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#grande depressione
fashionbooksmilano · 2 months
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Dorothea Lange
a cura di Walter Guadagnini e Monica Poggi
Dario Cimorelli Editore, Milano 2023,176 pagine, 23,5x28,5cm, ISBN 979-12-5561-023-8
euro 30,00
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Autrice dell’iconica Migrant Mother, l’immagine che meglio di qualunque altra ha saputo esprimere la tragedia della Grande depressione, Dorothea Lange (Hoboken, New Jersey, 1895 – San Francisco, 1965) è considerata una delle fotografe più importanti della storia. Con oltre 200 fotografie, il volume si concentra in particolare sugli anni trenta e quaranta, picco assoluto della sua attività: in seguito alla grave siccità che colpisce il paese, viene infatti incaricata dalla Farm Security Administration del governo americano di documentare l’esodo dei lavoratori agricoli che migrano verso ovest in cerca di un futuro migliore. In lunghi viaggi Lange realizza migliaia di scatti, immortalando volti e storie rimasti per sempre nell’immaginario collettivo. Lange, eccelsa ritrattista, riesce a raccontare il vissuto emotivo di chi incontra, sottolineando il grande potere della fotografia di dare voce a persone altrimenti invisibili nello scorrere della storia.
Mostre Camera Torino, Museo Civico Bassano 2023
21/02/24
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santeptrader · 6 months
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29 ottobre 1929, crolla Wall Street è il "martedì nero"
Il Crollo di Wall Street del 1929: L’Inizio della Grande Depressione Il 29 ottobre 1929, noto come il “Martedì Nero,” segna un momento cruciale nella storia economica e politica degli Stati Uniti e del mondo intero. Questa data storica rappresenta l’inizio della Grande Depressione, una delle crisi economiche più devastanti e influenti del XX secolo. Questo crollo non fu semplicemente un evento…
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kon-igi · 2 days
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QUA CI SAREBBE STATO UN TITOLO ALTISONANTE MA QUESTA VOLTA NO
Trovo difficile spiegare quello che sto per raccontarvi, non perché provi vergogna o esitazione ma perché ho impiegato 23 giorni a capire cosa stesse succedendo e tutte le volte che mi fermavo con l'intenzione di parlarne, sentivo che le parole scritte non avrebbero reso il senso di quello che stavo provando.
Questa volta lo butto giù e basta, ben consapevole che le parole immiseriscono ciò che una volta fuori dalla testa non sembra poi così universale o interessante.
L'errore più grande che ho fatto in questi cinque anni (conto un anno prima della pandemia ma forse sarebbero pure di più) è stato credere di avere un equilibrio emotivo tale da poter prendere in carico i problemi e le sofferenze delle persone della mia famiglia.
Non solo, mi sono fatto partecipe e a volte risolutore dei problemi dei miei amici e una volta che sono stato in gioco mi sono reso disponibile ad ascoltare chiunque su questa piattaforma avesse bisogno di supporto, aiuto o di una semplice parola di conforto.
Ho sempre detto che una mano tesa salva tanto chi la stringe che chi la allunga e di questo sono ancora fermamente convinto.
Ma per aiutare qualcuno devi stare bene tu per primo, altrimenti ci si sorregge e si condivide il dolore, salvo poi cadere assieme.
In questi anni ho parlato molto di EMPATIA e di sicuro questa non è una dote che mi manca ma c'è stato un momento - non saprei dire quando e forse è stato più uno sfilacciamento proteso nel tempo - in cui non ho potuto fare più la distinzione tra la mia empatia e la mia fragilità emotiva.
Sentivo il peso, letteralmente, della sofferenza di ogni essere vivente con cui mi rapportavo... uno sgangherato messia sovrappeso con la sindrome del salvatore, insomma.
Sovrastato e dolente.
Mi sentivo costantemente sovrastato e dolente e più provavo questa terribile sensazione, più sentivo l'impellente bisogno di aiutare più persone possibile, perché questo era l'unico modo per lenire la mia sofferenza.
Dormivo male, mi svegliavo stanco, mangiavo troppo o troppo poco, lasciavo i lavori a metà e mi veniva da piangere per qualsiasi cosa.
Naturalmente sempre bravo a dispensare consigli ed esortazioni a curare la propria salute mentale ma lo sapete che i figli del calzolaio hanno sempre le scarpe rotte, per cui se miagola, graffia e mangia crocchette, bisognerà per forza chiamarlo gatto.
