Tumgik
#dove comincia la notte
giallofever2 · 2 years
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PUPI AVATI
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susieporta · 3 months
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[Lei s’innamorò come s’ innamorano sempre le donne intelligenti:
come un’ idiota]
La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota. Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La zia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sudamerica e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Gli assenti si sbagliano sempre».
Ángeles Mastretta
[racconto tratto dal libro “Donne dagli occhi grandi”]
*traduzione di Gina Maneri
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aitan · 2 months
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CHARLES MINGUS E ORSON WELLES
CAPODANNO AL FIVE SPOT
Capodanno 1959, seduto in prima fila, proprio sotto il contrabbasso di Mingus c’era Orson Welles, quasi un alter ego del jazzista, per genialità, esuberanza, fierezza, complessità. E anche per le tante disavventure artistiche. Per Mingus era un idolo, lo seguiva dai tempi radiofonici di The war of worlds, adorava Quarto potere (dove in una scena c'era il suo amico d'infanzia Buddy Collette che suonava il sax in una festa sulla spiaggia), ammirava il suo modo di vestire, il suo impegno politico (sempre in prima linea per la difesa dei diritti civili, il suo Macbeth tutto nero è del 1936), la sua voce (“mi ricorda Coleman Hawkins. Potevi sentirla a un miglio di distanza”). E non era il solo jazzista a essere stato sedotto dalla voce radiofonica di Orson Welles, anche Miles Davis lo citava come un’influenza sul suo modo di suonare: “Fraseggio, tono, intonazione: tutte queste cose possono avere come modello un maestro della parola”.
Il 1959 sarà un anno d’oro del jazz per quantità, qualità, creatività. Al Five spot, piccolo, fumoso, maleodorante locale di Bowery, scelto come luogo di riferimento da artisti e intellettuali, l'anno comincia con un formidabile double bill: sono di scena, uno dopo l’altro, Sonny Rollins, alla testa di un trio con il bassista Henry Grimes e con il batterista Pete La Rocca, e Charles Mingus con il pianista Horace Parlan, il batterista Roy Haynes (che sostituisce il fedelissimo Dannie Richmond arrestato) e i sassofonisti Booker Ervin e John Handy. È la prima sera dell’anno, ma nel club di Bowery dei fratelli Joe e Iggy Termini è anche l’ultimo impegno di quel prestigioso, favoloso cartellone con Mingus molto irrequieto per tutta la scrittura. Aveva appena registrato la musica per il film di John Cassavetes Shadows, una colonna sonora bocciata nel rimontaggio finale (la stessa cosa sarebbe successa anni dopo con Todo modo di Petri), aveva ripreso i suoi musicisti brutalmente e una volta aveva minacciato violentemente i clienti di un tavolo che, durante il suo set, non smettevano di parlare. Oltretutto ogni sera tendeva ad allargare il suo set e Sonny si inferociva, talvolta rifiutandosi di suonare. Ma era un gran clima, entusiasmante e effervescente. Rollins era in un momento di transizione, alla vigilia di un ritiro clamoroso per rinnovare il linguaggio del suo sax tenore con il leggendario e solitario corso di aggiornamento stilistico sul ponte di Williamsburg: «In un posto tranquillissimo, un angolo morto che oggi sarebbe impossibile ritrovare con il traffico che c’è» il suo racconto, dove poteva esercitarsi liberamente.
Anche Welles, come Mingus, era reduce da una delusione cinematografica: la Universal gli aveva tolto di mano la post-produzione del nuovo film, L’infernale Quinlan, ne aveva tagliato una ventina di minuti e aveva fatto girare nuove scene, modificando il primo montaggio. Più o meno nello stesso periodo era finito in soffitta un documentario intitolato Viva Italia (Portrait of Gina) perché Gina Lollobrigida aveva messo un veto, non gradendo il suo ritratto di giovane attrice ambiziosa e la Abc tv lo aveva bocciato ritenendolo cosi poco ortodosso da non poter essere trasmesso. Era un film di mezz’ora scarsa sull’Italia, paese che Orson ha frequentato per 20 anni (la terza moglie è stata l’attrice italiana, Paola Mori). Dopo un lungo oblio (Orson aveva perduto l'unica copia esistente all'Hotel Ritz di Parigi) è stato riscoperto nel 1986, proiettato al festival di Venezia ma poi di nuovo bandito su intervento della Lollobrigida.
