Tumgik
#Storia d'Italia del XX secolo
gregor-samsung · 7 days
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“ Tina, nome di battaglia Gabriella, anni diciassette, giovane come tante nella Resistenza. Non ho mai pensato che noi ragazze e ragazzi che scegliemmo di batterci contro il nazifascismo fossimo eccezionali, ed è questo che vorrei raccontare: la nostra normalità. Nella normalità trovammo la forza per opporci all’orrore, il coraggio, a volte mi viene da dire la nostra beata incoscienza. E così alla morte che ci minacciava, che colpiva le famiglie, gli amici, i paesi, rispondemmo con il desiderio di vita. Bastava aprire la porta di casa per incrociare il crepitare delle armi, le file degli sfollati, imbattersi nella ricerca dei dispersi; partecipare dell’angoscia delle donne in attesa di un ritorno che forse non ci sarebbe stato: ma le macerie erano fuori, non dentro di noi. E se l’unico modo di riprenderci ciò che ci avevano tolto era di imbracciare il fucile, ebbene l’avremmo fatto. Volevamo costruire un mondo migliore non solo per noi, ma per coloro che subivano, che non vedevano, non potevano o non volevano guardare. E se è sempre azzardato decidere per gli altri, temerario arrogarsi il diritto della verità, c’erano le grida di dolore degli innocenti a supportare la nostra scelta, c’era l’oltraggio quotidiano alla dignità umana, c’era la nostra assunzione di responsabilità: eravamo pronti a morire battendoci contro il nemico, a morire detestando la morte, a morire per la pace e per la libertà. Vorrei che voi sfogliaste insieme a me l’album di ricordi, con i volti dei miei tanti compagni di grandi e piccole battaglie, fotografie scattate nei giorni della pace ritrovata, quando ci riconoscemmo simili. Mi rivedo, ci rivedo, con i capelli ricci o lunghi, barbe più o meno incolte, vestiti a casaccio, e tuttavia qua e là spuntano una certa gonna più sbarazzina, scarpe basse ma con le calzette colorate, un fermaglio su una ciocca ribelle, la posa ricercata di un ragazzo, e tutti insieme a guardare diritto l’obiettivo, tutti insieme sapendo che il futuro ci apparteneva, tutti insieme: questa era stata la nostra forza, la nostra bellezza. “
Tina Anselmi con Anna Vinci, Storia di una passione politica, prefazione di Dacia Maraini, Chiarelettere (Collana Reverse - Pamphlet, documenti, storie), 2023; pp. 3-4.
Nota: Testo originariamente pubblicato da Sperling & Kupfer nel 2006 e nel 2016.
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cinquecolonnemagazine · 9 months
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Officine Meccaniche Reggiane: un'eccellenza nel cuore d'Italia
Le Officine Meccaniche Reggiane (OMR) rappresentano un'importante pagina della storia industriale italiana. Fondata nel 1904 a Reggio Emilia, questa azienda ha svolto un ruolo chiave nello sviluppo dell'industria manifatturiera nel nostro Paese. Officine Meccaniche Reggiane: le origini e la crescita Le Officine Meccaniche Reggiane nacquero nel 1904 come risposta alla crescente richiesta di attrezzature ferroviarie e navali in Italia. Fondata da Umberto Cappelli, l'azienda crebbe rapidamente e si affermò come uno dei principali produttori di macchinari industriali nel nostro Paese. Nel corso degli anni, OMR ampliò il suo campo di attività, producendo aerei, motori e altre attrezzature per l'industria bellica e civile. Durante la prima metà del XX secolo, OMR si affermò come uno dei leader mondiali nell'industria aeronautica. La sua produzione di aerei e motori era conosciuta per l'elevato livello di qualità e innovazione tecnologica. Durante la Seconda Guerra Mondiale, l'azienda divenne un importante fornitore di aerei da combattimento per l'Aeronautica Militare Italiana. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, OMR si dedicò alla ricostruzione del nostro Paese. L'azienda giocò un ruolo cruciale nella ripresa economica e industriale dell'Italia del dopoguerra. La produzione di attrezzature e macchinari industriali fu fondamentale per sostenere la crescita economica e soddisfare le esigenze di un'industria in espansione. L'eredità culturale e architettonica di OMR Oltre al suo contributo industriale, OMR ha lasciato un'impronta significativa anche nel panorama culturale e architettonico di Reggio Emilia. I suoi stabilimenti industriali sono stati considerati un esempio di architettura industriale moderna e funzionale. Molti di essi sono stati conservati e restaurati, contribuendo a valorizzare la memoria storica e il patrimonio industriale della città. Nonostante il successo degli anni precedenti, negli anni '70 e '80 OMR affrontò una crisi economica che portò al suo declino. La concorrenza internazionale e i cambiamenti nel mercato industriale resero difficile mantenere la competitività. Nel 1994, OMR venne definitivamente chiusa, segnando la fine di un'epoca industriale e una svolta importante per la città di Reggio Emilia. L'eredità continua Sebbene le Officine Meccaniche Reggiane non esistano più come azienda, la loro eredità continua a vivere attraverso il patrimonio culturale e industriale della città e della regione. Il contributo delle OMR allo sviluppo tecnologico e industriale dell'Italia rimane una testimonianza della nostra capacità di eccellenza e innovazione. Le Officine Meccaniche Reggiane hanno svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo industriale dell'Italia. Da pionieri nell'aeronautica a simbolo di eccellenza nel campo della produzione industriale, l'azienda ha influenzato il panorama industriale italiano e ha lasciato un'impronta duratura nella storia e nell'architettura di Reggio Emilia. Sebbene oggi non esista più come azienda attiva, l'eredità delle Officine Meccaniche Reggiane continua a essere un punto di orgoglio per l'Italia e un ricordo di come l'innovazione, la dedizione e la passione per l'industria abbiano plasmato il nostro Paese nel corso dei decenni. In copertina foto di Eleonora Attolini da Pixabay Read the full article
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lamilanomagazine · 10 months
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Al Nuovo Diurno un "VIAGGIO" nella Modena ebraica
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Al Nuovo Diurno un "VIAGGIO" nella Modena ebraica.  Si concentra sulla storia della Modena ebraica l'appuntamento di sabato 15 luglio, alle ore 17, al Nuovo Diurno. La struttura di piazza Mazzini ospita, infatti, la visita guidata intitolata "Il duca Francesco I e il ghetto ebraico". La proposta è gratuita, per un massimo di 25 persone; per partecipare è necessario prenotarsi attraverso il sito a questo link. La visita guidata dura circa 45 minuti e permette di ripercorrere, appunto, la storia della presenza ebraica a Modena, dall'arrivo di primi gruppi provenienti da altre zone d'Italia alla nascita di una vera e propria comunità all'interno delle sue mura. Il percorso si sofferma in particolare sulla creazione, nel 1638, del ghetto, compreso tra le attuali via Emilia e via Taglio. Il ghetto, fortemente voluto dalle corporazioni di artigiani e dai Conservatori, venne istituito dal duca Francesco I d'Este. Nonostante l'abolizione con l'Unità d'Italia, il quartiere ebraico fu smantellato solo agli inizi del XX secolo quando, per esigenze di modernità e igiene, si decise di ricavare, dall'abbattimento di alcuni edifici, lo spazio per quella che oggi conosciamo come piazza Mazzini, e dove una trentina d'anni dopo venne costruito l'albergo Diurno. Proprio nelle sale del Nuovo Diurno, avvalendosi della tecnologia multimediale, durante l'incontro vengono mostrate ai partecipanti immagini e documenti multimediali che testimoniano le trasformazioni subite dall'area e che raccontano le difficili condizioni di vita passate dei suoi abitanti. Maggiori informazioni allo Iat Ufficio Informazione e accoglienza Turistica, piazza Grande 14, tel. 059 203 2660, e sul sito web http://www.visitmodena.it/.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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personal-reporter · 1 year