E io l'ho chiamata col suo nome.
Depressione.
La mia difficoltà, ora, a parlarne in modo comprensibile deriva da un vecchio stigma familiare, unito al fatto che col lavoro che faccio sono abituato a riconoscere i segni fisici di una patologia ma per ciò che riguarda la psiche i miei pazienti sono pressoché tutti compromessi in partenza, per cui mi sto ancora dando del coglione per non avere capito.
All'inizio ho detto 23 giorni perché questo è il tempo che mi ci è voluto per capire cosa sto provando, anzi, per certi aspetti cosa sono diventato dopo che ho cominciato la terapia con la sertralina.
(per chi non lo sapesse, la sertralina è un antidepressivo appartenente alla categoria degli inibitori della ricaptazione della serotonina... in soldoni, a livello delle sinapsi cerebrali evita che la serotonina si disperda troppo velocemente).
Dopo i primi giorni di gelo allo stomaco e di intestino annodato (la serotonina influenza non solo l'umore ma anche l'apparato digestivo) una mattina mi sono svegliato e mi sono reso conto di una cosa.
Non ero più addolorato per il mondo.
Era come se il nodo dolente che mi stringeva il cuore da anni si fosse dissolto e con lui anche quell'impressione costante che fosse sempre in arrivo qualche sorpresa spiacevole tra capo e collo.
Però ho avuto paura.
La domanda che mi sono subito fatto è stata 'Avrò perso anche la mia capacità di commuovermi?'
E sì, sentivo meno 'trasporto' verso gli altri, quasi come se il fatto che IO non provassi dolore, automaticamente rendesse gli altri meno... interessanti? Bisognosi? Visibili?
Non capivo ma per quanto mi sentissi meglio la cosa non mi piaceva.
Poi è capitato che una persona mi scrivesse, raccontandomi un fatto molto doloroso e chiedendomi aiuto per capire come comportarsi e per la prima volta in tanti anni ho potuto risponderle senza l'angoscia di cercare spasmodicamente per tutti un lieto fine.
L'ho aiutata senza che da questo dipendesse la salvezza del mondo.
Badate che non c'era nulla di eroico in quella mia sensazione emotiva... era pura angoscia esistenziale che resisteva a qualsiasi mio contenimento razionale.
E ora sono qua.
Non più 'intero' o più 'sano' ma senza dubbio meno stanco e più vigile, sempre disposto a tendere quella mano di cui sopra - perché finalmente ho avuto la prova che nessun farmaco acquieterà mai il mio amore verso gli altri - con la differenza che questa voltà si cammina davvero tutti assieme e io sentirò solo la giusta stanchezza di chi calpesta da anni questa bella terra.
Benritrovati e... ci si vede nella luce <3
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limoniacolazione · 10 months
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Cronaca dell’ultimo anno, del perché scomparire, del perché poi tornare TW: Depressione, suicidio, burn-out
Il 10 ottobre 2022 il mio medico ha scritto per la prima volta, nero su bianco, nella mia cartella clinica le parole “burn-out” e anche “disturbo depressivo maggiore” e ancora “fobia sociale selettiva”. La mattina del 10 ottobre 2022 ho avuto un episodio psicotico mentre aspettavo di uscire di casa per andare al lavoro e con la sensazione, come ogni sacrosanto giorno, di non volerci andare, di non poter forzare un passo fuori dalla porta senza piangere a dirotto. Prima di quella mattina, ho passato ogni giorno delle vacanze nell’estate 2022 ad avere un attacco di panico perché un secondo dopo l’altro mi avvicinavo immancabilmente al rientro al lavoro. Prima ancora dell’agosto 2022, avevo già ascoltato la parola “burn-out” appiccicarmisi addosso durante una seduta di psicoterapia: era il 2021, ma non ci ho fatto caso. Quando ho chiuso l’Atelier Pupini, quando ho smesso di cucire, quando ho smesso di leggere i tarocchi, quando non ho più sentito interesse per niente e nessuno, quando ho smesso di dormire la notte, quando ho pianto tutte le lacrime, quando ho iniziato ad avere paura di uscire di casa, quando tutte queste cose si sono accumulate come macigno sui polmoni, avrei dovuto forse accorgermi e prendermi una pausa, ma non ci ho fatto caso. Quando ad inizio del 2021 ho avuto una sciatica, l’unica della mia vita, che si è protratta per mesi, che mi ha imposto di camminare con due stampelle per tutta la primavera, che è stata studiata come un mistero da molteplici esperti del campo medico che non hanno saputo trovare una spiegazione, avrei dovuto ascoltare il richiamo del corpo che mi invitava a fermarmi, ma non ci ho fatto caso. 
