Tumgik
#intellettuali dell'800
gregor-samsung · 1 month
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“ «Com'è strano, — pensava Veročka — già le sapevo dentro di me, già le presentivo, tutte le cose che ha detto sulle donne, sui poveri, sull'amore. Dove le ho imparate? Forse nei libri che ho letto? No, non là. In quei libri ci sono tanti dubbi, tante riserve, e ogni cosa sembra insolita, incredibile. Come si trattasse di sogni belli, ma irrealizzabili! A me sembra invece che questi sogni siano semplici, semplicissimi, comuni, che senza di essi non si possa vivere, che si dovranno avverare senz'altro. Eppure, secondo me, questi libri sono ottimi. George Sand; per esempio, è così buona e morigerata, eppure, tutto in lei è sogno! E i nostri? No, nei nostri non si parla di questo. In Dickens, invece, sì, ma tutto è come senza speranza; certo, lui se l'augura, perché è buono, però sa bene che non si avvererà. Come fanno costoro a non sapere che in mancanza di questo non si può vivere e che bisogna darsi da fare, e si lavorerà senz'altro, perché non ci siano più uomini poveri e infelici? Ma che, forse non lo dicono? Dire lo dicono, ma provano solo pietà, mentre pensano che tutto resterà com'è ora: sì, qualcosa migliorerà, ma per il resto. No, essi non dicono le cose che io penso. Se le dicessero, saprei che le persone buone e intelligenti ragionano come me. E invece sinora ho creduto di essere l'unica a pensarla così, perché sono una stupida. Nessuno pensa come me, nessuno si aspetta che le cose cambino realmente. E ora lui assicura che la sua fidanzata ha detto a tutti coloro che l'amano che le cose andranno proprio secondo le mie idee. E ha parlato così chiaramente, dice lui, che tutti già lavorano perché tutto avvenga al più presto. Che donna intelligente! Ma chi è? Lo saprò di certo. E come sarà bello, quando non ci saranno più poveri, quando nessuno sarà costretto a ricorrere agli altri per bisogno, quando tutti saranno allegri, buoni, felici...». Assorta in queste riflessioni, Veročka si addormentò, e dormì profondamente, senza sognare.  “
Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, Che fare?, traduzione e cura di Ignazio Ambrogio, Edizioni Studio Tesi (collana Collezione Biblioteca, n° 85), Pordenone, 1990; p. 78.
 NOTA: Il testo originale (Что делать?), che Černyševskij scrisse in prigionia nella fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo, cominciò ad essere pubblicato a puntate nel 1863 sul mensile letterario russo Sovremennik sino a quando le autorità sequestrarono l’intera opera, ritenuta sovversiva. Il libro circolò quindi clandestinamente fino alla pubblicazione integrale nel 1905, all’inizio della breve stagione riformista dello zar Nicola II.
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heresiae · 1 year
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Torinesi, falsi e cortesi, dicevano...
Viene sempre inteso come un insulto, ma la gente sottovaluta il valore della cortesia.
Per me e Sorella, cresciute nelle alpi lepontine piene di gente che ti mandava a fanculo solo perché eri ferma al semaforo davanti a loro, arrivare in una città in cui la cortesia era di base è stato come scoprire il paradiso. Chissenefrega se poi appena ci voltavamo ci insultavano, a noi interessava non sperimentare la frustrazione delle persone aggratis.
Peccato che a breve dovremo fare una richiesta di togliere "cortesi" dal pregiudizio dei torinesi.
È già diversi mesi che lo vedo, ma negli ultimi si sta inasprendo: c'è una tale cattiveria gratuita in giro (in auto specialmente), che a momenti vien voglia di tornare sulle alpi. Non solo, il menefreghisimo è sempre più esteso.
Non parlo di infichiarsene di quel che succede nell'appartamento accanto fintanto che il nostro sonno non viene interrotto, parlo di un atteggiamente alla Marchese del Grillo che non avevo ancora visto fuori dai circoli intellettuali.
Gli ultimi due eventi più importanti, che mi hanno fatto preoccupare ulteriormente, sono ancora marchiati a fuoco nella mia testa.
Evento uno
È sabato e sono in giro a fare commissioni al cazzeggio. Mi ferma una turista francese, una nonna allegramente in giro da sola che vuole andare al palazzo reale da Porta Nuova. Checcevò, direte poi, saranno 800 metri in linea d'aria. Certo, se sei una persona normodotata invece di avere una protesi per ogni gamba. La signora, che tra l'altro parlava italiano meglio della metà di certe persone ed era gentilissima, stava cercando la fermata del bus turistico a due piani. Era andata all'ufficio informazioni e cosa le avevano detto: "È davanti a questo hotel". Eh, e quindi? Quell'hotel non esiste più da prima delle Olimpiadi del 2006, al suo posto ora c'è la Decathlon, altre attività commerciali e appartamenti. La parte di strada adiacente al complesso è sì stata adibita a capolinea dei bus, peccato che ci sia un secondo problema: grazie all'incendio dell'anno scorso dell'edificio, gran parte della strada è occupata da ponteggi e non ci sono più indicazioni chiare su quali bus si fermano dove. Inoltre, l'azienda di questi bus turistici non risponde al telefono tra le le 12 e le 15 (capisco la pausa pranzo, ma se ci sono tour attivi non è esattamente una grande idea eh). Insomma, io sono stata l'unica cristiana a fermarmi, cercare di capire di cosa avesse bisogno (cosa che facevo anche a Venezia, tra l'altro), andarmi a cercare il dannato bus, chiedere pure agli altri bus lì presenti e alla fine dover dire alla signora: meglio se prende il taxi. Alla fine è andata a piedi (mettendoci probabilmente un'ora, poverina), ma mi è rimasta lì fissa, l'aver realizzato che manco l'ufficio informazioni si era sbattuto a sufficienza da darle informazioni reali (quel cantiere è lì da più di un anno, non da tre giorni, e l'ufficio è DI FRONTE, senza ostacoli a vederlo).
E ieri sera, l'evento due, che ancora non capisco come cazzo sia potuto succedere
Piazza Statuto, 18.10 circa. Traffico come non mai, che è normale a quell'ora in piazza. Arriva l'ambulanza. Si fa strada, un po' a fatica ma abbastanza celermente, tra le macchine che, giustamente, si mettono da parte o accelerano per farla passare. L'attraversamento pedonale è pure sgombro, quindi rimaniamo sul marciapiede ad aspettare che l'ambulanza passi. Tranne lui. Lui no. Lui vede che le macchine stanno rallentando o fermandosi e, con l'ambulanza dietro una sola macchina dalle strisce, decide che deve passare, che il raggiungimento della sua destinazione (a passo neanche troppo svelto) era più importante dell'esigenza di qualcuno di ricevere assistenza medica urgente. Certo, l'ha fermata per circa 7 secondi, ma l'ha comunque fermata. Poteva tagliare la strada alla macchina dietro l'ambulanza ma no, lui l'ha tagliata all'ambulanza.
La cortesia e l'empatia stanno morendo sempre di più a Torino (cosa che sospetto fosse già standard pre-2006) e, onestamente, non mi piace. Perché questa città è più di un dormitorio al servizio degli Agnelli, siamo più di un mero ricordo della prima capitale d'Italia e di una delle monarchie più ridicole d'Europa, siamo più dello smog e della collina dei ricconi che ci sovrasta.
Siamo la città a misura d'uomo, siamo la città cortese (la falsità è endemica nell'essere umano, statece), siamo la città che, se fa bello e c'è il sole, usciamo a goderci i parchi invece di fuggire o rifugiarci nei centri commerciali, siamo la Fiera del Libro, i Portici di carta, il Jazz Festival, le Luci d'artista, lo spettacolo di San Giovanni, le manifestazioni pacifiche in piazza, il Gay Pride (il primo, in assoluto, a essere mai stato organizzato in Italia), la maestosità semplice dei nostri viali e piazze, la città universitaria e della salute, del parlare a voce bassa, del tenere aperte le porte per chi è dietro di noi, dell'aiutare chi ha troppa spesa addosso o non riesce a scendere bene le scale col passeggino, del salutare cordialmente tutti i clienti, dell'offrire un gianduiotto, del cioccolato e dell'apericena, di quanto un artista dipingeva di rosa a sorpresa cose a caso in San Salvario e un altro vestiva i segnali stradali da robot, e tante altre cose.
Non ho anelato per anni lo spostamento della mia residenza per potermi chiamare ufficialmente torinese, per dover assistere il degrado umano avvolgerla e rovinare quindici anni di lavoro e orgoglio cittadino.
Ripigliatevi, o comincerò a castigarvi a parole (come avrei dovuto fare ieri sera, ma non ho ancora coltivato abbastanza pelo sullo stomaco per farlo).
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diceriadelluntore · 2 years
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Storia Di Musica #226 - Roberto Murolo, La Grande Canzone Napoletana (3cd), 2012
Il mese di Giugno ho pensato di dedicarlo ad una piccola panoramica sulla musica di una delle città-mondo, la ci canzone è una delle forme musicale più famose, conosciute e apprezzate del mondo. La canzone napoletana ha una storia, come molte delle cose napoletane, che si perde nella Storia millenaria della città, si intreccia con gli incontri di Napoli da sempre crocevia di genti, culture e pensieri, con la capacità determinante di reinterpretare questi stimoli in forme e caratteristiche uniche. Sebbene molto complessa, l’origine primaria della canzone popolare napoletana si può far risalire alla cosiddetta villanella napoletana, una composizione in musica di storie in lingua napoletana, che ebbe molto successo in tutta Europa: nella commistione tra temi popolari e colti (espressione centrale di tutta la produzione culturale napoletana) la più famosa villanella è probabilmente Si Li Femmene Purtassero La Spada. A ciò verso la fine del ‘700 si aggiunsero i ritmi della tarantella e poi idee, personaggi e stili dell’opera buffa, altra invenzione napoletana, fino ad arrivare a fine ‘800 quando Napoli fu una delle capitali delle produzioni musicali. Decine di editori musicali ebbero il merito di recuperare, raccogliere, riproporre talvolta aggiornandoli, centinaia di brani antichi. Le canzoni venivano riproposte dai cosiddetti posteggiatori, ossia dei musici vagabondi che suonavano le canzoni o in luoghi al chiuso o davanti alle stazioni della posta o lungo le vie della città, talvolta spacciando anche le copielle, fogli contenenti testi e spartiti dei brani parzialmente modificati. Se a ciò aggiungiamo il fatto che a cavallo del ‘900 i maggiori poeti, scrittori e intellettuali si cimentarono nella scrittura di canzoni popolari, le quali vennero “diffuse” anche la massiccia emigrazione meridionale, si può comprendere la dimensione del successo, massiccio nei primi 50 anni del ‘900, della canzone napoletana nel mondo. Uno dei più grandi esponenti della canzone classica napoletana è stato Roberto Murolo. Nato nel 1912, penultimo dei sette figli di Lia Cavalli e del poeta Ernesto Murolo, è imparentato con Eduardo, Peppino e Titina De Filippo dato che suo padre era l’ennesimo figlio illegittimo di Eduardo Scarpetta. Bravissimo nel nuoto e nei tuffi (campione italiano nel 1933), che gli regalava una notevole capacità polmonare, impara a suonare la chitarra. Ma la prima esperienza in musica è con un gruppo a cappella, il Mida Quartet, con cui suona anche in Europa tra il 1938 e il 1946. Inizia la carriera musicale nel 1948, subito con notevole successo, per il suo stile elegante, la sua voce seducente, dolce e melodiosa, accompagnato sempre dalla sola chitarra. Ha anche una carriera cinematografica, e sembra andare tutto bene, fin quando nel 1954 viene arrestato per corruzione di minore: vicenda mai del tutto chiarita, con Murolo che si è sempre dichiarato innocente. Condannato in primo grado a 3 anni e 8 mesi di reclusione, resta in carcere fino al processo d'appello, svoltosi a porte chiuse il 25 marzo 1955, che gli ridurrà la pena a 11 mesi con il beneficio della condizionale, determinandone l'immediata scarcerazione. Murolo uscirà sconvolto e amareggiato, in un primo momento anche pensando addirittura di non cantare mai più. Decide, però, di proseguire la sua carriera, avvedendosi di un pubblico sempre pronto ad applaudirlo. Inizia qui il periodo più fulgido della sua carriera: con la casa discografica Durium inizia un progetto mastodontico ma fondamentale di antologia dei brani della canzone napoletana, che si sviluppa in due serie di dischi, Vecchia Napoli - Raccolta di canzoni popolari napoletani anteriori al 1900 in sei volumi e la storica Napoletana. Antologia cronologica della canzone partenopea in 12 volumi che parte dal 1200 e arriva agli anni ‘60 del ‘900. Pubblicherà anche delle monografie sui grandi autori della canzone napoletana, Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo, Libero Bovio ed E. A. Mario, ma ad inizio anni ‘70 decide di interrompere la produzione discografica continuando solo ad esibirsi dal vivo. Già dagli ‘60 è considerato uno dei cantori più sublimi della canzone napoletana. Nella sua sterminata discografia, ho scelto questa antologia molto recente, La Grande Canzone Napoletana (edizione 3cd, ne esiste anche una a due cd con copertina diversa) del 2012 che in tre cd per complessive 36 canzoni racchiude il meglio delle sue esibizioni, caratterizzate dalla sua innata eleganza, dal dolce accompagnamento di chitarra (la sua preferita era una preziosa chitarra del 1838 della liuteria Guadagnini di Torino) con uno stile anche piuttosto lontano dall’idea della canzone napoletana, molto espansiva nelle esibizioni. Si inizia con una delle prima canzoni napoletani, Michelemmà, scritta forse all'epoca delle prime invasioni turche (nel 1600): significa forse "Michela è mia", oppure è un intercalare, tipo: "Michela là, Michela là". Nel testo si parla di "scarola" che potrebbe significare "schiava", ma alcuni propendono per "ragazza