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Gli italiani e lo sport
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Lo sport in Italia, e in particolare il calcio, è una passione nazionale. Gli italiani amano praticare e seguire lo sport a tutti i livelli, dall'amatoriale al professionale. Il calcio è senza dubbio lo sport più popolare in Italia e rappresenta una parte importante della cultura italiana. Non sorprende quindi che l'Italia sia stata la sede della Coppa del Mondo FIFA del 1934, del 1990 e che sia stata una delle sedi dell'Europeo 2020. Il calcio italiano è noto per la sua qualità e per la passione dei suoi tifosi. La Serie A è una delle migliori leghe calcistiche al mondo, con squadre come Juventus, Milan, Inter, Roma e Napoli che hanno una forte presenza sia a livello nazionale che internazionale. La nazionale italiana di calcio è una delle più forti al mondo, con quattro titoli mondiali e un titolo europeo nel suo palmares. Il calcio italiano ha dato i natali a molti dei migliori giocatori al mondo, come Giuseppe Meazza, Franco Baresi, Paolo Maldini, Francesco Totti, Andrea Pirlo e Gianluigi Buffon. Ma non è solo il calcio a fare la differenza nello sport italiano. L'Italia è nota anche per le sue eccellenze in altri sport come il ciclismo, il rugby, la pallavolo, la pallacanestro e il tennis. Il Giro d'Italia, una delle tre grandi corse a tappe del ciclismo professionistico, è una competizione molto amata dagli italiani e attrae ogni anno i migliori corridori del mondo. Il rugby italiano, sebbene non sia molto popolare come in altri paesi, ha una squadra nazionale competitiva e una presenza solida nella Pro14, una delle migliori leghe europee. La pallavolo italiana è considerata una delle migliori al mondo, con squadre come Modena, Trentino e Perugia che sono tra le migliori a livello internazionale. La pallacanestro italiana ha una lega solida, la Lega Basket Serie A, e ha prodotto molti giocatori di grande talento, come Danilo Gallinari e Andrea Bargnani. Il tennis italiano ha visto il successo di giocatori come Adriano Panatta, Nicola Pietrangeli e Matteo Berrettini, che hanno raggiunto importanti traguardi a livello internazionale. L'importanza dello sport in Italia va oltre il mero intrattenimento. Lo sport è un importante fattore economico, con il turismo sportivo che attrae milioni di visitatori ogni anno. Inoltre, lo sport rappresenta un'opportunità per migliorare la salute e il benessere delle persone, combattere lo stress e creare relazioni sociali positive. In sintesi, lo sport italiano rappresenta un elemento fondamentale della cultura italiana. Il calcio italiano è famoso in tutto il mondo per la sua qualità e la passione dei suoi tifosi, ma l'Italia eccelle anche in altri sport come il ciclismo, il rugby, la pallavolo, la pallacanestro e il tennis. Lo sport rappresenta un'opportunità per migliorare la salute e il benessere delle persone, combattere lo stress e creare relazioni sociali positive. Grazie alla sua capacità di unire le persone attraverso lo sport e di promuovere lo sviluppo economico, lo sport ha un impatto significativo sulla società italiana. Il calcio è senza dubbio lo sport più popolare in Italia e la Serie A è seguita in tutto il mondo. Le squadre italiane hanno un gran numero di tifosi fedeli e il