La presenza del regista di Quarto potere al Five spot non era casuale
Nel club di Bowery si poteva incontrare chiunque, da Jack Kerouac che leggeva le sue poesie, alla mitica baronessa Pannonica de Koenigswater scesa dalla sua Rolls Royce, a William de Kooning che voleva respirare la libertà del jazz, a Leonard Bernstein che si divertiva a curiosare nella notte, allo scrittore Norman Mailer con la sua passione per quella musica. Ma la musica da sempre è stata una grande passione di Welles. La mamma pianista gli aveva fatto prendere lezioni di piano e violino e Orson aveva anche mostrato un certo talento, tanto da essere considerato un ragazzo prodigio. In gioventù era stato un grande sostenitore del jazz di New Orleans, ma sicuramente ammirava Charles Mingus per la sua musica e la sua personalità, il suo impegno, il suo agire tellurico.
(Marco Molendini)
Non potevo non condividerlo.
Due miei ingombranti miti nella stessa foto, nello stesso locale, nello stesso articolo.
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ross-nekochan · 6 months
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È stata una settimana difficile.
Come avevo accennato, i giapponesi me lo hanno messo nel culo e dallo scorso Venerdì ho cominciato un training sui network, che durerà fino a Giovedi prossimo. Più che training, lo definirei "self-training", dato che l'insegnante è teoricamente a disposizione per eventuali domande, ma non insegna niente, per cui se non sai dove e come si inseriscono i cavi LAN, se non sai quali sono i comandi per creare una vlan ecc, arrivederci e buonanotte. Fortunatamente per me, in questo training c'era un mio coinquilino indiano e una cinese già avviata su queste cose con cui avevo già trascorso i due giorni in sede (anche se non abbiamo fatto un cazzo e non è che avessimo parlato tanto, però comunque ci salutavamo e questo è già tanto in questo paese, posso assicurare), per cui da qualche domanda su qualche dubbio random, siamo passati da essere quattro team da 2 persone a un solo team con tutti dentro e questo ha aiutato tutti a capire, a imparare e a riuscire a fare ciò che ci avevano assegnato di fare in relativamente poco tempo.
La mia routine in questi giorni comincia alle 6:00 del mattino. Prendo il treno pieno zeppo di salaryman e ragazzini che vanno a scuola lontanissimo da casa, sperando con tutto il cuore che qualcuno scenda a fanculo per prendere il suo posto a sedere così dormicchio un altro poco, perchè altrimenti sto 1h e passa in piedi e finisco per chiudere gli occhi così dalla stanchezza. Tutto ciò per arrivare in sede intorno alle 8:30 perché in questo paese se cominci alle 09:00 e arrivi puntuale allo stesso orario, sei in ritardo, dato che alle 09:00 devi solo timbrare ed essere già pronto a lavorare immediatamente. La giornata lavorativa finisce alle 18:00 sempre se non hai nessun meeting per eventuali colloqui (che hanno la priorità sui training) fissati alle 17:30 e che possono prolungarsi anche oltre l'orario stabilito. Prendi il treno, con la stessa speranza di riuscire a trovare un posto per dormicchiare e arrivi alla stazione di casa alle 19:00 circa. Poi vado in palestra per finire alle 21:00/21:30. Mentre torno a casa si fanno le 22:00 e passa e fortunatamente ho avuto l'accortezza di prepararmi tutti i pasti nel weekend così ho solo da scaldarli al microonde per mangiare la cena. Tra cena e chiacchiere generali si fanno quasi sempre le 23:00 o mezzanotte. Il giorno dopo di nuovo sveglia alle sei del mattino con solo 6h di sonno addosso, quando io per funzionare ho bisogno di almeno 8h. Tutto questo, se protratto per tutta la settimana, può far capire quanto poco ho dormito in questi giorni e quanto stanca io possa sentirmi (una notte ho dormito solo 5h).
Eppure questa è la normalità giapponese. Ultimamente mi fa molto ridere vedere su IG post italiani sul burnout, sulla settimana lavorativa corta, sulla tossicità del posto di lavoro e vedere i commenti di tutti che, giustamente, si lamentano. Ma vi dovete considerare privilegiati e fortunati per questo. Perché almeno in Italia esiste un dibattito su questi temi e certe cose hanno cominciato ad essere messe in discussione.
Qui no. Qui non si vede nemmeno l'ombra di un dibattito e di una messa in discussione. È così, funziona così, basta, non ci puoi fare niente. Non ci puoi fare niente se non hai una vita oltre il lavoro, se puoi dormire solo 5/6h a notte ed essere talmente stanco da dormire ogni minuto possibile in treno e se sei in bornout senza manco saperlo. Lo fanno tutti e lo fai anche tu: tutti già pronti alle 7 per aspettare il treno, tutti a dormire sia seduti che in piedi, tutti con la faccia da zombie per raggiungere il posto di lavoro lontano anche 40km da casa. E i treni sono piedi zeppi come l'uovo al mattino - per far capire quanto dire "tutti" significhi letteralmente "tutti" (oltre per far capire che culo possa essere trovare un posto a sedere).