riccia" per metafora con la capigliatura simile all’ortaggio. Le scelte racchiudono le canzoni più famose: quelle a tema delle partenza come Santa Lucia, Munastero ‘E Santa Chiara o Era De Maggio, una delle più belle di tutta la storia della canzone napoletana, qui in una delle sue interpretazioni più famose e sentite. Murolo è elegante anche nelle canzoni più allegre, come A Tazza ‘ Cafè, O’ Surdato ‘Nnamurato, o Tammurriata Nera, scritta da E. A. Mario e Eduardo Nicolardi, che vide un certo trambusto nel reparto maternità presso l'ospedale di Napoli Loreto Mare, di cui era dirigente amministrativo. Una giovane aveva dato alla luce infatti un bambino di colore e di fatto non era l'unica in quel periodo ad essere rimasta incinta da militari americani afroamericani di stanza a Napoli (la canzone è scritta nel 1944). Ma forse il meglio lo offre nelle stupende canzoni d’amore napoletane: Reginella, scritta nel 1917 da Libero Bovio e musicata da Gaetano Lama a tempo di valzer: lui vede la sua amata in tiro per via Toledo, circondata da sciantose (che deriva da chanteuse dei cafè-chantant), ricorda di quando stavano insieme, di quando non mangiavano che pane e ciliegie e vivevano di baci, di quando lei cantava e piangeva per lui, di quando il cardellino cantava insieme a lei; ora lui invita il cardellino a scappare dalla gabbia che ha volutamente aperto, a volare via come se n'è volata la sua Reginella, a non continuare a piangere la sua padrona che non c'è più ma a cercarsene un'altra più sincera. O Dicitencello Vuje, di Rodolfo Falvo (musica) ed Enzo Fusco (testo) disperata dichiarazione d'amore di un uomo nei confronti della donna amata, resa in maniera indiretta. L'uomo infatti parla rivolgendosi ad un'amica dell'amata riferendosi alla donna desiderata con l'appellativo cumpagna vosta (vostra amica). L'uomo le chiede di riferirle che per lei ha perso il sonno e la fantasia (aggio perduto 'o suonno e 'a fantasia), che la passione "più forte di una catena" (è na passione, cchiù forte 'e na catena, verso usato in altre canzoni famosissime, tipo Caruso di Lucio Dalla e persino Gianna Nannini in Fotoromanza) lo tormenta e non lo fa più vivere (ca mme turmenta ll'anema... e nun mme fa campá). Soltanto nell'ultima strofa del brano il protagonista confessa di amare in realtà, la sua interlocutrice e quando vede una lacrima sul suo volto le dice che è proprio lei la donna che ama ("levammece sta maschera, dicimme 'a verità", togliamoci questa maschera, diciamo la verità). In scaletta anche altre gemme come Luna Rossa, Te Voglio Bene Assaje, Marechiaro (uno dei cavalli di battaglia di Murolo), ‘E Spingule Frangese (la spilla da balia, che si chiama francese in napoletano perchè si dice spingula 'e nutriccia, francesismo di nourrice ovvero balia, nutrice) e altre. Murolo tra l’altro, visto il successo, stabilisce anche un primo stile di pronuncia delle canzoni, che verrà considerato classico, che suona “differente” anche per i locali per l’uso limitato delle parole tronche (tipiche tra l’altro del dialetto). Negli anni ‘90 riebbe una nuova e meritata fama con il disco, bellissimo, Ottantavoglia Di Cantare (1992) per i duetti Don Raffaè, con Fabrizio De André - che aveva interpretato La Nova Gelosia nel suo album Le Nuvole (1990) dopo averne ascoltato la versione di Murolo - e Cu' Mme, con Mia Martini su testo di Enzo Gragnaniello. Nel disco interpreta anche Cercanno 'Nzuonno, ancora con Gragnaniello, Na Tazzulella 'E Cafè con Renzo Arbore e Basta 'Na Notte con Peppino Di Capri. Nel 1995 viene nominato, dal Presidente Oscar Luigi Scalfaro, grande ufficiale della repubblica per i suoi meriti artistici; a questa onorificenza si aggiunge, il 23 gennaio 2002, la nomina a Cavaliere di gran croce, conferita dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi. Muore a Napoli nel 2003, lasciando un’eredità musicale infinita e inarrivabile per grandezza, filologia e per uno stile, anch’esso napoletano, elegante, simpatico e pacato.
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avalonishere · 1 year
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Serve altro per capire?????
“La Fabian Society e la pandemia”: ecco chi prova ad approfittare del Covid per avanzare la sua agenda politica
di Atlantico Quotidiano
23 Ottobre 2021, 3:51
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Esistono società politiche molto più influenti dei partiti che siamo abituati a conoscere. Società che costituiscono una sorta di “stanza di compensazione” fra la politica, gli intellettuali, i giornalisti e il mondo dell’alta finanza internazionale. Sono luoghi nei quali si progetta il futuro al riparo dalle piccole beghe quotidiane di palazzo e dalle competizioni elettorali. Il libro scritto da Davide Rossi (autore di vari articoli su Atlantico Quotidiano) “La Fabian Society e la pandemia”, pubblicato da Arianna Editrice, accende i riflettori su uno di questi circoli elitari, appunto la Fabian Society. Il lavoro di ricerca è iniziato cercando di capire da quali ambienti arrivi e da quali logiche è mosso colui che, nel nostro Paese, ha gestito e sta gestendo politicamente l’emergenza sanitaria, ossia il ministro Roberto Speranza.
La Fabian Society e la pandemia. Come si arriva alla dittatura
L’uomo che, inspiegabilmente, occupa il ministero chiave della sanità. Che ad un partito inesistente nel Paese e minuscolo in Parlamento quale è LEU (Liberi E Uguali), sia stato assegnato nel governo Conte 2 (quello formato da Pd, Cinque Stelle e appunto LEU) un posto di tale importanza è a dir poco strano. Incomprensibile, poi, che sia stato addirittura confermato nel successivo governo Draghi. Mancato aggiornamento del piano pandemico, nessun potenziamento dei posti letto ospedalieri, protocollo sanitario anti-Covid che evita, in modo letale per tanti pazienti, le fondamentali cure domiciliari. Il “nostro” ministro della salute è stato capace solo di chiudere tutto, imperterrito.
Perché proprio lui? Abbiamo già visto che viene da una formazione politica numericamente irrilevante, non ha di suo un carisma o una forte personalità, non si è mai occupato di sanità in vita sua. Insomma, apparentemente non c’è una ragione logica per la quale sia stato nominato in quel ruolo e ne sia stato confermato dopo la rovinosa gestione dell’emergenza. Nel libro si ricorda come la John Hopkins University abbia certificato che l’Italia è il Paese al mondo con il più alto numero di morti per Covid per 100.000 abitanti. Un disastro, al quale sarebbe dovuta conseguire una cacciata con ignominia, ed invece ha avuto il premio e sta ancora lì.
Così, per comprendere, l’autore si è messo sulle tracce della carriera di Speranza e di quella del suo padrino politico, Massimo D’Alema. Sono emersi legami internazionali, rapporti di potere e di denaro ed intrecci imprevisti. Soprattutto, sono emersi collegamenti fra questi personaggi ed un mondo che da oltre cento anni cerca di condizionare la vita delle persone e persegue il controllo delle masse: quello appunto della Fabian Society.
Alcuni membri dell’elite vittoriana di fine ‘800, fra i quali lo scrittore e spiritista Frank Podmore e l’aristocratico Henry Hyde Campione, diedero vita alla Fabian Society. Questo nome, Fabian, è ispirato a Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, il console romano noto per aver combattuto Annibale e per la sua tattica militare. Era detto il Temporeggiatore perché logorava le forze nemiche, evitando scontri in campo aperto, cercando invece una guerra tattica, fatta di atti di guerriglia, di nascondimenti, di avanzamenti e arretramenti. Un prendere tempo per arrivare a colpire in maniera decisiva solo al momento opportuno. In questo modo il generale romano riuscì a sconfiggere Annibale nella battaglia di Naraggara (presso Zama) nel 202 a.C. che mise fine alla Seconda Guerra Punica e segnò, in pratica, la irreparabile sconfitta dei Punici.
È esattamente questa, secondo l’autore, la via attraverso la quale i Fabiani intendono imporre una dittatura collettivistica, uno Stato socialista mondiale che stabilisca il nuovo ordine. Vogliono instaurare un socialismo guidato da una ristretta aristocrazia del potere, ma non attraverso un atto rivoluzionario immediato quanto piuttosto attraverso il gradualismo, un prendere il potere un po’ alla volta, con riforme da attuare inserendosi man mano nei gangli delle istituzioni esistenti trasformandole, in modo quasi impercettibile, dall’interno. Solo quando si saranno realizzate le condizioni ottimali, allora occorrerà dare la zampata finale, colpire duro e se necessario usare anche la violenza per completare l’opera.
George Orwell, l’autore del romanzo distopico “1984”, era uno dei Fabiani più illustri. Quante volte, da quando è scoppiata la pandemia, lo avete sentito citare? Forse è perché la spaventosa società del controllo da lui descritta in “1984” è quanto di più simile a quanto ci sta accadendo negli ultimi due anni. Il socialismo tecnocratico, della sorveglianza e della manipolazione delle masse è quello che viene descritto da Orwell nelle sue opere ed è, come viene accuratamente spiegato da Rossi nel libro, l’ossessione dei Fabiani.
Un libro che ha due obiettivi. Il primo è quello di delineare il pensiero politico della Fabian attraverso alcuni cenni storici e verificando quali siano gli attuali uomini e le donne di potere che le afferiscono. Il secondo è di analizzare come e quanto la visione del mondo dei Fabiani coincida con quell’epocale tornante della storia nel quale ci è toccato di vivere: la drastica svolta autoritaria imposta al mondo occidentale attraverso l’utilizzo politico dell’emergenza Covid. Sarebbe stato solo un esercizio culturale, per quanto interessante, quello di un mero approfondimento sulla storia e il potere della Fabian Society. Questo è invece anche un libro politico, che intende entrare e scavare nel pieno dell’attualità per evidenziare la concreta applicazione delle idee fabiane in questa gigantesca sospensione delle nostre libertà fondamentali. L’autore si è determinato a scrivere questo libro proprio perché la realtà che stiamo vivendo è vicinissima, quasi coincidente, a quella progettata dai Fabiani fin dalla loro fondazione.
#DEMOCRAZIA
#DITTATURA
#FABIAN SOCIETY
#FABIANESIMO
#LIBERTÀ FONDAMENTALI
#LOCKDOWN
#PANDEMIA
#ROBERTO SPERANZA
#SOCIALISMO
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personal-reporter · 8 months
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Cortile di Francesco 2023 ad Assisi
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Essere in regola  è il tema della nova edizione del Cortile di Francesco, evento culturale promosso dai frati del Sacro Convento di Assisi che si svolgerà nella città umbra dal 14 al 16 settembre, con 30 appuntamenti tra spettacoli, conferenze, tavole rotonde, testimonianze e attività per i più piccoli nel consueto appuntamento del Cortile dei bambini.   A chiudere la tre giorni sarà la compagnia delle Donne del Muro con la rappresentazione teatrale di Medea in sartoria nella cornice della Piazza Inferiore di San Francesco alle 21 del 16 settembre. Nato come versione francescana del Cortile dei Gentili, promosso dal Pontificio Consiglio della cultura come dialogo tra credenti e non credenti, il Cortile si è fatto conoscere negli anni come uno spazio di accoglienza reciproca di intellettuali e persone comuni, esperti e artisti, persone di successo e amici ‘sconosciuti’. Attraverso il Cortile di Francesco la comunità francescana desidera entrare, grazie all’apporto di tanti amici di competenza ed esperienza, nel dibattito pubblico in uno stile di fraternità, ciò è possibile grazie a una fiducia di fondo secondo la quale ognuno è un tesoro che fa bene a tutti. Il Cortile di Francesco  non è semplicemente un festival, ma un’esperienza di amicizia intellettuale, perché ciò che cambia il mondo non sono le sole idee, ma le persone che, insieme, sognano ed elaborano dei percorsi sapienti di bene sociale. Il titolo, il concept e gli appuntamenti principali del Cortile di Francesco di quest’anno sono stati ideati da fra Giulio Cesareo, OFMConv, direttore dell’Ufficio Comunicazione del Sacro Convento. Sono tanti gli ospiti di questa edizione, tra cui il direttore generale di Comieco, Carlo Montalbetti, l’imprenditore Brunello Cucinelli, il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli e il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana Vittorio Di Trapani. La giornata di sabato 16 settembre sarà segnata dall’evento Il Vangelo è la vita: la Regola di Francesco” in programma alle 11.30 alla Sala Cimabue dove i Ministri generali del prim’Ordine francescano, dopo 800 anni dalla conferma della Regola di san Francesco da parte di Onorio III il 29 novembre 1223, si ritrovano ad Assisi, insieme a numerosi confratelli delle varie famiglie religiose, per riflettere insieme sull’attualità e le sfide della vita francescana nel III millennio. Il dialogo sarà arricchito dalla presenza di Maria Pia Alberzoni (storica del francescanesimo), fratel Sabino Chialà (priore della comunità monastica di Bose) e Davide Rondoni (poeta di fama internazionale e Presidente del Comitato Nazionale per le celebrazioni dell’VIII centenario della morte di san Francesco). Tutte le tavole rotonde e le conferenze del Cortile di Francesco 2023 saranno trasmesse in streaming sul canale YouTube Cortile di Francesco. Read the full article
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donaruz · 3 years
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14 LUGLIO 1921 NICOLA SACCO e BARTOLOMEO VANZETTI furono condannati alla sedia elettrica
Sono passati oltre cento anni dall’arresto degli italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.