calcio rappresenta una fonte di orgoglio nazionale. Oltre alla Serie A, ci sono anche molte altre competizioni calcistiche importanti in Italia, come la Coppa Italia, la Supercoppa Italiana e la Serie B. Il calcio italiano ha una lunga e orgogliosa storia e la nazionale italiana è stata in grado di vincere quattro titoli mondiali, il più recente nel 2006. Il ciclismo è un altro sport molto popolare in Italia. Il Giro d'Italia è la più importante corsa a tappe italiana e si svolge ogni anno nel mese di maggio. La competizione attrae i migliori corridori del mondo e le tappe si svolgono in tutta Italia, dando ai ciclisti la possibilità di esplorare la bellezza del paese. Il ciclismo è stato una parte importante della cultura italiana fin dai primi anni del XX secolo e ha prodotto alcuni dei corridori più famosi al mondo. Il rugby non è altrettanto popolare in Italia come in altri paesi, ma la squadra nazionale italiana ha fatto grandi progressi negli ultimi anni. La squadra italiana ha partecipato a ogni Coppa del Mondo di rugby dal 1987 e la presenza della nazionale italiana nella Pro14 ha contribuito a migliorare la competitività del rugby italiano. La pallavolo è uno sport molto popolare in Italia e la Serie A italiana è una delle leghe più competitive al mondo. Le squadre italiane sono note per la loro abilità tecnica e tattica e il campionato attira i migliori giocatori di pallavolo di tutto il mondo. La squadra nazionale italiana di pallavolo ha vinto tre volte la medaglia d'oro alle Olimpiadi e ha partecipato a tutte le edizioni del campionato mondiale di pallavolo. La pallacanestro è un altro sport molto amato dagli italiani. La Lega Basket Serie A è una delle migliori leghe di basket in Europa e attrae molti giocatori di talento. L'Italia ha prodotto molti giocatori di basket di alto livello, come Andrea Bargnani, Danilo Gallinari e Marco Belinelli. La squadra nazionale italiana di basket ha partecipato a nove Olimpiadi e ha vinto una medaglia d'argento alle Olimpiadi di Atene nel 2004. Il tennis è un altro sport molto popolare in Italia e ha prodotto alcuni dei migliori giocatori al mondo. Nicola Pietrangeli ha vinto due volte il Roland Garros negli anni '50, mentre Adriano Panatta ha vinto l'Open di Francia nel 1976. Attualmente, Matteo Berrettini è il miglior giocatore italiano e ha raggiunto la finale degli US Open nel 2021. In conclusione, lo sport italiano è una parte importante della cultura italiana e ha un impatto significativo sulla società italiana. Il calcio è lo sport più popolare in Italia, ma il paese eccelle anche in altri sport come il ciclismo, il rugby, la pallavolo, la pallacanestro e il tennis. In definitiva, lo sport italiano è un modo per celebrare la cultura e le tradizioni italiane. I successi sportivi delle squadre e degli atleti italiani sono fonte di orgoglio per il paese e una fonte di ispirazione per i giovani che aspirano a diventare atleti di alto livello. La passione per lo sport in Italia è palpabile e si può respirare ovunque, dalle partite di calcio tra amici al weekend passato al Giro d'Italia. Lo sport è una parte integrante della vita italiana e continuerà ad avere un ruolo importante nel futuro del paese. Read the full article
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touritalia · 2 years
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GIORNO 1: 13-11 SABATO MATTINA CATANIA– BARI