E la mentalità del "è così, basta, non ci puoi fare niente" deriva da un concetto culturale e religioso semplicissimo. Tutto il mondo euro-americano non fa che elogiare il buddismo, specie quello zen. Perché mette al centro l'armonia, la calma dell'anima, l'accettazione stoica del momento presente per poter raggiungere la pace interiore. Ebbene, questa mentalità che sembra essere così affascinante, porta il popolo asiatico ad accogliere passivamente pure la merda di vita che fanno. Non si mette in dubbio più niente, devo solo seguire il flusso, subire passivamente quello che mi succede perché è normale così e perché "non ci posso fare niente".
In giapponese esiste l'espressione 仕方がない (letto: shōganai/shikata ga nai) proprio per dire:"non c'è altro modo" e quindi "non ci puoi fare niente", lo devi fare e basta. E lo dicono praticamente sempre, per tutto: durante il training nessuno ti spiega niente e devi fare tutto da solo? E vabbè, shōganai. La tua vita fa schifo perché è solo lavoro e treno? Shōganai. Il capo ti dà task impossibili che ti fanno rimanere in ufficio fino alle 21? Shōganai. Tante compagnie stanno togliendo lo smartworking perché si sono finalmente accorti che l'emergenza covid è finita? Shōganai.
Ma SHŌGANAI UN CAZZO. Vi dovreste incazzare, dovreste urlare dicendo: no, questa cosa non ha letteralmente senso quindi BASTA, non sono d'accordo, io non la faccio, vaffanculo. E invece loro no. Questi accettano passivamente tutto quello che accade nella loro vita ed è per questo motivo che sono una società arretrata di morti ambulanti che vedono la morte fisica come l'unica via di fuga. Perché non sanno vedere oltre. Perché nessuno glielo ha insegnato.
Quanti padri sto vedendo in questi giorni di mattina alle 7 nel treno e la sera alle 22 per strada e penso: questi quando li vedono la moglie e i figli se tornano alle 22 a casa (che in Giappone è come dire le 24 per gli italiani) dopo le cene aziendali dove spesso si ubriacano pure male? Che senso ha? E i ragazzini persino delle elementari e medie che alle 7 già stanno in strada o sui treni per raggiungere la scuola, i genitori che cazzo hanno nel cervello per preoccuparsi più che i figli vadano nella scuola rinomata piuttosto che pensare alla loro salute mentale?
Ma qua la salute mentale è un altro dibattito che semplicemente non esiste. Si fa così, si è sempre fatto così e non ci si fanno domande perché la loro testa è fatta in modo da non riuscire a vedere una via alternativa. E se da una parte ti verrebbe da dire "Madonna però poverini", dall'altra il suggerimento che mi viene da europea è pure "aò scetati perché se stai come na merda la colpa è pure tua che non fai letteralmente un cazzo per cambiare la situazione".
Per cui al merdoso shōganai giapponese, io ribatto con l'intelligenza italiana del "chi è causa del suo mal, pianga se stesso".
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gregor-samsung · 12 days
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" Vengo invitato come relatore a un convegno di tre giorni a Torino, un workshop internazionale con decine di partecipanti. Non conosco nessuno di questi colleghi, ma apprezzo la circostanza di un ambiente del tutto nuovo e di gente mai vista. S. è morto da sei mesi. Al ristorante dell’albergo dove si svolge il convegno i posti non sono assegnati e alla prima pausa per il pranzo mi ritrovo a dividere il tavolo con un relatore olandese, un afroamericano di Miami, una canadese, un belga, una brasiliana e un altro italiano, di Roma. L’imbarazzo iniziale dura poco, ci troviamo a discorrere come se ci conoscessimo da mesi, amici di lunga data. La casualità che ci ha riunito allo stesso tavolo si trasforma all’istante in un legame. Finiamo per trascorrere insieme il resto di questi tre giorni. Il convegno, i pranzi, le cene, le serate fuori a bere nei bar della città. Essere sconosciuto fra sconosciuti è rilassante, l’atmosfera di unità che si è venuta a creare fra noi, destinata a durare una finestra di tempo così limitata, ha qualcosa di magico. Ognuno di noi lo riconosce.