I due italiani, emigrati negli Stati Uniti all’inizio del Novecento in cerca di lavoro e fortuna, finirono nel vortice del caos creatosi in seguito alla fine della Prima guerra mondiale. Caos derivato dalla Rivoluzione d’Ottobre che portò i bolscevichi al potere in Russia e alla nascita dell’Unione Sovietica. In questo contesto storico, nacque il timore che l’onda della rivoluzione potesse arrivare anche in Occidente, minando l’ordine interno dei vari Paesi. La storia dei due immigrati italiani finì così per intrecciarsi al contesto storico, diventando un caso negli Stati Uniti e non solo.
Sacco e Vanzetti
Nicola Sacco arrivò a Boston il 12 aprile 1909 pochi giorni prima di compiere 18 anni a bordo della nave Romanic. Trovò lavoro in calzaturificio di Milford per dieci ore al giorno, sei giorni alla settimana. Fu in quel periodo che si avvicinò all’anarchismo e a quegli ideali, iniziando a partecipare alle manifestazioni operaie dove si chiedevano condizioni di lavoro migliori e salari più alti, tenendo spesso dei discorsi.
Bartolomeo Vanzetti arrivò in Massachusetts a bordo della nave La Provence il 19 giugno 1908 all’età di 20 anni. Trovato lavoro alla Plymouth, una fabbrica di cordami, nel 1916 guidò uno sciopero e in virtù di questo fu allontanato e nessuno in seguito volle più assumerlo. Nel 1919, fino all’arresto, si mise in proprio vendendo pesce.
Allo scoppio della Grande Guerra Sacco e Vanzetti, assieme al collettivo di anarchici italoamericani di cui facevano parte, andarono in Messico per evitare la chiamata alle armi che certamente li avrebbe raggiunti. Gli anarchici non potevano accettare di combattere e uccidere in nome di uno Stato, o anche peggio di morire per esso. Tornarono nel Massachusetts a guerra finita, ma i due non sapevano che erano già stati inseriti in una lista di personalità ritenute sovversive e pericolose.
Il Red Scare
I fatti avvenuti in Russia influenzarono fortemente le politiche di sicurezza interna in molti Paesi occidentali, estremizzandole. Negli Stati Uniti, questo fervore anticomunista, prese il nome di Red Scare (“paura rossa”), un fenomeno contemporaneo a quello che in Europa divenne poi noto come il Biennio rosso. Un periodo compreso appunto fra la fine del 1917 e il 1920. Le paure di un piano comunista atto a rovesciare il governo degli Stati Uniti, innescate da una serie di attentati anarchici nel giugno 1919, divennero quindi motivo di grande attenzione da parte delle autorità.
In quel periodo il Procuratore Generale degli Stati Uniti, sotto la presidenza di Woodrow Wilson, era Alexander Mitchell Palmer, il quale decise di affrontare duramente la questione. Il procuratore Palmer, sfruttando leggi come l’Atto sullo spionaggio del 1917 e l’Atto sulla sedizione del 1918, si scagliò contro associazioni anarchiche, comuniste, socialiste e sindacali dando avvio ai cosiddetti Palmer Raids. Questi consistevano in arresti indiscriminati, processi sommari ed espulsioni forzate contro gli individui definiti pericolosi, spesso calpestando le più elementari libertà individuali e i principi di giustizia.
Nel corso di queste operazioni di polizia vennero arrestate più di 10.000 persone considerate sospette, che furono deportate e allontanate forzatamente dal Paese. Un fattore di forza della repressione politica fu la disomogeneità delle associazioni politiche e sindacali, spesso formate da immigrati di varia nazionalità (italiani, polacchi, irlandesi) che spesso non parlavano e non capivano la lingua inglese, giocando anche sul razzismo che contraddistingueva molti lavoratori statunitensi.
Fu in questo clima di intolleranza e xenofobia che fu intentato il processo contro Sacco e Vanzetti, i quali vennero arrestati poiché implicati nell’organizzazione di un comizio di protesta per la morte dell’anarchico e tipografo Andrea Salsedo, schiantatosi al suolo in seguito a una caduta dal quattordicesimo piano di un grattacielo di New York dove aveva sede il Bureau of Investigation.
Il processo a Sacco e Vanzetti
La vicenda Sacco e Vanzetti nacque e venne influenzata proprio da questo clima generatosi dopo la fine della guerra. Una volta fermati e arrestati i due vennero trovati in possesso di appunti per del materiale tipografico con cui pubblicizzare la protesta e soprattutto di una pistola semiautomatica e una rivoltella. Al posto di polizia vennero interrogati da Michael Stewart, capo del distretto di polizia, al quale risposero evasivamente. Successivamente vennero interrogati anche dal procuratore Katzman, al quale continuarono a dare risposte evasive, contraddittorie e, in alcuni casi, false.
Per due giorni vennero trattenuti senza assistenza legale, convinti di essere stati arrestati per possesso illegale di armi e motivi politici. Mentirono poiché sapevano che potevano essere espulsi. Solamente qualche giorno dopo venne loro comunicato il motivo dell’arresto: aver partecipato alla rapina di South Braintree, un sobborgo di Boston, avvenuta al calzaturificio Slater and Morrill. Nella rapina vennero uccisi due uomini: il cassiere della ditta Frederick Parmenter e Alessandro Berardelli, una guardia giurata. Sacco e Vanzetti a quel punto presentarono subito i loro alibi. Sacco quel 15 aprile era al consolato italiano per richiedere il passaporto per rimpatriare; Vanzetti in entrambe le occasioni vendeva pesce a Plymouth. I due vennero quindi mostrati a testimoni chiamati a identificarli, senza la procedura di confronto; furono perfino costretti a simulare i comportamenti dei banditi. Una procedura fortemente voluta da Katzman, ma illegale.
Pur tra mille incertezze e contraddizioni, alcuni testimoni affermarono di riconoscerli. Sacco e Vanzetti vennero quindi incriminati. Vanzetti venne anche accusato di un’altra rapina avvenuta in precedenza a Bridgewater.
L’istruttoria durò un anno e non fu priva di ambiguità e contraddizioni da parte dei testi dell’accusa. La difesa puntò infatti sulla credibilità dei testimoni i quali fecero dichiarazioni fin troppo precise, ricche di particolari e prive di dubbi; nel caso delle molte incongruenze, rimarcate dalla difesa, il procuratore soprassedette, incitando la corte a tenere conto della buona fede dei testi. La difesa portò come testimoni per Sacco un funzionario del consolato e i conoscenti lì incontrati nelle stesse ore della rapina; per Vanzetti i suoi stessi clienti. Tutti vennero però ritenuti poco credibili dal procuratore, il quale li additò come amici e conoscenti dei due imputati, tutti italiani, e quindi tendenzialmente portati a mentire per proteggerli.
Nella seconda fase del processo la discussione si spostò sulla morte della guardia. Il procuratore intendeva dimostrare che la pistola di Sacco fosse stata usata per ucciderla e che la seconda pistola trovata in possesso degli imputati fosse stata sottratta alla vittima dopo la morte. Le prove a carico vennero fornite da periti balistici del tribunale. Uno di essi sostenne in modo molto ambiguo che il proiettile fatale venne sparato dall’arma in esame, senza però specificare se si riferisse alla pistola che materialmente venne citata come prova o al modello della stessa. La difesa si limitò a opporre a queste vaghe dichiarazioni due suoi periti, che non riuscirono però ad essere sufficientemente convincenti. Per smontare l’impianto accusatorio, la difesa decise di interrogare gli stessi imputati sulla loro fede politica per sottolineare come essi fossero intimoriti soprattutto dalla prospettiva dell’arresto per motivi politici. L’accusa riuscì tuttavia ad aizzare i sentimenti patriottici e i pregiudizi politici della giuria, illustrando le idee sovversive dei due anarchici, la loro renitenza alla leva e le loro critiche al sistema capitalistico statunitense.
Al momento della requisitoria il procuratore fece un appello contro gli stranieri. Sotto questo aspetto, Sacco e Vanzetti erano considerati due agnelli sacrificali, utili per testare la nuova linea di condotta contro gli avversari del governo fortemente suggerita dal Procuratore Generale Palmer. Erano immigrati italiani con una comprensione imperfetta della lingua inglese e noti per le loro idee politiche radicali. Il giudice Webster Thayer li definì senza mezze parole “due bastardi anarchici”. Il processo venne quindi anche e fortemente contrassegnato da elementi e opinioni razziste. I due, il 14 luglio 1921, furono condannati a morte.
L’affaire Sacco e Vanzetti
Il caso scosse molto anche l’opinione pubblica italiana. A partire dal 1923 fino all’esecuzione della condanna a morte nel 1927, i funzionari del ministero degli Esteri, l’ambasciatore italiano a Washington e il console italiano a Boston operarono presso le autorità degli Stati Uniti per ottenere prima una revisione del processo e poi la grazia per i due italiani. Anche molti famosi intellettuali come George Bernard Shaw, Bertrand Russell e Albert Einstein si spesero in favore di Nick e Bart. La loro condanna, in Francia, venne paragonata a quello che subì Alfred Dreyfus alla fine dell’800. Il governatore del Massachusetts Alvan T. Fuller, che avrebbe potuto impedire l’esecuzione, rifiutò infine di farlo, dopo che un’apposita commissione da lui istituita per riesaminare il caso riaffermò le motivazioni della sentenza di condanna. Sacco e Vanzetti vennero infine giustiziati il 23 agosto del 1927.
Solo 50 anni dopo l’esecuzione, il 23 agosto 1977, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis emanò un proclama che assolveva i due uomini dal crimine, affermando: “Io dichiaro che ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.
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vele-e-vento · 3 years
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- le ultime lettere di Jacopo Ortis, prima stesura 1798. Per chi dice, afferma anzi, che l’Italiano è nato solo dopo l‘unità di  Italia, e che non esisteva prima e che lo parlavano solo tizio e caio, ben fortunati di origini, nei loro circoli intellettuali. mah si forse lo parlavano solo tizio e caio, il Foscolo e il Parini per dirne due. Ma anche il Beccaria e il Manzoni, che quando si trovavano nei bordelli di Milano come riferisce nelle note azzurre il Carlo Pisani Dossi, lo scapigliato, che conosceva tutti i peccatucci della Milano bene di allora, parlavano un misto di Milanese e Italiano. Forse. ma come dicevo altrove, l’opera, la musica d’opera intesa come arte drammaturgica - che si è imposta in Italia e in Europa come la regina delle arti popolari, nel ‘600 e poi ancora di più nel ‘700  e nell’ ‘800 -  si rappresentava ormai da duecento anni già prima delle “lettere di Ortis”, la si inscenava anche nella Napoli Aragonese (gli aragonesi di Spagna), o a Parma, o a Roma (che non è certamente di lingua Toscana), a Venezia,   o nella già citata Milano, la Milano sede della Scala,  il più prestigioso palco d’opera d’Europa, già sotto il dominio Austriaco. E l’opera non era rivolta ai nobili, ma a tutti, e specialmente al popolo. Dunque  il popolo in tutta la penisola forse non scriveva in Italiano, ma lo capiva. Eccolo,  l’Italiano “che non esisteva prima dell’unità” , l’Italiano “quasi moderno”   non impastato di retorica, e di parole distorte dalla rimazione e dalla volontà di raffinatezza poetica del Bembo, dell’Alfieri, o dei librettisti,  quell’Italiano che non esiste, eccolo qua: si rappresenta nelle “ultime lettere”. Ortis, veneto nella finzione romanzata, scrive in perfetto Italiano, un Italiano quasi del tutto simile al nostro. E perchè - chiedo - nella finzione di Foscolo, Ortis avrebbe dovuto scrivere in una lingua finta, quando l’intento di Foscolo era dare il senso che le lettere fossero “vere” ? Dato chè per vere le ha denunciate nel 1801, sulla Gazzetta Universale di Firenze, un giornale dell’epoca, Foscolo stesso... Le lettere di Ortis  erano twitt, e chat e post dell’epoca. Erano la realtà. Almeno questa l’intenzione. Che senso avrebbe scriverle in una lingua che nessuno usa se l’intento è la verosimiglianza... da Film, da documentario pasoliniano, diremmo oggi. Allora queste lettere, simulano lettere vere. Coi loro bravi difetti e la loro verità. Parlano la lingua quotidiana reale. Per perseguire l’intento poetico e politico di Foscolo, nello scriverle. D’altro lato queste lettere sono state pubblicate prima di tutto per questo motivo. Esporre un’ idea politica. E allora dove è questo Italiano, nato magicamente dopo l’unità, che invece  esisteva da almeno un secolo prima dello Jacopo Ortis, nelle opere popolari? E che è questo estratto di Italiano, del 1798, se la lingua italiana non esisteva ancora?
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paoloxl · 4 years
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Il 20 gennaio di quest’anno ricorreva il 127° anniversario della strage di Caltavuturo. Probabilmente nei vostri Comuni non assisterete ad alcuna celebrazione della ricorrenza; sicuramente non leggerete niente a riguardo sui giornali né tantomeno né sentirete parlare in televisione. Di quella data e della cornice storica in cui si inseriscono i tragici eventi di cui sto per raccontarvi si è semplicemente preferito perdere la memoria, come se non fossero mai accaduti.
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Ma andiamo per ordine: poco più centoventi anni fa, tra il 1891 e il 1894, nasceva nelle città e nelle zone rurali della Sicilia, il movimento dei Fasci dei Lavoratori Siciliani, al quale aderirono spontaneamente migliaia tra operai, contadini, artigiani e intellettuali.
Il movimento dei Fasci aveva come obiettivo quello di contrastare il latifondo agrario, di ribellarsi alle prerogative di una monarchia sempre assente e lontana dai problemi del popolo e di raggiungere più degni livelli di giustizia sociale e di libertà.
