davanti, decisi però di portarmelo via. “Bravi e dannati” è una corposa raccolta di brevi, a volte brevissimi biografie riguardanti calciatori che nelle loro carriere sono stati capaci di accomunare genio e sregolatezza, talento e spreco, impegno politico e vittorie. L’autore, il giornalista sportivo bolognese Luca Baccolini, ci racconta le loro imprese, calcistiche e non, analizzandole come fulmini a ciel sereno, contestualizzandone la narrazione nello spazio e nel tempo, riuscendo a coprire un secolo di storie da sviscerare in tutta la loro umanità.
Tumblr media
I “Carneadi” (termine che ricorre tantissimo nelle pagine del volume ) di Baccolini ci vengono raccontati con spudorata umanità e uno stile molto giornalistico, che evita ripercussioni emotive. Le storie descritte sono tristi, violente, iperboliche e a lieto fine. Appartengono a vite di calciatori, e quindi di esseri umani, e forse la bravura dell’autore risiede proprio nel raccontarle in maniera distaccata e disillusa, senza soffermarsi su giudizi e opinioni personali. Spetta quindi al lettore trovare spunti di riflessione e farne, in seguito, tesoro. La sgroppata trionfale di Saeed Al-Owarian nella partita contro il Belgio a USA 94, che fu classificata come il sesto gol più bello di sempre nella storia dei Mondiali, viene così narrata in contrapposizione all’intera carriera del trequartista saudita, conclusasi senza mai aver avuto la possibilità di giocare in un campionato europeo. Dino Ballacci, poi, il difensore partigiano che militò nel grande Bologna del dopoguerra, ci viene inquadrato nella sua più totale normalità di uomo che, oltre alla fede calcistica, visse la propria vita in nome di ideali libertari e di uguaglianza. Poco importa se si presentò al rinnovo del contratto portando con sé una pistola, perché sapeva che il presidente Dall’Ara ne avrebbe avuto con sé una. E poi la tragica storia di Fashanu e del suo soffertissimo coming-out, la Via Crucis giudiziaria a cui fu sottoposto Beppe Signori, la morte nel disastro del Vajont di Giorgio de Cesero. Persino la collocazione in rigido ordine alfabetico dei protagonisti ci fa rimanere con i piedi ben saldi a terra, e la parte finale, dedicata a citazioni e aforismi più o meno famosi, fa da corollario alla ricerca sociale dell’autore. “Bravi e dannati” trasuda di cultura e storia. Di politica e divertimento, di illusioni e vittorie. “Spiazzato di netto, il portiere egiziano si alza e proietta le braccia al cielo in un urlo liberatorio. Simultaneamente, tutti i giocatori del Camerun le portano dietro alla testa in un gesto di disperazione collettiva, condiviso da un Paese intero. Womé, l’eroe degli undici metri, questa volta ha tradito. Ma per lui, quello, è solo l’inizio dell’incubo. La sera stessa un gruppo di tifosi inferociti entra nella sua casa in Camerun e si porta via tutto. Nella fuga sfasciano anche l’automobile, rendendola inservibile. Non sfugge alla loro ferocia nemmeno il negozio della compagna del calciatore, saccheggiato e dato alle fiamme. Womé, nel frattempo, è stato scortato dalla polizia locale e imbarcato a bordo del primo aereo in partenza per l’Europa, come in un film di spionaggio. Quando atterrerà in Italia, ascolterà dalla bocca del suo compagno di squadra Samuel Eto’o un doloroso retroscena, che forse avrebbe preferito non venisse divulgato: >, rivelerà l’attaccante del Barcellona.”
0 notes
ufficiosinistri · 5 months
Text
What will you be reading this weekend? Gigi Riva, Gigi Garanzini – “Mi chiamavano Rombo di Tuono”
Lo vediamo abbracciato a Roberto Baggio, alla fine di quei maledetti rigori a Pasadena. Ce lo ricordiamo strattonare Gianni Rivera dopo il definitivo quattro a tre sulla Germania, a Città del Messico. Lo ammiriamo ancora oggi, a distanza di decenni, sia come giocatore che come persona: Gigi Riva è sempre stato considerato un uomo dell’altro mondo, un giocatore astrale, lontano dai soliti paradigmi calcistici ai quali siamo abituati, alle dinamiche europee di ieri e di oggi. Inclassificabile come ruolo in campo e come mentalità. Fu vero fenomeno, calcistico e sociale.
Tumblr media
“Mi chiamavano Rombo di Tuono” è un’autobiografia che ci aiuta a capirlo meglio, nella sua grandezza, e a riportarlo alla dimensione più umana, quella dimensione che proprio egli stesso ha sempre scelto di mantenere. Leggiuno, sponda varesina del Lago Maggiore. Il lavoro in fabbrica ed il primo contratto da professionista, coi Lilla del Legnano, e la successiva chiamata del Cagliari, in Serie B. Gli affetti familiari, i giorni bui passati in orfanotrofio, l’arrivo in una terra sconosciuta che lo accolse come un nativo. La storia di Gigi Riva è una storia proletaria, di fatiche e sacrifici, ma è anche la storia romanzesca e idealizzata di una vittoria, lo Scudetto conquistato dagli isolani guidati dal profeta Scopigno nel 1970, che in quei difficili anni di post-industrializzazione diede speranza allo sport e, nel nostro caso, nel calcio. Giocatore, attaccante, ma anche dirigente. I successi sul campo (ricordiamo, oltre al Campionato vinto col Cagliari, anche il successo al Campionato Europeo del 1968 che lo vide tra i protagonisti) si accompagnano a quelli ottenuti nel ruolo di dirigente, con il Mondiale del 2006 vinto assieme a Marcello Lippi: i giocatori della nostra nazionale potevano infatti contare su di lui come confidente, come se fosse uno di loro. La carriera del numero undici più famoso del mondo ci viene raccontata in prima persona, senza filtri. Rombo di Tuono ci parla della passione per i motori, del vizio del fumo e dell’incontro con Fabrizio de Andrè, il suo cantante preferito, avvenuto dopo una partita disputata a Genova contro la Sampdoria. Vengono descritte le amicizie cagliaritane ma anche quelle sbocciate sui campi da calcio, come quella, indissolubile, con il campione granata Gigi Meroni, un ragazzo “di lago” come lui. Per alcuni attimi ci dimentichiamo del Riva “campione”, il miglior marcatore di sempre in azzurro, quello che rifiutò i miliardi della Juventus perché li riteneva immorali e quello che si infortunò con la Nazionale due volte, ritirandosi dal calcio giocato giovanissimo, a trentadue anni. “Mi chiamavano Rombo di Tuono” è la testimonianza dolce e vissuta di un giocatore unico al mondo. Che venne adottato da un popolo intero, non solo da una tifoseria o una società calcistica. Che provava fascino più per le barche dei pescatori di Villasimius, che per gli yacht ormeggiati in Costa Smeralda.
“Un’altra volta in allenamento entrai duro su Martiradonna, perché mi stava marcando stretto come se fosse una partita scudetto. Scopigno la prese male. E disse, con quel suo tono che sdrammatizzava e insieme sottolineava, che se io ero importante perché facevo gol, c’era chi era altrettanto importante perché i gol non li faceva fare.”
0 notes
ufficiosinistri · 6 months
Text
What will you be reading this weekend? Corrado De Rosa - "Quando eravamo felici"
Il 1990 è l’anno che uso, di solito, per orientarmi tra infanzia ed adolescenza. Cosa è successo prima e cosa dopo? Quali avvenimenti importanti mi devo assolutamente ricordare? Il 1990, ed in particolare la sua estate, funzionano come spartiacque. Nessun anno solare ha mai sancito così nettamente l’esistenza di un “prima” e di un “dopo”. Il fatto è che tutti sapevamo, bambini e adulti, anziani e adolescenti, che sicuramente, dopo i Mondiali delle cosiddette "Notti Magiche”, il calcio, per come l’avevamo sempre vissuto a livello sportivo e sociale, non sarebbe stato più lo stesso. Abbiamo vissuto quell’esperienza come un’epifania sulla modernità, assaporandone ogni momento con infantile illusione, respirandone la magia ogni giorno, al lavoro, sui treni, sui divani, alla radio, nelle università, nelle fabbriche, nei supermercati. Eravamo al centro del mondo dopo anni tetri e violenti, dopo mille fatiche ci potevamo prendere una rivincita, almeno sul campo della spettacolarità. Dentro e fuori dal campo. Lo psichiatra De Rosa ci racconta però la fase per noi più drammatica di questo evento, le ore più incredibili di una Prima Repubblica che stava per declinare definitivamente, i momenti più difficili che ogni italiano ricorda, a livello sportivo. Il tre luglio di quell’anno, infatti, andò in scena a Napoli, Italia – Argentina, semifinale del Mondiale. Sappiamo tutti come sia andata finire, ma dato che stiamo parlando di letteratura sportiva, è giusto descrivere come l’autore ci faccia rivivere (o vivere, per chi non c’era), quelle ore. Il libro è diviso in due parti: un “prima” e un “durante”. I due blocchi, però, non sono monolitici, non sono statici. Si mischiano tra loro in un perenne inseguimento, aderendo e distaccandosi. Prima della gara, De Rosa parte da una descrizione di cosa fosse, a livello politico e sportivo, la nostra nazione. Questa sezione è densa quindi di rimandi storici, curiosità, spunti sociali e folkloristici, senza i quali non sarebbe possibile entrare appieno nella narrazione, in sé, dell’evento sportivo. Van De Korput che pensava di essere stato ingaggiato dalla Juventus ed invece si ritrova ad indossare la maglia dei rivali granata; Zahoui, il primo calciatore africano a giocare in Serie A, che non indossava i calzini; Diego Armando Maradona in fase calante dopo la mancata cessione all’Olympique Marsiglia. Perché il calcio è sempre, inesorabilmente, il calcio del tempo che stiamo vivendo. Nel 1990 come ora. E Cossiga che minaccia Matarrese qualora gli Azzurri non fossero arrivati in finale non è altro che la rappresentazione più veritiera del clima che si stava vivendo in quegli anni. Altro che i napoletani che tifavano Argentina.
Tumblr media
Durante la partita, invece, dopo aver minuziosamente descritto e raccontato i giocatori che vi presero parte, l’autore ci descrive per filo e per segno, adottando un linguaggio a volte molto più che tecnico, cosa avvenne sul rettangolo di gioco. Le gambe di Burruchaga, i campanili di Giannini, la posizione occupata da Basualdo, l’importanza di Gigi De Agostini nelle dinamiche della squadra, l’atteggiamento di Vicini e del suo omologo argentino Bilardo. L’Argentina non era una squadra programmata per arrivare così in fondo, in quella competizione. Non era più quella del “Tata” Brown, ed aveva vivacchiato troppo nella prima fase del torneo, per poterci far paura. Maradona non aveva ancora segnato un gol e giocava da mediano. L’Italia, invece, aveva tutto per poter trionfare. La dieta di Bergomi, i gol di Schillaci, la devozione di De Napoli, la linea difensiva più forte dell’epoca, le sane rivalità tra le sue stelle nascenti. Cosa avvenne, in fin dei conti, nel mondo, quel tre di luglio? Eccoci serviti. L’effetto dell’anestesia finì di colpo.