L’ultima notte del convegno faccio un sogno eccezionale. Sono in un enorme luna-park e mi aggiro incuriosito fra le diverse attrazioni. Giungo a una giostra composta da una ruota orizzontale alla quale sono agganciate una serie di seggioline a due posti. Decido di salire e ne occupo una da solo. La giostra si mette in moto e dapprima gira piano, poi acquista velocità e comincia a piacermi parecchio. Anzi, mi dico che era tanto che non salivo su un’attrazione del genere e che avevo dimenticato quanto potessero essere divertenti. La velocità del carosello si fa vertiginosa, ormai non riesco neppure a intravedere i volti degli occupanti degli altri seggiolini, è tutto troppo frenetico e confuso, ma questa folle velocità invece di preoccuparmi mi fa ridere fino alle lacrime. Poi il mio seggiolino si stacca dal resto della giostra e comincia a schizzare verso il cielo. Non provo alcuna paura, al contrario ne sono estasiato. Sto volando incontro al cielo, il vento nei capelli, la terra che si allontana sotto di me, sto compiendo un viaggio imprevedibile ed è una sensazione stupenda. Con un’improvvisa intuizione razionale mi rendo conto che sono felice, felice come non ero da mesi. Ed è a quel punto che accade: sento la voce di S. al mio fianco, che nell’orecchio mi sussurra: “Questa felicità è il mio regalo. Buon compleanno”. Mi risveglio all’istante. È la mattina del 18 aprile: me ne ero dimenticato, ma è il mio compleanno.
Questa felicità è il mio regalo. A oggi è il sogno più bello che abbia mai fatto. "
Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta, Mondadori, 2023¹; pp. 144-145.
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anima-complicata-80 · 23 days
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~La solitudine...~ (Pier Paolo Pasolini)
"Bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori dal comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza e mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;
specie d’inverno; col vento che tira sull’erba bagnata,
e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;
non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere...
Invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire,
specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,
e per te non è mutato niente: allora per un soffio non urli o piangi;
e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo stanchezza,
e forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe dire
che il tuo desiderio di solitudine non potrebbe essere più soddisfatto
e allora cosa ti aspetta, se ciò che non è considerato solitudine
è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?
Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
che valga una camminata senza fine per le strade povere
dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani..."
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musicaintesta · 7 months
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Bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori dal comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza e mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;
specie d’inverno; col vento che tira sull’erba bagnata,
e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;
non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere. Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri
– e anche d’inverno, per le strade abbandonate al vento, tra le distese d’immondizia contro i palazzi lontani,
essi sono molti – non sono che momenti della solitudine;
più caldo e vivo è il corpo gentile
che unge di seme e se ne va,
più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;
è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso,
non il sorriso innocente, o la torbida prepotenza
di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza
enormemente giovane; e in questo è disumano,
perché non lascia tracce, o meglio, lascia solo una traccia
che è sempre la stessa in tutte le stagioni. Un ragazzo ai suoi primi amori
altro non è che la fecondità del mondo.
È il mondo così arriva con lui; appare e scompare,
come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose,
e tu potrai percorrere mezza città, non lo ritroverai più; l’atto è compiuto, la sua ripetizione è un rito. Dunque la solitudine è ancora più grande se una folla intera
attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni –
l’andarsene è fuggire – e il seguente incombe sul presente
come un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia di morte. Invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire,
specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,
e per te non è mutato niente: allora per un soffio non urli o piangi;
e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo stanchezza,
e forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe dire
che il tuo desiderio di solitudine non potrebbe essere più soddisfatto
e allora cosa ti aspetta, se ciò che non è considerato solitudine
è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?
Non c’é cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
che valga una camminata senza fine per le strade povere
dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.