Una delle sue caratteristiche più rivoluzionarie fu quello di riservare alla figura della donna un ruolo preminente. Proprio le donne ebbero, in particolare a Piana degli Albanesi, funzioni di primo piano e si assisteva per la prima volta nell’isola ad un  tentativo organizzato di richiedere un’emancipazione del ruolo femminile oltre ad una più generale rivendicazione di lavoro e di diritti.
Diversi furono i Fasci fondati in Sicilia. Uno dei primi fu quello di Catania nel 1891, ma quelli più organizzati sorsero a Corleone, Piana degli Albanesi e a Palermo.
A Corleone il 30 luglio del 1893, si riunirono tutti i Fasci della provincia di Palermo, per elaborare quello che venne denominato il “Patto di Corleone”, da più parti considerato come il primo esempio di contratto sindacale redatto nell’Italia dell’epoca.
Per capire per cosa lottava quella povera gente occorre menzionare quelli che erano i patti colonici più diffusi nell’800 in Sicilia: la mezzadria ed il terratico. Con la mezzadria il proprietario metteva a disposizione del colono la terra, anticipando le sementi e quest’ultimo era invece tenuto a svolgere tutti i lavori necessari per la produzione; il raccolto veniva poi ripartito in modo sistematicamente iniquo e penalizzante per il colono. Si andava da una divisione a metà del raccolto fino ai casi in cui la suddivisione prevedeva l’attribuzione dei due terzi al proprietario e solo del restante terzo al colono. Alla base del contratto di mezzadria, dunque, c’era sempre lo sfruttamento del colono da parte del proprietario. Il contadino e in modo particolare il mezzadro che usava i suoi muli e la sua attrezzatura per lavorare la terra, finiva poi spesso per essere con questi indebitato in modo permanente.
Inoltre il contratto tra le parti era sempre verbale e così i proprietari avevano gioco facile nel negare le condizioni precedentemente pattuite, abusando del lavoro dei contadini. Come se ciò non bastasse, della sua quota il mezzadro doveva cederne una parte che il proprietario distribuiva tra i campieri. Questi lasciti erano in realtà tributi che il contadino era obbligato a pagare in cambio di protezione. Il ”terratico” era per il contadino, un patto ancora più svantaggioso di quello di mezzadria. Infatti, mentre con la mezzadria il compenso dovuto al proprietario era proporzionato al raccolto, nel terratico il colono doveva versare al proprietario una quota fissa, in denaro o in natura, indipendentemente dall’esito dello stesso; bastava quindi una cattiva annata per costringere il terratichiere a rivolgersi all’usuraio o a vendere quel poco di cui disponeva per far fronte alla quota dovuta.
In questo contesto, la fame e la miseria, il desiderio di riscatto sociale e di giustizia indussero migliaia di contadini nell’autunno del 1893 a ribellarsi e a dare vita ad imponenti scioperi che in alcuni casi ottennero i risultati sperati con il miglioramento dei contratti agrari. Molti furono infatti i proprietari terrieri che intimoriti dalle imponenti manifestazioni vennero incontro alle rivendicazioni insite nei “Patti”.
Tuttavia, la pressione politica dei latifondisti si era tutt’altro che affievolita e questi riuscirono a condizionare il governo statale presieduto dal siciliano Francesco Crispi che acconsentì a mettere in atto politiche repressive contro il movimento stesso.
Proprio a Caltavuturo il 20 gennaio 1893, 11 contadini sui 500 presenti, trovarono la morte ritornando da un’occupazione simbolica del demanio comunale che il Sindaco del tempo aveva da mesi promesso di assegnare loro. A seguito di una sassaiola ingaggiata contro l’esercito regio, quest’ultimo incitato dai campieri mafiosi reagì aprendo il fuoco sulla massa inerme e inseguendo i contadini in fuga perpetuò una delle stragi più brutali di quegli anni.
Nei mesi a seguire gli atti violenti si moltiplicarono.
In ordine cronologico: Giardinello, 10 dicembre 1893, l’esercito spara sui dimostranti di una manifestazione, provocando 11 morti e numerosi feriti. Monreale, 17 dicembre 1893, viene aperto il fuoco su una manifestazione contro i dazi: diversi i morti e i feriti. Lercara Friddi, 25 dicembre 1893, 11 morti e numerosi feriti. Pietraperzia, 1 gennaio 1894, si spara su gente che manifesta contro le tasse. I morti alla fine sono in numero di 8 e 15 i feriti. Nella stessa giornata a Gibellina i morti furono 20 e numerosi i feriti. Belmonte Mezzagno, 2 gennaio 1894, 2 morti; Marineo, 3 gennaio 1894, 18 morti. Santa Caterina Villarmosa, 13 morti e diversi feriti.
Il bilancio finale fu tragico: più di 100 i morti complessivamente conteggiati nell’intera isola e oltre 3.500 i lavoratori arrestati e incarcerati.
Il Governo Crispi il 4 gennaio del 1894, decretò lo stadio di assedio della regione affidando pieni poteri al generale Morra di Lavriano.
L a condotta del generale Morra fu assai cruenta. Diede l’ordine di arrestare i dirigenti dei Fasci e in più di 70 paesi vennero condotti arresti di massa.
Più di 1000 persone furono costrette al soggiorno obbligato nelle isole minori, spesso anche perché semplicemente sospettate di essere simpatizzanti del movimento. Le libertà individuali, di stampa, di domicilio, i diritti di associazione, vennero sospese. Si stava infliggendo un colpo duro a quello che in Europa fu uno dei movimenti di protesta più organizzati, paragonabile senza timore di cadere in esagerazioni, alla Comune di Parigi. E lo si faceva con le armi e col fuoco dell’esercito regio e con la collaborazione della mano mafiosa al soldo del latifondo agrario. Di quei fatti di sangue e del confino di massa narra anche un articolo dell’epoca del Corriere della Sera. Il movimento dei Fasci Siciliani produsse dirigenti di spessore, del calibro di Rosario Garibaldi Bosco, Bernardino Verro e Nicola Barbato, solo per citarne alcuni. In particolare a quest’ultimo si sarebbe ispirato, diversi anni dopo, attribuendosi il nome di battaglia il partigiano Comandante Pompeo Colajanni “Barbato” che ebbe un ruolo centrale nella liberazione di Torino il 28 aprile del 1945. In Italia, purtroppo sono in pochi a sapere dell’esistenza di questo movimento e di quello che accadde in Sicilia in quegli anni. Nessun manuale scolastico gli dedica una riga; il movimento dei Fasci sembra nell’immaginario degli Italiani semplicemente non essere mai esistito, per lo più noto solo a pochi appassionati di storia. E pensare che fu un movimento di cui scrisse anche Engels e si dice che perfino Lenin ne studiò la matrice rivoluzionaria. Sciascia invece, dal canto suo vide nei Fasci la prima ribellione popolare antimafiosa dell’Italia moderna e contemporanea.
Il cinema si è recentemente interessato all’argomento con il film documentario di Nella Condorelli, “1893. L’INCHIESTA”. La pellicola  narra di questa pagina rimossa  dalla memoria storica nazionale attraverso l’inchiesta, anch’essa dimenticata, condotta dal giornalista veneto Adolfo Rossi per il quotidiano romano La Tribuna. Rossi, nel 1894, per un mese intero, percorse a dorso di mulo le trazzere della Sicilia, raccogliendo le voci dei contadini e degli zolfatari dei Fasci in lotta.
Un tributo alla memoria, contro i luoghi comuni e gli stereotipi che additano il popolo di Sicilia di essere stato sempre soggiocato passivamente e inerte alle prevaricazioni esterne.
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gregor-samsung · 9 months
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“ Quando una popolana napoletana non ha figli, essa non si addolora segretamente della sua sterilità, non fa una cura mirabile per guarirne, come le sposine aristocratiche, non alleva un cagnolino o una gattina o un pappagallo, come le sposette della borghesia. Una mattina di domenica ella, si avvia, con suo marito, all'Annunziata, dove sono riunite le trovatelle, e fra le bimbe e i bimbi, allora svezzati o grandicelli, ella ne sceglie uno con cui ha più simpatizzato, e, fatta la dichiarazione al governatore della pia opera, porta con sè, trionfante, la piccola figlia della Madonna. Questa creaturina, non sua, ella l'ama come se l'avesse messa al mondo; ella soffre di vederla soffrire, per malattia o per miseria, come se fossero viscere sue; nella piccola umanità infantile napoletana, i più battuti sono certamente i figli legittimi; di battere una figlia di Maria, ognuno ha un certo ritegno; una certa pietà gentilissima fa esclamare alla madre adottiva: puverella, non aggio core de la vattere, è figlia della Madonna. Se questa creatura fiorisce in salute e in bellezza, la madre ne va gloriosa come di opera sua, cerca di mandarla a scuola o almeno da una sarta per imparare a cucire, poiché certamente, per la sua bellezza, la bimba è figlia di un principe; in nessun caso di miseria o infermità, la madre adottiva riporta, come potrebbe, la figliuola all'Annunziata. E l'affezione, scambievole, è profonda, come se realmente fosse filiale; e a una certa età il ricordo dell'Annunziata scompare, e questa madre fittizia acquista realmente una figliuola. Ma vi è di più: una madre ha cinque figli. Il più piccolo ammala gravemente, ella si vota alla Madonna, perché suo figlio guarisca; ella adotterà una creatura trovatella. Il figlio muore; ma la pia madre, portando il fazzoletto nero che è tutto il suo lutto, compie il voto, lagrimando. Così, a poco a poco, la creatura viva e bella consola la madre della creatura morta, e vi resta in lei solo una dolcezza di ricordo e vi fiorisce una gratitudine grande per la figlia della Madonna. Talvolta, il figlio guarisce: il primo giorno in cui può uscire, la madre se lo toglie in collo e lo porta alla chiesa dell'Annunziata, gli fa baciare l'altare, poi vanno dentro a scegliere la sorellina o il fratellino. E fra i cinque o sei figli legittimi, la povera trovatella non sente mai di essere un'intrusa, non è mai minacciata di essere cacciata, mangia come gli altri mangiano, lavora come gli altri lavorano, i fratelli la sorvegliano perché non s'innamori di qualche scapestrato, ella si marita e piange dirottamente, quando parte dalla casa e vi ritorna sempre, come a rifugio e a conforto. “
Matilde Serao, Il ventre di Napoli. (Corsivi dell’autrice)
[Edizione originale: fratelli Treves, Milano, 1884]
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abr · 5 years
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Benaltrismi
Il commento del buringasfuck ad un post commentato anche da me (ecco perché l’ho potuto notare nella mia dash), reblog della notizia “Sea Watch, Incassi per sponsorizzazione di 1. 800. 000€”, inizia con la seguente frase:
 “ uh… 1.8 milioni di euro WOW… circa la metà di quello che Briatore evadeva solo di IVA sul carburante del suo yacht. Ma... “ 
etc.etc., prosegue con la solita fuffa finta buonista esondante da ogni tombino e che solo per questo (no disrespect) mi/vi risparmio: un contributo pleonastico (”dicesi informazione una differenza che crei una differenza” - G.Bateson) ma intanto la notizia dal suo punto di vista è stata demolita: mission accomplished.  
Puro benaltrismo vintage in perfetto stile veltroniano (absit iniuria verbis). 
Ne scrivo non per stigmatizzare il metodo - fatti suoi: sappia solo che, come dicono a Venexia qua no se imbarca cuchi -  ma per prolungare il contributo con BENALTRO benaltrismo, il mio. 
Un post o un commento lanciato in Rete è infatti un meme, un message in a bottle che serve per suscitare non solo adesioni o ripulse ma anche pensieri laterali. 
ll mio, parental advisory, sarà particolarmente scandaloso e scorretto dati i tempi illiberali, ipocriti ridondanti peggio del Barocco e predatori centralisti statalisti come i tempi del Re Sole, a loro volta generanti .... Sovranismo nazionalista a constrasto! Tutte robe da dittatura delle maggioranze imbelli e ignoranti, opportunamente pilotate da élite inqualificabili nei tempi ipocriti che stiamo vivendo - ecco dove ci ha portato l’incultura del Sociale profusa da mainstream e intellò che imbeve il cretino collettivo. 
“ uh… 1.8 milioni di euro WOW… circa la metà di quello che Briatore evadeva solo di IVA sul carburante del suo yacht”. 
Frase rivelatrice del sentire comunissimo ma che personalmente e del tutto impopolarmente (qui mandate via i più sensibili: e diranno, difende Briattore, mioddìo! Invece lo oggettivizzo a esempio) trovo molto statal nazicomunista: massima sia la condanna a chi SOTTRAGGA ... sottragga cosa a chi?
Secondo il libertarian quello autentico (il Paleo-Anarchist Conservative d’Oltreoceano, non la versione socialista impagliato che ha preso piede sin dai tempi del povero Gobetti da queste parti periferiche culturalmente impoverite peggio dell’uranio), quelli sono soldi generati dall’iniziativa e sacrifici, intelligenti o ignoranti che siano, del Geometra di Cuneo e sottratti CON LA FORZA dallo Stato Criminogeno per i suoi fini di potere coercitivo. 
Secondo il cretino collettivo dominante invece, quelli dell’infame, inculturato popolano che osò diventar ricco (sottraendosi così al suo destino di oggetto del paternalismo caritatevole - usando i soldi altrui - delle avanguardie intellettuali) son soldi sottratti non alle avide Burocrazie statali, bensì AL POPOLO! 
Perché ogni proprietà e ricchezza (altrui) è per definizione un furto. E’ il sentire comune periferico, instillato da cento anni di rieduchescional channels. 