“Lo hanno chiamato il << Mondiale avaro>> perché quello in cui sono stati segnati meno gol, in media poco più di due a partita. È quello con la finale più brutta di sempre, con l’inno argentino fischiato, decisa da un rigore che non andava concesso. È rimasto in equilibrio fra due geopolitiche mondiali, fra due Repubbliche italiane. È stato un momento precario, eppure saldissimo, che teneva insieme le consapevolezze, le frustrazioni, le ansie, le attese, le speranze di generazioni diverse che si sono trovate a fare la ola allo stadio Olimpico e a tifare da casa. Italia ’90 è come un fantasma: si nasconde, si insinua. Ti ricorda che, se qualcosa può andar male, andrà male. Si è fatto carico dei nostri sogni e li ha interrotti. Ma dobbiamo essergli grati anche per questo: ci ha preparati con garbo a un’epoca di passioni tristi e disillusioni spietate. Italia ’90 è fra noi, Italia ’90 non muore mai.”
0 notes
ufficiosinistri · 8 months
Text
Pivato - Marchesini - "Tifo, la passione sportiva in Italia"
Da dove deriva la parola “tifo”? Ci possiamo rifare al termine greco “thyphos”, cioè “fumo”, in quanto sappiamo che i primi sostenitori erano soliti raggrupparsi per festeggiare gli eventi sportivi attorno a un falò, oppure dobbiamo collegarci alla febbre tifoide e alla sua letale contagiosità tra gli esseri umani? Marchesini e Pivato, due importantissimi accademici, partono dal ‘500, per raccontarci il tifo e le sue origini storico-culturali. Per arrivare nell’ottocento, epoca in cui vengono eretti i primi sferisteri e la gente li affolla, per poi abbandonarli nei primi anni del secolo scorso, trasportandoci poi sino al fatidico dopoguerra, quando le rivalità tra le nazioni si acuiscono a causa del cessato conflitto mondiale e persino i ciclisti italiani al Tour de France vengono inseguiti e presi a sassate. Perché, paradossalmente, gli sport nei quali il contatto fisico è più lieve, o addirittura inesistente, vantano i tifosi più violenti e maggiormente attaccati al culto dell’atleta. Il libro può considerarsi come diviso in due parti. La prima parla delle gesta dei campioni di diversi sport, dei gossip che li hanno riguardati durante le loro carriere e delle reazioni del pubblico alle loro imprese. Viene raccontata così la morte di Fausto Coppi, vero e proprio eroe mitologico le cui gesta sportive divennero un vero e proprio atto di rivincita italiana nel dopoguerra. La sua morte può così essere considerata come l’evento spartiacque, in ambito sportivo, tra l’epoca della bicicletta e quella dell’automobile, che acquisì sempre più maggiore importanza con gli anni, ovviamente, del cosiddetto boom economico degli anni ’60, nonostante le imprese a cavallo tra le due guerre di Tazio Nuvolari e Achille Varzi.
Tumblr media
La seconda sezione del volume, invece, si concentra sul vero e proprio ruolo dei sostenitori e dei luoghi in cui essi agiscono. L’analisi si sposta così sugli stadi e sulle arene, sulla loro (spesso pericolosa ) conformazione ed infine sulla loro responsabilità nel modificare inesorabilmente il paesaggio cittadino, isolando il pubblico dagli oneri e dalle preoccupazioni della vita quotidiana e “inscatolandoli” in un ambiente in cui, secondo la concezione propriamente baktiniana della fruibilità del divertimento, tutto viene concesso. Ci si ritrova infatti in veri e propri luoghi di culto, dove la fanno da padrone campanilismi e senso di appartenenza comunitario, principali cause delle contrapposizioni, spesso violente, con i sostenitori della squadra avversaria. Invasioni di campo, insulti nei confronti di arbitri e deputati al rispetto delle regole diventano sempre più frequenti sino allo sfociare, come tutti sappiamo, con i terribili fatti di Viareggio, nel 1920, quando la polizia uccise il guardalinee Augusto Morganti. Si tratta di un volume storico che scaccia qualsiasi fatalismo dalle odierne speculazioni sportive. Dalla boxe al ciclismo, dal calcio alla pallavolo, dall’epoca fascista sino al ’68 e all’epoca Berlusconi, lo sport viene raccontato con una lucida disanima sociale e culturale, che abbraccio i tifosi, sì, ma anche pubblico e opinione pubblica. Nonostante la gradevolezza e l’efficacia di questa seconda parte, però, “Tifo. La passione sportiva in Italia”, appare, in alcuni passaggi, come un semplice elenco di date, avvenimenti e luoghi, descritti per dare al lettore il più alto numero possibile di informazioni nel tempo più breve possibile: ecco quindi una densa galleria fotografica che riporta i luoghi d’interessa citati durante lo scorrere dei capitoli, e una bibliografia precisa e puntuale che scorre tra l’origini delle fonti citate. Marchesini e Pivato, infine, ci danno un affresco importante e accademico di ciò che, nel gergo comune, possiamo chiamare “tifo”, ma che al suo interno comporta uno studio che non può non essere profondo e disinteressato. “La passione del gioco nell’ottocento assume proporzioni tali che non sempre il diritto riesce a regolamentare. E quando i luoghi deputati dalla consuetudine ad accogliere il gioco si rivelano insufficienti o inadatti, i giocatori non esitano a sfidare le norme di polizia per appropriarsi di nuovi spazi . Le diatribe che sorgono fra le autorità pubbliche aiutano a capire la funzione sociale del gioco nelle comunità in cui avevano origine i conflitti. I documenti di polizia delle varie autorità governative palesano in realtà il timore che la proibizione del gioco potesse dare origine a disordini e tumulti. Di qui le preoccupazioni he le autorità centrali esprimono a quelle comunali, invitandole a riflettere in quanto <<la privazione degli antichi giochi potrebbe far nascere anche gravi lagnanze, e forse ancora qualche tumulto>>.”
0 notes
ufficiosinistri · 8 months
Text
La Ragione di Stato - "Dov'è la vittoria?"
“Dov’è la Vittoria?”, scritto dal collettivo La Ragione di Stato, è un libro innanzitutto divertente. Per come è scritto, per come tratta gli argomenti, per le metafore e le similitudini che utilizza per descrivere momenti ed emozioni diventati di totale dominio pubblico da decenni. Si tratta di una descrizione cronologica, sotto l’aspetto sportivo e sociale, dei tre mondiali di calcio che si sono disputati durante gli anni ’90: Italia, Stati Uniti e Francia. Sì, gli anni ’90, proprio quegli anni. Quelli di Rage Against the Machine e Red Hot Chili Peppers, della globalizzazione dell’impegno politico e dei consumi, dei jeans e i maranza, dei palazzinari e dell’Interrail.
Tumblr media
Nonostante gli anni ’90, ci sono stati i Mondiali di calcio, verrebbe da dire. Che con le loro contraddizioni, la loro risonanza mediatica e i loro campioni, queste tre manifestazioni sportive (perché di manifestazioni sportive, infine, si tratta), hanno saputo dare a quel decennio un tono ancora più violento e malinconico. Bebeto, Baggio, Lineker, Collina, Zidane, Ronaldo, Kenneth Andersson, Gascoigne, Tassotti con la 9, la fortissima e neonata nazionale croata, Montezemolo, Campos, Mancini sempre in panca, Raùl.
I protagonisti dei Mondiali raccontati in “Dov’è la Vittoria?” esprimono in loro stessi e nelle loro gesta sportive tutto ciò che di più nevrotico e folkloristico abbiamo vissuto durante quegli anni. Persino il gesto di Matarrese, che durante la cerimonia di inaugurazione di Italia ’90 alza la Coppa del Mondo al cielo di San Siro, rientra in questa grottesca visione antropocentrica di quel periodo. Quattro anni dopo gli risponderà Diana Ross, calciando fuori un rigore da due metri, sempre nella cerimonia inaugurale del Mondiale del 1994, come per continuare questa saga della realtà moderna. Scaramanzia cattolica, ma al contempo vanno contati i morti nei cantieri del San Nicola, le tangenti e gli appalti, i cartelli della droga. In quest’atmosfera dilaniante, La Ragione di Stato ci racconta, con una verve strettamente sportiva, il calcio nella sua massima esaltazione. Perché nonostante le squadre italiane avessero dominato in ogni competizione europea nella stagione ’89-’90, usciamo dopo aver subìto il primo gol ai quarti di finale e per giunta contro un’Argentina più picaresca che sportiva. Perché la storia l’hanno fatta la Giamaica nel 1998, in Francia, al primo mondiale a trentadue squadre, e la Svezia negli Stati Uniti, dove per la prima volta nella storia una finale venne decisa ai calci di rigore. Episodi come la sconfitta del Brasile durante il ritiro a Gubbio per mano di una rappresentativa umbra guidata da Ciccio Artistico, o la pazzesca sfida tra Argentina e Inghilterra a Saint-Étienne, vengono raccontati con la stessa e minuziosa sagacia, utilizzando un linguaggio ficcante ed esplosivo allo stesso tempo. “Dov’è la Vittoria?”, infatti, non fa distinzioni tra il tragico e il comico, tra il gesto eclatante e partita soporifera di fine girone: ciascun luogo, personaggio ed episodio fanno parte di una lunghissima avventura che risponde al nome di anni ’90, dalla politica alla società sino ad arrivare allo sport. Il disco che servirebbe a completare definitivamente la descrizione di questo volume potrebbe essere "With the lights out" dei Nirvana, che contiene covers, inediti e registrazioni risalenti ai primi anni dei novanta. Negli anni Ottanta e nel primo decennio dei duemila, insomma, l’abbiamo vinto. Ma negli anni Novanta ci siamo divertiti. E volete mettere?
“Il 3 luglio è il giorno di Italia – Argentina, sicuramente tra le cinque partite Cult della storia della Nazionale. La legge di Murphy, nostra usuale compagna di viaggio, ne combinò un’altra delle sue. L’organizzazione decise di far giocare la prima delle due semifinali a Napoli, nella convinzione che il calore del pubblico partenopeo avrebbe spinto gli Azzurri in finale. Il che sarebbe stato vero se non nell’improbabile ipotesi in cui l’Argentina fosse nell’ordine: passata per terza nel suo tipico girone fantasia; passata col Brasile con il trucco della borraccia e trentacinque pali dei Verdeoro; infine, passata con la Jugoslavia più forte e tecnica dell’era contemporanea dopo essere stata presa malamente a pallonate per 120 minuti. E murphyanamente andò tutto in quel modo, per filo e per segno.”
0 notes
ufficiosinistri · 8 months
Text
Cristiano Carriero - "Football Rail"
Ventidue città di tutto il mondo descritte in ordine alfabetico. Ventidue storie legate al calcio. Storie importanti, di tifo, di imprese, di amore, di lavoro, di amicizia. Ventidue autori: giornalisti, scrittori, content creator, opinionisti, coordinati da Cristiano Carriero, che da anni ha fatto dello storytelling il suo lavoro. Questo è” Football Rail”. Un libro che inseguivo da tempo e che, finalmente, ho trovato. Dall’avveniristica e totalmente ecosostenibile Copenaghen del 2050, in lizza per vincere una fantomatica Super-Champions League, ci spostiamo nella grigia Ruhr del Borussia Dortmund dei giorni nostri, per seguire un’appassionante storia ambientata tra esodi lavorativi ed un amore nato in Südkurve.