Quando lavori nel sistema pubblico, aggiungici pure che sei una people pleaser del cazzo, che non hai mai imparato a dire no, che i limiti non sai manco come si scrive, quando lavori per dei bambini che sono in tutte le situazioni della scala sociale, che si sono trovati ad avere magari dei genitori di merda o che sono meno fortunati di tanti altri, non ci fai caso ai segnali che ti dicono di fermarti quando c’è ancora tempo. Non ci fai caso perché il senso di responsabilità è la tua forza motrice. Perché se non te ne occupi tu, chi lo farà? Così non ho frenato. Mi sono schiantata con la pazzia, la depressione, il burn-out, la fobia sociale in un mattino di ottobre 2022; ci siamo accartocciati e siamo diventati una cosa sola.
Alla dottoressa che ha scritto, nero su bianco, nella mia cartella clinica, le parole “burn-out” e anche “disturbo depressivo maggiore” e ancora “fobia sociale selettiva” ho detto “mi faccia un certificato per oggi che ho saltato il lavoro e domani ci ritorno” (che quando uno è di coccio). Lei, la dottoressa, ha riso. Mi ha detto “hai pensieri suicidi?” e io ho detto no, fissando però un quadro del lago d’Annecy e immaginandomi nel suo fondo più profondo, coperta da metri cubi d’acqua, cosa che anche oggi, a scriverla, mi fa sentire una leggerezza, una pace che non so meglio descrivere. Ho mentito. La verità è che non avrei potuto sopportare un ricovero in ospedale psichiatrico, che mi avrebbe annientata e per questo ho mentito. Per mesi ho avuto idee suicidarie passive e adesso che è quasi un anno che sono sotto antidepressivi, direi che sempre di meno. Va meglio.
Al lavoro non ci sono più tornata. Mi hanno messo in lunga malattia. Adesso il mio lavoro è curarmi e provare a riemergere meglio di prima.
Ho imparato che si può essere depressi e innamorati, aver voglia di morire e ridere allo stesso tempo, passare notti insonni e giorni a dormire, che corpo e testa lavorano insieme, anche quando ti sembra che vogliano farti la guerra. 
La strada è ancora lunga, ma non sono sola. Esco ancora poco, ma parlo agli amici (ogni tanto, anche se lo sforzo è grande) e parlo di quello che sto vivendo (pure se la fatica è titanica). L’amico G., di professione psichiatra, mi ha chiesto se sono seguita. Ho risposto che ho due psicologi (uno per l’EMDR, una clinica) e uno psichiatra e che il prossimo passo è invitarli tutti a fare una partita di strip poker per entrare ancora di più in intimità.
Lo psicologo dell’EMDR mi ha detto “concediti un errore, mostrati trasparente, non abbellire la vita, inciampa”. Così, in tutta fragilità, ho scritto questa cosa e glielo dirò alla prossima seduta. 
Guillaume mi ama, riamato. Ogni tanto, quando mi sente vagare per casa, nel mezzo della notte, si alza anche lui, prende due biscotti e facciamo insieme uno spuntino. 
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occhietti · 10 months
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Dovevo essere una figlia, una moglie, una madre e una lavoratrice perfette e instancabili, tutto doveva funzionare insieme senza intoppi, piuttosto preferivo arrivare la sera col batticuore e mal di testa, ma dovevo dirmi a fine giornata: "Brava, non hai deluso nessuno, nemmeno te stessa!
E quindi rinunce su rinunce negando i miei desideri.
Poi il mio corpo ha iniziato a darmi dei segnali importanti di disagio.
Ho capito che dovevo cambiare rotta, che perfezione e razionalità non vogliono dire felicità.
"Si può passare l'intera vita a dire: "Devo essere così", a inseguire un modello. E a rimproverarsi: "Sono una sciocca, perché non ci riesco? Perché sbaglio?"
Ma è proprio il modello di perfezione che non ci appartiene a creare tutte le lotte interiori e a farci stare male con noi stessi.
I più pericolosi sono i percorsi di vita innaturali, gli obblighi presi per non deludere, i gesti che trattieni per paura del giudizio degli altri.