Pierpaolo Pasolini
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arcobalengo · 7 months
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La storia del Comitato Terapie Precoci meriterebbe di essere raccontata in uno di quei grandi film alla Steven Spielberg, dove persone comuni vengono scosse da una consapevolezza improvvisa e qualcosa le spinge a trasformare le loro esistenze, fino a quel momento perfettamente normali, in vite rivoluzionarie. (Altro che il film sull'inventore della bomba atomica). Comincia con i bollettini dei morti, le lugubri conferenze stampa che blindano le persone in casa, le immagini di Bergamo, i camion militari che trasportano le bare di gente morta per una malattia gravissima e sconosciuta. Fin da subito, però, alcuni medici si accorgono dell'assurdità di affrontare una patologia che viene definita mortale con l'attesa, in fondo lo sanno anche i bambini che ogni malattia prima si cura e meglio è. Allora visitano come hanno sempre fatto, provano con dei farmaci di uso comune, ignorano il clima di terrore. Nelle loro teste risuonano i principi a cui hanno prestato giuramento il giorno in cui sono diventati medici. Un avvocato, noto per delle cause calcistiche di rilievo nazionale, si propone di organizzarli, li raccoglie insieme, elabora un meccanismo per smistare le richieste attraverso un gruppo Facebook. Intanto viene formalizzato un protocollo, lo discutono con luminari di tutto il mondo, lo sottopongono a degli studi. L'influenza è più pesante di quelle stagionali, ma la cura funziona, i medici e i volontari ricevono continue conferme di guarigione, anche da persone di 80, 90 anni. Da decine diventano centinaia, da centinia migliaia. Salvare vite fa scorrere l'adrenalina, medici e volontari lavorano di notte, rinunciano al proprio tempo libero. Ma in televisione continua il bollettino dei morti e gli annunci delle istutuzioni, che dovrebbero evitare il panico, sembrano sempre più una strategia di manipolazione psicologica per generare allarme: "rinunciamo all'autunno per salvare il Natale, rinunciamo al Natale per salvare la Pasqua..." I medici vogliono spiegare al ministro che il modo di curare esiste, ma il ministro si rifiuta di incontrarli. Allora il noto avvocato passa alle manifere forti: ricorre al TAR per abolire il protocollo Tachipirina e vigile attesa, il TAR gli dà ragione, ma il consiglio di Stato impugna la sentenza. Ormai è chiaro che quel protocollo non è solo un errore. E' qualcosa di indicibile, che fa paura solo pensare. Per smuovere le istituzioni vengono organizzate due manifestazioni: una a Roma e una Milano. Le piazze si riempiono, partecipano decine di migliaia di persone. Dalle piazze sale spontaneo un grido rivolto al governo: "criminali". I media ignorano, oppure minimizzano. Un sito di fact checking, diretto da un noto giornalista televisivo, arriva a dire che si tratta della "solita manifestazione". Eppure mai, nella storia repubblicana, si era vista una piazza con migliaia di medici che, invece di aumenti di stupendio o diritti sindacali, chiedono di poter curare le persone efficacemente. Il ministero continua ad ignorare le richieste di confronto, anche quando una terza manifestazione viene organizzata proprio davanti al suo portone. Quando inizia la vaccinazione è impossibile allontanare il sospetto che negare le cure serviva proprio a giustificare la violenta campagna di inoculazioni. Ma questo non si può dire perché si rischia di essere etichettati come complottisti.
Purtroppo l'unica cosa che manca a questa storia è un lieto fine. Le dichiarazioni del presidente di AIFA, che a Porta a Porta lo scorso maggio ha candidamente ammesso che "non serviva certo tachipirina e vigile attesa bensì gli antinfiammatori", lascia un sapore ancora più amaro, molto lontano dal bisogno di giustizia che prova chi ha vissuto questa storia.
Sono stato onorato di aver partecipato alla loro festa, dopo mesi e anni di battaglie e di fatica. Non mi aspetto certo che qualche produttore rinunci alla sua commedia della rimpatriata tra cinquantenni per fare un film su di loro, ma per tutti noi, spero che abbiano il loro lieto fine.
Adalberto Gianuario.
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principessa-6 · 9 months
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Il giorno inizia dove finisce la notte, l’allegria comincia dove termina la tristezza, i nostri sogni iniziano a realizzarsi quando comincia la nostra capacità di crederci e di lottare.
Ricorda nessuno lotterà mai per i tuoi sogni, solo tu puoi farlo... 🤍 💜 🤍
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libero-de-mente · 3 months
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La Nebbia
Sono uscito di casa prestissimo questa mattina, ho ritrovato una cara vecchia amica che da qualche inverno non vedevo più. La nebbia.
Devo dire che la nebbia l'ho rivalutata nel corso degli anni, magari non apprezzo quella intensa che non ti fa vedere a un palmo dal naso, però quella che ti permette di avere una visuale di qualche decina di metri non è male.
Ti obbliga a essere prudente, a non correre, ma non ti fa salire l'ansia del muro impenetrabile.
Così anche alla vista mi limita la visualizzazione della gente. Sembra che ce ne sia di meno in giro.
Un po' la nebbia comincia a piacermi, mi sta simpatica.
Piangere sotto la pioggia, urlare durante un tuono, danzare al buio nella notte più scura oppure la neve che attutisce i rumori e ti dà la pace del silenzio ovattato, sono tutte cose che la natura mette a disposizione di noi umani. Quando non riusciamo a trovarci uno spazio discreto per dar sfogo ai nostri sentimenti o alle emozioni.
Con la nebbia è diverso, pensi di essere avvolto in un manto protettivo e così ti lasci andare a una smorfia, un breve pianto o anche a stringere i pugni e sussurrarti "ce la farò". Ed è in quel momento che dal manto nebbioso spunta lui, il tipo che passava di lì e ti chiede "Tutto bene?"; Oppure "Serve aiuto?".
