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#romanzi generazionali
gregor-samsung · 2 years
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“ La domenica mattina, il vecchio Alex si alzava presto, e intanto che la sua famiglia si godeva il sonno dei giusti, inforcava la sua bici nera e faceva il giro dei colli di Bologna. Immerso in quella beata solitudine, al massimo incontrava qualche altro eroico ciclista con cui non disdegnava di scambiare taluni energici saluti calorosi. Gli piaceva enormemente salire per San Mamolo, Roncrìo, via dei Colli, volare giù per le curve di Paderno, attaccare il muro di parco Cavaioni e veleggiare sul colle di Casaglia per poi planare nella Saragozza avenue mentre la città si risvegliava. Tornava a casa che i parens avevano appena cominciato a sbadigliarsi in faccia. Ecco, era giusto una di quelle domeniche mattina esageratamente azzurre, quando, rientrato in casa fradicio e indolenzito, il vecchio Alex aveva letto sul giornale che vicino a Palermo avevano fatto saltare cinquanta metri d’autostrada per uccidere il giudice simbolo della lotta alla mafia. Era questa l’Italia in cui stava vivendo. Magari non era stata la mafia, magari erano stati i servizi segreti, o comunque anche loro avevano una parte - come in tutte le altre stragi della Repubblica, del resto - e il fine era distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle indagini dei giudici di Milano sulla corruzione nel mondo politico e finanziario, indagini che stavano prendendo una bruttissima piega per i boss di partito. Insomma, s’era messo in testa un’idea di questo tipo, il vecchio Alex: qualche esponente dei partiti di governo aveva comandato ai servizi segreti, ampiamente controllati, di combinarne una particolarmente grossa - qualcosa del calibro della strage alla stazione della sua città o dell’attentato al rapido 904 - per far sì che l’opinione pubblica si spaventasse e facesse quadrato attorno alle Istituzioni Democratiche, Istituzioni rappresentate appunto dai partiti al governo, in modo da allentare la morsa che gli si stava stringendo addosso. Così, qualche più o meno oscuro dirigente dei servizi aveva deciso: quella brutale condanna a morte avrebbe sconvolto il Paese e sarebbe stata attribuita alla mafia. Una specie di piano perfetto. Che poi i servizi avessero eseguito l’attentato o avessero fornito protezione e mezzi alla mafia per eliminare il nemico numero uno, faceva poca differenza. Portava avanti questi ragionamenti, il vecchio Alex, seduto in salotto col giornale aperto sulle gambe e la memoria alle altre stragi della sua infanzia: aveva sentito il boato immenso della stazione di Bologna che saltava in aria; e poi tutte quelle sirene delle ambulanze che correvano verso l’appennino lungo via Porrettana, la notte della bomba a San Benedetto; e poi. Era questa l’Italia in cui stava vivendo. Così, era rimasto in casa tutto il giorno, rabbioso e in gabbia, convinto com’era che in Italia, e forse anche nel resto del Mondo dei Grandi, tutto era un po’ come a scuola: ovunque spadroneggiava la forza e l’ignoranza, fosse quella del boss mafioso con la catena d’oro al collo e l’Uzi nel cassetto, o quella del professore supponente che ghignava delle opinioni politiche o del modo di vestire degli studenti, o quella del sottosegretario che s’ingozzava di pasta al salmone nei ristoranti romani senza pagare mai il conto... Quel pomeriggio, il vecchio Alex aveva rivisto daccapo Il portaborse di Nanni Moretti e aveva stabilito che un uomo come Cesare Botero non avrebbe esitato a ordinare a chi di dovere l’esecuzione di un giudice, pur di salvare il suo posto in parlamento. E di uomini come Cesare Botero, a Montecitorio, ce n’erano anche troppi... Anche quel giudice assassinato era un uomo che aveva tentato di uscire dal gruppo - rifletteva, rabbioso e in gabbia, il vecchio Alex - uno a cui non andavano bene le prepotenze e l’arbitrio dei forti, uno che aveva camminato controcorrente con l’acqua alla cintola, fino a quando non era arrivata un’onda troppo grande che l’aveva trascinato via. Era uscito dal gruppo, certo. E quando per il gruppo era diventato scomodo, l’avevano fatto saltare in aria con la moglie e tutti gli uomini della scorta... Il gioco era diventato durissimo, e l’indomani la profia di latino e greco, commossa, aveva appeso in classe, sotto il crocefisso alle spalle della cattedra, un fotoritratto del giudice assassinato. L’ora seguente, l’insegnante di chimica aveva fatto il suo ingresso semitrionfale in classe, fissato la foto, guardato gli studenti con aria interrogativa, domandato chi fosse il tizio della foto. Un istante più tardi era passata a interrogare sulla digestione, con particolare riguardo al bolo, chimo e chilo, giacché s’era indietro col programma, boys. Era questa l’Italia in cui stava marcendo. “
Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Una maestosa storia d'amore e di «rock parrocchiale», Baldini&Castoldi (collana Romanzi e Racconti n° 34), 1995; pp. 121-23.
[Prima edizione: Transeuropa (collana CO/DA), Ancona, 1994]
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pangeanews · 4 years
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Voglio succhiare tutto il midollo della vita. Poi mi metterò a scrivere. Il caso Stendhal e gli esordi precoci di Enrico Brizzi e Paolo Giordano
1. I dati, l’esempio. Anche se sono passati due secoli da allora, il mio personaggio è Stendhal. Nato nel 1783, scrive il primo libro, una guida turistica a Roma Napoli Firenze nel 1817 a 34 anni. Fino allora Stendhal aveva servito nell’armata di Napoleone. In seguito a 39 anni pubblica un trattato sull’amore, decisamente inservibile oggi. Venendo alle cose serie, c’è il suo primo romanzo pubblicato a 44 anni, Armance, storia di amore romantico abortito dall’impotenza. Il secondo romanzo è una bomba e lo pubblica di getto a 47 anni: è La certosa di Parma. In sintesi, Stendhal si lancia da solo. Nessuno lo sponsorizza. Il pubblico dei romanzi è praticamente solo femminile. Un uomo che scrivesse romanzi era un caso misterioso all’epoca. Anche questo spiega il relativo ritardo di Stendhal.
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2. Le considerazioni di Stendhal sul suo ritardo sono pressoché infinite e per non annoiare il lettore lo rimando ai due malloppi Ricordi di egotismo e alla più ammiccante e artistica Vita di Henry Brulard. In sostanza Stendhal fa del suo ritardo una scusa e una pretesa a scrivere per i posteri. In effetti andò così: lo lessero a ondate generazionali mentre i suoi contemporanei gli preferivano altri.
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3. Le considerazioni di un lettore di Stendhal sul ritardo si sprecano. A voi scegliere. Vorrei fare un elogio retorico del ritardo letterario ma a rovescio, denigrando i talenti precoci che spesso sono stati un business che oggi esibito palesemente per quello che è: affare di estetica, carineria, presa sul pubblico giovane (o allupato).
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4. Elogio tramite Stendhal il ritardo creativo ma non perché sia uno di quelli che dice che il passato era meglio, solo perché anch’io ero più giovane. Ma perché la propria gioventù non può essere annoverata né tra i progressi né tra i regressi dell’umanità. Qui sta il punto…
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Paragrafi senza numero.
Ecco il cuore del dramma di Stendhal e di un suo lettore a caso: nella sua gioventù lo riempirono di passato (culto degli autori classici ed illuministi) che in realtà erano già fuori moda passata la Rivoluzione francese, quando lui era sui banchi dell’accademia napoleonica.