Per adeguarci al modo di essere che pensiamo sarà accettato dagli altri, spesso finiamo per valutare come inadeguato ciò che emerge in noi: istinti, emozioni, desideri, parole, gesti...
Ci sorvegliamo, ci vergogniamo, ci controlliamo, ci giudichiamo.
Ma controllarsi per non sgarrare innesca una guerra interna che può sfociare in attacchi d'ansia e panico o depressione.
Se c'è troppa distanza tra quel che ti piace e quel che fai, vuol dire che ciò che fai non è dettato da ciò che ti piace, ma dal tipo di persona che pensi di essere, e non sei.
La più grande malattia è proprio imporsi percorsi di vita innaturali.
Ma dove c'è troppa forza, si innescherà la resistenza.
Più cerco di guidarmi in modo forzato lontano dalla mia strada, più emergeranno disagi e sofferenza che cercano di riportarmi sul mio percorso. Perché l'inconscio cerca sempre la completezza e non tollera che qualche parte di noi vada perduta.
"Doveri, doveri, doveri...
Poi mi sono chiesta: e io?
- Raffaele Morelli
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illsadboy · 6 months
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Vedo tutto questo potenziale, e lo vedo sprecato. Porca puttana, un’intera generazione che pompa benzina, serve ai tavoli o schiavi con i colletti bianchi. La pubblicità ci fa inseguire le macchine e i vestiti. Fare lavori che odiamo per comprare cazzate che non ci servono. Siamo i figli di mezzo della storia. Non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo né la Grande Guerra né la Grande Depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale. La nostra grande depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinti che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock star... ma non è così e lentamente lo stiamo imparando. E ne abbiamo veramente le palle piene.
-Fight Club-
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susieporta · 9 months
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CAMBIAMENTI
quando c’e’ da fare un cambiamento, s’inizia sempre col percepire un fastidio.
Questo fastidio, nel tempo, diventa irritazione, poi frustrazione, poi rabbia o depressione, poi s’inizia a stare male.
Se fossimo così saggi da soffermarci a guardare il fastidio e da lì attuare il cambiamento, non si arriverebbe allo step finale ( spesso è la malattia)
Invece la paura di cambiare ci fa restare immobilizzati, sullo stesso punto senza muovere un passo, a volte per anni!
A volte anche una vita intera.
Molte volte sono i condizionamenti a tenerci inchiodati a quel lavoro, a quel matrimonio, a quello stile di vita, a quell’abitudine.
Conosco molte persone, sagge, intelligentissime, che ancora sentono il bisogno di chiedere l’approvazione dei genitori quando devono prendere decisioni importanti!
Talvolta l’idea sorpassa anche la mia mente.
Il cambiamento tuttavia, differentemente da quel che ci e’ stato insegnato, è l’unica costante dell’esistenza.
Tutto cambia. Sempre e continuamente.
Perché noi no?
Perché noi dovremmo fare per 80 anni le stesse cose?
Ho molta stima e apprezzamento per chi sa reinventarsi a tutte le età, in ogni modo, considerando la vita per quel che è cioè un grande laboratorio, un gioco sperimentale e certamente mortale.
Nessuno di noi ha realmente qualcosa da perdere giacché è tutto in prestito incluso il corpo grossolano.
La paura di fallire attanaglia molte persone, ma il vero e unico fallimento è non essere se stessi, non aver vissuto la vita che volevi vivere- che per altro è il pentimento più frequente in punto di morte…
Cambiare fa paura perché ci è stato insegnato a puntare sulle cose stabili e certe.
Che fregatura!
Le cose stabili e certe sono solo la morte e le tasse diceva qualcuno, sicche’ tu mi stai dicendo che abbiamo puntato su qualcosa di non vivo e non vitale e anche noioso ( non so a chi piacciono le tasse ..!) ?
Eh si amico.
Dentro ognuno di noi ci sono molti talenti.
Invece molti tendono a identificarsi col proprio lavoro!
Ma un architetto può essere un bravissimo scacchista, o un danzatore, o un ricamatore.
E per noi è molto importante esprimere tutte le parti di noi.
Una cosa che mi fa girare gli occhi al cielo è essere appellata con la mia professione- che per altro nemmeno pratico più in senso stretto ma solo su carta- ah tu che sei psicologa, ah tu che hai studiato questo e quello!
Che noia mortale.
Per me la psicologia è una piccola parte della mia vita. Io sono molto di più, la mia anima contiene molto di più.
Cambiare significa aprirsi alla vita, al vitale, al pulsare, al fluire, allo scorrere, al lasciar andare.