Sveglia alle 06.10 per partire alle 07.00 per Catania parcheggio. Arrivo alle 08.05 al park e alle 08.28 sono in fila al gate senza passare dal check in. Imbarco alle 09.25 e partenza alle 09.36 per Bari. A bordo, Ryanair, ha ripreso la sua routine: bevande e snack; profumi e gadget; lotterie. Atterraggio alle 10.21 (previsto 09.20-10.30). Dalle mie info cerco lo Shuttle Bus Tempesta Autoservizi che porta a Bari Stazione che però parte solo alle 11.30. (€4.00) Ne approfitto per carpire informazioni per Matera dall'autista. Arrivo alle 12.00 e in pochi passi sono già in hotel. Preso possesso della camera esco alle 12.35 per la prima visita di Bari con una mappa fornita dall'albergo e una copia A4 stampata prima di partire. Faccio giusto una sosta per pranzare con una Focaccia al Pomodorino (€1,00). Visto che sono vicino alla stazione parto proprio da li, da Piazza Aldo Moro e la sua bella fontana che si illumina di sera. Imbocco la pedonale Via Sparano che porta direttamente a Bari Vecchia. Passo Piazza Umberto I con l'omonima Statua. Da Via Principe Amedeo raggiungo il Teatro Petruzzelli “il quarto teatro più grande d'Italia. Costruito nel 1898 e inaugurato nel 1903, il teatro venne distrutto nel 1991 a causa di un incendio che divampò dopo lo spettacolo "Norma di Bellini" e i lavori di ricostruzione durarono fino al 2009, quando venne restituito alla città.” Passo dalla Banca d'Italia e da Corso Cavour per arrivare al Teatro Margherita “Questo teatro è stato costruito all'inizio XX secolo in onore della visita della Regina Margherita di Savoia a Bari. La sua particolarità è che si trova praticamente sul mare. Dopo circa 40 anni di inattività, il Teatro è stato ristrutturato e restituito all'uso della città. Il piano più alto è utilizzato per l'esposizione di mostre di interesse internazionale, soprattutto sull'arte contemporanea, mentre il piano al di sotto della platea è del Circolo della Vela di Bari.”  A Piazza del Ferrarese trovo altre info per Matera e Lecce presso l'Ufficio Informazione Turistiche. Proseguo da Via Venezia fino al Fortino di Sant'Antonio (chiuso). “Questo fortino fu costruito per scopi difensivi, serviva infatti per contrastare gli attacchi nemici. Oggi è un punto di ritrovo per i baresi, non che sede di numerosi eventi.”  Sempre Via Venezia mi porta a Santa Scolastica e Piazza S. Pietro passando dal retro della Basilica di S. Nicola. Da qui mi infilo nei vicoli di Bari Vecchia. Sosto ai Ruderi di Santa Maria del Buon Consiglio e arrivo tra strette stradine alla Basilica di San Nicola che visito insieme alla cripta e alle reliquie del santo. “La basilica è dedicata all'omonimo santo patrono della città, fu costruita tra il 1087 e il 1197 e ha uno stile architettonico tipico romano; ad oggi al suo interno è conservata la cripta con il corpo del santo . Secondo la leggenda, fu proprio lui a dare origine alla storia di Santa Claus, da noi conosciuto come Babbo Natale.”  Poco distante la Basilica Cattedrale Metropolitana di San Sabino con l'alta torre campanaria e la cappella a base rotonda “Questa basilica, in stile romanico-pugliese, sede vescovile dell'arcidiocesi cattolica di Bari, fu costruita intorno al XII e il XIII secolo per volere dell'arcivescovo Rainaldo sulle macerie del duomo bizantino.” Passo al Castello Svevo-Normanno con il suo fossato. “Questo castello è un'imponente fortezza che fu costruita nel 1131 per volere di Ruggero il Normanno. In parte distrutto nel 1156 dagli stessi Baresi, fu ricostruito nel 1223 sotto Federico II di Svevia.” Taglio per Via Francesco d'Assisi e passo da Palazzo Fizzarotti in stile eclettico; da Piazza Garibaldi fino al Palazzo di Giustizia con fontana e statua omonima. Torno indietro imboccando Corso Vittorio Emanuele II fino al Palazzo del Governo rosso e lungo e al Teatro Comunale Piccinni in rosa. Rientro per mezz'ora in hotel, alle 17.00, perché piove. Riesco e ceno con Orecchiette con Cime di Rapa (€9,00). A fine cena rifaccio un giro di Bari Vecchia entrando dal passaggio su Via Benedetto Petrono. Entro nella Cattedrale si San Savino e nella cripta, la Basilica di San Nicola illuminata e Piazza A. Moro con fontana notturna. Percorsi 8 km.