Sicché mentre i  programmatori-precettori di Stendhal gli parlavano di La Fontaine, di Rousseau e di D’Holbach in realtà rimpiangevano la loro gioventù.
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L’unica cosa che posso e so fare, come lettore di Stendhal e avvocato del ritardo, è fare con voi dei calcoli combinatori su quello che l’intensa programmazione subita ha lasciato a Stendhal:
*un vastissimo amore per la letteratura (questo era inteso, d’accordo);
*l’esercizio potente della memoria, quindi in filigrana torna tutto nella sua pagina e voi ritrovate Tacito mentre nella Certosa parla del suo rivale, lo sugar daddy Conte Mosca;
*la conoscenza ragionata di molte cose, per cui un tramonto non è mai un tramonto ma l’ora dell’avemaria, dei pronostici e delle flebili speranze;
*l’ansia per la vita.
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A dirla in un altro modo, a Stendhal l’accademia napoleonica e l’esercito prendono tutti i suoi vent’anni dandogli in cambio un sacco di libri. Ma la cosa non è poi così terribile, dal punto di vista di uno stendhaliano, perché nel far ciò hanno fatto di Stedhal proprio lo Stendhal che conosciamo.
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E a vederla un po’ cinicamente (o per mero calcolo statistico) non si potrebbe fare altro nella vita che leggere libri, scrivere libri, o leggere e scrivere qualcosa su altri libri. Da stendhaliani di ferro, difensori del ritardo, si dovrebbe fare una delle tre cose (non importa di cosa trattino i libri e se uno lo fa da allievo o insegnante) e, nel tempo libero, dare sfogo ai suoi bisogni, a quella che Stendhal chiama con eufemismo l’energia.
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Ritardo a parte, direi che non ci si dovrebbe preoccupare di null’altro, che di poesia, umanità ed energia. Siamo al punto: avendo meno di trentacinque anni ed essendo i bisogni primari assolutamente impellenti (nella lunghissima postadolescenza che ci attanaglia tutti), forse è meglio che si cerchi prima di soddisfare i bisogni e poi fare poesia.
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Anzi, poiché negli anni di cui sopra uno ha digerito moltissima letteratura di eccellente qualità, ci si può anche permettere di fare poesia proprio partendo dal soddisfacimento dei bisogni o fare letteratura per soddisfare la propria energia e tutte le combinazioni che scaturiscono dal mettere insieme i molti libri letti, i non ancora trent’anni e l’universo mondo che ci circonda.
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Alla fine, come vedete, invece di un petalo di critica d’arte ci sta rovinando addosso una frana di macigni: per colpa dei ritardi il futuro è terribilmente incerto e per questo è il più bello di tutti i futuri, perché è tanto meno presente e possibile. La qual cosa sa di libertà, più di ogni altro costringimento.
Andrea Bianchi
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Secondo Andrea, di giovane generazione, nella vita è bene aver soddisfatto (o aver lottato per) certi bisogni primari ed esistenziali prima di fare poesia, ovvero letteratura. E non ha torto. Dunque, sapendo che i talenti precoci non sempre reggono il peso di dover mantenere le promesse, merita la massima attenzione l’arte che emerge nella maturità, preformata e scolpita. Ma nella mia gioventù, l’esordio clamoroso di un Enrico Brizzi non ancora ventenne offrì una spinta e una visione che si allargavano verso una prospettiva evidente, che aveva i suoi contorni, era leggibile e poteva ben essere ascritta a un progetto. Era il 1994 e Jack Frusciante è uscito dal gruppo fu un’esperienza travalicante, sicura nella sua innovatività, che poneva una serie di premesse allettanti. I personal computer non erano ancora in tutte le case, la Rete praticamente non esisteva, tutto manteneva una dimensione decifrabile, dunque proiettabile, secondo un’inclinazione simile a quella degli antichi che amavano incastonare le loro storie nel cielo. L’ambiente bolognese, oltretutto, dava una spinta caratteristica e alternativa; lo stesso Brizzi si concedeva piccole guasconate, come inventarsi di essere nato a Nizza e di essere studente di Fisica. Eravamo nel Novecento, e all’esplosione del suo best-seller generazionale seguirono le dinamiche che conosciamo, dove le suggestioni mantenevano un percorso di curiosità, di ricerca, di possibilità.
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Poi, una quindicina d’anni dopo, arriva l’esordio del ventiseienne Paolo Giordano – con l’esplosione di oltre un milione di copie vendute – in un’epoca in cui comincia a dominare la Rete, col trionfo dei blog e della partecipazione diffusa e iper-narrativa, ancora indenne dai social ma già pronta a una ricezione molto diversa. Qui, il mondo giovanile narrato ne La solitudine dei numeri primi è il prodotto di una borghesia agiata che intende consolidare le proprie istanze e i propri codici, soffocando ciò che può nascere dagli spiriti più sensibili. L’omologazione è fatta per stritolare, e le linee delle vie da seguire vengono fortificate come confini. Così, il nuovo fenomeno letterario viene subito catturato nelle maglie del sistema: dopo il premio Campiello Opera Prima e il premio Fiesole Narrativa Under 40, al romanzo viene assegnato subito il Premio Strega 2008, il massimo trampolino, urgente e necessario, per tutte le operazioni programmatiche che si andavano formando.
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Secondo Wikipedia, il titolo del romanzo viene scelto da Antonio Franchini di Mondadori, mentre la copertina riporta un’immagine di grande suggestione – l’autoscatto di una ventenne olandese che ritrae l’espressione di un viso quasi incompiuto – ritenuta uno dei fattori dell’enorme successo del romanzo. L’altro fattore, com’è intuibile, è l’innocente avvenenza del giovane autore, un vero dottorando in Fisica (mentre Enrico Brizzi ne millantava lo studio); ma con questo non si vuole sminuire il valore dell’opera, che qui non è in discorso.
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Proprio a quell’epoca, nell’allora sito-blog di Giulio Mozzi, l’intervento senza filtri di una scrittrice che anni dopo sarebbe stata finalista a un Premio Strega iniziava così: «Ormai per essere pubblicati bisogna passare un casting. Sei interessante? Sai parlare in pubblico? Sei un attore/attrice? Sei strano/a? Trasgredisci, porti le giarrettiere, sei sexy? Hai la faccia giusta, incuriosisci, puoi andare in tv, hai i denti a posto? Manca poco al Grande Fratello degli scrittori, in questo spaventoso vuoto pneumatico della progettualità editoriale. Da tempo non si leggono i libri ma si guardano le facce degli scrittori, li si chiama, nelle riunioni editoriali o nelle cene fra addetti, per cognome: ce l’ho, ce l’ho, mi manca. Siamo figurine dei calciatori. E poiché non tutti vendiamo le cifre che agli editori fanno comodo, siamo spesso calciatori di serie B. Quello non lo voglio perché c’ha troppa storia (cioè ha segnato poco, un’intera stagione in panchina), quella la tengo come fiore all’occhiello anche se mi va sempre in fuori gioco. Ovviamente nell’editoria (italiana) non ci sono in gioco le cifre del calcio, ma hai voglia a star lì a scrivere davvero, a lavorare tutti i giorni, a non fare la velina della letteratura: hai perso. C’è una schiera di bellocci, furbastri e manovratori che ti passa avanti».