Tumblr media
Viene raccontata, con occhio omnisciente, l’esperienza di Tony Adams come allenatore del Qabala, ai confini dell’Impero Romano, in Azerbaijan, per dimostrare che il pallone, nella concezione moderna del termine, possa sembrare davvero alla portata di tutti ma che, tirando le somme, in pochi possono fruirne le vicende giocate. Sotto l’aspetto politico, poi, è fondamentale l’apporto dell’esperienza di Feyzi, un tifoso del Galatasaray imprigionato dopo la protesta di Gezi park a Istanbul, durante la quale le compagini ultras più importanti della capitale si trovarono unite, per la prima volta, contro la dittatura di Erdoğan. Trovare uno stile di scrittura univoco è, ovviamente, impossibile: gli autori, che descrivono a modo loro diverse città del mondo, partendo dal gioco del calcio, utilizzano chi uno stile giornalistico e chi una via narrativa più letteraria e autobiografica. Abbiamo poi diversi racconti impostati come se fossero dei veri e propri articoli che si affiancano a storytelling frenetici ed accorati, come quello sulla famosissima, ultima partita del campionato scozzese del 1986 nella quale gli Hearts of Midlothian di Edimburgo vennero sconfitti per due a zero dai padroni di casa del Dundee United, regalando così di fatto la vittoria della competizione al Celtic Glasgow. Dura e sconsolata, invece, la cronaca, tra Helsingborg e Milano, dell’eliminazione, da parte degli svedesi, dell’Inter di Lippi. Il rigore sbagliato da Recoba a San Siro urla ancora vendetta. Liberatorio e culturalmente ricco di rimandi e prospettive, infine, è il racconto del Saint-Étienne di Dominique Rocheteau, il centravanti dagli occhi verdi che leggeva Sartre e che portò all’apice del successo quella piccola città di minatori, sperduta nel Massiccio Centrale, negli anni ’70. La lettura, nel complesso, scorre ovviamente leggera e veloce, ma vi propongo un gioco: provate a non spoilerarvi, una volta finito un racconto, il nome della città successiva. Resterete sorpresi. “U” di Ushuaia.
“E il Dukla? Un tempo amata e la più vincente squadra del Paese, oggi raccoglie una quantità limitata di tifosi. Tutta colpa della sua storia e di quel passato con l’etichetta di “squadra di regime” che si trascina ancora oggi, consegnandole il titolo di squadra meno tifata nella capitale ceca nonostante le pagine di storia sportive scritte e i tanti campioni che hanno indossato la maglia giallorossa. Le pressioni dei coetanei e il carattere molto spesso accondiscendente non sono mai bastati: Pavel si è sempre dimostrato molto intransigente nel difender quei colori e quella squadra. Il nonno, la famiglia e non solo: quel maledetto problema congenito alla colonna vertebrali non gli permesso di coltivare il suo – così come tanti suoi amici e pari età – sogno di diventare un calciatore e il tifo per il Dukla è il collante con un mondo, quello del calcio, al quale è da sempre molto legato.”
1 note · View note
ufficiosinistri · 8 months
Text
Giovanni Tarantino - "Calciopop"
Si parte da un punto ben definito, e cioè da un altro libro: "La tribù del calcio", di Desmond Morris. Da qui nasce tutto, dalla sua pubblicazione in poi, finalmente, vengono delimitati gli ambiti culturali del calcio moderno. "CalcioPop" deve moltissimo a quest'opera del 1981, scritta da uno dei più famosi etologi di sempre, capace, pioneristicamente, di identificare questo sport come fenomeno di massa, fuori e dentro il campo di gioco. Per ogni lettera dell'alfabeto, l’autore, il giornalista palermitano Giovanni Tarantino trova diversi collegamenti. In ambito sportivo, ovviamente, ma anche in quello culturale, sociale e politico. La ricetta è semplice, ma soprattutto efficace. Dagli eventi più importanti, che hanno caratterizzato il calcio sin dalla sua nascita, grazie a "CalcioPop", ci facciamo trascinare vorticosamente da curiosità ed aneddoti meno conosciuti. Lo scopo è evidente: Tarantino ci comunica che, inesorabilmente, il pallone sia un'esperienza quotidiana, intrisa di tutto ciò che è "pop", ossia "popolare" nel senso più vero del termine.
Se Camus tifava Racing Parigi, allora Sartre, maggiormente legato alla capitale, parteggiava per il Paris Saint Germain. E chi sapeva di quella volta di Paolo Conte al Moccagatta di Alessandria, per assistere a uno dei derby del famoso "Quadrilatero del Pallone”, tra i grigi padroni di casa e quelli della Pro Vercelli?
Il calcio è radicato nel nostro immaginario da sempre. Dai fumetti di Andy Capp al profilo di Corto Maltese in bella vista su numerosi striscioni della penisola, dalle citazioni cinematografiche alle sezioni ultras il cui nome si ispira ai gruppi giovanili raccontati nelle pellicole di Kubrick e Walter Hill, Tarantino riesce ad eludere l'aura di scontato romanticismo che potrebbe intridere il modo di raccontare questi fatti, riportandoci ad un ragionamento che parte dagli albori del gioco e del tifo calcistici.
L'urlo di Morales al gol di Maradona ripreso dal Gotan Project, l'evoluzione dei protagonisti del cartone animato "Holly e Benji", la vicenda del cosiddetto "mockumentary" riguardante il Mondiale che si sarebbe disputato in Patagonia nel 1942, in pieno conflitto bellico, al quale, per la prima volta, nessuna delle due nazioni ospitanti (Cile e Argentina) avrebbe preso parte, e che avrebbe visto vincitrice una rappresentativa Mapuche ai danni di una molto più attrezzata Germania.
Il calcio è cultura, ma soprattutto è ovunque. Nelle metafore guerresche che assimilano la difesa milanista di Sacchi alla Linea Maginot, ma anche in Silvio Orlando, operaio meridionale tifoso del Torino e trasferito per lavoro in Piemonte in "Preferisco il rumore del Mare" di Mimmo Calopresti.
L’ultima parte del volume, infine, è dedicata al movimento ultras, su cui effettua una precisa e puntuale indagine storica, che forse sembra non avere molto a che fare con il titolo e la prima parte del volume, ma che a ben vedere, riesce a spiegare mode, vicissitudini e simbologie di questo fenomeno come raramente ho visto fare in altri libri o dibattiti.
Grazie a “Calciopop”, quindi, riusciamo a capire come le rappresentazioni grottesche di Neri Parenti in “Fratelli d’Italia” e la ribellione di Fantozzi al cineforum aziendale, non siano tanto differenti dalle conclusioni sociologiche di Raoul Vaneigem o dagli articoli romanzati di Gianni Brera, quando si tratta di raccontare la cultura che, da sempre, dà linfa vitale a questo perpetuo fenomeno storico.
Adorno di illustrazioni, fotografie e disegni esplicativi, "Calciopop" è una solida base di partenza per tutti coloro che, partendo da un'iniziale infarinatura, desiderano sviluppare tematiche più precise nell'universo calcistico. Irrazionalità ed estro sono destinate per natura a sfociare in sport, e quale attività se non il pallone può essere causa, ma anche effetto, dei nostri più normali comportamenti quotidiani?
"Proprio al medioevo risalirebbero le radici della passione popolare per lo sport anche secondo lo storico e antropologo olandese Johan Huizinga, autore di "Homo Ludens": lo sport come reazione spontanea a un modello di modernità che cercava di emarginare.
Tumblr media
il fattore ludico ed estetico della vita sociale. << Né il liberalismo, né il socialismo offrirono allo sport terreno favorevole. La sopravvalutazione del fattore economico nella società e nello spirito umano era in un certo senso il frutto naturale del razionalismo e dell'utilitarismo, i quali avevano ucciso il mistero.
Gli ideali di lavoro, di educazione e di democrazia lasciavano a malapena posto all'eterno principio del gioco.>> E allora il calcio riappare come la riemersione di tutta l'energia vitale rimossa dalla società produttivistica ed ecco motivati i riferimenti ai modelli antichi e medievali."
0 notes
ufficiosinistri · 8 months
Text
Fabio Fava - "Loco a Marsiglia"
Si parte con una citazione, sin dal titolo. “Duri a Marsiglia” è infatti un romanzo poliziesco scritto da Giancarlo Fusco che parla della malavita, nel periodo tra le due guerre, nella città focese. Parla di pastis, sparatorie, amori, ci racconta di come Marsiglia sappia uccidere ma anche amare, e che, in fin dei conti, non ci sia tanta differenza tra le due cose.
Questo filo conduttore, tra la città, le sue chiese e il suo porto, la sua cittadella e i suoi vicoli, e le persone che vi transitano, è un modo di vivere sempiterno che solo luoghi come questo possono mantenere. Tra questi personaggi, che vi transitano arrivando da tutto il mondo, vi è anche un nativo di Rosario, un argentino di nome Marcelo Bielsa Caldera, del quale, grazie all’acuta penna di Fabio Fava, viene raccontata l’esperienza, durata poco più di un anno, nel capoluogo provenzale, alla guida dell’Olympique Marsiglia.
La stagione è quella 2014-2015. Bielsa era chiamato a bissare, possibilmente, almeno le precedenti vittorie di Deschamps in Ligue 1. Il cosiddetto proyecto, però, partì male, anzi malissimo, con un presidente ( l’imprenditore Labrune, rampollo della borghesia parigina formata in Sorbona e quindi odiato dalla tifoseria biancazzurra ) che non riuscì a garantire al Loco i giocatori richiesti per affrontare una fase preparatoria adatta ai suoi canoni.
Tumblr media
Il legame con i tifosi e la città, però, ebbe la meglio sulle strategie societarie, e si instaurò tra il CT argentino e i tifosi dell’OM un sentimento di reciproca stima che andò al di là dei risultati sportivi, del cosiddetto 3-3-3-1, di un Vélodrome da riempire, dei rapporti tra commissario tecnico e calciatori. Bielsa rappresentò, secondo Fava, un’incarnazione sportiva della città come forse capitò solamente nella Napoli di Maradona.
Come dai tempi della vittoria del campionato argentino con il Newell’s Old Boys di Sensini, Balbo e Batistuta, lo scopo principale di Marcelo Bielsa fu quello, durante l’anno marsigliese, di restituire ai tifosi un calcio genuino, fondato su un gioco leale e destinato al puro divertimento, più che al raggiungimento degli obiettivi societari. Non si sarebbe più trattato del derby tra Canallas e Leprosos, bensì di andare a giocarsi un campionato in Corsica o alla Gerlande, affrontando i milionari del Paris Saint-Germain o i minatori del Saint-Etienne. La grandezza del personaggio Bielsa si fece percepire anche quando, dopo un girone di andata sensazionale, in quello di ritorno furono numerosissime le sconfitte o le occasioni mancate. Anche senza avere a disposizione i campioni che transitarono a Marsiglia del calibro di Drogba, Francescoli, Zidane e Waddle, El Loco compì un’impresa ben più storica di quella di riportare la vittoria all’ombra di Notre Dame de la Garde.