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italytodiscover · 4 years
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#Gradara è un comune italiano della provincia di #Pesaro e #Urbino. ▶️▶️▶️ https://www.youtube.com/watch?v=u-X8VWUjHRk La cittadina è stata inserita tra i #borghi più belli d'Italia dall'associazione omonima ed è stata insignita, dal 2004, della Bandiera arancione del Touring Club Italiano. Inoltre è stata proclamata "Borgo dei borghi 2018". È situata nell'entroterra della costa marchigiana settentrionale e della riviera romagnola meridionale, poco distante dal mare e con un piacevole paesaggio collinare, estrema propaggine dell'Appennino, che le fa da sfondo. È conosciuta soprattutto per la sua storica Rocca malatestiana, che assieme al suo borgo fortificato ed alla sua cinta muraria rappresentano un caratteristico esempio di architettura medievale, recuperata grazie ad un intervento di restauro interpretativo attuato all'inizio del XX secolo. La storia antica di Gradara è strettamente legata alle vicissitudini del suo castello, soggetto nei secoli al dominio delle famiglie Malatesta, Sforza, Della Rovere e dei Mosca. Secondo la leggenda, in esso trovarono la morte Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, uccisi per gelosia dal fratello di Paolo, Gianciotto Malatesta. #Pesaro #italy #travel #DiscoverItaly #Borghiitaliani #borghipiubelliditalia #borghi #borghiditalia #pesaro #pesarourbino #gradara #gradaracastle #marche #marchetourism #italy #discoveritaly #travel #paoloefrancesca #viaggi #viajes #discoveritaly (presso Gradara) https://www.instagram.com/p/B9uhojvKPwX/?igshid=adipdtdwt03a
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vegiamilan · 5 years
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LE VIE DI MILANO, STRANEZZE E CURIOSITÀ Partendo dal centro non si può non ricordare che la parte orientale di Piazza del Duomo, quella dove si trova l'abside della cattedrale e il Palazzo della Veneranda Fabrica si è chiamata sino ai primissimi anni del '900 Piazza del Camposanto dato che per secoli fu lì presente un cimitero. Poi, senza un apparente motivo il nome fu cancellato e una piazza con una storia secolare scomparì per sempre dalla toponomastica meneghina. *** Non lontano, tra Largo Augusto e via Larga si trova il Verziere, senza indicazione alcuna che indica se si tratta di una via, una piazza, uno slargo, un largo; semplicemente Verziere. Sino ad inizio del XX secolo era uno dei principali mercati ortofrutticoli di Milano, esistente dal 1766, insieme agli altri delle vicine Piazza Fontana e delle bancarelle presenti per secoli in Piazza del Duomo. Il nome stesso indica un luogo ove si vendevano le "verzure". Sino al 1870 circa mantenne il suo nome originale di Contrada di Porta Tosa, dopo assunse il nome definitivo di Verziere. Un tempo era una piazza lunga e molto larga, poi ristretta negli anni 40 e primi 50 per la realizzazione del primo tratto della "racchetta" una strada ad alto scorrimento che doveva tagliare tutti i quartieri a sud del Duomo. Lo stesso Largo Augusto era parte integrante del Verziere e la sua colonna dominava il mercato e le bancarelle. Poco lontano dal Verziere si trova la Via Bergamini, che non indica una ricca famiglia ma come ci dice il Sonzogno: «Della contrada dè bergamini dirò che in essa stanno i venditori di caci freschi e di altri latticini, così chiamati dalle mandrie da essi possedute e da noi detti bergamini» (Vicende di Milano rammentate dai nomi delle sue contrade a sia origine di questi nomi. Milano, 1835). In pratica si trattava di gruppi di pastori della Val Brembana e della Val Seriana che settimanalmente scendevano a Milano, in Piazza Fontana, a tenere il loro mercato dei prodotti di latte di pecora. Il soprannome derivava dalla loro provenienza dalla provincia di Bergamo. Indossavano orgogliosamente una sorta di divisa da bergamino, cappellaccio e mantello di lana grezza verde scuro, zoccoli di legno, lunghi bastoni per governare il gregge, ma al contempo indossavano anche eleganti panciotti con la catenina in oro dell'orologio in bella vista. Quasi sempre avevano legato in vita pure il grembiule da lattaio! I bergamini iniziarono ad occupare Piazza Fontana in coincidenza del trasloco del mercato del Verziere dalla piazza al luogo che poi prese il nome di Verziere. Furono i potenti vescovi della vicina curia milanese che vollero, nel 1766, lo spostamento