*
Non c’è molto da aggiungere per inquadrare i nostri meccanismi editoriali, oggi diventati ancora più necessari e brutali. All’epoca non c’erano i social network, a trainare erano ancora la televisione e i giornali; ora, con la dittatura consolidata dei social, che scandisce la vita di una spaventosa quantità di persone, la necessità di certi meccanismi si è fatta ancor più granitica. Nel giro di alcuni anni Paolo Giordano viene cooptato nel sistema dei media e viene fatto funzionare a pieno regime, come componente “aggiornato” del gruppo dominante, che deve replicare sé stesso e ha trovato un perfetto esemplare per la successione. C’è il sospetto che l’autentica potenzialità artistica dell’uomo, il suo vero progetto individuale siano stati condizionati per farli confluire in un disegno generale: produrre narrativa per il mercato e articoli sul Corriere della Sera e sui rotocalchi, con presenze televisive insistite e coordinate, per offrire un format complessivo di appeal e credibilità. Una strategia per costruire una figura autorevole giovane e attraente, dunque attendibile, uno studioso integro che possa toccare anche argomenti sensibili legati alla scienza: come dimostra la pubblicazione del libretto di 80 pagine per Einaudi – proposto come “saggio riflessivo di scrittore” che è anche un fisico – sul fenomeno della pandemia, un instant book confezionato di corsa nelle prime due settimane di emergenza da “coronavirus”, senza che nessuno potesse averne un’esperienza vera; un’operazione dettata dalla sola urgenza di mercato, per sfruttare al massimo il bacino dei lettori finché si era in tempo, che ha portato Paolo Giordano al secondo record: oltre a essere il più giovane scrittore ad aver vinto uno Strega, è anche il più veloce ad aver prodotto un libro sulla pandemia del 2020, bruciando sul tempo chiunque altro.
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Qui si vede la potenza dell’industria editoriale che conta, quando avvista i profitti a portata di mano. A differenza di Enrico Brizzi, che ha seguito una sua strada, Paolo Giordano sembra esser stato “trombonizzato” da un pezzo di classe dirigente cultural-editoriale che prima o poi dovrà passare il testimone, e vuole forgiare le generazioni successive a propria immagine. «Le riflessioni di Giordano da una parte assomigliano a quelle di tutti, e al contempo se ne diversificano», si legge in un articolo che illustra Nel contagio, il volumetto einaudiano sponsorizzato dal Corsera. E grazie al ca**o, direbbe causticamente qualcuno, visto che ogni individuo può essere simile ma non identico. Ma qui si rischia di entrare nel sincretismo della scienza nazional-popolare, i cui interpreti è bene che vengano formati nelle sedi opportune.
Paolo Ferrucci 
*In copertina: Stefano Accorsi è Alex in “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, film del 1996 di Enza Negroni
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angyfrancy · 4 years
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#albumoftheday #artist : @levanteofficial #album : Magmamemoria Year : 2019 Claudia Lagona, in arte Levante fa parte di quella categoria sacra del panorama musicale mondiale: la cantautrice. Al suo quarto album,in questi anni abbiamo visto la nostra paladina siciliana crescere sempre più. Dalle esibizioni live ai festival di periferia (io c’ero!), alla giuria di X-Factor o al palco di Sanremo. All’ascolto di “Magmamemoria” è innegabile un certo stacco col passato, musicalmente e produttivamente parlando. Il tema portante è proprio il “ricordo”, il “passato”, quella memoria che è pesante come un magma. Un lavoro perfettamente calibrato e compiuto, intimo ma esuberante, riflessivo ma estremo, cantautorale e al contempo fieramente radiofonico. «Il più siciliano dei miei lavori», come afferma la stessa Levante, e si sente! Sia nella composizione della scaletta e del concept ideale su cui ruota l’intera narrazione (la memoria, il rimpianto, ma soprattutto la capacità di riscattarsi/emanciparsi), sia nei nomi coinvolti, visto che in ben due brani compaiono come co-autori anche due come Colapesce e Dimartino; un connubio tanto sperato quanto naturale e spontaneo, lo si nota da come suonano “Regno animale” e “Lo stretto necessario”, dove ogni strofa ricorda il sole cocente della Sicilia in estate. Interessante, poi, la messa in musica immaginaria dei due romanzi della cantautrice, ovvero “Se non ti vedo non esisti” e “Questa è l’ultima volta che ti dimentico”. In Italia abbiamo bisogno di inni generazionali come “Andrà tutto bene”, si sente la rabbia per questa società ottusa e sorda, in cui la sensibilità etica è diventata “buonismo” e il patriottismo “nazionalismo”. Così Levante conquista sempre più persone, confermandosi come uno degli artisti più interessanti del panorama musicale italiano. ❤️ . #recordcollection #vinyl #love #music #limitededition https://www.instagram.com/p/B_p2ff1Bf31/?igshid=4ml5gpq2w6hu
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giuliocavalli · 6 years
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«Per questo scrivo. Trovo delle cose che trovano me.» di Tuomas Kyrö
«Per questo scrivo. Trovo delle cose che trovano me.» di Tuomas Kyrö Che meraviglia il discorso inaugurale di Tuomas Kyrö al Pisa Book Festival sulle motivazioni del suo scrivere. Eccolo qui: Mia madre era bibliotecaria e scrittrice. Mio padre faceva il drammaturgo. Tutti e due lavoravano con la matita, con la macchina da scrivere, con la macchina da scrivere elettrica e da ultimo con i programmi per la videoscrittura. All’età di 10 anni sapevo con certezza che quei mestieri non facevano per me. Lavoro noioso, mal pagato; troppe borse a tracolla, giacche di velluto e pile di manoscritti. Gente instabile, vino rosso, sigarette di poco prezzo. Tanto, troppo tempo dedicato a faccende come l’analisi del testo e la questione dell’ego che non portavano da nessuna parte. La mia ambizione era diversa: volevo diventare un criminale professionista. Avevo appena visto Il Padrino e lì mi sembrava di aver trovato il metodo per una sicura crescita, personale ed economica. Il mio progetto di carriera fallì all’età di 11 anni, quando compresi che per poter entrare nella società rappresentata da Don Corleone, avrei dovuto essere siciliano di nascita, disperato, ardito e avventato allo stesso tempo. Invece ero finlandese di nascita, della periferia di Helsinki. Inoltre ero figlio di una bibliotecaria e di un drammaturgo. La prospettiva di diventare un mafioso importante fallì miseramente.  