Se non cambi quando devi, dovrai cambiare con le maniere forti.
Col dolore
Con la perdita
Con gli incidenti
Apriti al cambiamento, c’e’ sempre qualcosa dietro l’angolo, c’e’ qualcosa che devi ancora imparare e comprendere e sperimentare.
Ci sono altre parti di te che vogliono essere chiamate per nome e uscire a danzare.
Accogli l’invito della vita.
_Claudia Crispolti
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charlievigorous · 3 months
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Non siete il vostro conto corrente. Non siete la macchina che guidate, né il contenuto del vostro portafoglio. Non siete i vostri pantaloni. Siete la merda cantante e danzante del mondo. Vedo un enorme potenziale in giro, ma è tutto sprecato. Un’intera generazione che lavora nelle stazioni di servizio, che serve ai tavoli o fa da schiavo in qualche lurido ufficio. La pubblicità ci fa desiderare macchine e vestiti che non vogliamo, facciamo dei lavori che odiamo por poter comperare merda di cui non abbiamo bisogno. Siamo i figli maledetti della storia, sradicati e senza obbiettivi, non abbiamo combattuto una grande guerra, non abbiamo sofferto una grande depressione. La nostra guerra è quella con lo spirito, la nostra depressione è la nostra propria vita. Siamo cresciuti davanti alla televisione che ci ha fatto credere che un giorno saremmo diventati milionari, stelle del cinema o del rock. Ma non accadrà mai, e piano piano cominciamo a capirlo, per questo siamo così incazzati.
Chuck Palahniuk - Fight Club (Trad. di M. Fernández)
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angelap3 · 2 months
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Accadde oggi...
"Metti che tu hai lavoro per un operaio, e che per avere quel posto si presenta solo uno. Ti tocca dargli la paga che vuole. Ma metti che si presentano in cento.” Il ragazzo posò la raspa. Il suo sguardo s’indurì e la sua voce s’inasprì. “Metti che quel posto lo vogliono in cento. Metti che quei cento hanno dei bambini, e che quei bambini sono affamati. Metti che dieci centesimi bastano per comprare un po’ di farina di mais a quei bambini. Metti che cinque centesimi bastano per fargli mettere almeno qualcosa sotto i denti. E per quel posto si sono presentati in cento. Tu offrigli cinque centesimi, e vedi se non s’ammazzano tra loro per avere i tuoi cinque" centesimi".
(john Steinbeck, tratto da "Furore", 1939)
"Furore" è un romanzo che ti prende dall'inizio alla fine, facendo scoprire le dolorose vicende di un'America travolta dalla grande depressione e la tragedia dell'emigrazione di migliaia di persone, criticate ed avversate dell'ostilità da parte delle popolazioni dei luoghi attraversati. L'unico rimedio è la coesione della famiglia, al cui centro vi è una splendida donna, catalizzatrice e perno insostituibile. Fanno da sfondo dettagliate descrizioni della natura e, soprattutto, un'attenta analisi del fenomeno delle migrazioni di grandi masse di persone, sempre di stretta attualità, sulle quali l'autore si sofferma con calore e trasporto.
Il finale, quasi imprevisto, colpisce il lettore e dà il senso della concezione della vita di Steinbeck. Questo scrittore andrebbe letto sempre, dai giovani e dai meno giovani. Non soltanto questo libro, tutte le sue opere, sempre attuali e ben scritte. Ricordando oggi Steinbeck, nato il 27 febbraio 1902.
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marmocchio · 1 month
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Nel 2018, prima della grande depressione, avevo fatto amicizia con EmilioSolfrizzi, un coniglio abbandonato. Ero diventato tipo lo zimbello del paese, perché ogni sera andavo dove soggiornava a dargli da mangiare.
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elorenz · 4 months
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La depressione, che è cosa ben lontana dalla comune tristezza, è una malattia che ogni giorno ti mangia un pezzo d'anima. Ti corrode da dentro privando il cervello di un senso, di un significato che possa spingerti a compiere una qualsiasi attività fisica o verbale. Tutto ciò che è il contesto alla persona, nella dimensione di realtà, sbiadisce fino ad arrivare ad una trasparenza che priva la persona dei sensi. Un mostro invisibile che ritocca i tratti stirando la pelle in un espressione di cerata impassibilità, cava dagli occhi la vita e rende lo sguardo privo di quella scintilla che è la percezione. Ogni cosa diviene indifferente poiché priva di emozione.