Copertina illustrata da Sarita Liguori e prefazione a cura di Matteo Dotto.
0 notes
ufficiosinistri · 9 months
Text
Vincenzo Paliotto - "Splendori del calcio socialista"
What will you be reading this weekend?
Puntata numero 15
Vincenzo Paliotto – “Splendori del calcio socialista”
Il calcio nei paesi aderenti al Patto di Varsavia è stato un calcio violento e sperimentale. E non avrebbe potuto essere altrimenti. La politica, le guerre, i conflitti, impregnavano la dimensione calcistica in modo intrinseco più di qualsiasi altra epoca storica, assurgendo a ruolo apicale, più che di pretesto. Credo che il libro di Vincenzo Paliotto “Splendori del calcio socialista” abbia come scopo quello di spiegare letteralmente questo periodo storico, narrandone l’aspetto a noi più caro, quello del calcio, per farci comprendere più a fondo gli eventi.
Conoscenza. Si chiama così.
L’autore prende in esame nazione per nazione il gioco del pallone, descrivendo e raccontandone gli aneddoti meno noti, ma non per questo di minore rilevanza, di squadre locali e nazionali. Si parte dalla Bulgaria per poi arrivare alla Romania del presidente Nicolae Ceaușescu, che pone il veto sulla cessione di Hagi alla Juventus nonostante la promessa, da parte di Agnelli, di aprire uno stabilimento Fiat in Romania. Sempre rimanendo in zona, poi, Paliotto dedica un capitolo all’Universitatea Craiova, autentica outsider nei campionati nazionali nella quale militava il fortissimo Oblemenco, e a Barbulescu, artefice della storica conquista, da parte dello Steaua Bucarest, della Coppa Dei Campioni del 1986.
La Jugoslavia titina, ovviamente, viene messa al centro dell’indagine giornalistica di Paliotto, citando la finale, sempre di Coppa dei Campioni, contro i franchisti del Real Madrid del 1966, disputata dal Partizan Belgrado che aveva come capitano, al centro della difesa, quel Velibor Vasović, figlio di partigiani rossi, destinato a far parte del primo grande Ajax di quel calcio totale, definito a buon diritto la realizzazione più socialista di sempre avvenuta una disciplina sportiva. Forse ancor più della Russia calcistica, eterna incompiuta, che mentre alle Olimpiadi eccelleva in quasi tutte le discipline atletiche, all’Europeo del 1988 incocciava contro l’Olanda (che coincidenza!) di Van Basten.
Abbiamo le azioni, abbiamo le descrizioni dei gol, abbiamo gli aneddoti. Minuziosamente e, soprattutto, mai attraverso una vena nostalgica, ci viene descritto tutto, in questo volume edito da Urbone Publishing. Dalle scappatelle amorose di Müller in Albania alla gloriosa storia del Carl Zeiss Jena finalista in Coppa delle Coppe, per arrivare alla storica “riabilitazione”, dopo una squalifica, di Garrincha, in occasione della finale mondiale del 1962 in Cile contro la Cecoslovacchia, che senza di lui come avversario avrebbe potuto, forse, riscrivere la storia moderna di questo sport.
La bravura di Paliotto sta nell’affiancare puntualmente, in questo volume, gli aspetti sportivi con quelli storici, senza che gli uni risultino mai preponderanti sugli altri, raggiungendo il lettore in modo semplice e dinamico. Il rischio di scadere nella sommarietà delle informazioni fornite è grande, ma “Splendori del calcio socialista” non riflette nient’altro che materialismo e verità.
Dimostrandoci che Dragan Džajić, alla fine, segnando a Zoff negli Europei del 1968, abbia solamente compiuto il suo dovere di socialista. Perché il calcio che giocava era violento in quanto vitale, e sperimentale in quanto vincente.
“Intorno al quindicesimo minuto il rude difensore Rafael Angel, come nella peggiore scuola del calcio spagnolo, con un intervento frantumò la gamba di Kipiani, tenendolo lontano dai capi da gioco per molto tempo. L’arbitro belga Schoeters, uno chiaramente compiacente alla causa madridista, fece finta di nulla, ma Angel al 45’ fu costretto a lasciare il posto a Garcia Hernandez per evitare un’autentica caccia all’uomo da parte dei sovietici. La Dinamo, senza Kipiani e innervosita da quell’episodio, naufragò per 4-2.
Tumblr media
Era stato un vero e proprio agguato alla carriera di Kipiani, che i madridisti finirono per scontare gravemente. Il PCUS, infatti, si indispettì e bloccò un eventuale trasferimento di Blokhin al Real Madrid, sebbene l’allenatore madridista Boskov avesse messo al principio della sua lista dei desideri il nome di Gutsaiev, il finalizzatore delle giocate di Kipiani.”
0 notes
ufficiosinistri · 9 months
Text
Roots, bloody roots
Le nuvole salivano dal crinale dietro di me, arrivando a scollinare nell’altra vallata. Le vedevo arrivare come se fossi seduto sul bordo di un immenso calderone, dentro al quale ribollivano le azioni di coloro che non erano con me. Avevo paura di quei pensieri, avevo paura si potessero impossessare di me e farmi diventare tenebra sfuggente come loro, persone che non miglioravano mai nonostante il passare degli anni. Farmi diventare inutile, come quella volta in cui stavamo facendo le squadre una mattina nel caldo e nel profumo dell’erba appena tagliata dai giardinieri del Comune con rumorose falciatrici, falciatrici che si sentivano sin dal mio letto per tutta l’estate. Le scuole erano chiuse, i nostri genitori erano al lavoro e noi dovevamo fare le squadre. Abbiamo cercato di farle equilibrate, quella volta. Le signore anziane fumavano ai balconi, appoggiate alle ringhiere, tenendo la sigaretta tra medio e anulare e grattandosi il mento con il pollice, controllando la stretta via sottostante. Erano creature oscure, perché oscuro era il paesaggio: non si capiva se c’era il sole o stava per arrivare un temporale, l’aria era fredda e umida. Non c’erano nemmeno le zanzare, che di solito, a prati appena tagliati, ti assalivano a frotte. Il più grande di noi, che aveva appena finito l’esame di terza media, disse che ci avrebbe pensato lui. Era rilassato, da settembre sarebbe andato al Liceo Classico perché gli piaceva leggere e perché suo padre faceva il notaio. Si mise in piedi, alzandosi dalla panchina, e noi in cerchio attorno, ad ascoltarne il responso. Disse che i due Andrea dovevano stare separati perché erano gli unici del gruppo che giocavano in una squadra ed erano i più forti, anche se l’altro Andrea, non io, era comunque il più forte perché ci giocava da più tempo, in una squadra di calcio.
Mi sentii inutile. Tanto valeva non far proprio parte di nessuna squadra di calcio, no, se poi quando c’era da far le squadre al parchetto si finiva sempre dopo altri. Tanto valeva non venirci proprio più, al parchetto di mattina. Tanto valeva accompagnare i miei nonni al supermercato, a guardare le contrattazioni nei parcheggi e le persone rilassate che guardano i propri carrelli compiaciute e parlano a vanvera delle vacanze che anche quell’estate  non faranno, perché tanto si sta bene quando la città è vuota. Si va in piscina e a prendere il gelato, non c’è bisogno del mare e del casino che c’è al mare.  Si sta al balcone, si guarda giù per strada i parcheggi che finalmente si trovano dato che sono tutti via; chissà oi dove saranno andati di così interessante, fatti loro.
E poi, che seccatura il calciomercato. Che tanto non arriva mai nessuno. Che tanto c’è sempre qualcuno di più bravo, come quando si fanno le formazioni al parchetto, per una partita che durerà non più di venti minuti perché si deve tornare a casa per preparare il pranzo. E allora se sei nato in Italia, ma ti hanno sempre detto che c’è qualcuno più bravo o più in forma di te, decidi di giocare per il Venezuela, come Ernesto Torregrossa.
In montagna, è più facile perdersi quando il cammino è in piano, che quando si è sui pendii o in altre zone scoscese. Alzi lo sguardo, ti rilassi, ti guardi attorno, ti fai strada tra l’erba dei maiali, dolciastra e colorata, e guardi le baite. Poi prosegui, ma non ti accorgi che la strada da seguire, il sentiero a cui ti sei affezionato, abbia preso una piega diversa, abbia deviato. Verso il basso, magari. Dopo aver nicchiato in prossimità dei cartelli colorati e ben visibili, anche da lontano, che indicano i diversi sentieri con le relative durate, ti ritrovi, pochi istanti dopo, a dover tornare indietro. Quasi te ne vergogni ,speri che nessuno ti veda, perché solamente dieci minuti prima eri a compiacerti della strada percorsa, ti eri fatto i tuoi conteggi sul tempo impiegato e sul tempo che ti rimaneva ancora da camminare per arrivare ad un altro cartello, un altro alpeggio.
Insomma, Torregrossa è allenato, attualmente, da José Pekerman.  L’ha fatto esordire lui, con la nazionale venezuelana. Pekerman è uno che non si sposta tanto, non è il classico allenatore argentino giramondo che vuole imporre ad ogni costo il proprio gioco, anche in nazioni che culturalmente non lo sopporterebbero. Ha allenato da vincente le giovanili dell’Albiceleste, poi la nazionale maggiore nel traballante Mondiale di Germania, la Colombia di James e si è addentrato nell’avventura con la Vinotinto da poco, un paio di annetti. Nel 2006, quando finalmente Pekerman veniva riconosciuto a livello internazionale, Ernesto Torregrossa giocava ancora a casa sua, a Caltanissetta. Era giovane, ma questo fattore, questo attaccamento alla propria terra natale, perdurerà lungo tutta la sua carriera, sino alla svolta, arrivata con il Brescia. Prima salva la squadra dalla retrocessione, con un gol di testa appena dopo il pronti-via, in casa contro il Trapani, una delle siciliane nelle quali ha militato, poi la porta in Serie A.
Tumblr media
C’è stato il gol alla Bobo Vieri, dalla linea di fondocampo, ai tempi del Crotone. C’è stata la ruleta nella trequarti della Salernitana, c’è stata al Serie A con la maglia numero nove alla Sampdoria e quel gol, ancora di testa, all’Udinese, in mezzo all’area, su un cross lento. Ci sono le stagioni in Serie B col Pisa, dove finalmente, si spera, potrà trovare la passata continuità nelle stagioni future, senza magari rivalità interne eccellenti come Masucci e Puskas.
Eppure, è come se Torregrossa si sia convinto , arrivato ad un certo punto della sua carriera, ad intraprendere altre strade. La scelta della nazionale venezuelana può apparire romantica, inusuale, ma non è nient’altro che una tappa del suo percorso. Ci si può perdere, si deve tornare indietro o cambiare sentiero, alle volte ci si smarrisce, sui cigli dei burroni, mentre di sotto le persone fatiscenti ci intorpidiscono i sensi.
L’erba dei maiali, nella sua bruttissima trasposizione dal dialetto, è dolciastra, si muove col vento brontolando e scuotendosi sino alle radici. È di un colore verde scuro e i suoi fiori spuntano volgarmente, come per caso, dalle larghe foglie. Si chiama così perché è una pianta che cresce attorno alle stalle e ai luoghi dove vengono ricoverati gli animali d’estate, negli alpeggi di montagna. Invade in pochissimo tempo i sentieri che spuntano dalla neve che si scioglie in primavera, per non andarsene più. In questo modo, perdi la strada. Ti distrai, ti chiedi da dove arrivi questo vegetale e non fai caso al cammino che stavi intraprendendo.