No, non è proprio così, generalmente il tipo o la tipa che passa ti squadra con la vista e accelera il passo, proprio per non farti queste domande. Perché in realtà non gliene frega nulla, sai i casini che c'ha di suo nella vita?
Però muoversi in un ambiente dove non ti senti solo, ma neanche oppresso dalla moltitudine, non è male.
Potesse la nebbia calare anche su alcuni miei pensieri, racchiudendoli delicatamente e isolandoli dalle riflessioni che affollano la mia mente. Che nella mia testa c'ho una Via Lattea di pensieri.
La nebbia non la dobbiamo temere, basta pensare che dietro lei esiste il sole oppure uno splendido cielo stellato, e come arriva sempre se ne andrà. Portando via le nostre angosce.
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susieporta · 24 days
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DIETRO IL TRADIMENTO
Ormai ti sarà chiaro che non parliamo del classico concetto del tradimento, ma della sua radice, che è tutta un’altra cosa.
Quando uno tradisce veramente, nei fatti, o abbandona, è perché ormai è finita, ormai non ce la fa più, ormai è tagliato fuori dal rapporto, è tagliato fuori dal cuore.
Anche se succede a uno dei due e all’altro no, comunque ci si trova davanti a un muro del sistema familiare, a un muro delle paure dell’altro, a un muro di rabbia, un muro di tutto ciò che volete, fatto sta che il tradimento non è andare con un’altra persona, quello è l’ultimissimo dei passi.
Il tradimento comincia quando non si condividono i problemi, quando non si ha il coraggio di dire come stanno le cose. E non parlo del tradimento di per sé, ma dell’inizio, quando sento che inizia a venire a galla questa roba, le mie paure, le mie ferite.
Quando non si ha il coraggio di parlare dei propri bisogni, si dà tutto per scontato…
Uno tradisce quando non ha il coraggio di condividere i suoi bisogni, le sue paure, le sue ferite, quando non si apre all’altro.
Come fai a fidarti di uno che non comunica fin dall’inizio, non si apre, si apre relativamente, o solo in certi momenti e non a tutto il resto? Lì stiamo già tradendo l’energia dell’altro, stiamo tradendo il cuore dell’altro.
Dobbiamo vedere le cose da tutti i punti di vista, perché poi l’effetto macroscopico, che è “mi ha lasciato, mi ha tradito ecc.”, questo è facile da vedere.
Ma riusciamo a vedere anche da dove è cominciato? Spesso molto, ma molto prima. Cose che non vede nessuno. E lì nessuno dà ancora la colpa, perché nessuno vede niente.
E, come già detto più volte, non si tratta di dare colpe, ma di capire causa, condizione, effetto.
Una cosa che a me preme molto, avendo lavorato con i maestri orientali e anche occidentali, ma soprattutto orientali, è farvi sapere che in Oriente tutti fanno un percorso, tutti hanno un maestro, perché è così.
L’uomo ha bisogno di crescere e questa crescita non te la dà la famiglia, non te la dà la scuola, non te la dà nessuno.
È una crescita interiore e spirituale.
È soprattutto la capacità di vederti dentro: e questo non te lo insegna nessuno.
E come fai a vivere se non sai niente di te, se non sai come funzioni?
Ti butti nei rapporti che sei un casino e poi ti chiedi come mai soffri e come mai gli altri soffrono con te?
È come prendere la Ferrari, accelerare a 300/h e guidare bendati di notte, per poi schiantarsi, finire all’ospedale e chiedersi: “Come mai è successo?”
Ecco, i tibetani in questo caso parlano di ignoranza: non che non hai studiato, ma che non vedi assolutamente quello che stai facendo, né perché lo stai facendo.
Ignoranza in tibetano si chiama timuk, che vuol dire “mente annebbiata”, o tradotto nel nostro linguaggio, una mente piena di confusione, ma che nonostante la confusione vuole far questo, quello, dice di sentire quello, provare quell’altro, pretende che gli altri siano così o colà etc…
Questa è tutta ignoranza, confusione. Vogliamo delle cose dagli altri quando non siamo capaci di averle da noi stessi in primis.
Per concludere, penso tu abbia compreso che il tradimento e l’abbandono non accadono dall’oggi al domani.
Sì, l’aspetto fisico magari è evidente e immediato, ma in realtà è cominciato tanto tempo prima.
Di solito poco dopo l’inizio di una relazione, per i motivi spiegati.
Perciò, cerca di rileggere queste lezioni.
Rileggile più volte e cerca di studiarle.