Ho visto questo attraverso una persona che è quasi un familiare. Questo zio (acquisito) era un grande appassionato di musica, un bravissimo pianista che aveva adibito una stanza del suo appartamento allo strumento. "Questa è la stanza del piano" disse a suo tempo. A dicembre sono passato a trovarlo con mio cugino (altro bravo pianista) ed ha provato a coinvolgere questo zio chiedendo di suonare il piano ma le dita sui tasti erano rigide, pigre, svogliate e senza direzione musicale. Allora mio cugino si è messo a suonare certi brani dei Beatles (che sapeva essere il gruppo di riferimento di questo nostro parente) gli chiedeva se ricordasse i titoli, iniziò con le prime note di Strawberry fields forever, Let it be, Golden slumbers per passare da ultimo a Penny Lane ma il mutismo gli cuciva la bocca ed emetteva solo versi. Mmmh...uhmmm... annuendo spento. Poi ad un certo punto si è alzato senza dire nulla ed è andato a dormire, erano le 13 e di lì a breve avremmo pranzato.
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crepuscoloscuro2 · 4 months
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Mi chiedo come mai io non possa trovare mai una persona con cui essere felici assieme.... E come mai la mia vita debba sempre essere caratterizzata da una costante solitudine.. vedo il mondo andare avanti e io rimanere sempre indietro. Non capisco davvero il meccanismo di rimanere incastrato in questo loop infinito di depressione cronica e voglia di piangere tutto il giorno. Quando qualcosa sembra andare bene, c'è qualcosa che mi riporta dieci volte più in giù. Un grande peso sul cuore.
Ci sto provando da troppo tempo a farmi forza ma non ci riesco davvero.... Sono stanco
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kon-igi · 8 months
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IL CANALE DEL DOLORE
È un argomento molto difficile da trattare per me, anzi, lo era fino a oggi pomeriggio, quando sono riuscito a trovare una metafora per definire il mio stato d'animo... stavo guidando, ho tirato fuori una penna dalla borsa e mi sono scribacchiato sul polso il titolo che avete letto là in alto, giusto per non dimenticare l'immagine che mi era apparsa.
Non credo proprio di soffrire di depressione (non rispetto i criteri maggiori), magari qualcosa di più simile a una pseudo-ciclotimia ma, vedete, potrei anche sbagliarmi però ho come l'impressione che le persone dividano le loro esperienze in positive e negative: da una parte le cose che le hanno fatte stare bene e che, se perseguite, continuano a far stare bene e dall'altra quelle negative, esperite nel passato e da evitare nel futuro.
Sbaglio nel pensare questo? Me lo confermate?
Ecco... per me funziona in modo completamente differente.
Io ho vissuto esperienze e basta, se percepite poi positive o negative dipende dalla mia vicinanza al Canale del Dolore.
Prendete la mia gattina Minou, che ci è stata accanto per tanti anni, fin dalla nascita di Figlia Grande.
Se percorro la mia vita nel verde paesaggio del mondo posso ricordarne con gioia i bei momenti condivisi assieme - quando la allattavo minuscola e miagolante, quando dal tavolo ha rubato un pollo arrosto intero più grande di lei e quando Figlia Grande divideva con lei i biscotti plasmon sul seggiolone. Poi però imbocco il viale di ghiaia che costeggia il canale del dolore e comincio a provare nostalgia - le zampate di fango che ancora resistono sotto al davanzale della finestra da cui entrava, il collarino viola che sbuca fuori da un cassetto - e poi comincio a camminare sugli argini del canale, dove mi prende la tristezza del vuoto che ha lasciato, di come forse avrei dovuto accarezzarla di più, di come a volte la sogno e sono pieno di gioia che sia tornata ma poi mi sveglio con le guance umide.
E infine cado nel canale del dolore, dove riconosco le mie colpe e ciò che avrei potuto fare e non ho fatto.
Intendiamoci, non succede sempre e soprattutto non succede per ogni cosa che ho vissuto ma il cammino è sempre potenzialmente quello.
Per dire, ho vissuto cose estremamente negative e mi basta riuscire a stare lontano da quel canale, nel verde della foresta del mondo, per riuscire comunque a evocare un ricordo di quello che di bello sono riuscito a tirare comunque fuori da esse.
Vi dirò, forse il trucco è camminare sul bordo di quel viale di ghiaia, attingendo alla malinconia per farmi più consapevole del tempo che scorre in una sola direzione e nel contempo non rimpiangere mai troppo ciò che non è più...