Ma le radici, quelle non si possono smuovere.
0 notes
ufficiosinistri · 10 months
Text
Bruno Barba - "Ma quale DNA?"
“Ma quale DNA” è un saggio scritto da Bruno Barba che ha uno scopo ben preciso: quello di screditare e affossare qualsiasi teoria evoluzionista presente nel calcio, atta a portare un peggioramento della qualità culturale e comunicativa di narrazione e giornalismo. Il termine specifico oggetto della critica da parte di Barba, docente di antropologia, è, appunto, “DNA”. Parlare di DNA in uno sport nel quale, come sosteneva Socrates, “può vincere anche il peggiore”, risulta un’operazione anacronistica, che assume intrinsecamente concetti razzisti, che vengono così trasfigurati nello sport più mutevole e intriso di socialità, rivoluzione, rispetto ed accettazione di tutti i tempi. Frasi come “Questa squadra ha la vittoria nel DNA” oppure “questa società ha carattere” non hanno motivo di esistere quando si tratta di raccontare, mediante studi  empirici, o più modernamente con storytelling e messe in scena televisive, uno sport creato dagli uomini e da essi continuamente plasmato, come se vivesse in uno stato di continua evoluzione interiore.
Non esiste  infatti, in primo luogo una “maniera” di giocare a calcio: Sacchi, per esempio, si ispirò al modello olandese per arrivare a far giocare come prima punta il sardo Virdis, e pretese fortemente l’acquisto  dell’emiliano Ancelotti dalla Roma, dando vita ad un modulo studiato per poter competere con le squadre di quel preciso periodo storico e sociale. Allo stesso modo, ci viene raccontata l’Italia del 1982, che fu capace di prendere le distanze dal calcio di Pozzo, il calcio “da alpini”  delle due Rimet vinte di fila e in grado di trovare aperture e spazi, alla faccia della costante retorica del catenaccio all’italiana.  
In “Ma quale DNA”, le parole come “sincretismo” e "partecipazione" hanno maggior valenza rispetto agli slogan che vengono continuamente  diffusi dai social e da una maniera di raccontare il calcio troppo spinta verso la celebrazione delle vittorie e delle imprese sportive del singolo, più  che nei confronti degli uomini nella loro collettività, con i loro pregi e i loro difetti, che le hanno compiute.
Il calcio non viene descritto come materia minore rispetto ad altri sport, soprattutto quelli che esaltano in modo più spiccato l’individualità : dal giocatore di terza categoria all’amatore, dalla vecchia gloria che sta finendo la carriera in Serie D al giovane promettente di qualche cantera europea, tutti vengono posti sullo stesso piano, grazie ad una ricerca socio-antropologica esaustiva e rivelatrice, frutto dell’immensa cultura e dell’estremo interesse scientifico che il docente alessandrino mette a disposizione dei propri lettori.
Tumblr media
Stiamo parlando di un testo accademico e di tutt’altro che facile lettura, ma estremamente necessario, soprattutto per capire cosa significhi veramente parlare di calcio moderno. Essendo appena uscito, grazie alla lungimirante opera di Battaglia Editore, “Ma quale DNA” esamina ogni sfaccettatura antropologica del gioco del pallone, arrivando a parlarci degli ultimi Mondiali, disputati in Qatar, partendo dall’Homo Ludens di Huzinga per poi arrivare a Pavese, Gianni Brera e al Basaglia di “da vicino nessuno è normale”.  Perché il calcio, come gli uomini, è un fenomeno fluido, come fluida è la società nella quale prende vita e viene giocato ogni giorno, sul campetto di periferia come nelle grandi arene sportive.
Scrivere, raccontare e parlare di calcio dovrebbero essere, secondo Bruno Barba, pratiche veicolanti per trasmettere un’esperienza e, successivamente, interpretare i fenomeni che ne derivano. Saper descrivere il calcio per poi poterne parlare, saper individuare le cause tattiche per poter commentare un’azione sono operazioni che vanno ben più in là rispetto all’abbruttimento del linguaggio calcistico al quale siamo ormai da decenni abituati. Stiamo parlando di vera e propria fenomenologia, che non si scaglia a priori contro modernità e cambiamenti, in una retorica nostalgica ed ancorata al passato, me che ne entra a far parte in modo quasi naturale e descrittivo.
Raramente ho trovato un saggio calcistico che, in modo così naturale, eviti scontate sussunzioni e scada in effimere narrative nostalgiche per raccontare questo gioco. Se ovunque possiamo giocare a pallone, allora ovunque e a chiunque possiamo raccontarne le storie.
“Esiste una contraddizione di fondo tra il desiderio di formulare articolate teorie sui massimi sistemi calcistici e l’evidenza di alcuni fatti: se al novantesimo minuto della finale mondiale 1978 l’olandese Resembrink, invece che colpire il palo, avesse indirizzato la palla qualche centimetro più in là, sarebbe cambiata la storia di quella squadra arancione, dell’Albiceleste, e chissà persino il destino dell’Argentina e della sua infame dittatura.”
2 notes · View notes
ufficiosinistri · 11 months
Text
Trade Unions
Sul lato opposto della strada fuori dalla finestra del mio ufficio, ci sono, in sequenza da sinistra a destra, lo studio di un fotografo, una parrucchiera e un bar. Fanno tutti e tre parte del piano terra di un antico palazzo grigio e perennemente in ristrutturazione. Il primo ad iniziare la giornata lavorativa è il bar, ovviamente, che trovo già aperto quando arrivo alla mattina. Poco dopo, magari mentre bevo il primo caffè brodoso della giornata, vedo il fotografo mettere la sua moto nel parcheggio all’angolo della strada, accanto al bar. Chiude il manubrio con un pesante lock nero, si toglie il casco ed entra a far colazione al bar, prima di alzare la serranda del suo laboratorio. Esce senza salutare, come se fosse un’azione autonoma scissa dalla sua personalità.  La parrucchiera è l’ultima ad incominciare.  Non appena le giornate incominciano a riscaldarsi, a metà mattina, il titolare del bar mette una piccola panchina di legno fuori dalla vetrina del locale, tra lui e la parrucchiera, e arriva sempre un po’ di gente a fare capannello. Il lunedì, l’argomento principale è lo sport, mentre già da giovedì iniziano le lamentele per il tempo che farà nel weekend e le incombenze con mogli e nipoti. Tra una cliente e l’altra, la proprietaria del salone esce e partecipa, seppur per poco tempo, a queste conversazioni, che attirano alle volte anche sei o sette nuovi astanti. Il fotografo invece non esce mai, se non per far capolino dall’uscio del suo studio e ridere delle cose vengono dette. Sempre verso metà mattina, il barista esce ogni giorno con un vassoio e porta caffè e cappuccino sia a lui che alla parrucchiera, che di quando in quando ordina anche qualcosa per le sue clienti, soprattutto acqua o tè freddo, se fa caldo. Quando entra qualche cliente nel salone, sento dalla mia scrivania il rumore del campanello della porta.
Tumblr media
Rimanendo aperto anche durante l’ora di pranzo, facendo da piccola tavola fredda, il bar riceve consegne da parte dei corrieri anche per gli altri due negozi.  Di solito arrivano un paio di furgoni intorno all’una, a consegnare prodotti di bellezza e risme di plastica, quando la via è vuota e invasa dal sole, che sembra una strada di un villaggio del far west prima dell’inizio di un duello. Lasciano il rumoroso motore acceso, il barista esce, si fa lasciare il pacco sulla panca mentre firma la bolla d’accompagnamento e lo porta ai vicini non appena riaprono, intorno alle tre e mezza del pomeriggio. Lo fa sorridendo, ogni volta come se fosse la prima, allungandosi sugli usci e chiamando i due colleghi di attività col suo vocione dialettale da persona del Nord.
È un meccanismo perfetto, tenuto insieme dalla routine e, se vogliamo, dalla necessità di mantenere vivo il proprio lavoro. Siamo quotidianamente strattonati, contesi e sbatacchiati da necessità di guadagnare, malattie, impegni, visite mediche urgenti, divani, lavori in casa: da soli non ce la potremmo mai fare. Ogni giorno, tutto il giorno. Anche nel calcio è così, soprattutto nel tanto vituperato calcio moderno. In squadra, ormai, come se fosse una guida, ci vuole un tratto d’unione, una persona e un ruolo in grado di tessere le fila e dare costante sicurezza in caso di bisogno. Nel calcio di oggi, privo, ormai, di terzini puri, da 4-4-2 per intenderci, Robin Gosens è diventato questo tipo di calciatore. In difesa, sì, ma sempre presente anche quando bisogna dare una mano, servire chi sta davanti e chi, soprattutto, non ha la stessa continuità alle redini della squadra.  
Il calcio, come il lavoro, deve essere un diritto fruibile a tutti. Deve essere universale, non deve rifarsi ad utopie o fatalismi. Le concezioni olandesi prima e sacchiane poi del gioco del pallone si riflettono totalmente nelle teorie di squadra adottate da Gasperini dal 2017, anno in cui Robin Gosens arrivò all’Atalanta: non siamo una squadra milionaria ma possiamo farcela, almeno sotto l’aspetto del gioco. Basta lavorare. Gosens ha quindi dovuto, in quel cantiere sportivo ai piedi delle Alpi Retiche, sudarsi una maglia da titolare. Gli esterni a Bergamo non sono mai mancati, ma cercando quella maglia si è creato uno spazio su misura, efficace e duraturo.
È un ruolo, il suo, che nell’Atalanta è andato oltre il fare la classica “spola”. Gosens non è un “motorino” degli anni Novanta (vi ricordate Marco Sgrò e la noiosa dialettica sulla sua quasi servile instancabilità?) e non è nemmeno un “pendolino” degli anni duemila. Queste similitudini futuriste non si addicono ad un giocatore sensibile alla scienza tattica come lui. Empiricamente, il tedesco ha cercato sempre di partire da tentativi ed esperienze, per affinare il suo ruolo in campo. È un tedesco, uno abituato a pensare come porebbe pensare un illuminista europeo.
Questo si chiama lavorare.
Mi domando se le tre persone dalle quali siamo partiti, quando io non sono a lavoro, magari per i weekend, non cambino atteggiamenti nei confronti l’una dell’altra. Se per esempio il sabato mattina, con gli uffici della zona chiusi, i ragazzi delle scuole a casa ed i loro genitori indaffarati a fare spesa o a valutare le offerte negli autosaloni, non stentino a salutarsi. O se non programmino una consegna in un orario in cui il negozio è aperto, per non disturbare il vicino.
Nelle azioni di tutti giorni, che compiamo o che vediamo compiere, risiede il nostro far parte di un’umanità che non potrebbe mai resistere senza imparare da queste stesse azioni.