Studiarle vuol dire osservarsi, senza giudizio, così da capire quali sono i tuoi meccanismi.
E, soprattutto, osserva dove menti: “Ah, no, questo non mi riguarda, questo riguarda mio marito etc”.
No: ti riguarda comunque. Una parte di quella roba sicuramente ti riguarda.
ROBERTO POTOCNIAK
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perpassareiltempo · 10 months
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Nelle mie braccia tutta nuda la città la sera e tu il tuo chiarore l'odore dei tuoi capelli si riflettono sul mio viso.
Di chi è questo cuore che batte più forte delle voci e dell'ansito? (…) Dove finisce la notte dove comincia la città? Dove finisce la città dove cominci tu? Dove comincio e finisco io stesso? 
Nazim Hikmet
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stregamorganablog · 1 year
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L’amante spesso non è solo una cosa di sesso.
A volte comincia così…e poi diventa anche uno stare accanto all’altro in tutti i sensi.
E allora può capitare che una volta ti vedi lo stesso e non fai l’amore o sesso che sia ma ci si ascolta.
Esistono amanti e amanti.
Amanti che sono diversi da una escort o da un gigoló o da una botta e via.
Un amante… beh… chiedete alle camere d’albergo…ai vicoli fuori mano…ai portieri di notte…ai treni o ai taxi presi per raggiungere un luogo dimenticato da Dio.
Chiedete ai letti sfatti…alle donne addette alle pulizie che trovano i preservativi usati.
Chiedete a chi nei corridoi ha sentito ridere.
A chi ha visto le lacrime degli addii o degli arrivederci.
Chiedete ai cigolii delle molle del letto o a quel ristorantino dove si è fatta la follia di andare una volta a cena o a pranzo fuori per gioco.
Chiedete agli ascensori in cui qualcuno si è specchiato per controllare se tutto fosse in ordine per l’appuntamento.
Chiedete ai muri di alcune case che hanno visto uomini e donne piangere e sentirsi in colpa.
Chiedete ai “Dio mio… che sto facendo?”
per poi capire che si aveva solo bisogno di sentirsi vivi e di sognare e di vibrare.
Chiedete alle valigie fatte e disfatte.
Alle scrivanie degli uffici.
Agli orologi che in quegli incontri avevano il tempo contato.
Chiedete.
Chiedete degli amanti che era solo sesso e piacere e di quelli che poi si è provata quella scintilla in più.
Chiedete quanto amore serve ed è esistito o esiste in quella scintilla.
Oppure quanto piacere ed eroticità negli incontri di soli corpi.
Chiedete cosa sia un amante a chi lo è stato in un modo o nell’altro.
Chiedete a chi forse non stirava camicie e non poteva preparare la cena ma era più presente di un marito o una moglie.
Chiedete ai telefoni e alle chiamate di nascosto.
Chiedete al Natale o ai giorni di compleanno non vissuti.
Chiedete alla pazienza.
Chiedete ai sorrisi stampati sul volto e alla semplicità di momenti rubati alla realtà.
Cosa è un amante…???
Ecco è qualcuno che seppur costretto al silenzio spesso oltre al sesso prova a costruire un paio di ali all’altro per farlo volare…ancora…
dal web🫀
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L’amante spesso non è solo una cosa di sesso. A volte comincia così…e poi diventa anche uno stare accanto all’altro in tutti i sensi. E allora può capitare che una volta ti vedi lo stesso e non fai l’amore o sesso che sia ma ci si ascolta. Esistono amanti e amanti. Amanti che sono diversi da una escort o da un gigoló o da una botta e via. Un amante… beh… chiedete alle camere d’albergo…ai vicoli fuori mano…ai portieri di notte…ai treni o ai taxi presi per raggiungere un luogo dimenticato da Dio. Chiedete ai letti sfatti…alle donne addette alle pulizie che trovano i preservativi usati. Chiedete a chi nei corridoi ha sentito ridere. A chi ha visto le lacrime degli addii o degli arrivederci. Chiedete ai cigolii delle molle del letto o a quel ristorantino dove si è fatta la follia di andare una volta a cena o a pranzo fuori per gioco. Chiedete agli ascensori in cui qualcuno si è specchiato per controllare se tutto fosse in ordine per l’appuntamento. Chiedete ai muri di alcune case che hanno visto uomini e donne piangere e sentirsi in colpa. Chiedete ai “Dio mio… che sto facendo?” per poi capire che si aveva solo bisogno di sentirsi vivi e di sognare e di vibrare. Chiedete alle valigie fatte e disfatte. Alle scrivanie degli uffici. Agli orologi che in quegli incontri avevano il tempo contato. Chiedete. Chiedete degli amanti che era solo sesso e piacere e di quelli che poi si è provata quella scintilla in più. Chiedete quanto amore serve ed è esistito o esiste in quella scintilla. Oppure quanto piacere ed eroticità negli incontri di soli corpi. Chiedete cosa sia un amante a chi lo è stato in un modo o nell’altro. Chiedete a chi forse non stirava camicie e non poteva preparare la cena ma era più presente di un marito o una moglie. Chiedete ai telefoni e alle chiamate di nascosto. Chiedete al Natale o ai giorni di compleanno non vissuti. Chiedete alla pazienza. Chiedete ai sorrisi stampati sul volto e alla semplicità di momenti rubati alla realtà. Cosa è un amante…??? Ecco è qualcuno che seppur costretto al silenzio spesso oltre al sesso prova a costruire un paio di ali all’altro per farlo volare…ancora…
dal web
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colorfulprincewombat · 5 months
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Amanti...