In tale prospettiva ogni “taxation” , anche quelle più controproducenti di stampo Montiano, è per definizione “fair” in quanto gentile concessione di chi controlla lo Stato (cioè non i politici ma i burosauri). E’ in fondo un compromesso “buonista” dovuto al fallimento del comunismo: dice ai ladroni cxioè a tutti gli individui, siete autorizzato (per adesso) a trattenere una parte di quel che avete rubato al popolo, solo se ne cederete spintaneamente (rumor di manette) una parte “fair” (vi diremo noi quanto); tale “fair share” di quel che ogni individuo ha rubato alla Collettività,  serve per alimentare burosauri centralisti statalisti e le loro clientele oooops, volevo dire serve per fornire servizi essenziali in ottica redistributiva e la chiameremo COESIONE SOCIALE (again, chi coesare rispetto di chi, lo decideranno loro di volta in volta: ora ad es. più che ai poveri tocca ai “rifuggiati”).  
Lo spunto è importante non tanto per i buring di queste periferie (continuate pure i vostri aegri somnia passatisti, nelle vostre Arcadie provinciali), ma come anticipazione: infatti lo sklero che Trump sta provocando all’intellettuame progressista d’Oltreoceano, sta generando autentici mostri, che come al solito (climate change, ‘68, new left clintoniana etc.etc.) saranno incubi riproposti anche sui nostri schermi da interpreti provinciali e traduttori cani. I nuovi mostri che stanno emergendo di là del divide in pieno sklero funesto sono “pensatori” e  politicanti che seriamente osano riproporre la CONFISCA come elemento pienamente accettabile anzi auspicabile della convivenza civile. Prospettiva Venezuela. 
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/02/22/la-letteratura-di-viaggio-e-viaggiatori-stranieri-in-puglia-fra-settecento-e-ottocento/
La letteratura di viaggio e viaggiatori stranieri in Puglia fra Settecento e Ottocento
DUE INGLESI ED UN TEDESCO
di Paolo Vincenti
Gli inglesi e il tedesco del titolo sono tre viaggiatori che nei secoli scorsi hanno raggiunto le nostre contrade. Ora, la letteratura di viaggio è un campo sterminato e anche sui viaggiatori stranieri in Puglia fra Settecento e Ottocento vi è una bibliografia talmente vasta che non appesantirò questo articolo, riportandola.
Mi sia concesso solo fare una brevissima introduzione su quell’importante fenomeno che va sotto il nome di “Grand Tour”, e poi mi intratterrò sui tre personaggi che, dei tanti, mi sembrano fra i più interessanti. Il Grand Tour è un fenomeno culturale tipicamente settecentesco.
Con questa espressione si è soliti definire il viaggio di istruzione e di formazione, ma anche di divertimento e di svago, che le élites europee intraprendono attraverso l’Europa fra Settecento e Ottocento. Protagonisti indiscussi del Grand Tour sono i giovani che hanno appena concluso gli studi, e in generale quegli intellettuali che specie nel Romanticismo erano imbevuti di cultura classica e dunque desideravano venire in Italia, come dire alla fonte di quella enorme ricchezza culturale che dal nostro Paese si era irradiata in tutta Europa.
Per i rampolli dell’aristocrazia francese, inglese, tedesca, pieni di cultura libresca ma poco pratici del mondo e degli uomini, il viaggio in Italia si presentava come un’esperienza irrinunciabile, certo indispensabile al fine di perfezionare la propria educazione. Essi vedevano nell’Italia la culla dell’arte e per esteso della civiltà mediterranea, grazie alla storia gloriosa di Roma, a sua volta tributaria della Grecia. E così si mettono in viaggio non solo i giovani, ma anche diplomatici, filosofi, collezionisti, romanzieri, poeti, artisti. Ciò dà origine ad una sterminata produzione, epistolari, diari, reportages di viaggio, romanzi, poesie, e non solo di carattere letterario ma anche artistico, pensiamo al famoso “Voyage pittoresque ou description du Royaume de Naples et de Sicile”, in cinque volumi, che realizzò l’abate francese Richard de Saint-Non tra il 1778 e il 1787, su incarico degli editori Richard e Labord.
Uno dei primi viaggiatori inglesi ad arrivare in terra salentina è Crauford Tait Ramage,1803-1878. Egli dimorava a Napoli come precettore dei figli del console Henry Lushington e, nel 1828, intraprese il suo viaggio nelle province meridionali, visitando il Salento. Rimane affascinato dalla bellezza di Otranto, poiché egli, come moltissimi inglesi dell’epoca, associava il nome di Otranto al romanzo di Horace Walpole ( il quale però non era mai stato ad Otranto)[1].
Nella sua opera “The nooks ad by-ways of Italy”, presso l’Editore Howell, Liverpool, del 1868[2], egli annota tutto quello che vede, catturato dall’irresistibile fascino dei nostri paesi e paesini, e per questo osserva anche la vita quotidiana, gli usi e le abitudini della nostra gente, anche se non sempre si dimostra preciso ed attento, come sottolinea Carlo Stasi a proposito del suo passaggio nel Capo di Leuca[3].
Il suo libro, dedicato al Generale Carlo Filangeri, è un resoconto di viaggio, sotto forma di lettere scritte ad un parente. Le lettere che riguardano la Puglia vanno dalla XXIII alla XXIX.
Come spiega bene il sottotitolo dell’opera, “Vagando in cerca dei suoi antichi resti e delle moderne superstizioni”, il Ramage, pur essendo spirito illuminista, è attirato dalle stranezze, o per meglio dire è attirato dalla suggestione che queste stranezze sembrano esercitare sul nostro popolo. Egli, che si professa materialista, e in effetti è uno storico serio e puntiglioso, trova grande meraviglia e interesse antropologico nel notare la creduloneria, le supersitizioni, l’ignoranza che allignano fra i salentini. Si ferma di fronte al fenomeno delle tarantate, che fa discendere dai culti orgiastici della dea Cibele. Tuttavia, ama la bellezza classica di questi posti. Infatti rimane molto colpito da Lecce e dalla sua architettura barocca, anche se, come già Swinburne, non apprezza la Chiesa di Santa Croce.
Anche il grande poeta Henry Swinburne, infatti, venne nel Regno delle Due Sicilie e visitò la Puglia da Foggia fino a Lecce. Nel suo libro “Travels in the Two Sicilies” del 1783, passa in rassegna tutte le città e i paesi che visita. Parla delle donne che danzano sfrenatamente delle danze bacchiche, a Brindisi, e che egli crede morsicate dalle tarantole, e parla anche di Lecce. Di particolare interesse, il suo disappunto di fronte al barocco leccese e a quello che ne è il monumento simbolo, la Chiesa di Santa Croce, che derubrica a pessimo esempio di commistione fra stili diversi. Lo Swinburne detesta la città di Lecce e la sua architettura, d’accordo in questo con un altro celebre intellettuale, il Riedesel, che è il secondo protagonista del nostro pezzo.
Il tedesco Johann Hermann von Riedesel, barone di Eisenbach, 1740-1785, è un appassionato archeologo che vuole descrivere ai suoi connazionali le antichità classiche dell’Italia. Il suo libro, “Un viaggiatore tedesco in Puglia nella seconda metà del sec. XVIII. Lettere di J.H.Riedesel a J.J.Winckelmann”, è, come dice il titolo, un’opera epistolare, diretta al famoso archeologo Winckelmann[4].
Diplomatico e ministro prussiano, Riedesel aveva conosciuto a Roma e frequentato il Winckelmann, il quale gli aveva fatto da guida nella esplorazione dei monumenti della città. Infatti, e non potrebbe essere diversamente, nella descrizione che il Riedesel fa dell’Italia Meridionale, in particolare della Regione salentina, si avverte l’influenza del Winckelmann. Come detto, in fatto di architettura egli non ama lo stile barocco, che definisce “il più detestabile”, mentre apprezza molto la semplicità delle architetture mediterranee e in particolare delle pajare e dei muretti a secco. “Non restano però estranee al tedesco, acuto osservatore di uomini e cose, la vita economica e quella sociale delle contrade visitate”, come scrive Enzo Panareo[5].
Il suo libro divenne un punto di riferimento in Germania e fu molto letto, anche da Goethe, che lo elogia nella sua opera “Viaggio in Italia”, in cui sostiene di portarlo sempre con sé, come un breviario o un talismano, tale l’influenza che quel volume, per la puntigliosità e l’esattezza delle notizie, esercitava sugli intellettuali.
Janet Ross ,1842-1927, giornalista, storica e autrice di libri di cucina, arriva nel Salento nel 1888. Memorabile il suo incontro con Sigismondo Castromediano, che le racconta la storia della sua vita. Janet Ross pubblicò nel 1889 in Inghilterra le sue relazioni di viaggio in Puglia, in “La terra di Manfredi, principe di Taranto e re di Sicilia. Escursioni in zone remote dell’Italia Meridionale”, successivamente tradotto e pubblicato in Italia col titolo “La terra di Manfredi”[6].
Un racconto davvero interessante, fra lo storico-artistico e l’antropologico, impreziosito dai disegni di Carlo Orsi, compagno di viaggio della Ross, e ripubblicato ancora nel 1978 in Italia col titolo “La Puglia nell’800 (La terra di Manfredi)”.[7] Bisogna dire che la figura del Re Manfredi, come tutti gli Svevi, suggestionava fortemente la viaggiatrice inglese. Nella mentalità dei britannici, infatti, questa era una dinastia eroica, avendo lottato contro il papato.
Nei luoghi visitati – nell’ordine: Trani, Andria, Castel del Monte, Barletta, Bari, Taranto, Oria, Manduria, Lecce, Galatina, Otranto, Foggia, Lucera, Manfredonia, Montesantangelo, Benevento – , la Ross cerca le antiche vestigia di una civiltà, quella appula, ricca di gloriose tradizioni.
Determinante fu il suo incontro con Giacomo Lacaita. Come scrive Nicola De Donno, recensendo il libro curato da Vittorio Zacchino, “L’autrice, che era stata a Firenze, la capitale italiana degli inglesi, ed in Puglia anche l’anno precedente, ci informa che non avrebbe composto il suo libro senza l’incoraggiamento di Giacomo Lacaita, o meglio di sir James Lacaita, come sempre lo chiama. A Leucaspide, presso Taranto, che era la residenza di campagna dei Lacaita, ella rimase ospite per alcuni giorni e di lì il Lacaita le preparò escursioni ed in alcune l’accompagnò, le dette consigli e le suggerì riferimenti culturali. Egli era, al tempo del viaggio, senatore del regno d’Italia ed aveva settantacinque anni.
Nativo di Manduria, laureato in giurisprudenza a Napoli ed introdotto nella buona società cosmopolita della capitale dalla principessa di Leporano, di cui suo padre era stato amministratore, fu impiegato come legale dal consolato inglese, ove strinse relazioni importanti, fece da guida al Gladstone nella sua famosa visita a Napoli, ebbe, probabilmente per ciò, noie dalla polizia borbonica. Riuscì, nonostante tutto, ad ottenere da Ferdinando II un passaporto per l’Inghilterra nel 1851 e non tornò più a Napoli. A Londra fece un nobile matrimonio che gli aprì molte porte, si convertì all’anglicanesimo e naturalizzò, ebbe incarichi presso diplomatici.
E’ quasi certo che venne agganciato dalla diplomazia segreta di Cavour; da vecchio si vantò, a nostro giudizio poco credibilmente, di avere scongiurato lui che l’Inghilterra nel ’60 impedisse a Garibaldi di passare lo stretto e invadere la Calabria e tutto il Napoletano. Dopo l’unità tornò in Italia, fu candidato governativo alla Camera, si riconverti al cattolicesimo e venne fatto senatore.
Acquistò la tenuta di Leucaspide, la restaurò e vi si stabilì. Grandi e piccoli personaggi passavano dalla masseria, la quale divenne un nodo significativo di quei legami post-risorgimentali fra la buona società inglese e il turismo in Italia, di cui il viaggio della Ross fu una manifestazione.
In questo filone si inserisce anche, nel libro, l’incontro a Lecce con il Castromediano e la scoperta che questi era stato assistito in Inghilterra, quando evase dalla nave che lo deportava in America, dalla nonna della Ross. (Il racconto di galera che gli mette in bocca non è però originale: è una parafrasi dell’articolo Da Procida a Montefusco, che il Castromediano stampò nella strenna « Lecce 1881 » dell’editore Giuseppe Spacciante).
Il libro riporta molte annotazioni etniche e demografiche, sull’abbigliamento, su usi e costumi dei pugliesi, sulle fiere e i pellegrinaggi, le superstizioni soprattutto, i riti pasquali, le danze e i canti, ecc. Parla della pizzica pizzica facendo delle descrizioni puntuali ma anche coinvolgenti, nel puro spirito romantico da cui questa viaggiatrice era sostenuta”[8].
Janet Ross è una studiosa davvero attenta. Il contributo demo etno antropologico del suo libro è rilevante, perché ella, nella nostra Terra d’Otranto, annota tutto, fiabe, racconti popolari, superstizioni, riti magici, riporta tre canzoni, “Riccio Riccio”, “Larilà” e “La Gallipolina”, e poi si sofferma sul fenomeno del tarantismo, distinguendo fra “tarantismo secco ” e “tarantismo umido”, sottolineando per il primo l’importanza della presenza dei colori e per il secondo l’importanza dell’acqua nel cerimoniale.
Molto belle e coinvolgenti le descrizioni del ballo della pizzica pizzica che fa alla masseria Leucaspide con i lavoranti di Sir Lacaita. Una personalità davvero interessante, insomma. La Ross, corrispondente del Times, grande viaggiatrice, nel 1867, insieme al marito Henry Ross, un ricco banchiere, si stabilì in Toscana, dove continuò la sua carriera di scrittrice.
In Puglia, ella trova un mondo che non pensava potesse esistere, e se ne innamora. Ecco perché riesce a rendere con tanta efficacia usi e costumi della gente dell’antica Terra d’Otranto.