Sarei forse riuscito a diventare un piccolo delinquente che vende canne di cattiva qualità nei sottopassaggi, ma in questa visione mancava del tutto quel discorso elevato sull’onore di cui era fatto per me il mondo del Padrino. Perché la criminalità organizzata piuttosto che la drammaturgia? Perché è una storia migliore. La saga familiare e la vita del protagonista in sole tre ore. Una storia fatta di rapporti di famiglia difficili, di aspirazioni nel mondo di lavoro, di cambi generazionali. Sacrifici, tradimenti, pranzi e cene abbondanti davanti a pentole profumate. Fratellanza, rapporto di coppia, morale e onore. La figura femminile e il suo ruolo nella comunità familiare iper-patriarcale. Perché davanti alle scelte di Don Corleone potevo riflettere sulle mie scelte. L’unità della famiglia mi sembrava una cosa desiderabile mentre l’idea di una sua divisione mi dava brividi. Cercavo le connessioni fra il mondo reale e quello immaginario, fra me stesso e i miei genitori, la mia famiglia e le relazioni fra parenti. Perché parlava delle cose che non pensavo di pensare a quell’età. Il racconto immaginario sulla nascita del capitalismo, l’immigrazione e la famiglia creato intorno a Don Corleone era più efficace che il discorso dell’élite di sinistra sul eurocomunismo oppure le nuove tendenze della psicoanalisi individualista. Perché da scrittore parlo qui di questi temi?  Il senso delle cose si capisce solo dopo. A 10 anni non mi rendevo conto che la storia di Vito Andolini che parte da Corleone non esisterebbe senza lo scrittore e il film non esisterebbe senza il drammaturgo. La storia è un’invenzione di chi l’ha creata, ma non è la verità. La vita reale non scorre mai così gustosamente come una storia fittizia. Una storia scritta e riscritta, sintetizzata e limata è molto più interessante di 85 anni di risvegli e addormentamenti, e di tutto quello che succede nel mezzo della vita prima della morte. Dopotutto ho fatto la scelta sulla carriera in base al film. Nell’ambito di questo lavoro tratto tutti i temi che ho trovato nel Padrino. Al centro c’è sempre l’individuo, poi la famiglia, poi i mezzi di sopravvivenza, poi le conseguenze delle azioni. Intorno la cornice storica, che provoca azioni negli individui e che viene modificata dalle loro azioni. A 10 anni volevo diventare un criminale di professione. A 20 anni volevo essere uno scrittore importante. Mancava solo di scriverli quei libri importanti. A 27 anni avevo interrotto gli studi universitari, ero disoccupato, ero un ex-stampatore ed ex-addetto alla posta. La mia carriera di accademico e di criminale e anche quella di uno che vive alle spalle dello stato erano finite in niente. Dovevo fare qualcosa della mia vita. Dovevo scrivere. Nel 2001 ho firmato il contratto di edizione per il mio primo romanzo e ho capito di avere un mestiere. Avevo trovato un lavoro e un modo per mantenermi. Potevo avere stima di me stesso, bastava posizionarmi nello spazio tra il mio cervello e il computer. Tutto doveva accadere in quello spazio. Per questo scrivo. Il mio lavoro non si svolge nelle strade di New York al crepuscolo o nel deserto del Nevada. Essenzialmente tutto avviene in fredde stanze accanto al mio garage nella campagna finlandese. Tutto avviene soprattutto  nella mia testa. È andata proprio così? Lo scrittore racconta storie e una delle storie più importanti è sempre la storia di se stesso. Come tutto quello che ho raccontato fino ad adesso. Il mio viaggio per diventare scrittore non è andato proprio così. È andato più o meno così. Se domandate alla bibliotecaria o al drammaturgo, vi racconteranno qualcosa di diverso. Nella storia c’è sempre un principio, un mezzo e una fine. Punti di svolta, un po’ di comicità, un po’ di tragicità, un po’ di qualcosa che dipinge il tempo e le circostanze. Un’idea e finalmente il raggiungimento della meta. L’eroe ha completato il suo viaggio e diventato saggio, oppure si è rovinato. La specie umana capisce la propria mortalità e per questo ha bisogno di storie che si muovono avanti e indietro. Le storie ci tengono uniti e ci dividono. Il globo terrestre e le sfere superiori si riempiono di dei onniscienti, personaggi animati e giovani donne e uomini che soffrono per mancanza di amore. Tutte storie, sempre storie. Vivere la vita degli altri invece della propria è più gradevole. È la realtà originale che si espande. Vediamo il mondo con gli occhi di un altro, viviamo le sue esperienze e sentiamo le sue emozioni. Ancora un’altra ragione del perché scrivo. Negli ultimi anni ho fatto lavori di ristrutturazione alla casa estiva che apparteneva ai miei nonni. O meglio. In realtà il carpentiere ha ristrutturato e io ho spostato con la carriola le macerie del suo lavoro. La creatività è risolvere problemi. Un buon carpentiere fa stanze e realizza dettagli di cui io non sapevo di aver bisogno. Adesso mi sono indispensabili . Lo scrittore scrive frasi e pensieri di cui il lettore non sa di avere bisogno, ma che diventano indispensabili. Forse per un breve momento, forse per tutta la vita. Il carpentiere ha detto che costruisce perché lo sa fare maledettamente bene. E io scrivo, perché lo so fare maledettamente bene. Perché non dovrei scrivere? Gioco. Racconto. Godo. Lavoro assiduamente, mi affaccendo, mi irrito, mi spazientisco. Ogni libro sceglie da solo il suo stile. L’anno del coniglio è una satira leggera perché l’alternativa sarebbe stata una pesante tragedia che sa di chiuso. Il tema del libro era così serio che doveva arrivare al lettore di nascosto, con una nave chiamata Umorismo. In Finlandia una mia serie di romanzi “Mielensäpahoittaja”, uno che ci rimane male, ha riscosso un grande successo. Racconta di un vecchio che è rimasto solo e si lamenta di tutto. I lettori lo trovano molto divertente. Per questo scrivo. Trovo delle cose che trovano me. Perché scrivo? Devo pagare il mutuo della casa. Una frase alla volta. I paesi sono diversi, le lingue sono diverse. I sistemi economici sono diversi. Il cibo è diverso. In Italia buono, in Finlandia meno buono. Ma l’essere umano è uguale. È fatto di sogni, paure, delusioni, fantasie, soddisfazioni e desideri che non si realizzano. Quello che resta è materia per le storie, e il romanzo è una sottospecie. Scrivo. Perché qualcuno si interessi di qualcos’altro che non sia se stesso. Vivere da soli non ha senso. Il libro è come un dispositivo per localizzare. Vedi da dove vieni, chi sei, dove stai andando, qual’è il tuo posto in questo mondo, quanto dista la prossima uscita e quando sei arrivato alla meta. Ti identifichi. Ti estranii. Ridi. Piangi. Nel mondo dove i presidenti fanno grande impressione con la stupidità, lo scrittore deve fare grande impressione… con la sua capacità di comprendere. (Tuomas Kyrö ha scritto questo discorso in occasione del Pisa Book Festival 2017, dove la Finlandia è stata Paese Ospite. Il testo è stato tradotto da Hilla Okkonnen e Linda Jonkela.)