Però la vita è faticosa e in quel canale giacciono troppi nomi e troppi istanti perché il mio passo sia sempre fermo e dritto.
E fa male che il dolore nel caderci dentro offuschi i bei ricordi.
Vabbe'... stasera va così ma sono sicuro che domani qualcuno mi confermerà che c'è davvero del buono in questo mondo e che è giusto combattere per questo, quindi tranquilli <3
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fashionbooksmilano · 1 year
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L’arte del manifesto giapponese
Gian Carlo Calza
Skira, Milano 2021, 520 pagine,  31 x 29.7cm,  Cartonato, ISBN  9788857245775
euro 55,00
email if you want to buy :[email protected]
Il volume più completo, finora mai realizzato, sul graphic design giapponese. a cura di Gian Carlo Calza in collaborazione con Elisabetta Scantamburlo          Il volume vuole colmare una lacuna sulla storia del graphic design giapponese, quella relativa ai primi due decenni del nuovo millennio, raccontando da un lato il passato, con l’opera dei grandi maestri, e dall'altro esplorando nuovi nomi e tendenze. Il volume comprende 85 grafici e 756 poster. È il volume più completo sull'argomento, mai pubblicato finora. Si ritiene che i manifesti contemporanei giapponesi siano iniziati a metà degli anni '50, dopo la seconda guerra mondiale e dopo un periodo di depressione, post-militarismo e post-autarchia. La nuova modalità espressiva, in quegli anni, venne alimentata da stimoli provenienti dall'estero, ma reinterpreta anche temi e colori della tradizione, portandoli nella modernità. Dal dopoguerra, il Giappone ha visto una rapida evoluzione nelle arti: pittura, architettura, scultura, grafica, teatro, musica e cinema. Influenze, assimilazioni, trasformazioni, nuovi processi creativi hanno dato origine a una grande quantità di movimenti culturali e artistici. In questo dedalo di forme espressive, la grafica è diventata uno strumento prezioso per tracciare e seguire il filo della creatività nazionale. Dalla “nascita” della grafica giapponese arrivando a Tokyo 2020, questo volume intende dare una visione ampia delle tendenze, dei cambiamenti estetici e della storia del design grafico in Giappone.
23/11/22
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fridagentileschi · 5 months
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NIKA TURBINA: LA BREVE VITA DI UNA POETESSA RUSSA
Nika Turbina, nata a Jalta, in Crimea, il 17 dicembre 1974, fu presentata come una seconda Anna Akmatova, una delle più importanti poetesse russe. Ma il destino non fu tenero con lei.
Il percorso letterario di Nika iniziò all’età di 4 anni, quando prese a scrivere e a leggere poesie a sua madre e a sua nonna.
Non erano i soliti testi che scrivono i bambini, ma roba seria; versi per adulti.
''Io sono una bambola rotta.
Si sono scordati di mettermi
un cuore nel petto.
E al buio, in un angolo, inutile,
abbandonata.
E come una bambola rotta
al mattino ho ascoltato
i bisbigli di un sogno:
«dormi, tesoro, dormi
e voleranno gli anni
e al tuo risveglio
di nuovo vorranno
prenderti in braccio
cullarti per gioco,
e troverà il suo battito
il cuore».
È solo tremendo
aspettare.''
Turbina fu subito notata e seguì per lei una cascata di riconoscimenti e premi. Quando aveva 9 anni, il suo primo libro di poesie, che si intitolava proprio così,“Pervaja kniga stikhov” (“Primo libro di Poesie”), venne pubblicato a Mosca. Tradotto in 12 lingue, vinse il Leone d’oro per la poesia a Venezia nel 1984.
Pochi sapevano che da sempre Nika soffriva di asma bronchiale, il che la portava all’insonnia e alla depressione permanente. Definiva se stessa “un essere della notte”. “Solo di notte mi sento protetta da questo mondo, da questo rumore, da questa folla, da questi problemi”, diceva Nika.
Gli anni passarono e l’ormai adulta Nika divenne meno interessata al suo pubblico rispetto a quando era una ragazzina di grande talento. Cercò di trovare il suo posto nella vita: si sposò e si mise a studiare fotografia. Nulla la aiutò, e negli ultimi anni fu dipendente da droghe e alcol.
L’11 maggio 2002, a 27 anni, cadde da una finestra del quinto piano. Non è mai stato chiarito se si sia trattato di un suicidio o di un tragico incidente.