2 notes · View notes
ufficiosinistri · 11 months
Text
Yeah, I went with nothing, nothing but the thought of you
Il versante della Valle Antrona è ripido, frastagliato da nevai e bocciaie. Un susseguirsi così, di paesaggi ostili. I nevai sono sporchi, le bocciaie arse dal sole. Sono slavine vecchie di secoli, che ogni tanto si muovono verso le conche più a valle, dove ancora la gente riesce a camminare. Dal Cingino, cioè da quando finiscono i boschi di larici, si inizia a salire e le tracce del sentiero non sempre si vedevano, venticinque anni fa. Si notavano solo dei segni gialli e rossi dipinti sulle rocce, come se fossero tante piccole bandiere spagnole, ma niente più. Dovevi stare attento, altrimenti rischiavi di smarrire la strada.  Alle volte ci si perdeva, col lago lasciato alle spalle, in tutta la sua profondità e i suoi iceberg che si scioglievano solo a luglio. Il percorso sino al Passo dell’Antigine è tutto così, un disastro. Ci si mettono cinque o sei ore dalla macchina, e spesso arriva la pioggia a coglierti alla sprovvista, perché le nuvole si fermano dietro a Crestarossa e non se ne vanno più via sino a quando non scaricano un po’ di pioggia, che cade battendo sulle frane e sporca ancora di più i nevai che stanno morendo.
Dal versante svizzero, invece, cambia tutto. Il paesaggio è sempre brullo, data l’alta quota, ma più dolce. Si arriva al passo con più facilità e la vallata è meno severa. Qualcuno arriva sino quasi al passo in Mountain Bike, ho visto delle foto. Anche da quel versante ci si lascia alle spalle un lago, nella salita. Ma è un lago molto grande, si chiama Mattmark. Come quelli italiani, è un lago artificiale, e la diga è enorme. Sembra un diamante azzurro incastonato nelle montagne, vedendolo dall’alto. Lo si raggiunge passando da Saas Almagell, dopo che la strada si biforchi a Saas Grund e si possa andare a Saas Fee, la località di montagna più bella nella quale sia mai stato. A Saas Fee hai a portata di mano i quattromila metri che si vedono dal Cavalcavia della Ghisolfa a Milano. Li puoi toccare, puoi contare i seracchi e controllare dove la neve sia fresca ad occhio nudo, dal paese, seduto a berti una birra. Sono limpidi, ammansiti dal sole e dai tre secoli di alpinismo che li hanno solcati. A Saas Fee, ci si può arrivare solo lasciando la macchina al bivio di Saas Almagell e prendendo in seguito un treno alpino che ti porta su. Non ci sono automobili agli incroci, non ci sono gli ingorghi stradali che puoi incontrare nella valle accanto, la Valle del Cervino dei Caran d’Ache e di Zermatt.
Sembra tutto perfetto, ma sono morte delle persone, degli operai, in questi luoghi, negli anni ’60, quando stavano costruendo l’imponente diga di Mattmark. Un pezzo intero di ghiacciaio scivolò verso l’invaso e trascinò via i dormitori pieni delle persone che lavoravano in quella valle. Persone che arrivavano da tutta Europa, sin da Cosenza. Immaginatevi, un ragazzo che da Cosenza, per lavorare ed avere una dignità nel mondo dell’industrializzazione, arriva a Mattmark, nel Vallese, dove le macchine sono targate VS, dopo aver fatto un viaggio in treno sino a Milano e poi sino a Briga o Sion.
Uomini che con i loro viaggi e i loro abbandoni hanno scritto la storia. Significa sacrificio, significa emigrare. Portandosi sempre appresso qualcosa di significativo, anche nella sofferenza, come faceva Sebastian Abreu, che indossava sempre la maglia numero tredici in praticamente ogni squadra nella quale abbia militato, in onore del suo idolo e connazionale Fabian O’Neill, stella mai pienamente compresa del Cagliari de sudamericani e mai, purtroppo, padrone della sua carriera sui campi da calcio. Abreu ha giocato, in tutta la sua carriera, in più di venti squadre di club, ritornando, ogni due o tre anni, sempre al Nacional di Montevideo, anche per pochi mesi, come se dovesse fare il pieno dell’aria di casa e dell’atmosfera che si respirava negli spogliatoi della squadra che ha sempre tifato sin da bambino. Come se da emigrante, non avesse mai tagliato i rapporti con casa sua, distante interi emisferi.
Lui, che è stato l’ultimo calciatore ancora in attività ad aver giocato contro Maradona, della cui maglia si impossessò quando giocava nel San Lorenzo, ha avuto come patria il mondo intero, letteralmente. Dai prati della Galizia, dove apprese da un certo Djalminha la tecnica dello scavetto su calcio di rigore, che ripropose ai Mondiali in Sudafrica contro il Ghana, ai quartieri militarizzati di Gerusalemme, dalle radici italiane dell’Audax in Cile alla Macedonia greca. 
La storia del Loco (soprannome che peraltro non ha mai del tutto gradito) è una storia che poteva finire in una decadenza senza fine, continuando imperterrita verso rovina e indecenza, ma che nonostante la sua infinitezza si è conclusa con migliaia di ricordi e simboli di appartenenza, a volte persino dolci. In lui e nei suoi tifosi, che l’hanno, ovunque, idolatrato, e trattato come un campione di più remunerativa fama. L’esultanza al Cruz Azul indossando la Calaca messicana, le medie impressionanti di reti segnate con Botafogo e Real Sociedad, l’attaccamento a qualsiasi maglia abbia indossato come da vero lavoratore errante, riconoscente nei confronti di ogni luogo che l’abbia accolto.
“Dall’altra parte della valle del Rodano, ci sono i posti più turistici, ma se vuoi andare a vedere le vere montagne, allora devi andare nella Valle dei Saas. Non gli interessa, loro, degli inglesi in mocassini o dei treni a cremagliera.”
“Cos’è una cremagliera?”
“È come un treno, ma per salire sulle montagne funziona meglio, perché al posto delle rotaie i vagoni sono incastrato in una rotaia che li porta su. Per arrivare al Passo del Furka, c’è un treno a cremagliera, ma è una cosa da turisti. Gli alpinisti vanno a Saas Fee.”
Sebastián Abreu aveva davanti a sé una carriera da cestista, comunque. Era stato persino convocato nella nazionale giovanile dell’Uruguay, ma durante una libera uscita della squadra, in ritiro per disputare un torneo, tornò molto dopo l’orario prestabilito e venne multato. Gli dissero che avrebbe dovuto pagare, e che le regole andavano rispettate. Per tutta risposta, lui decise che no, non gli andava più di far parte di quella squadra e di giocare a basket. Abbandonò il ritiro, tornò a casa sua, a Minas, e comunicò la sua decisione a suo padre. Di solito succede che quando sei da solo, in una città sconosciuta, lontano da casa, inizia a chiamare “casa” l’albergo dove alloggi, e ad orientarti con i bar o i negozi in prossimità di questo albergo in modo da non sentirti più tanto solo e poter affrontare la sofferenza e la distanza.
Tumblr media
Perché è di sofferenza e distanza, che Abreu ci ha parlato durante tutta la sua carriera. Una sofferenza comune a tutti coloro che in nome di una morte crudele si sono immolati, senza ricevere in cambio in prebende o facili vittorie.
1 note · View note
ufficiosinistri · 1 year
Text
Pangloss si fida
D’estate, i palazzi della mia città sembravano enormi. Le loro scale grondavano di liquami fantastici, mentre io evadevo per pochi giorni da una consuetudine fatta di amici di pochi mesi, pranzi e cene sempre puntuali. Come Pangloss, mi fidavo: ogni anno sarebbe stato così. All’infinito. Una volta passammo, io e mio padre, davanti ad una pasticceria davanti all’ospedale, era una mattina d’estate, e come quelle d’inverno era piena di clienti che avevano appena fatto gli esami del sangue. Si trovavano in coda ad aspettare una brioche per riprendersi, dato che gli esami andavano fatti a stomaco vuoto. Le persone avevano sempre bisogno di questi luoghi, quindi. Non solo quando erano imbacuccate da sciarpe e calzavano scarpe pesanti contro il moticcio appiccicoso di neve e ghiaccio che si andava formando sui marciapiedi e che le avrebbe rese più caute nel camminare. Era l’estate del 1992, ricordo perfettamente. I miei genitori compivano quarant’anni e avevamo festeggiato il loro compleanno in montagna. Il diciannove luglio la tavola era ancora imbandita con spumante, pasticcini e posaceneri mentre in TV andavano in onda le esplosioni di Palermo, con le donne e gli uomini che correvano via piangendo. Guardavo un po’ le bollicine dello spumante salire nei bicchieri e un po’ la televisione, girando da una parte e dall’altra i miei occhi da undicenne. Osservavo quello scempio e ne avevo paura, ma tutti mi dicevano di fidarmi, come Pangloss. Eravamo quella generazione, delle infinite partite di calcio e dell’innovazione scientifica, che nonostante gli spari e le bombe sotto casa, doveva necessariamente avere fiducia. I miei sarebbero tornati in città dopo cena, quel diciannove luglio del 1992. La loro macchina profumava di caldo e di fatica mentre io me ne stavo lassù, a far passare i giorni in attesa del rientro a scuola e della ripresa degli allenamenti di calcio. Eravamo tutti protagonisti. Haaland, al contrario, non è il protagonista di un’epoca difficile. Lui è nato a Leeds, la Leeds del 2000 spaccato. Con la squadra di casa ai primi posti in Premier League e un allenatore irlandese appassionato di giocatori conterranei, australiani e norvegesi. Suo padre giocava come difensore in quella squadra e, ironia della sorte, proprio l’estate in cui divenne padre, venne ceduto al Manchester City. Haaland si è sempre trovato al posto giusto nel momento giusto. I grandi numeri nove della sua epoca sono in fase calante e quelli che stanno emergendo, comunque, non possono eguagliare i suoi numeri. Ci fidiamo, quindi. Come Pangloss. Sarà lui il centravanti più forte di tutti i tempi, capace di calciare calci di rigore, di essere cinico di destro e dribblare lasciando per terra i marcatori, a zona come a uomo. Capace di segnare, con la stessa facilità, in Germania come in Europa, o in Inghilterra. Non sembra avere ostacoli lungo il suo cammino: attacca l'area di rigore senza sembrare né veloce, né prorompente. Sembra spinto dal vento.
Dieci estati dopo il quarantesimo compleanno dei miei, mi trovavo a Torino, a casa di amici. Erano da poco finiti i Mondiali, Erling Braut Haaland aveva appena compiuto due anni. La città era angosciante, sembrava inverno anche se il sole era alto, verso il Monviso e il suo cielo, così soavemente adagiato verso l'imbrunire delle valle, era ingiusto, nei confronti della nostra situazione. Un mercato rionale, delle verdure, bibite dolciastre che si appiccicano ai bordi della bocca e non vanno più via.