Che meraviglia il discorso inaugurale di Tuomas Kyrö al Pisa Book Festival sulle motivazioni del suo scrivere. Eccolo qui:   Mia madre era bibliotecaria e scrittrice. Mio padre faceva il drammaturgo. Tutti e due lavoravano con la matita, con la macchina da scrivere, con la macchina da scrivere elettrica e da ultimo con i programmi per la videoscrittura. All’età di 10 anni sapevo con certezza che…
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gregor-samsung · 2 years
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“ Il maestro Piantieri parlava a tutti delle capacità straordinarie di quel bambino. Fdricchiè sapeva non solo disegnare, colorare, leggere e scrivere, ma anche dire con precisione la sua opinione in fatto d'arte, mostrando un precocissimo spirito critico e un'altrettanto precoce competenza. Un giorno, raccontava mio padre, successe che Piantieri portò in classe un quadro a olio di un pittore di nome Colizzi che rappresentava, come diceva il titolo, Effetti di neve all'alba. Fu il primo quadro a olio che vide nel corso della sua lunga vita e lì per lì gli fece una buona impressione. Ma dopo un po', avendo osservato con estrema cura il quadro, ne individuò i mille difetti e passò a una critica puntuale di ogni dettaglio sbagliato, dimostrando al maestro la pochezza del pittore Colizzi. Tanto che Piantieri, esterrefatto, chiamò subito don Mimì e gli disse: «Questo bambino deve andare d'urgenza alla scuola d'arte». Don Mimì arrivò di malavoglia, era la malattia mortale di ogni gratificazione o sentimento di commossa letizia che investisse il figlio. Il maestro si prodigò molto, elencò al tornitore tutti i meriti del bambino, disse che era il migliore in aritmetica, che scriveva benissimo, che cantava in modo molto intonato, che aveva orecchio per la musica, che aveva disegnato persino un bellissimo ritratto dell'onorevole Mussolini. Niente, don Mimì se ne fottette, specialmente di quell'ultima cosa. Appena a casa disse: «'O maestro è 'nu strunz! Che magni poi con la scuola d'arte?». Anzi da quel momento cominciò a chiedere spesso, ad alta voce, a un pubblico costituito sostanzialmente da Filumena: «Fdrì è meglio di me?». Domanda alla quale si rispondeva da solo, prima che la moglie si intromettesse: «No, non è meglio di me. Quindi farà l'operaio. Che c'è di male a fare l'operaio?». Qui mio padre, seduto davanti al cavalletto a disegnare, così mi spiegava: «Se uno sa fare solo l'operaio, Mimì, non c'è niente di male. Ma se uno ha un altro destino, e si vede benissimo da tanti segnali, che cazzo significa "che c'è di male"?». Non significava niente. Era solo una formula utile a suo padre per mandarlo al più presto a lavorare e raggranellare attraverso il primogenito un altro po' di danaro da giocarsi alle carte o alle corse dei cani. A questo tendeva don Mimì e perciò non voleva vedere, non voleva sentire. Gli occhi li aveva perfetti, le orecchie pure, era un uomo molto intelligente. Se avesse voluto ammettere: «Cazzo, guarda che figlio sono riuscito a fare», avrebbe potuto. Invece si era intestardito - mormorava Federì con una sofferenza di vecchia data nella voce - a scavargli una fossa profonda per buttarcelo dentro, figura d'orco che anticipava tutti gli orchi della sua vita futura: dirigenti scurnacchiati delle ferrovie, neoricchi presuntuosi, pittori chiavechemmèrd che gli strappavano premi importanti alle mostre. “
Domenico Starnone, Via Gemito, Feltrinelli (collana Universale Economica n° 8858), 2017⁶; pp. 249-50.
[Prima Edizione originale: 2001]
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gregor-samsung · 3 years
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“ Le voleva bene, a lei, il vecchio Alex, e voleva bene anche alle sue guance, alle sue dita e al modo che aveva di abbracciarlo. Alla fine di tutti i loro saluti tardoadolescenziali, lei aveva proposto di fare un giro sui colli e il solito roccioso aveva accettato subito, tutto proiettato d’entusiasmo e pronto a volare sulle ali della sua fantasia. In vespa, quel matto stava seduto dietro, a meno d’un centimetro dal maglione verde di lei: se l’era messo per farlo contento - Alex lo sapeva bene - perché quel maglione portentoso parlava di Irlanda, di Pogues e di felicità. Ecco, aveva pensato a un certo punto, mentre la vespa guadagnava via la strada, tutto questo il vecchio Martino non potrà più provarlo. Mai più avere il cuore in gola perché domani pomeriggio si parte e per due settimane non si vedrà una ragazza speciale; mai più accorgersi che una persona è veramente diversa dalle altre; mai più essere un po’ emozionato perché si deve fare una certa telefonata per la prima volta; e non essere mai più contento di sentire il motore di una certa vespa e credere di riconoscerlo anche se si sta solo sognando nel proprio letto una mattina di primavera; e non avere più un cavolo di niente, né ragazze con cui sperare di fare l’amore, né dischi da comprare, né giri di Fender Jaguar da suonare... Martino non sarebbe mai più andato sui colli con una ragazza, in due sulla stessa vespa: stava solo cercando di convivere con questo sentimento, il vecchio Alex, e poi all’altezza del capolinea del 16 cominciava la salita e Aidi era impegnata a guidare, e lui sentiva che erano veramente una cosa sola, il petto contro la sua schiena e le mani sui suoi fianchi. I capelli le uscivano dal casco, e al vecchio Alex era venuta in mente quella canzone degli Smiths, There’s A Light That Never Goes Out, dall’album The Queen Is Dead, quando più o meno dice Non portarmi a casa, stasera, perché non è più la mia casa, ma la loro, e io non sono più il benvenuto. E se un autobus a due piani si schiantasse contro di noi, sarebbe un modo sublime di morire, e se un camion ci uccidesse tutti e due morire al tuo fianco sarebbe un piacere e un onore, per me. E su nastro era ancora niente! Aveva visto un vecchio concerto su Videomusic, e tanto per cominciare c’era Morrissey con quella giacca trionfante e la camicia aperta, che ballava come un clown, epico e grottesco allo stesso tempo, un mazzo di fiori bianchi ammosciati in mano, allegoria sublime che ricordava We’re The Flowers In The Dustbin dei Sex, e non appena attaccava con And if a double-decker bus crashes into us, il teatro esplodeva, e migliaia di ragazzi si mettevano a cantare in coro quanto sognavano di morire insieme. Be’, gli veniva in mente proprio questo. Non che sperasse che Aidi tirasse dritto alla prossima curva in modo da volare giù belli sparati per la scarpata, però tornava fuori un’altra volta la magia di essere insieme, e il fascino di non capire esattamente cosa volessero uno dall’altro, perché soltanto dandosi la mano - uh - avevano già tutto. “
Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Una maestosa storia d'amore e di «rock parrocchiale», Baldini&Castoldi (collana Romanzi e Racconti n° 34), 1995; pp. 124-25.