  [1] Vasta la letteratura su Horarce Walpole, 1717-1797, e sulla sua opera “Il castello di Otranto”, primo romanzo gotico della storia.
[2] Pubblicata in Italia col titolo “Viaggio nel regno delle due Sicilie”, a cura di Edith Clay, traduzione di Elena Lante Rospigliosi, Roma, De Luca Editore, 1966, e poi anche in Crauford Tait Ramage, Vagando in cerca dei suoi antichi resti e delle moderne superstizioni, contenuto in Angela Cecere, “Viaggiatori inglesi in Puglia nel Settecento”, Fasano, Schena, 1989, pp. 37 e segg., e successivamente in Angela Cecere, La Puglia nei diari di viaggio di H. Swinburne, Crauford Tait Ramage, Norman Douglas, contenuto in “Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bari”, Terza serie, 1989 -90/X, Fasano, 1993, p. 63.
  [3] Carlo Stasi, Uno straniero dal nome strano ed un contadino dall’aspetto sveglio, in “Annu novu Salve vecchiu”, n.9 , Edizioni Vantaggio, Galatina, Editrice Salentina, 1995, pp.72-76.
[4] Johann Hermann von Riedesel ,“Un viaggiatore tedesco in Puglia nella seconda metà del sec. XVIII. Lettere di J.H.Riedesel a J.J.Winckelmann”, Prefazione e note di Luigi Correra, Martina Franca, Editrice Apulia, 1913, poi ristampata in Tommaso Pedio, “Nella Puglia del 700 (Lettera a J.J. Winckelmann)”, Cavallino, Capone, 1979
[5] Enzo Panareo, Viaggiatori in Salento, in “Rassegna trimestrale della Banca agricola popolare di Matino e Lecce”, a.V, n.2, Matino, giugno 1979, p.54.
[6] Janet Ross, “La terra di Manfredi”, Vecchi Editore, 1899.
[7] “La Puglia nell’800 (La terra di Manfredi)”, a cura di Vittorio Zacchino, Cavallino, Capone Editore, 1978.
[8] Nicola De Donno, “La Puglia nell’800 (La terra di Manfredi)”, in “Sallentum”, Anno I, n.1, sett.-dic. 1978, Galatina, Editrice Salentina, 1978, p.138.
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ruperto-o · 5 years
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WILAR. Parte tre. Abbandoniamo la Mistica.
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Quello che abbiamo visto nel post precedente è la mistica, l'ideale. L'astrazione. L'idea fatta di materia platonica e anche di un minimo di retorica della ricerca. All'estremo opposto, c'è la realtà. La vera ricerca. Fare il ricercatore/il filosofo/lo scienziato/l'archeologo/il biologo significa affrontare una lunga trafila - simile a quella di un attore, o un musicista - fatta di corsi, audizioni, prove, scuole, tentativi, aggiornamenti, contatti, ribalte, entrature, finanziamenti. Sempre giostrandosi tra paternalismi, scuolacurriculismo, pregiudizi (scientifici e umani), competizione, sgambetti, condizionamenti, raccomandazioni, lobbying, invidie, doppiopesismi, critiche, commenti, etc. La cosa veramente affascinante è come da questo marasmaANTIscientifico, si riesca ancora a trovare tempo per fare scienza. Ieri abbiamo esemplificato una visione statica, perfetta, ideale della scienza. Perchè per questo essa si vende, questo è il lato che ama mostrare a tutti. Ma la scienza non è solo questo. La realtà è che tutto quelle che leggiamo in un libro, che quasi diamo per scontato, è stato oggetto di ignoranza, scherno, diatriba, colpi bassi, furti intellettuali, e tutte quelle manifestazioni che costituiscono il peggio del repertorio dell'umanità. Molte buone idee sono state oggetto di oscurantesimo e settarismo nel corso della storia anche recentissima. E sicuramente anche oggi, in qualche cassettogiace una buona idea, una visione del mondo, della scienza che non giunge fino a noi per scherno, ignoranza, incomprensione o magari anche solo per eccesso di conformismo. Il caso storico più eclatante è quello di Galileo convocato a giudizio dal cardinale Roberto Bellarmino per aver messo nero su bianco (nel noto Dialogo sui due Massimi Sistemi) che il sistema Tolemaico con la sua teoria Geocentrica non fosse esplicativo del moto dei corpi celesti tanto quanto il modello di Keplero. Una inezia filosofica, onestamente. Diatribe intellettuali. Fine schermaglie tra dottori in filosofia e fisica. Forse, ma non dal punto di vista di Galileo. Qualche decennio prima, lo stesso tribunale, e il medesimo Bellarmino, avevano condannato al rogo un certo Giordano Bruno. Galileo subì due processi, e nel secondo fu chiamato, anzi gli fu intimato di presentarsi altrimenti ne sarebbe stato "trascinato coi ceppi alle mani". Galileo sapeva che in quella diatriba non c'era in ballo solo una questione astratta. Da una parte si giocava anche la sua credibilità di uomo dotto, la sua carriera diremmo oggi, dall'altra la sua vita: il rischio di una condanna a morte. Schermaglie filosofiche, che potevano costare la vita. Saltando oltre, che dire del sistema arabo per contare? Quello che impariamo alle elementari per fare le somme e sottrazioni coi riporti. Roba da bambini...penserete. Questo sistema sostituì quello dell'abaco, il metodo inventato dai romani, ma secoli dopo, perchè considerato troppo complesso e strano. Richiese lungo tempo per essere completamente assorbito. L'infinito? Che c'è di più semplice di quello: un gioco da bambini. Come facevamo da piccoli per schernirci? "Scemo, scemo mille volte più di te". "Specchio riflesso". "Specchio riflesso più uno " "no, più due" "no, più infinito". "no, infinito, più uno". Ecco su questo punto, "sull'infinito più uno", il matematico Cantor ci si spaccò la testa alla fine dell'800. Dopo migliaia di anni di storia della matematica stupì i contemporanei dimostrando che gli infiniti non erano tutti uguali tra loro. Esistono infiniti che sono più infiniti di altri. Banale? Non tanto. Galileo, che non era uno stupido, ad esempio pensava che "tutti i pari" fossero menodi "tutti gli interi". Essendo i pari, per dirla in modo in modo brutale, "un intero sì ed uno no" sembra logico pensarlo. Non solo Cantor dimostrò che i pari erano tanti quanti gli interi, ma mostrò anche - in modo rigoroso e ineccepibile - che i numeri Reali erano molto più numerosi degli interi stessi, in un modo incommensurabile (inconfrontabile: oggi si dice Non-Numerabile) usando il noto argomento diagonale , da lui stesso inventato. Dimostrò che i Reali (tutti i numeri rappresentabili in notazione decimale) erano più dei razionali (le frazioni) che a loro volta erano tanti quanti gli interi (1,2,3...) . Per la prima volta nella storia Cantor aveva dimostrato che si poteva creare una gerarchia di infiniti. Dire "infinito più uno", non era più una banalità da bambini. Questo generò perplessità, qualche confusione, discussioni, e accuse a non finire. Leopold Kroneker giudicò le idee di Cantor (sbagliandosi) assolutamente prive di senso. Cantor che soffriva di depressioni si sentì un perseguitato. Morì schizofrenico in un'ospedale psichiatrico. Questo è quel che succede ad avere l'hobby di contare come Dio? Può essere. Le sue dimostrazioni, tuttavia rappresentano uno dei vertici del pensiero umano dal punto di vista epistemologico e matematico per potenza, metodica, e novità. (Vedi anche qui). Saltando indietro di quasi 20 secoli, Archimede inventò un metodo per calcolare per approssimazione il pigreco che non fu ben recepito da tutti, anzi fu visto come una violazione dello spirito geometrico della matematica Platonico-Pitagorica. Archimede, per la verità, non si turbò, e prosegui con i suoi studi sulle coniche, le leve, le spirali, e il concetto di continuo (oggi noto anche come principio di archimedeicità ). Morì quando Siracusa fu conquistata dai Romani nel 212 a.c. Fu trafitto dalla daga di un soldato romano. La tradizione di allora ci dice che in quel momento stava pensando alle matematiche sue. La scienza è una cosa viva e tutt'altro che certa. E' un corpus, espressione e frutto per lo più di un insieme di opinioni di pochi individui. Un insieme di opinioni condivise da una comunità di cultori, considerati dalla società autorevoli, che di solito chiamiamo scienziati o ricercatori. Quindi la scienza de facto è "un pregiudizio". Un giudizio impreciso, ipotizzato, e solo intersoggetivamente convalidato. In pratica, un giudizio considerato vero, perchè tutti dicono che è vero. Finchè qualcuno non dice che è falso, e tutti si convincono - forse - che è falso. In sostanza, la scienza è un dogma irrazionale non oggettivamente confermabile, tenuto in gran conto solo perchè regala molte applicazioni pratiche. In fondo, anche la scienza è una religione. D'altro canto, chi oggi si azzarderebbe a dire che è il Sole che gira attorno alla Terra, centro dell'Universo. Solo 400 anni fa, dire il contrario maturava una bella condanna per eresia. E non per pura crudeltà o miopia. Il Bellarmino giustificò la condanna di Galielo su criteri di assennatezza, per l'allora. Argomentò basandosi sull'opinione sensata, autorevole, comune, confermata da mille anni di studi, e dall'Aristotele (un mostro sacro della scienza), dal Tolomeo (altro mostro sacro), e dall'opinione corrente dei più autorevoli uomini e dottori, e dalla autorità stessa della Chiesa e dei suoi studi, che ripetevano in sostanza, per varie ragioni e prove, che fosse la Terra ad essere al centro dell'Universo. Insomma, Galielo sembrava un'azzardato, forse anche uno stravagante, dal LORO punto di vista. D'altro canto la Chiesa era anche un autorevolissimo ente internazionale in materia astronomica. Papa Gregorio, solo qualche decennio prima aveva riformato il calendario, introducendo un nuovo sistema, e correggendo i 17 giorni di scarto introdotti in 20 secoli dagli errori del calendario Giuliano, il calendario deciso da Giulio Cesare. Tutti adottarono la riforma, tranne i paesi di religione Ortodossa, per motivi di contrasto religioso. La Chiesa era considerata un ente autorevole in Astronomia oltre che sul piano politico internazionale, e non rinunciava certo a dire la sua in materia, anche a costo di usare le cattive, per avvalorare la stravagante opinione di uno scienziato, per quanto ben espressa. Il Cardinale Bellarmino difendeva una opinione autorevole, dunque, dalle dissertazioni di uno "scavezzacollo". Secondo la sua opinione, naturalmente. Se oggi qualcuno venisse a dirvi che la Luna è di formaggio, perchè l'ha vista al telescopio, che pensereste voi? Pazzo col botto. Perchè siete normali e assennati. Bellarmino era un normale e assenato esponente delle opinioni comuni della "scienza" di allora. Il telescopio non poteva contraddire quasi 2000 anni di pensiero. Non aveva semplicemente senso, affermarlo, a quel tempo. Galielo andò contro il senso comune parlando di METODO SPERIMENTALE. Ovvero propose, e quasi pretese, di imporre l'allora astruso concetto che non fosse la teoria, la bellezza del concetto astratto e platonico, dei rapporti tra le parti, delle forme (un concetto non scomparso, vedi post prec.) a spiegare la realtàdivina e accidentale. Secondo Galileo, era la realtà, il dato sperimentale del mondo accidentale e imperfetto a dover spiegare COME fosse fatto l'Universo divino, e non il viceversa. Ovviamente, i contemporanei qualificati sorrisero all'idea. La creazione massima della mente divina, l'Universo, spiegata dall'imperfezione accidentale quotidiana? Ma dai.. siamo seri. Insomma. Cercate di capire. Non aveva senso per i dotti contemporanei, normali e assennati, pensare che l'Universo si spiegasse con le cose umane. Si doveva partire dai concetti perfetti: il cerchio, le sfere, le curve, le rette, i soldi platonici. Da quello si poteva, si doveva, poi arrivare a spiegare fino all'ultima oncia del creato accidentale e terreno. Una cosa maggiore si può fare minore. Non viceversa. Il generale arriva al particolare. Non viceversa. Insomma, non era semplice per il Bellarmino, in tutta onestà, capire Galileo. Anche per motivi di prudenza. E gli intimò, alla fine, di smetterla di profferire eresie. Insomma si adegui , non turbi il senso comune, gli dice. O ne patirà gravi conseguenze. Non è sempre facile la vita di chi si sforza di fare ricerca. E non pensate sia tanto diverso oggi. Tuttora esiste un conformismo scientifico, e ambientale, che fa in modo che qualsiasi idea che si allontani dalla norma della comunità, possa venire bloccata (non finanziata), che qualsiasi atteggiamento non conforme possa non venire concretamente avvalorato (non trova quell'humus di laboratori, ricerca, e pubblicazioni su cui attecchire). Una forma di censura e una "richiesta di abiura" più sottile e molto più subdola di quella del Bellarmino, che almeno era palese. Oggi la questione è più impalbabile, ma non meno deleteria. Insomma, nihil novi sub sole. Parte quarta: Il metodo sperimentale secondo Feynman
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carmenvicinanza · 3 years
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Nancy Cunard
https://www.unadonnalgiorno.it/nancy-cunard/
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Amo la pace, la campagna, la Spagna repubblicana e l’Italia antifascista, i neri e la loro cultura afroamericana, tutta l’America Latina che conosco, la musica, la pittura, la poesia e il giornalismo. Ho sempre vissuto in Francia da quando mi è stato possibile, nel 1920. Odio il fascismo, lo snobismo e tutto quello che gli sta attorno.