Tumblr media
Entrambi i miei amici lavoravano e studiavano lì, nonostante fossero nati nel posto di montagna dove ho passato ogni estate della mia infanzia. Eravamo diventati tutti più grossi, rispetto a quegli anni. Dissero che per cena ci sarebbe stata una pastasciutta con le verdure, avevamo da poco abbracciato una convinta dieta vegetariana e il mercato rionale, a poche centinaia di metri dal loro appartamento, tra Corso re Umberto e Porta Nuova, in una via scura e trafficatissima, era il posto più conveniente e diplomatico dove comprarsi di che vivere. Lei mi disse, scendendo le scale fredde e umide, “Ogni tanto, magari un paio di volte a settimana, va bene farsi anche una bella mangiata. Ce la meritiamo!”. Come Pangloss, ci fidavamo di un merito acquisito non si sa bene dove. Dal lavoro che facevamo? No, chi lavoravo odiava la propria occupazione. Dallo studio? No, i voti ce li davano altre persone che non avremmo mai più rivisto in vita nostra. Dalle nostre famiglie? Forse. Nonostante le bombe e le guerre, in casa e fuori, avevamo sempre avuto lo spumante in tavola, ai compleanni. Negli anni della scala mobile, i nostri genitori non ci hanno mai fatto mancare nulla, che fosse una festa con i compagni di classe o una deroga sull’orario di ritorno alla sera. Eravamo quella generazione, insomma. Cresciuta col sangue dappertutto, ovunque ci girassimo, ma fiduciosa che dopo quel sangue sarebbero arrivate le fragole, come in una bella storia. Credo che Haaland sia un predestinato perché sia nato nell’anno della fine, almeno a livello emotivo, di tutto questo, e non abbia rivali lungo il percorso che sta compiendo. Non c’è stazza o prestanza atletica che, per ora, possa reggere il confronto, e non solo tra i suoi colleghi di reparto. Se esiste un difensore veloce, lui punta tutto sulla sua innata capacità di tenere ancorato il pallone alle proprie fette; se un centrale è arcigno e poco indulgente, allora il norvegese del momento la butta sulla potenza fisica e sull’andare sempre, qualsiasi cosa accada, dritto per dritto. La si vede, la sua voglia di giocare a pallone, ma soprattutto della fiducia che dà, ogni giorno, a questo sport. È un sentimento che esprime nella sua correttezza e nella spensieratezza dei suoi gesti sul campo ma anche fuori. Come se fosse sempre la prima volta e come se non dovesse mai smettere di imparare. Voltaire ci ha raccontato di come Candido, Pangloss e Cunegonda vivessero in un’epoca in cui non si poteva vivere se non confidando in un presente, ma soprattutto un futuro, felice e prodigo, appartenendo al “migliore dei mondi possibili”. Era finita l’epoca del medioevo e ne era sopraggiunta un’altra più chiara e determinata, che metteva l’uomo al centro del mondo. Con la sua cultura, le sue esplorazioni, i suoi vizi. La partecipazione sarebbe diventata necessaria. Noi, invece, che non siamo nient’altro che spettatori, non possiamo che affidarci a chi, da predestinato, non incontrerà mai rivali degni.
1 note · View note
ufficiosinistri · 1 year
Text
No stress
Sono ormai almeno quattro giorni che trovo, al mio ritorno dal lavoro, i volantini del circo nella buca delle lettere. Non ho nemmeno controllato dove lo facciano, il circo, perché ci sono stato solo una volta in vita mia, quando andavo alle elementari, e non mi ero divertito. Era uno di quei circhi grandi, con una platea vastissima e la terra ocra che puzzava di sterco caldo al centro dell’anfiteatro. Mi piacevano, però, gli animali. Vederli, dico. Ero un grande osservatore di animali. Anche se puzzavano. Io e i miei compagni di classe sentivamo la loro puzza sin sugli spalti, dove eravamo seduti a guardare lo spettacolo. L’odore del loro sterco si mischiava ad un vago profumo di sudore trattato, ma non fu quello a far sì che non provassi mai più, in vita mia, attrazione verso quel mondo e a quel tipo di divertimento. Fu piuttosto il senso di precarietà e incostanza che gli uomini che animavano e creavano quello spettacolo mi trasferirono. Ne venni investito e penetrato mentre tutti gli altri, compagni di classe e maestre, ridevano, divertendosi come se ne fossero immuni, presi nel loro osservare numeri, frustate e volteggi. Quella fu l’unica volta in vita mia che andai al circo.
Mia madre è da sempre stata contro il circo con gli animali. Un’estate, addirittura, aveva paura che i miei nonni mi portassero a qualche spettacolo di quel genere, dato che passavo sempre due settimane con loro in Romagna. Loro in realtà non avevano la minima idea di portarmici, non sapevano nemmeno di circhi in zona, ma li misi in guardia ugualmente e mi sentii un po’ uno stupido nel farlo, un po’ ingrato.
Domenica scorsa trovai, insomma, per la prima volta questi dannati volantini nella mia buca delle lettere. Non avevo idea che sarebbe stato il primo di una serie di almeno quattro giorni così. Li avevo sino a quel momento trovati tra i tergicristalli dell’auto, oppure li vedevo distribuiti dai circensi ai semafori, rifiutandoli cortesemente quando era il mio turno. Così direttamente, a casa mia, non mi era mai capitato. Stavo uscendo di casa per andare a vedere il Derby allo stadio, vidi un’ombra nella cassetta della posta, la aprii e una decina di volantini colorati mi cadde prima addosso, poi per terra. Li raccolsi, feci il giro dalla taverna e li gettai nel bidone giallo della carta, dove io e mia moglie avevamo scritto i nostri cognomi, in modo che nessuno ce lo rubasse per strada. Come potevo essere distratto da dei volantini colorati lasciati dal circo in città, quando stavo per assistere al primo Derby di Dardan Vuthaj?
Esiste davvero un altro modo grazie al quale i miei concittadini si possano divertire o possano trovare una valvola di sfogo dai dolori di ogni giorno, che non sia una partita contro la città rivale?
Tumblr media
Era una domenica di sole di gennaio che sembrava primavera inoltrata. Il cancelletto di casa mia e la cassetta delle lettere erano diventate addirittura roventi, dopo aver assorbito i raggi del sole, che sorge dietro le case dall’altra parte della strada, sin dalle prime ore del mattino. Ma l’atmosfera, dentro e fuori le persone, era spazzata da un vento gelido, che sembrava arrivare addirittura da un altro mondo. Le foglie e i rimasugli dei bicchieri  di plastica, abbandonati alla città dopo i bagordi del sabato sera, venivano portati in giro da continui e turbinanti refoli, in mezzo alle strade. Come se nessuno di noi, il giorno dopo, dovesse andare a lavorare, o si dovesse recare all’ufficio di collocamento perché il lavoro non ce l’ha. A fare la fila, prima sugli scalini e il marciapiede e poi allo sportello. A parlare di cosa si sia fatto nelle vite precedenti e di cosa si vorrebbe fare da quel momento in poi, dei desideri e delle aspettative che si hanno.
Per strada, poi, non c’era anima viva. Volgendo le orecchie verso le case e i palazzi, lungo il percorso, cercai di captare qualche suono tipicamente domenicale e confortante, che mi desse testimonianza di vita: i piatti che cozzano l’uno contro l’altro tra le portate, i rimproveri delle madri, il telegiornale a tutto volume. Niente. Con il ritorno a casa di Vuthaj, tutto sembrava attendere un segnale, un’indicazione. Eravamo tutti, senza volerlo, immersi in una fase di stallo immanente. Sarebbe stato, di lì a poco, il suo primo derby, ed era come se quella presenza in campo se la fosse guadagnata da solo, senza aiuti, segnando decine di reti in quella devastante stagione in Serie D, con una squadra che non aveva praticamente nemmeno fatto preparazione atletica. In estate, poi, per colpa dei soldi, se n’era andato, verso una società che sì, quella avrebbe giocato per passare in Serie B. Poca, pochissima, vita social quando giocava a Foggia. Le ultime foto sul suo profilo Instagram risalivano ancora al periodo di Novara, di quando giocava per noi. Ho guardato tutti i video delle reti segnate per i pugliesi, ho sentito che era in trattativa anche con il Pescara e ho pensato “Se la sua famiglia abita a Foggia, ancora, Pescara è a un’oretta di macchina, è plausibile come soluzione." È un comportamento da fan, lo so. Che poco ha a che vedere con lo sport o il tifo. Ma quando si ha poco, per poco si va.
Non interessa a nessuno, fa più comodo rimanere in uno stato di mancanza di stress. Una partita dura novanta minuti, magari col vento che ti taglia le labbra e l’ombra che si avvicina, sulle gradinate, sempre più alla tua figura, gelida, a testimoniare che il mondo e la vita, nonostante tutto, vanno avanti.
Nonostante gli stipendi, tuo e dei calciatori. Nonostante le nonne che si lamentano e si disperano per i morti ammazzati in televisione. Nonostante l’aver perso quel Derby, alla fine. Sono tornato a casa mezzo congelato con pensieri violenti in testa e il mal di gola. Vuthaj aveva giocato meno di mezz’ora, sfiorando il gol un paio di volte. Non importa.
0 notes
ufficiosinistri · 1 year
Text
      Take that look from off your face
Da sei anni, ormai, faccio la vita del pendolare. Vado al lavoro in macchina. Potrei guidare lungo la strada ormai ad occhi chiusi, in qualsiasi condizione atmosferica e ad ogni ora. Ho iniziato dopo pochi giorni dalla firma del contratto a percorrere una scorciatoia poco frequentata, che attraversa diversi paesini prima di sbucare sulla circonvallazione principale della città dove mi eco ogni mattina. La strada è molto stretta, in alcuni tratti, ma mi sento comunque a casa, non ho mai avvertito disagio: il tempo che passo a guidare è diventato un prolungamento del dormiveglia o delle carezze che si fa dare il mio gatto ogni volta che faccio colazione, rischiando di farmi rovesciare tutto il caffè. Quando incrocio un’altra macchina, se ho spazio a destra, accosto e la faccio passare oltre, e il suo conducente di solito mi saluta o fa i lampeggianti per ringraziarmi. Io, correttamente, faccio lo stesso quando sono gli altri, a cedermi il passaggio. È una regola non scritta di noi pendolari, come ce ne sono in tutto il mondo, valida per tutti i lavoratori del mondo. Incontro da anni le stesse macchine, con gli stessi guidatori, negli stessi orari. Se uno di loro dovesse, per puro caso, cambiare automobile, sono sicuro che mi troverei spaesato. Due Cinquecento bianche, una Golf grigia, il furgoncino delle macchinette del caffè, una Sandero scura. Il fossato sulla mia destra, qualche albero abbattuto, le risaie perdita d’occhio, gli Ibis che ormai hanno preso il posto degli aironi, i gheppi aggrappati ai sottili fili neri tra i pali del telefono.
Mi fermo spesso, sulla via del ritorno, in un mini market sulla strada, in uno dei paesi che incontro. Può capitare, alle volte, che non abbia fretta di tornare a casa. Di sera, per forza di cose, questo negozietto diventa il fulcro della vita sociale del luogo, attirando su di sé le attenzioni di coloro che, dopo una giornata passata in casa o nei campi, si avventurano per le strade del centro abitato.  È l’unico segno di vita nel raggio di chilometri. Ci compro le cose dell’ultimo momento, cercando di restare nel budget settimanale che mi prepongo ogni lunedì. Se finisce il dentifricio, se a casa non ho più carta da cucina, se manca la sabbia del gatto, se ho voglia di una birra dopo cena, se è finito l’idraulico liquido, se mi dimentico il latte. Le cose vanno in questo modo da sei anni ormai, senza mai cambiare, come in un iniziale rapporto tra uomo e animale selvatico, quando due mammiferi iniziano a conoscersi ed abituarsi l’uno alla stabile idea dell’altro. La commessa del banco gastronomia e la titolare del negozio non sanno il mio nome, a meno che non l’abbiano scoperto leggendolo sulla mia carta di credito, mentre io conosco quello della titolare avendolo appreso dagli scontrini. Il rumore del frigorifero all’ingresso, l’odore di formaggio che serpeggia tra gli scaffali, il profumo dei detersivi ammassati sugli scaffali, la cassa seminascosta alla fine delle corsie dei dolciumi.