[Prima edizione: Transeuropa (collana CO/DA), Ancona, 1994]
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gregor-samsung · 2 years
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“ I turisti giapponesi ascoltavano divertiti le musicalità mediterranee della sua convocazione al check-in Alitalia. «Non posso presentarmi in questo stato», avrebbe detto qualcuno. Lui era filato in bagno a cambiarsi la fruit of the loom sudata con una polo color albicocca più che rispettabile, lavarsi la faccia con una mano sola perché con l’altra doveva tener premuto il tasto dell’acqua gelata, pettinarsi con le mani bagnate fino a raggiungere l’impressione di un finto gel. Aveva il viso talmente abbronzato e la barba così di tre giorni, che sarebbe potuto sembrare uno studente universitario, o comunque un giovane degno di rispettabilità, traguardo dal quale lo separava implacabilmente la data di nascita stampata su passaporto e carta d’identità: appena diciassette anni e mezzo, non aveva la macchina, non fumava il cigarillo, non si sapeva vestire con gusto... In poche parole, il vecchio Alex sentiva di non avere il fascino skazzato che avvolge chiunque abbia una casa coi poster di Corto Maltese, una partner fissa ma non troppo, una specie di lavoro, delle feste decenti a cui andare, e una moto, e. Tutto questo ben di Dio lui poteva tentare d’imitarlo, ricalcarlo, ma non riprodurlo esattamente. Ci sarebbero voluti anni. E nel frattempo doveva imparare a riconoscere i vini e buttar via quelle tremende scarpe da basket. Basta parlarci dieci minuti, con certi diciassettenni - con i ragazzi intendo, perché con le ragazze è un’altra storia, più complicata - e salta fuori subito che sono dei maledetti insicuri. «Basta sentire come parliamo», rifletteva fra sé quel roccioso. «Noialtri, per esempio, ci lanciamo in tutte quelle acrobazie sintattiche che non hanno ancora nulla del magnifico menefreghismo di chi sbaglia i congiuntivi senza complessi... Il nostro gergo», rifletteva il vecchio Alex, «riguarda soprattutto la sfera scolastico-masturbatoria, senza quel distacco da frequentatore di jazz club che io spero tanto riusciremo ad acquisire col tempo... » Però, dopo tutti questi tentennamenti, il nostro roccioso ne era stato quasi certo: era solo una questione di tempo, e quel dritto l’aveva capito da come gli similsorrideva l’impiegata in camicia color crema - il mondo dell’aeronautica civile doveva essere un inferno di depravazione, la vita delle hostess e degli steward un viluppo di promiscuità innominabili. Insomma, quella lì non aveva mica lo sguardo condiscendente che si usa coi bambini, né l’espressione seccata che accompagna l’arrivo di un adolescente rompipalle tipo Il Mio Amico Scongelato. Cristo, lo stava guardando professionalmente, come un cliente rispettabile, un kazzo di giovane cliente rispettabile. Poi, parlando col caposcalo a un livello di parità, quel matto aveva proprio provato il brivido dell’incognito e la sensazione - oscura - di essere una specie di spia in territorio nemico: «Signore» «Lei potrà capire, son certo» «Alcuni sfortunati disguidi». Ehi, Girardengo reggeva la parte ch’era una bellezza. Da attore consumato. Senza scacazzarsi addosso per l’emozione di essere finalmente considerato un adulto, forte delle letture di culto del settore, Il Cavaliere d’Industria Felix Krull e Treno di Panna. Pure, qualcosa al centro della sua mente continuava a temere che da un momento all’altro quel signore in giacca gallonata si alzasse da dietro la scrivania, lo fissasse negli occhi e poi gli sibilasse a un centimetro dalla faccia: «Credi che non sappiamo che musica di merda ascolti? Credi che non sappiamo che dentro la tua valigia ci sono un paio di anfibi e due magliette dei Sex Pistols? Quella non è musica, è rumore! E ora fila fuori di qui, prima che ti sleghi dietro i cani, tardoadolescente di merda!» “
Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Una maestosa storia d'amore e di «rock parrocchiale», Baldini&Castoldi (collana Romanzi e Racconti n° 34), 1995; pp. 130-32.
[Prima edizione: Transeuropa (collana CO/DA), Ancona, 1994]
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gregor-samsung · 3 years
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“ Mio padre aveva insistito molto sullo studio. Quel bisogno mi era venuto da lui. Nella sua chiacchiera ora aggressiva ora accorata c'era sempre il rimpianto di non aver studiato a sufficienza, a cui però associava subito il disprezzo per l'istruzione senza intelligenza e senza fantasia. Affrontava di petto ogni diplomato o laureato. Voleva confrontarsi con loro e dimostrare di saperne di più, o comunque di saper trarre dal poco che conosceva più di quanto sapesse chiunque avesse fatto studi regolari. Da ragazzo non riuscivo a capire. Oggi era diplomato, domani no. Sfoderava competenze in ogni settore, teoria e pratica. Con disappunto di mia madre, a volte azzardava persino di essere laureato. Quella situazione confusa per anni mi ha causato imbarazzi, non sapevo come definirlo con gli amici. Poi piano piano Federì si è rassegnato e invecchiando ha preferito ammettere che non aveva diplomi né lauree. Ma lo ha fatto solo per poter meglio inveire contro suo padre. Colpa di don Mimì, diceva. Il tornitore, quando quel suo figlio di genio compì il decimo anno, decise bruscamente di mandarlo a lavorare in Francia, presso un fratello che era emigrato. Ma trovò l'opposizione durissima di nonna Funzella e di Filomena. E poiché temeva le scenate di sua moglie - vere dimostrazioni di furia senza alcun senso del limite: Filumè sapeva diventare pericolosa per sé e per gli altri -, si rassegnò momentaneamente a iscrivere il bambino alla scuola di avviamento al lavoro «Casanova», otto ore al giorno di frequenza, un anticipo dell'officina, della fabbrica. In genere a quel punto Federì apriva una parentesi per predirmi: «Tu invece studierai. Io non sono come mio padre. Tu potrai fare tutto quello che ti piace: l'ingegnere delle ferrovie, qualsiasi cosa. Non ti contrasterò». Ascoltavo e sentivo che avrei preferito essere contrastato. Confusamente intuivo che dietro quel «qualsiasi cosa» si nascondeva la necessità che facessi una cosa di grande soddisfazione per lui, tipo appunto l'ingegnere delle ferrovie. Perciò venivo preso dalla paura di non soddisfare le sue aspettative e gli invidiavo quel suo genitore che gli aveva messo i bastoni tra le ruote in tutti i modi, dandogli agio poi di dire: «Tutta colpa di mio padre». Ma lui non se ne accorgeva, chiudeva la parentesi e ribadiva: «Voleva mandarmi a faticare». Solo grazie ad altre terribili scenate di Filomena, memorabili in tutto il caseggiato, era riuscito a sottrarsi ancora una volta, finito l'avviamento, al lavoro. Don Mimì, spaventato, si era piegato di nuovo e aveva mandato il figlio all'Alessandro Volta per farlo diplomare operaio specializzato. Intanto le provava tutte per rendergli difficile la vita scolastica: non pagava le tasse se non con molto ritardo, non gli comprava i libri, lo aveva messo in condizioni di fargli perdere anni, di farlo cacciare da scuola. Il racconto di mio padre, di solito così colorito, in quell'area si perdeva in sussurri. Ancora negli anni novanta, anche dentro i quaderni delle sue memorie, lasciava calare una nebbia sulle storie smargiasse di precocità artistica, si perdeva la traccia della sua vivace autocelebrazione, si ottundeva il gusto di reinventarsi da capo a piedi. Accadeva come se il suo genio a quel punto si fosse raccolto in sé e, umiliato, avesse deciso di tacere. “
Domenico Starnone, Via Gemito, Feltrinelli (collana Universale Economica n° 8858), 2017⁶; pp. 251-52.