Nancy Cunard poeta e militante antirazzista e antifascista, è stata una importante figura della poesia europea e ispiratrice di innumerevoli grandi artisti e letterati. È stata editrice, giornalista, inviata di guerra e traduttrice per la resistenza. Una storia incredibile la sua, fatta di coraggio e determinazione tali da travalicare ogni barriera culturale, sociale e morale del suo tempo.Nacque il 10 marzo 1896 in una famiglia della ricca borghesia e aristocrazia inglese. Il suo bisnonno Samuel aveva fondato l’omonima compagnia di navigazione di cui il transatlantico Titanic fece parte. I suoi genitori, ricchi e viziati, erano amanti della bella vita e del dolce far niente.
Trascorse l’infanzia nel castello di famiglia in campagna, tra l’ipocrisia e la superficialità dell’alta aristocrazia inglese della fine del diciannovesimo secolo. Un mondo che cominciò a detestare molto presto e che ne determinò il suo anticonformismo morale, sessuale e politico.
A quattordici anni, quando i genitori si separarono, si trasferì con la madre a Londra, frequentò vari college tra Francia e Germania.
Al suo debutto in società, come si conveniva tra le ragazze del suo rango, fu l’erede al trono, il principe di Galles, a farle da cavaliere. Sembrava, insomma, proiettata a un destino regale mentre scelse tutt’altra vita, assecondando le sue passioni e pulsioni.
Frequentò artisti, musicisti e intellettuali come Ezra Pound, Aldous Huxley e Leonard e Virginia Woolf, che come lei volevano mettere in discussione e decostruire le soffocanti tradizioni dell’epoca vittoriana, il puritanesimo anglosassone e l’impero colonialista. Fumava, beveva, vestiva in maniera eccentrica e destava scandalo con i suoi numerosi amori omo e eterosessuali.
Nel 1916 sposò un famoso giocatore di cricket da cui divorziò dopo un paio di anni.
Negli anni ’20 si trasferì in Francia, dove iniziò a scrivere e a pubblicare poesie frequentando esponenti delle avanguardie artistiche del surrealismo e dadaismo. Iniziò una importante storia d’amore col poeta Louis Aragon.
Nel 1927 si trasferì in Normandia dove fondò la sua casa editrice, The Hours Press, dedicata principalmente alla poesia contemporanea, artisti come Man Ray e Yves Tangui realizzarono le copertine dei libri. Per prima ha pubblicato Samuel Beckett.
Nel 1930 ha partecipato alla diffusione del film surrealista L’Âge d’or di Luis Buñuel, che venne fortemente ostacolato e censurato e di cui lei organizzò con ostinazione anche una proiezione a Londra.
In quel periodo iniziò anche a dare vita alla sua collezione di arte non occidentale; restano celebri i numerosi bracciali africani in avorio, presenze quasi immancabili nelle fotografie che la raffigurano.
Alla Biennale di Venezia nel 1928 conobbe e si innamorò di un musicista jazz afroamericano, Henry Crowder. Questo incontro la avvicinò alle condizioni dei neri americani e subì di riflesso le discriminazioni rivolte nei confronti del suo compagno. La loro storia fece scandalo provocando insulti e illazioni violente che evidenziavano il razzismo sistemico della società. Fu in quella circostanza che nacque l’impegno politico che la accompagnò per tutta la sua vita e che la portò a concepire e pubblicare la sua opera centrale. Divenne un’attivista politica antirazzista e si interessò alle questioni riguardanti i diritti civili negli Stati Uniti.Nel 1931 scrisse alla madre un testo durissimo, che venne successivamente pubblicato con il titolo Black Man and White Ladyship che era un tenace attacco al razzismo. Seguì Negro: An Anthology, del 1934, un volume  in sette sezioni (800 pagine, 400 illustrazioni, 150 contributi), una vera e propria enciclopedia sociale, politica e culturale della “negritudine” nel mondo a favore della diversità culturale e del diritto all’autodeterminazione di ogni individuo.Negro Anthology è un’opera di importanza epocale, per la prima volta nella storia della lotta al razzismo, si diede diritto di parola e replica alle stesse vittime di discriminazione: le persone nere. L’opera rappresentò un’azione culturale militante,  raccontava, con approccio documentaristico, la lunga e ricca storia culturale e sociale delle persone nere d’America, Africa e Europa, per mostrare e dimostrare che il pregiudizio razziale non poggia su alcuna giustificazione.
Riuscì a mettere insieme 150 autrici e autori neri, bianchi, più o meno politicamente impegnati, sportivi, giornalisti, antropologi, storici, scrittori, poeti, musicisti, cantanti, universitari e militanti e il risultato fu un’opera densissima.
Un capitolo intero venne dedicato al processo dei Scottsboro boys del 1931, in cui 9 giovani di colore in Alabama vennero ingiustamente accusati di stupro; un processo emblematico che provocò mobilitazioni su scala internazionale a cui Nancy Cunard prese parte attiva.
Negro Anthology era un’opera scomoda e incredibilmente coraggiosa che fu oggetto di pesanti minacce e pressioni che ne limitarono la diffusione. Le copie stampate, infatti, furono pochissime.
Partecipare alla lotta contro razzismo e nazifascismo fu per lei un dovere improrogabile fin da quando aveva messo la sua penna al servizio dell’impegno politico. Fu in Spagna come giornalista inviata per il Manchester Guardian, scrivendo bellissimi reportage sull’esodo repubblicano e sui terribili campi di concentramento che accolsero gli esuli spagnoli nella Francia del Fronte popolare. Portò sostegno ai profughi anche a guerra terminata. Per la sua partecipazione attiva alla causa anti franchista venne accusata di attività cospiratrici e arrestata.
Nel 1937 Left Review pubblicò Authors Take Sides on the Spanish War, un resoconto sul rapporto tra gli scrittori europei e la guerra in Spagna.
Durante la Seconda guerra mondiale, da Londra, lavorò come traduttrice per conto della Resistenza francese, si prodigò talmente tanto per la causa da arrivare a un vero e proprio logoramento fisico e psichico, praticamente, si consumò. Franco e il fascismo divennero una vera e propria ossessione che le arrecò crisi depressive e problemi mentali che la portarono ad avere comportamenti autodistruttivi. Dopo la guerra, indebolita nel corpo e nello spirito e attanagliata da difficoltà economiche e dai troppi abusi, visse anni difficilissimi.
Dopo uno scontro con la polizia londinese venne anche ricoverata in manicomio, la sua salute peggiorava sempre di più, arrivò a pesare 27 chili.
È morta in completa solitudine all’Hôpital Cochin il 17 marzo 1965.
Nancy Cunard, da una condizione di assoluto privilegio ha avuto il coraggio e l’ostinazione di trasformare la propria vita in un inno alla libertà, alla ribellione, alla lotta contro le ingiustizie e contro la stupidità umana.È stata un’icona e un punto di riferimento per intere generazioni. Ha ispirato Ernest Hemingway che ne fece una delle eroine di
Fiesta, Aldous Huxley la raccontò in Punto contro punto, Eveliyn Waugh in Resa incondizionata. In Aspettando Godot di Samuel Beckett il suo nome risuona sei volte, è presente nei Cantos di Ezra Pound, così come nella prima versione della Terra desolata di T.S. Eliot. Louis Aragon le è debitore di due libri, Blanche ou l’oubli e Le Con d’Irène, Tristan Tzara di una commedia, Mouchoir de nuage, Pablo Neruda di una raccolta poetica, Waltz. Il primo bestseller da un milione di copie dell’epoca, The Green Hat di Michael Arlen, l’ha vista protagonista. È stata scolpita da Constantin Brancusi, fotografata da Man Ray e Cecil Beaton, dipinta da Oskar Kokoschka e disegnata da Wyndam Lewis.
Al cinema, nel 1929, è stata interpretata da Greta Garbo nel film Destino che, come recitava la prima didascalia che accompagnava le immagini mute, era la storia di una donna coraggiosa e forse insensata.Nancy Cunard ha segnato un’epoca, libera e folle, appassionata e intelligentissima, il suo stile originale travalica mode e epoche. È una donna che la storia dovrebbe ricordare con molto più entusiasmo e rispetto.
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somarolove · 3 years
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“Si scrive la storia, ma la si è sempre scritta dal punto di vista dei sedentari, e in nome di un apparato unitario di Stato, almeno possibile anche quando si parlava di nomadi. Ciò che manca è una nomadologia, il contrario di una storia.”
                                                     G.Delueze e F. Guattari, 1980, Mille Piani, p.59
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Domenica scorsa ho effettuato gli ultimi collaudi. Intorno alle 3 del pomeriggio la luce era perfetta. Le traiettorie lontane del sole creavano quei tipici giochi di ombre che si possono catturare solo in questo periodo dell’anno. Forse il Nokia 800 tough non è lo strumento ideale per un loro studio accurato. Il monitor è poco luminoso e, in certe condizioni di luce, la composizione può solo essere immaginata. Nonostante ciò, le linee sbagliate della foto qui sopra mi hanno offerto degli spunti interessanti per la riflessione. Lo scatto infatti ha seguito un solo taglio, dimenticandosi di tutto il resto. C’è un’impercettibile diagonale che dà stabilità a un chiaroscuro su cui sembra proiettarsi la bicicletta, come risvegliandola e rendendola pronta per il prossimo sforzo. Questa linea che fa emergere Angela, simultaneamente, annulla le potenzialità paesaggistiche, le distorce ed appiattisce fino a renderle impotenti o sconclusionate. Vorrei allora partire dall’errore che sostiene questo scatto per sviluppare un’idea di anti-estetica su cui fondare il viaggio ormai prossimo.
Trascorrere molte ore in sella ad una bicicletta rappresenta la possibilità culmine di un sapere non misurabile centrato sul muoversi. Come scrive Ingold: “Colui che cammina acquisisce la conoscenza nell’avanzare. Mentre procede per la propria strada, la sua vita scorre: invecchia e diventa più saggio.” Dedicarsi solo al cammino per lunghe ore della giornata dà quindi la possibiiltà di entrare nella coscienza di questo movimento incessante. Ma il percorso è scandito anche da solidificazioni e da identità in cui si rischia di appiattire la coscienza sul suolo calpestato perdendo la profondità di campo esattamente come descritto nella foto di sopra. La base dello sforzo conoscitivo del camminare riguarda invece il riconoscere, passo dopo passo, come gli errori si agrappano alle linee tracciate e scovare di lì quelle linee prospetticamente sbagliate insieme a quelle che producono una coerenza solo relativa. Nella mia parziale esperienza ho trovato due regole per riuscire a farlo. La prima è che nello scorrere, non deve esserci ambizione ma semplice svolgersi. La seconda è che non c’è crescita, per esempio spirituale, ma solo coscienza del movimento. In questo senso il viaggio in bicicletta sarà una nomadologia e non una storia. Tenendo ferme  queste considerazioni vorrei allora proporre alcuni pensieri aggiuntivi sulla nozione di invecchiamento o di conoscenza che si accumula avanzando.
Sviluppare qualche idea su questo tema mi sembra quasi necessario visto che nei mondi prodotti dalla pandemia si stanno palesando divergenze generazionali che frammentano il corpo sociale dentro percorsi di isolamento segmentari che, fino a poco tempo fa, erano soprattutto taciuti o non così evidenti. Cosa voglia dire prendere le distanze dai “vecchi” mi pare invece un tema perfetto per una nomadologia che si nutre della produzione del desiderio. Nel corso degli anni ho osservato l’invecchiamento come un fenomeno tanto biologico quanto sociologico ed ho poi reso “l’anziano” la base metodologica dei miei tentativi etnografici di diverse parti del mondo. Da ventenne ero solito interrogare gli anziani sulle origini e sul cambiamento. Chiedevo loro di raccontarmi storie fondative dei luoghi in cui mi trovavo e attraverso le loro parole raccoglievo le memorie di epoche passate per costruire griglie interpretative del presente. Mettevo assieme racconti orali che mischiavano miti e nostalgia, eventi storicizzabili e testimonianze e li usavo per descrivere e spiegare certe concezioni sull’attulità socio-politica, tanto “della nazione” quanto “del quartiere o della città”. I miei personali percorsi di comprensione di luoghi cosiddetti “senza storia” o raccontati solo oralmente come alcuni villaggi chiapanechi o una cittadina nepalese o una favela colombiana si fondavano soprattutto sul “racconto degli ancestri” e sul loro accompagnamento quotidiano.
Successivamente, questo sforzo è mutato. Durante una fase più breve ma ugualmente importante, mi sono concentrato sulla raccolta delle storie dell’attualità, studiando “l’infosfera” che prendeva forma con il progressivo affermarsi delle reti sociali e della loro influenza sulle soggettività, in luoghi costruiti sui bordi dei grandi processi della storia e delle macro-narrazioni sul mondo. In Colombia, ho per esempio seguito la nascita di alcuni movimenti di opinione contro la corruzione e per la pace su twitter e facebook partecipando poi agli eventi sulle strade che venivano organizzati. In questi casi fu facile osservare la divergenza generazionale e di classe sia delle forme di partecipazione sia di quelle di lotta. La digitilizzazione delle proteste aveva però anche reso lontane le voci ancestrali. Il loro racconto era improvvisamente invecchiato, ottimo per venire raccolto dentro un libro di antropologia culturale, letto forse da una nicchia ristretta di intellettuali, ma pur sempre archivio di un mondo ormai troppo marginale, destinato a mutarsi radicalmente nello scorrere dei tempi. Rispetto al primo momento di analisi si palesò quindi un contrasto marcato tra la modernità digitale e il romanticismo nostalgico dei piedi e della parola a voce (per citare indirettamente Lowy di “Rivolta e Malinconia”). L’inattualità del “racconto degli ancestri” trovava uno svolgersi solo dentro la più generale richiesta di riconoscimento etnico. Qui quel racconto veniva culturalizzato e reso quasi folclorico così da farne fonte utile del diritto etnico che istituzionalizzava le lotte per le terre o per la casa. Il cimarronaje, il movimento delle autonomie africane, diventava quindi un ricordo del passato. Il sogno di una rottura radicale con il colonialismo e con lo schiavismo veniva ricomposto. Le sue forme di lotta, le cosidette “vie di fatto” come l’occupazione di terre o i blocchi stradali, erano ormai chiamate “vecchia scuola”, storia passata che doveva fare spazio alle nuove lotte digitalizzabili da dirigere ad un pubblico più ampio e soprattutto più giovane. 