''Sono pesi queste mie poesie,
pietre spinte lungo una salita.
Le porterò stremata
allo strapiombo.
Poi cadrò, viso nell’erba,
non avrò lacrime abbastanza.
Smembrerò la strofa
scoppierà in singhiozzi il verso
e si pianterà nel palmo
con dolore anche l’ortica.
L’amarezza di quel giorno
tutta trasmuterà in parola.''
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gregor-samsung · 1 year
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“ Invece di seguire il programma di austerità del suo predecessore Hoover, il presidente del New Deal, come ha notato Barbara Spinelli su «la Repubblica», «aumentò ancor più le spese federali. Investì enormemente sulla cultura, la scuola, la lotta alla povertà». Purtroppo, aggiunge la Spinelli, «non c’è leader in Europa che possegga, oggi, quella volontà di guardare nelle pieghe del proprio continente e correggersi. Non sapere che la storia è tragica, oggi, è privare di catarsi e l’Italia, e l’Europa». Già: addirittura una «catarsi». Ma è proprio quello che ci vorrebbe. Roosevelt, infatti, non mise solo i disoccupati a scavare buche e a riempirle, come tanto spesso si dice. Tre dei più importanti progetti della Works Progress Administration, i più singolari, innovativi e duraturi, furono quelli compresi nel cosiddetto Progetto Federale numero 1, altrimenti noto come Federal One, che sponsorizzò per la prima volta piani di lavoro per insegnanti, scrittori, artisti, musicisti e attori disoccupati. Il Federal Writers’ Project, il Federal Theatre Project e il Federal Art Project misero al lavoro per qualche anno più di ventimila knowledge workers (come li chiameremmo oggi), tra i quali c’erano Richard Wright, Ralph Ellison, Nelson Algren, Frank Yerby, Saul Bellow, John A. Lomax, Arthur Miller, Orson Welles, Sinclair Lewis, Clifford Odets, Lillian Hellman, Lee Strasberg (il fondatore del mitico Actors Studio) ed Elia Kazan. Non si trattò di elemosina: checché. Oltre a produrre opere d’arte (migliaia di manifesti, disegni, murales, sculture, pitture, incisioni...), gli artisti plastici e figurativi vennero impiegati nella formazione artistica e nella catalogazione dei beni culturali, e crearono e resero vivi anche un centinaio di community art centres e di gallerie in luoghi e regioni in cui l’arte era completamente sconosciuta. In tre anni, nella sola New York, più di dodici milioni (12.000.000!) di persone assistettero agli spettacoli teatrali incentivati dal Federal Theatre Project. Quanto al Writers’ Project, che costò ventisette milioni di dollari in quattro anni, produsse centinaia di libri e opuscoli, registrò storie di vita di migliaia di persone che non avevano voce e le classificò in raccolte etnografiche regionali, ma soprattutto, con le American Guide Series, contribuì a ridare forma all’identità nazionale degli Stati Uniti, che la Grande Depressione aveva profondamente minato, fondandola su ideali più inclusivi, democratici ed egualitari. E scusate se è poco. Tuttavia anche lì, e anche allora, non mancavano i sostenitori dell’idea che la cultura è un lusso e, soprattutto, un lusso di sinistra. Dal maggio del 1938, sotto la guida di due «illuminati statisti» come Martin Dies e J. Parnell Thomas, la Commissione della Camera contro le attività antiamericane non smise di accusare i tre progetti di essere al soldo di Mosca e non si arrese fino a quando non furono fermati. Poi, venne la guerra e molti sogni si infransero. Ma intanto, con quel solido lavoro culturale alle spalle, le fondamenta di una nuova consapevolezza di sé e di una nuova idea di futuro erano comunque gettate. E da lì, dall’idea di fondo della necessità dell’intervento statale per vivificare la cultura e modificare così la specializzazione produttiva di un Paese, partirà, già durante la guerra, un altro liberale illuminato, Vannevar Bush, consigliere di Roosevelt, per elaborare il famoso rapporto Science: the Endless Frontier, che rappresenta un po’ il manifesto della politica culturale e scientifica – e a ben vedere anche economica – che avrebbero seguito gli Stati Uniti nei successivi decenni fino a Barack Obama. “
Bruno Arpaia e Pietro Greco, La cultura si mangia, Guanda (collana Le Fenici Rosse), 2013¹ [Libro elettronico]
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