[Prima Edizione originale: 2001]
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pangeanews · 4 years
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Altro che “stucchevoli pastorelle” e “oneste galline della letteratura popolare”: i romanzi rosa sono bellissimi. Qualche esempio
“Sono solo romanzetti”: così viene per lo più, sbrigativamente, liquidata la letteratura rosa. E invece no: Patrizia Viola, con la Breve storia della letteratura rosa (Graphe.it, 2020), ci fa scoprire tutta la complessità di un genere considerato di serie B, quando non di serie Z. Ma il romanzo rosa (che solo in Italia si chiama così) non è un sottoprodotto editoriale; anzi, molto probabilmente anche chi storce il naso almeno un romanzo rosa l’ha letto, e per giunta di un autore tutt’altro che oscuro: Pamela, o la virtù premiata, pubblicato nel 1740 con enorme successo, è quello che, storicamente, viene riconosciuto come il prototipo di questo genere. L’autore, Samuel Richardson, prima di diventare famoso era un tipografo con un talento per la scrittura di missive: ragion per cui due amici librai, dice la leggenda, gli chiesero di scriverne una serie per un volume intitolato Lettere familiari, una sorta di manuale pratico di comunicazione domestica. Alla centotrentanovesima lettera, intitolata Un padre alla figlia che è a servizio, avendo saputo che il padrone ha attentato alla sua virtù, Richardson si distrasse dal progetto iniziale, e decise invece di approfondire la psicologia della ragazza insidiata, scrivendo un romanzo su un tema delicato e all’epoca assai sentito. Così, proprio grazie all’escamotage delle lettere, Richardson riuscì a descrivere i sentimenti più intimi della servetta. Certo, non era quello il primo romanzo moderno: Defoe aveva già scritto Robinson Crusoe (1719); Moll Flanders (1723) e Lady Roxana (1724), ma Pamela era il primo tentativo di rivolgersi a un pubblico soprattutto femminile, facendo dell’amore l’ingrediente principale della storia. Storia la cui protagonista, proprio come Cenerentola, passa le giornate a pulire e rassettare; tuttavia, non ci sono matrigna né sorellastre all’orizzonte, ma solo un maturo gentiluomo che vorrebbe farla sua. La giovane resiste e difende il suo onore, e lo fa tanto bene che, alla fine, riesce a farsi sposare dal suo focoso, e facoltoso, ammiratore; e da umile servetta si troverà a vivere non solo felice e contenta, ma anche ricca. La storia di Pamela è il modello di ogni romanzo rosa, per oltre duecentocinquant’anni: è in fondo la storia su cui si basa Elisa di Rivombrosa, la fiction record di ascolti fra 2003 e 2005; e pensare che la produzione venne bloccata due volte, perché si credeva che le storie in costume non ‘tirassero’ più!
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Nel XIX secolo, in Italia, il romanzo rosa si identifica con Carolina Invernizio: esordisce nel 1877, in età umbertina, ma la sua carriera arriva sino agli anni Dieci; ella ebbe un paio di intuizioni: rendere più pepato il romanzo con elementi cupi, paurosi, e con personaggi diabolici al confine dell’horror; e, soprattutto, demandare lo scioglimento della vicenda alle alleanze femminili, che travalicano i confini sociali e generazionali: la servetta viene salvata dalla padrona, la nipote dalla zia, e così via. Come sottolinea Sveva Casati Modignani (pseudonimo di Bice Cairati) C. Invernizio fu la prima a dimostrare quanto sia importante che le donne si aiutino e si sostengano, con buona pace degli intellettuali snob che la svillaneggiavano (addirittura fu detta “onesta gallina della letteratura popolare”).
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Ma il romanzo sentimentale, nell’Italietta anni Trenta e poi nei decenni a venire, porta il nome di Liala, che tutto giustifica in nome della passione, e le cui narrazioni sono null’altro che l’eterna ripetizione della sua vicenda amorosa personale (sposata con un marchese, lo lasciò per un bell’aviatore, ma poi, dopo la morte dell’amante, tornò dal marito e dalla figlia). Le sue eroine hanno fatto sognare le ragazze dell’Italietta del Ventennio, e oltre: in una nazione in cui ancora la povertà era tanta le condizioni igieniche precarie, Liala faceva sognare con i suoi scenari che raccontavano di ricchezza e lussi eleganti; e poi, come si compiaceva di dire, in una nazione in cui l’acqua corrente in casa non era ancora universalmente diffusa, le sue storie hanno insegnato agli italiani anche a fare frequente uso del sapone.
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Acquose e anodine sono invece le trame dei romanzi di Barbara Cartland, la regina inglese del racconto d’amore, morta centenaria nel 2000, dopo decenni passati a vestirsi di rosa e truccarsi come una Barbie che non si arrende al tempo, e a spargere perle di saggezza come: “Non cercare l’amore, sarà l’amore a trovare te”; “Non arrenderti mai; il vero amore può essere dietro l’angolo”. La Cartland, che fu nonnastra di Lady D (la figlia Frances sposò in seconde nozze Lord Spencer), contribuì del resto ad infarcire la testa della prima consorte di Carlo d’Inghilterra di fantasie sentimentali che cozzarono clamorosamente contro le aride regole del protocollo della famiglia reale.
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Per le italiane, oltre a Liala, il romanzo rosa portava il nome di Delly (pseudonimo di due fratelli francesi) e di Brunella Gasperini, giornalista che per prima portò nel genere rosa istanze sociali, anticipando Sveva Casati Modignani. Ma per noi che siamo state adolescenti negli anni Ottanta-Novanta, romanzo rosa è sinonimo di Harmony, quei romanzi venduti nelle edicole, suddivisi per argomenti segnalati dal colore (bianco, amore in ospedale, fra medico e infermiera, o fra paziente e fisioterapista, un grande classico; verde, avventure nella natura, con la bella di turno proprietaria terriera o ereditiera inesperta e il suo virile vicino; rosso, con storie che viravano verso l’audacia della passione). Romanzi ingiustamente tacciati come ‘lessa-cervello’, come diceva un mio collega, ma che invece sono scritti in un italiano pulitissimo, e che la Harlequin, la casa editrice, pubblica solo dopo aver sottoposto gli aspiranti autori (sì, ci sono anche uomini!) a un adeguato corso di formazione. E un analogo corso per aspiranti scrittori del genere rosa è proprio lo scenario del godibile Romanzo rosa, di Stefania Bertola (Einaudi 2012, rist. 2020). E se non lo sapeste, gli Harmony vendono ancora tantissimo, soprattutto in e-book, in modo tale che la distinta professionista o bancaria che in metro lo legge su tablet non sia esposta alla riprovazione che ancora tocca alle appassionate del genere.
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Né mancano ormai gli epigoni del genere, da Helen Fielding, con la sua Bridget Jones – che rivitalizza il mito di Elizabeth Bennet e di Mr. Darcy –, alle ragazze di Sex and the City (che personalmente, nonostante la mia rifornitissima scarpiera, mi sono sempre state abbastanza sulle scatole), sino alle fantasie fra il vampiresco e il voyeuristico di Stephanie Meyer con la saga di Twilight, vietatissima agli over 18: perché, diciamocelo, quale donna sana di mente e di corpo si sdlinquirebbe per Edward Cullen, questo vampiro anemico – è il caso di dirlo – e senza sostanza, quando potrebbe scegliere il più corposo amico licantropo (lui sì che fa sangue)? Solo una adolescente un po’ stordita come Bella Swann, in effetti.
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Ma quali sono gli antesignani del romanzo rosa? Dobbiamo risalire per questo non ai patres Romani, ma al mondo greco, che conobbe una bella fioritura di romanzi di intrattenimento, incentrati sulle avventure di una coppia di giovani bellissimi separati da peripezie indicibili, che si concludono con l’immancabile lieto fine, coronato dal matrimonio. Questa letteratura rosa ante litteram fu bersaglio anche in anni recenti di giudizi critici sferzanti: uno di questi, su una delle Storie della letteratura greca più diffuse, a opera di un grecista di grande fama, a proposito del più gradevole di questi romanzi, le Avventure pastorali di Dafni e Cloe, afferma, testualmente: “L’azione ristagna in stucchevoli pastorellerie, in ingenuità da deficienti”. In fondo, non sarei così severa: che cosa c’è di male nel rifugiarsi un po’, in ogni tempo e in ogni luogo, nella favola? E a proposito di luoghi, sapete quali sono le città più ‘rosa’ d’Italia? Nella classifica, stilata da Amazon, delle città dove maggiormente vendono i romanzi d’amore, figura stabilmente al primo posto la nordica Bolzano, seguita da Como, Trieste, Vicenza, Milano, Lucca, Verona, Trento, Pavia e Padova. Insomma, c’è sete di Rosa fra le brume del Nord.