Prendendo spunto da questa anzianità delle forme di lotta, in ultimo ho osservato proprio l'invecchiamento delle idee, come se posizioni politiche e forme di militanza possedessero un loro svolgersi biologico che va via via modificandosi non tanto per la mutazione dei contesti o delle ragioni delle lotte, ma perchè a cambiare sono le persone stesse che “invecchiando” ripensano e reinterpetano contesti e ragioni, producendo cammini meno includenti: di imborghesimento per alcuni o di ricerca di stabilità e di coerenza per altri. Per qualche tempo, sempre in Colombia, seguii le gesta di un leader popolare del movimento afro, da giovane vicino ai cosidetti raizales, tra i più radicali e per certi versi anarchici tra gli attivisti afro-colombiani. La sua personale storia politica era articolata intorno a relazioni di amore ed odio con la guerriglia che più aveva inteso la questione etnica nel pacifico colombiano, l’ELN. Le sue lotte giovanili e le sue occupazioni di terre contro i padroni bianchi lo avevano reso comunque molto popolare tanto da permettergli poi, in età adulta, di diventare un personaggio richiesto anche dalle ammnistrazioni pubbliche nazionali per veicolare progetti di pace dove un tempo conquistava terre ottenendone diritti di proprietà comunitari. La sua burocratizzazione gli aveva però fatto perdere seguito in un percorso condiviso con molti altri leader che una volta al potere assumevano una prospettiva governativa diventando “riformisti” ma rendendo le loro parole improvvisamente vuote, per dirla con Lacan, alle orecchie dei più giovani o della base. C’era quindi un nuovo piano conflittuale che interesecava le generazioni e che non riguardava più le forme delle lotte ma le modalità della rappresentanza. Ciò riguardava soprattutto la solidificazione di percorsi identitari che risultarono utili a monetizzare e a sostenersi economicamente ma che alla lunga produssero fenomeni di appiattimento su linee prospettiche troppo relative, proprio come quella della foto, producendo impotenza invece che un migliore dispiegamento delle forze in campo.
Da quando vivo in Laos, dove per le strade e tra le case sventolano con grande dignità le bandiere comuniste, ho aggiunto un altro piccolo tassello alla comprensione della vita biologica delle idee. Cosa significano infatti la falce e il martello oggi? Il comunismo laotiano è un capitalismo di Stato misto alle spinte locali a trazione familistica. Non sembra produrre alcuna visione alternativa del mondo, ma articola un’organizzazione delle forze e delle risorse che aspira, secondo i suoi detrattori, a predare le ricchezze del paese mentre, per i suoi sostenitori, a creare crescita economica. Da un punto di vista più prettamente antropologico però, le generazioni nate in epoca di pace vivono dentro un generale oblio del passato rivoluzionario del loro paese. Una delle ragioni è che questo passato non fu di festa e liberazione, ma riguarda anni di traumi prolungati spesso vissuti dentro caverne usate per proteggersi dai bombardamenti. Oggi capita che molti vocaboli associabili al periodo guerrigliero siano entrati dentro un gergo militare che ai più giovani ricorda rapporti di potere invece che la liberazione coloniale. In parte ciò è dovuto proprio alla mancanza del “racconto degli ancestri” molti dei quali sono deceduti durante la guerra o pochi anni dopo, durante la carestia che ne seguì. Oggi a sostituirlo, ci pensano gli apparati connettivi digitali. Esiste cioè una vuoto pedagogico nel quotidiano solo parzialmente e, a volte goffamente, riempito dalla propaganda del Partito. In estrema sintesi, le nuove generazioni sono affidate ad istituti educativi, agli smartphone e sempre meno ai loro nonni. Tutto ciò si è innestato sui processi di modernizzazione che come in altri luoghi del mondo hanno prodotto un senso di rapido cambiamento sostenuto non tanto da un generale accrescimento del benessere ma dall’esperienza di paesaggi che mutano nel corso di pochi anni. Ecco mi piacerebbe raccontare questa velocità dei paesaggi nel viaggio che inizierà presto. 
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giancarlonicoli · 3 years
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22 nov 2020 18:30
INTELLETTUALI E TERRORISMO – GALLI DELLA LOGGIA: ‘’COME GIÀ ACCADDE DOPO LA FINE DEL FASCISMO, ANCHE QUESTA VOLTA È STATA RIMOSSA UNA FASE CRUCIALE DELLA STORIA DEL PAESE: LA COLLUSIONE DELLE ÉLITE INTELLETTUALI CON BRIGATE ROSSE, LOTTA CONTINUA, POTERE OPERAIO – E VITTORIO FELTRI RICORDA L’IGNOBILE MANIFESTO FIRMATO DA 800 INTELLETTUALI PUBBLICATO DALL’ESPRESSO NEL 1971 CONTRO IL COMMISSARIO CALABRESI, “UNA SPECIE DI SENTENZA CAPITALE CHE POI QUALCUNO PROVVIDE AD ESEGUIRE” – FRA I NOMI DEI FIRMATARI SI TROVANO SCALFARI, PAOLO MIELI, BERNARDO VALLI, FURIO COLOMBO, UMBERTO ECO, DACIA MARAINI. OLIVIERO TOSCANI, DARIO FO, INGE FELTRINELLI, ALBERTO MORAVIA, PIER PAOLO PASOLINI E TIZIANO TERZANI…
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QUELLA RIMOZIONE SUI TERRORISTI ROSSI
Ernesto Galli Della Loggia per il “Corriere della Sera”
Che cosa fu il terrorismo italiano? Che cosa accadde davvero nell'Italia negli «anni di piombo»? Sono queste le domande che pone il libro di Mario Calabresi sull'assassinio di Carlo Saronio Quello che non ti dicono con la discussione che ne è nata anche in seguito a un' intervista con Aldo Cazzullo. Domande allora e poi rimaste almeno in certo senso senza risposta.
In verità di terrorismi, come si sa, in quegli anni ce ne furono due, uno nero e uno rosso. Ma del primo - tranne i suoi rapporti in parte tuttora oscuri con apparati deviati dei servizi di sicurezza, ciò che vale anche per l' altro - ormai sappiamo tutto quello quel che importa di sapere.
È vero, su alcuni episodi anche gravissimi come l' attentato alla stazione di Bologna restano dei dubbi soprattutto circa eventuali collegamenti internazionali, ma in generale conosciamo i fatti e i nomi dei responsabili e dei loro referenti. Il terrorismo nero fu opera di gruppi di giovani militanti delle organizzazioni neofasciste e neonaziste e di alcuni loro capi, ma fatto salvo quanto ho detto sopra, dietro di esso socialmente c' era il nulla ed esso non ha lasciato nulla.
Cosa ben diversa fu il terrorismo rosso. Perché dietro il terrorismo rosso ci fu un ambiente. Ci furono infatuazioni intellettuali diffuse, collusioni personali in buon numero, e un frequente voltarsi di molte «persone normali» da un'altra parte per poter dire di non aver visto né sentito. Tutto si svolse come in un crescendo.
Prima degli atti terroristici veri e propri, infatti, e a lungo intrecciata con essi, ci fu una vasta e dura violenza di strada. Auspicata, preparata ed esaltata dai gruppi dirigenti extraparlamentari di Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia, il Movimento studentesco.
La violenza dei cortei con le spranghe, con i caschi e i passamontagna, con le molotov; la violenza del ritornello «basco nero, basco nero, il tuo posto è al cimitero» gridato contro i carabinieri. Rapidamente nei luoghi sociali più inaspettati la legalità sembrò divenuta un optional.
Tutto ciò che appariva contestazione, rottura delle regole, eversione iconoclasta, venne divulgato dai cataloghi delle migliori case editrici, approvato da stuoli d'intellettuali influenti, predicato da cattedre autorevoli. La rivoluzione insomma assurse a fatto di moda, e come si sa una rivoluzione senza almeno un po' di violenza non s' è mai vista.
Fu questo clima che preparò la successiva omertà nei confronti del terrorismo che ci sarebbe stata per tutti gli anni a venire. La quale è stata sì, anche un' omertà generazionale, come ha scritto Giampiero Mughini, ma assai di più, mi pare, è stata un' omertà sociale e culturale.
Un' omertà che ha visto protagonisti specialmente ambienti significativi di borghesia democratica laica e cattolica di alcune città simbolo del nostro Paese - Milano, Roma, Firenze, Torino - , la quale, direttamente o per il tramite dei propri figli, si trovò in varia misura a costeggiare fatti o protagonisti dell'eversione rossa.
E anche a condividerne il retroterra ideologico; talvolta non sapendo né vedere né capire; più spesso, invece, vedendo e capendo benissimo ma restando zitta perché incapace di dirsi contro o perché percorsa dal pericoloso brivido della complicità.
È a causa dell'atteggiamento di questi settori della classe dirigente - incaricata assai spesso di importanti ruoli di direzione culturale e intellettuale - che ha preso piede un meccanismo di rimozione di questo passato. E così, come già accadde dopo la fine del fascismo, anche questa volta è stata rimossa una fase cruciale della storia del Paese.
È stato rimosso il deposito di suggestioni e di modi di pensare che negli anni 60 e 70 numerose élite intellettuali e molti esponenti di una certa borghesia colta fecero propri sotto l' influenza della sinistra di orientamento marxista.
E insieme è stata rimossa tutta una serie di comportamenti conseguenti, vale a dire i molti casi di una condotta compiacente o benevolmente accomodante, quando non concretamente collusa, con la violenza e con lo stesso terrorismo, con le giustificazioni e gli attori dell' uno e dell' altro.
Ma la rimozione evidentemente non poteva che valere per tutti.
Per chi stava negli studi professionali, nelle aule universitarie o nei salotti, come per chi invece frequentava da militante le strade e le piazze. Nessuna meraviglia dunque se - come si legge nelle parole del figlio del commissario Calabresi che ha rifiutato di stringere la mano ad alcuni di loro incontrati casualmente - nessuna meraviglia, dicevo, se da molto tempo ci troviamo in mezzo a noi capi e sottocapi dei gruppi extraparlamentari i quali a suo tempo si fecero banditori di violenza o in vario modo non si tirarono indietro neppure davanti al terrorismo.
Non solo indisturbati e magari con ruoli importanti in questo o quel settore (di preferenza giornalistico-culturale), ma magari anche pronti a farci lezioni di moralità e di civismo, a spiegarci le regole della democrazia.
Naturalmente senza essere stati mai costretti a ricordare nulla, senza aver mai ammesso nulla, senza aver chiesto mai scusa di nulla. Fiduciosi per l'appunto nella generale rimozione scesa dall'alto sul passato della Repubblica. Un passato che tuttavia chi ha buona memoria e conserva in casa qualche libro e qualche giornale ricorda ancora benissimo.
OGNI TERRORISTA E’ FINITO AL ROTARY
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano”
Mario Calabresi, già direttore de La Stampa e de la Repubblica, recentemente ha dichiarato di non aver stretto la mano a tre signori che in qualche modo avrebbero collaborato a uccidere suo padre, il famoso commissario vittima di un attentato terroristico ordito dai militanti di Lotta Continua negli anni Settanta.
Ha ragione il nostro illustre collega, che delle proprie faccende familiari ne sa più di noi e ha il diritto di discuterne pubblicamente, manifestando sentimenti e perfino rancori. Il mio babbo morì giovane nel letto di un ospedale e non ho motivo di prendermela con alcuno, il destino è insindacabile, mentre gli assassini non possono essere dimenticati, tantomeno perdonati.
Al posto di Calabresi sarei ancora più arrabbiato di lui, e oltre ai tre farabutti a cui giustamente ha rifiutato un saluto tradizionale, ce l'avrei anche con tutti coloro, numerosi, che all'epoca firmarono un documento ostile a suo papà, una specie di sentenza capitale che poi qualcuno provvide ad eseguire.
Si trattava di intellettuali veri o presunti, ovviamente di sinistra spinta, i quali erano persuasi che l'onesto agente fosse responsabile del suicidio di Pinelli, un anarchico sospettato della strage di piazza Fontana, gettatosi, o gettato, dalla finestra della questura. Ovvio che il poliziotto non fosse colpevole, tuttavia a quel tempo le accuse alle forze dell' ordine si dispensavano un tanto al chilo, evitando con cura di dimostrarle.
Cosicché Calabresi passò, complici giornali e giornalisti, per malvivente quando invece aveva la coscienza linda. E dopo un po', sulla spinta delle maldicenze che lo colpirono, fu ammazzato all'uscita di casa. Vabbè, transeat.
Ora conviene rammentare che i firmatari del citato documento contro il commissario dovrebbero vergognarsi, invece continuano a concionare badando bene di non rievocare che sull'omicidio del funzionario pesarono i loro giudizi sommari.
Ciò che va segnalato è il fatto menzionato ieri sul Corriere da Galli della Loggia, e cioè che i mandanti morali del delitto ancora oggi sono sulla cresta dell' onda, gente che ha saltato il fosso transitando dal filoterrorismo al Rotary, che occupa posti importanti nel settore della comunicazione e in quello politico, seguitando a predicare. Naturalmente non faccio nomi, però chi volesse approfondire il tema è in grado di recuperare su Internet il verdetto sottoscritto dalla banda filocomunista per additare al pubblico ludibrio l'eroico uomo dello Stato. Al cui figlio, rispettosamente, consiglio di allargare la cerchia dei brutti ceffi a cui non stringere la mano.
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