Durante le giornate di nebbia, i clienti si assiepano fuori dal mini market, davanti alla sua vetrina, a guardare le macchine che arrivano dal nulla della campagna. Ci sono sette chilometri tra quel paese e il centro abitato più vicino. Si vedono arrivare come gli alpinisti di una cordata a pochi passi dal campo base, in fila indiana,  arrancando emozionati. Sbucano dall’oscurità avanzando piano, come a voler scongiurare una tragedia. Gli abitanti del posto percepiscono questi gruppetti come un segno tangibile dell’esistenza dell’umanità, delle città, degli uffici, del presente. Sono piccole e momentanee iniezioni di fiducia. “Sino a qui, tutto bene”, sembrano pensare. Le macchine sfilano piano davanti a loro e al negozietto, i presenti all’evento si scrutano l’un l’altro.
Mi fermai lì persino una Vigilia di Natale, la strada era ghiacciata e avevo i vetri lerci di sale e fango. La nebbia che saliva dal ghiaccio dei campi non si scrostava dall’auto. Scesi e c’era già il gruppetto di persone, indefesso, a guardarmi durante la manovra. Il cappuccio alzato, il passo indeciso una volta giù dall’auto, li salutai alzando il guanto destro col quale mi ero difeso, sino a quel momento, dal volante gelato. Loro, stupiti, mi risposero, forse spinti da un qualsivoglia spirito Natalizio. Entrai nel mini market e comprai del deodorante. Pagai, uscii e loro erano ancora lì, a controllare i miei movimenti prima di risalire in macchina e rimettermi in cammino verso casa.
Tumblr media
Da sei anni, la storia si ripete perpetuamente durante ogni stagione, ma diventa più corroborante in inverno, nei giorni di nebbia, quando cioè sentiamo più necessaria la vicinanza coi nostri simili.
Sei anni fa, nello stesso periodo, un ragazzo nato a Stockport iniziò ufficialmente la sua carriera al Manchester City. L’allenatore della prima squadra, un certo Josep Guardiola, lo notò tra le fila delle selezioni giovanili e lo convocò, senza pensarci due volte, a sedici anni, per una partita di Champions League. Contro il Celtic Glasgow, per giunta. La seconda apparizione degna di nota di questo neonato trequartista sarà per strada, assieme a degli amici, ovviamente durante una partita tutti-contro-di-lui, raccontata da un video uscito però solamente poco tempo fa. Lui a torso nudo, dinoccolato e infantile, sfida in dribbling e giravolte un branco di coetanei incappucciati e vestiti di scuro, tra le case della città in cui sono nati, nella cosiddetta Greater Manchester, che mi immagino un po’ come una Cinisello Balsamo nelle Midlands. Non si riesce a capire in che stagione siamo. Lui è nudo, gli altri coperti sino alla fronte. Nemici, ma anche amici di sempre. Sembra un videogame. Phil Foden e la sua truppa, come il gruppetto di automobili che si vedono arrivare dopo aver superato quella terra di nessuno, sono gli stessi, tangibili, segnali di vita in una landa arida. La pianura da una parte, una qualunque carriera calcistica dall’altra. Il terreno brullo e congelato che lascia man mano, lentamente, spazio ai primi caseggiati, nei bruciano di vita corpi con una storia, un fatalismo a cui credere, bugie da raccontare anche in età adulta. La voglia, arrogante, di giocare a pallone, contrapposta ad un rituale moderno fatto di contratti, allenamenti e diete. Foden e la sua volontà rivoluzionaria di affrontare il mondo del calcio lo escludono di diritto dalla tristezza europea fondata sull’incomunicabilità. Le sue gesta, importanti o di poco conto che siano, sono coltellate ad ogni suo movimento. Non diventerà mai un campione, non vincerà mai un Mondiale, nemmeno tingendosi i capelli alla Gascoigne. Ce lo ritroveremo in panchina nei prossimi anni, magari in Serie A o in qualche campionato esotico, a guadagnare uno stipendio immeritato, al limite del parossismo, e a far parlare più i tabloid che le statistiche. Potrà venire insultato per la sua spiccata eccentricità oppure preso in giro per il suo puerile egocentrismo, ma non sarà mai un giocatore normale, uno yesman come tanti che si allena, gioca e, qualche volta, vince. Questo, probabilmente, è e sarà sempre il tratto più rivoluzionario di Phil Foden. In una famiglia di tifosi reds, lui rimane da subito allucinato dai citizens, così tanto voler ardentemente rivivere la storia di Jimmy Grimble, un ragazzino come lui nato nella Greater Manchester che sogna di diventare un calciatore del Manchester City.
Vi sono persone che, una volta finito di guardare un film, che sia al cinema o sul divano, rimangono fisse con gli occhi sullo schermo sino al termine dei titoli di coda, attendendo la fine della solita canzone finale. Altri, invece, come a voler dimenticare al più presto ciò a cui hanno appena assistito, si alzano nervosamente, aggirandosi per la stanza o cercando il cappotto per uscire dalla sala, senza guardare in faccia più nessuno e senza parlare.
Ci troveremo, si spera tra molti anni, a riguardare il film sulla carriera da calciatore di Phil Foden, e saremo tra i secondi, perché ci comportiamo inconsciamente come lui, in fondo: cerchiamo qualcos’altro, senza esser stati capaci di godere sino in fondo del presente. È lecito pensare che anche Phil abbia sempre guardato sino alla fine dei titoli di coda la pellicola cinematografica dedicata a Jimmy Grimble, ma noi siamo dei rivoluzionari e la pensiamo diversamente. O per lo meno, la sogniamo diversamente.
Due mammiferi, dopo la prima annusata, iniziano a rispettarsi, alla faccia delle storie sull’amore incondizionato e sulla mancanza di secondi fini. Fermarsi a fare acquisti dell’ultim’ora in un negozio di paese è un’azione utilitaristica, che non ammette sorrisi.
1 note · View note
ufficiosinistri · 1 year
Text
Melograno
Alla fine il frutto del melograno, nonostante l’apparenza, è un frutto facile. Perché tutto torna lì. I semi. Li setacci, i dividi dalla cuticola bianca, ma quelli sono e quelli rimangono. Non puoi perderli, a meno che non sia tu a volerlo. A meno che non li getti nell’immondizia, o li faccia andar giù per lo scarico del lavandino. Sgrani il frutto, ma prestare troppa attenzione non è necessario. Basta raccogliere i chicchi che cadono, una volta finito di pulire una sezione: li puoi raggruppare in un pezzo di Scottex, oppure direttamente nello scolapasta, in modo da farli sgocciolare, se è necessario. Una volta epurati dei pezzi di buccia e dell’amarissima cuticola bianca, sono pronti per essere invasettati. Il procedimento è abbastanza lungo, ma si può esser certi che, una volta conservati, mangiare il melograno non sarà più un supplizio di attenzione e scrupolo. Ci si sente come quando il benzinaio che ti ha appena servito osserva minaccioso il prossimo cliente avvicinarsi lentamente alla pompa di benzina, come se non lo volesse nel proprio territorio, come se avvertisse una competizione, icastico.
Non basta aprire le birrerie di fianco alle sale scommesse di fianco agli autolavaggi automatici. Non saremo mai felici. Ci preoccuperemo per il lavoro, per la salute degli altri, di quelli che ci stanno vicini, prima che della nostra. È un sentimento nobile ma periferico, nonostante esistano due tipi diversi di periferia. Uno è da intendersi in senso geografico, come luogo lontano dal centro urbano. L’altro, invece, ha una connotazione negativa, inculca un senso di degrado in chi cerca di farsi un’idea del suo significato.
Sentirsi in credito verso il mondo, ma non sapere come riscuotere. E allora si ritorna a giocare da dove si incominciato, dopo aver tentato la fortuna in Europa, come Alex, all’anagrafe Alexandre Raphael Meschini, capace di tirare punizioni al fulmicotone al Corinthians, da centrocampista, ma soprattutto capace di non sfigurare allo Spartak Mosca, come molti sudamericani di belle speranze, dei quali si sono perse le tracce dopo qualche anno di militanza nei campionati del vecchio continente. 
Tumblr media
Internacional di Porto Alegre, la città del Forum Sociale Mondiale del 2001. Qui crebbe e tornò Alex, cresciuto calcisticamente in un periodo in cui, in Brasile, erano o tutti terzini o tutti trequartisti.  È una storia come tante, in fin dei conti. Di un calciatore basso di statura che calcia in maniera divina ma che, come si dice di solito dalle esperienze vissute con i colloqui con i professori a scuola, non si applica. Calcia tenendo sempre la palla bassa, attaccata al suolo some gli abitanti della sua terra.
Perché alla fine cerchiamo storie ovunque. Radio, libri, televisione. Più non ci riguardano e più ci interessano. Più sono truci, tristi, malconce, e più ce ne distacchiamo moralmente, facendo però permanere nelle abitudini quei sentimenti di malizia e riverenza che non ci fanno pensare ad altro.
Come quando puliamo un frutto di melograno, teniamo solo i chicchi più grossi, che hanno un colore più intenso, che ci sembrano più succosi, scartando o tenendo solo per far numero gli altri, quelli giallognoli o troppo pallidi. Queste sono le storie che più ci interessa ascoltare. Questi chicchi, che presi singolarmente non significano nulla ma che, in una quantità considerevole, creano un universo. Quanti giocatori come Alex abbiamo visto sui campi da calcio?
Questa mattina, ero io dalla parte del cliente, al distributore di benzina. Era il mio turno, toccava a me. Ero passato per un paese, all’imbrunire. L’unica persona che ho visto era un uomo attempato, sulla sessantina, trascinarsi per strada con un sacchetto che conteneva poche cose: una bottiglia di vino, del pane. I vestiti che indossava sembravano lì per caso. Una maglietta, un gilet, degli scarponi, una giacchetta leggera. Forse nei paesi di campagna ci si sente meno oppressi, ho pensato. L’unica luce che c’era era quella che proveniva, nel buio del tardo pomeriggio, da una tabaccheria che vendeva un po’ di tutto. Stavo ritornando dal lavoro e pensavo che tutto sarebbe stato come sempre. Lo sguardo colmo di alterigia del vecchio benzinaio, la luce della mattina, i rumori che provengono dalla tangenziale. E invece non è stato così.
“Sei come le donne” mi dice, appena apro lo sportello dell’automobile.
Lo guardo stranito, credendo di non aver capito bene, nel senso delle parole, la frase che mi ha rivolto.
“Mettono tutte la macchina distante dalla pompa di benzina. Il tubo arriva ma il mio occhio no, sono vecchio e non riesco a vedere bene quando raggiungo il prezzo a meno che non faccia il pieno.”
“Mi faccia il pieno, grazie.”
0 notes