Silvia Stucchi
*In copertina: John William Waterhouse, “La Belle Dame Sans Merci”, 1893
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pangeanews · 4 years
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Istruzioni su come leggere “La vita istruzioni per l’uso” di Georges Perec. In due giorni di quarantena, posizione Bobi Bazlen, supini sul letto…
A chiusura di libro, riprenderlo in mano, girarlo in senso orario di 180 gradi e poi in senso antiorario di 360 gradi. Risollevare il libro, sfogliarlo e intercettare i punti esclamativi segnati a margine, poi ricavarne delle immagini discontinue, come in un sogno. Dopodiché, vedere l’appartamento descritto nel libro: una ventina di inquilini in questo stabile parigino altoborghese, elegantino, che l’autore ci descrive passo passo, camera per camera, riacciuffando le storie di chi ci ha abitato, e poi rifigurarsi mentalmente i segreti, le mezze verità e gli enigmi di quelle esistenze: dietro a ogni stanza una storia e ancora dietro di lei, una leggenda.
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Succede questo dopo aver letto La vita istruzioni per l’uso di Georges Perec, opera concepita a cavallo dei suoi quarant’anni da un geniale ebreo-polacco nato in Francia, adottato da Raymod Queneau e adorato da Italo Calvino. Il libro uscì nel 1978 e gli prese almeno nove anni per la stesura ma come se non bastasse, oltre a questa opera-vita se ne adunano altre intorno al suo nome: Le cose (ora nel catalogo snob novecentesco Letture di mamma Einaudi) e soprattutto i gioielli di famiglia stampati da Quodlibet, sia reso omaggio a quei geni di Macerata. Dimenticavo: un paio di anni fa è stato stampato finalmente il suo primo romanzo, inedito anche in Francia sino al 2016.
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Per tornare a La vita istruzioni per l’uso: leggetelo in due giorni di quarantena, posizione Bobi Bazlen cioè supini sul letto con almeno un pacchetto da sfumazzare e possibilmente chiudetevi in Perec così da non accorgevi che la cenere è caduta almeno un paio di volte sulla tuta creandovi dei buchi da tarme.
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Altra sensazione gradevole leggendo Perec: vi compaiono autori e personaggi storici affastellati in un gioco di rimandi senza fine ed eventualmente senza senso. Se lo leggete a 18 anni ve lo godete come un parco giochi, se vi capita tra le mani a 30 anni e dietro avete qualche studio vi stupirete di ritrovarci quei personaggi che fino a un momento prima avevate lasciato nella teca del sacro graal universitario: ritrovarli così vitali, rimessi a nuovo da Perec fino a uscire dalla pagina. Tra gli altri, farete amicizia con Seneca Otto Raskenkjold, comandante di truppa danese distintosi nelle guerre contro i turchi e poi contro Napoleone che morì nel 1820 (non nel 1803 come segna l’indice dei personaggi). L’effetto è quello di leggere finalmente un libro serio dopo le pretese seriosità dei manuali di liceo e università: come scoprire L’autunno del Medioevo dello storico Huizinga dopo il beverone Il nome della rosa. E capire che Eco lo adorava, mentre lo scopiazzava…
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Altro divertimento. Studiare la planimetria dell’appartamento parigino descritto da Perec. Andare a fondo libro e scrutare quella planimetria come se si fosse architetti. Poi scorrere l’elenco dei personaggi e delle opere citati, capire cosa è reale e cosa fittizio, dopodiché spulciare l’indice delle storie e incasellarle nei 99 capitoli.
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A proposito di storie: era Italo Calvino che, tra il serio e lo snob, vedeva ne La vita una sorta di romanzo di romanzi sul genere delle Mille e una notte. Il richiamo funziona benissimo anche se purtroppo il romanzo è invaso al 60% da francesismi la metà dei quali sono grezzi e risultano indigesti a chi non sia appassionato di autoreferenzialità francese (per dire, io ho sgraffignato la copia della Vita dalla casa di un analista bolognese, ex lotta continua e devoto lettore di Repubblica e di Heidegger, ciononostante sposato in cachemire con una produttrice di champagne – ma non ero in casa sua per una cura analitica… insomma un appartamentino degno di figurare in un romanzo alla Perec).
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Già, Calvino. Perec fu masticato per anni dagli analisti del linguaggio fino a farlo scoppiare per le sue potenzialità. Immaginatevi uno scrittore che studia enigmistica, ci fa un libro sopra (La vita è un puzzle di un puzzle cui manca un tassello) e poi arriva la truppa degli esegeti: Perec ne esce distrutto. Diventa lo spaventapasseri sul campo arato fuori stagione da gente che oggi ha settant’anni e, diciamolo tondo, ci ha un po’ rotto la fava con le sue mode generazionali. Riprendiamoci Perec!
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Quando dico mode generazionali intendo questo: facciamo un giochetto degno de La vita. Vediamo come una ventina d’anni fa Repubblica parlava delle novissime edizioni del suo santino. Dalla rubrica Sette giorni in libreria: vi compaiono nell’ordine (senza senso) un libro sul diavolo di scoliasta nordamericana, un volume inevitabile del solito accademico sulla nascita della critica d’arte, un altro epistolario tra matematici italiani di primo Novecento, poi ancora un nuovo dizionario critico e finalmente il nostro eroe, Perec, con l’opera finale e incompiuta 53 giorni. In chiusa di articolo c’è l’immancabile Manganelli postumo de La notte portato sugli scudi da Adelphi (e a quanto ne so lo stamparono in fretta nella collana Biblioteca, numero 326, ed. 1996, mancando di inserire in fase di assemblaggio sedicesimi le pagine 103-118; al loro posto compaiono due volte quelle da 119 a 134 e io da un paio d’anni mi mangio le mani a non sapere cosa scrisse il divino calamo di Manganelli…)
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Io ne ho le balle piene delle mode editoriali. Andiamo a vederci Perec dal vivo e immaginiamolo che parla con Queneau e Calvino di letteratura potenziale, mentre Queneau come vecchio del gruppo racconta ai suoi sodali che negli anni Trenta seguiva le lezioni del mitico Kojeve, nipote di Kandinskj e fisico in potenza, poi staliniano per qualche anno e infine eminenza grigia di de Gaulle. Solo così potremmo capire, di là dalle chiacchiere in chicchere di Eco e compagnia bella, che Perec esce dal tronco di una certa zona grigia della Francia. La zona che ho in mente è quella di Kojeve: oggi si parla poco di lui nonostante le opere ‘filosofiche’ e di ‘mistero statale’ a catalogo Adelphi, ma in realtà è una bestia sacra.
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Una volta un istruttore mi voleva dare una tesi su Kojeve e gli influssi orientali che esercitò su Parigi e su certi surrealisti che gli ronzavano intorno: non ne facemmo niente anche perché ormai i ludi universitari erano finiti. Bisognerebbe farci un’intervista su Kojeve maestro di Queneau e Queneau maestro di Perec (che gli dedica La vita).
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Ritratto al volo di Kojeve. Nel secondo dopoguerra è consigliere di due ministri francesi. I due si siedono al tavolo con Kissinger e il saggio statista chiede al cerimoniere: ma chi sono questi due? Gli dicono Bouvard e Pecuchet. Non contento, Kissinger chiede chi sia l’uomo in piedi dietro i due. Lui? Lui è Flaubert…
Andrea Bianchi
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