spesso non è solo una storia di sesso...il sesso è solo l'espressione che la mente trasmette al corpo...Non è solo contatto fisico...
A volte comincia così, all’improvviso …e poi diventa anche uno stare accanto all'altro in tutti i sensi...vivere l'uno nella pelle dell'altro...
E allora può capitare che una volta ti vedi lo stesso e non fai l’amore...ma ci si ascolta...
Esistono amanti e amanti...
Amanti che sono diversi da una escort o da un gigoló...
Un amante… beh… chiedete alle camere d’albergo…ai vicoli fuori mano…ai portieri di notte…ai treni o ai taxi presi per raggiungere un luogo dimenticato da Dio. I muri delle case, le scale, i sottoscala, i parcheggi.
Chiedete ai letti sfatti…alle donne addette alle pulizie...
Chiedete a chi nei corridoi ha sentito ridere...
A chi ha visto le lacrime degli addii o degli arrivederci...
Chiedete ai cigolii delle molle del letto o a quel ristorantino dove si è fatta la follia di andare una volta a cena o a pranzo fuori per gioco...
Chiedete agli ascensori in cui qualcuno si è specchiato per controllare se tutto fosse in ordine per l’appuntamento...
Chiedete ai muri di alcune case che hanno visto uomini e donne piangere e sentirsi in colpa... Alle bugie dette... Alle menzogne raccontate e da raccontarsi.
Chiedete ai “Dio mio… che sto facendo?” per poi capire che si aveva solo bisogno di sentirsi vivi e di sognare e di vibrare... Di vivere quelle emozioni che solo se e quando ti investono capisci la meraviglia della vita!
Chiedete alle valigie fatte e disfatte...
Agli orologi che in quegli incontri avevano il tempo contato... Ai bagni...Alle cucine... Ai tavoli...
Chiedete...
Chiedete degli amanti che era solo sesso e piacere e di quelli che poi si è provata quella scintilla in più... Quel sentirsi...
Chiedete quanto amore serve ed è esistito o esiste in quella scintilla...
Oppure quanto piacere ed eroticità negli incontri di soli corpi... Dei baci intensi e profondi... Degli abbracci...
Chiedete cosa sia un amante a chi lo è stato in un modo o nell'altro. Il raccontarsi...
Chiedete a chi forse non stirava camicie e non poteva preparare la cena ma era più presente di un marito o una moglie...
Chiedete ai telefoni e alle chiamate di nascosto... Gli sms, ì whastapp, i Messenger, le direct di Instagram...
Chiedete al Natale o ai giorni di compleanno non vissuti.
Chiedete alla pazienza.
Chiedete ai sorrisi stampati sul volto e alla semplicità di momenti rubati alla realtà.
Cosa è un amante? Che cos'è l'amore... È uno sguardo che dice tutto, frequenze cardiache e vocali che tremano e che parlano, odori e profumi di essenza primordiale. Istinti. Passione... Follia. Voglia. Paura...
Ecco è qualcuno che, seppur costretto al silenzio, silente, spesso oltre al sesso prova a costruire un paio di ali all'altro per farlo volare… ancora, sentendosi vivo...
L'amore è l'essenza stessa della vita per chi sa amare con il cuore....e amante x me ..sta x colui che ama...
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ambrenoir · 5 months
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Amare… Il mal d’amore prima o poi tocca a tutti. È terribile ma se sopravvivi è fatta. Niente più ti può più toccare.
“S’INNAMORÒ come s’innamorano sempre le donne intelligenti: COME UN’ IDIOTA”.
Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La sia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sud America e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Adesso sì ce ne andiamo in Italia: gli assenti si sbagliano sempre».
da Donne dagli occhi grandi di Angeles Mastretta - Traduzione di Gina Maneri
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