del mercato, che rendeva difficile l'ingresso al palazzo dell'Arcivescovado. Quando infine il Verziere si spostò... lo spazio fu occupato dai Bergamini che iniziarono ad usare Piazza Fontana come loro "quartier generale di Milano". Molte delle famiglie di bergamini si installarono definitivamente a Milano, aprendo negozi e bancarelle e rivendendo prodotti caseari e latte prodotti da loro parenti che invece continuavano a passare i canonici 4 mesi sugli alpeggi e il resto del tempo a fare transumanze e a produrre formaggi da portare poi a Milano. Oggi la Via Bergamini si apre dall'ampia Via Larga, ma sino agli sventramenti mussoliniani la via si apriva da un crocicchio di strade, Via San Clemente, Via Larga, Via Sant'Antonio, Piazza Santo Stefano e appunto Via Bergamini. La strada continuava in linea retta sino a sbucare di fronte all'Ospedale Maggiore in Via dell'Ospitale, oggi Via Festa del Perdono. *** Poco più a sud si trova una lunga e antica strada che connetteva la Cerchia dei Navigli con la Cerchia dei Bastioni, la Via San Barnaba. Collegava tramite un ponte sulla cerchia l'Ospedale Maggiore con il suo cimitero principale. Quando le fondamenta, le cantine e i sotterranei dell'ospedale furono riempiti all'inverosimile di ossa dei morti, si decise la costruzione di un cimitero oltre la cerchia e in piena campagna. Di allora. Venne costruito un nuovo Foppone, come erano chiamati allora i cimiteri. Il Foppone di San Michele venne costruito nel 1696 e nel giro di nemmeno un secolo fu riempito di oltre 150.000 defunti. La strada che collegava l'Ospedale Maggiore col suo cimitero si chiamava Strada del Foppone, sino al 1850 circa, poi prese tutta il nome di Strada di San Barnaba. Per oltre 300 anni il cimitero, fu chiamato o Foppone di San Michele, o vista la sua struttura circolare "La Rotonda". Solo alla fine degli anni 20 del XX secolo venne aperta una nuova strada che collegava i Bastioni con il costruendo Palazzo di Giustizia di Porta Vittoria. La nuova strada passava esattamente lungo il lato esterno della "Rotonda". La strada divenne Via Enrico Besana, patriota che combattè in tutte e tre le Guerre di Indipendenza, fu alto ufficiale Garibaldino e giornalista per i due principali quotidiani di Milano e d'Italia dell'epoca, La Perseveranza e il Corriere della Sera. Per un motivo inspiegabile il Foppone di San Michele divenne in breve tempo La Rotonda della Besana, facendo diventare l'Enrico Besana una donna e rinominando un cimitero plurisecolare con un titolo errato e assolutamente senza alcun senso. lla foto si vede la Via Enrico Besana appena realizzata e il muro perimetrale esterno del Foppone di San Michele ancora senza alcun accesso aperto verso la nuova strada. *** Quando nel 1923 il governo di Mussolini distacca il quartiere del Lorenteggio dal Comune di Corsico e lo aggrega al Comune di Milano si pone il problema di rifare la toponomastica dei 4 borghi che componevano storicamente il territorio del Lorenteggio. Tra quelle vie che presentavano omonime con quelle di Milano ci fù la piazza antistante alla stazione di San Cristoforo. Venne ribattezzata Piazzale Albania. Dal 1923 sino alla caduta del Fascismo le cose non cambiarono, poi, nel 1946 si procedette ad una lunga pagina di revisione della toponomastica per "liberare" Milano dalle non poche vie, strade, piazze e larghi intitolati a gerarchi fascisti o ad avvenimenti legati o cari al regime. Senza un motivo ben chiaro Via Principe Umberto, strada che da Piazza Cavour risaliva verso Piazza della Repubblica (allora Piazza Fiume) che aveva tale intitolazione sin da quando venne tracciata nel 1865, divenne Via Albania. Notare che il Principe Umberto a cui era intitolata la via non era l'aspirante al trono d'Italia sconfitto dal referendum e morto poi in esilio, bensì colui che divenne Re d'Italia come Umberto I°, visse a lungo a Milano e venne ucciso a Monza da Gaetano Bresci. Per non creare confusione Piazzale Albania al Lorenteggio dovette così cambiare nome e per non scontentare i vicini albanesi il nome fu mutato in Piazza Tirana... Ma l'erraticità dell'Albania non finì qui. Infatti dopo nemmeno 5 anni Via Albania mutò ancora di nome, venendo intitolata, pare definitivamente, a Filippo Turati. Il toponimo Albania sparì così definitivamente dalle mappe milanesi. Negli stessi anni dell'immediato Dopoguerra cambiarono nome molte strade, come detto: Corso del Littorio divenne Corso Giacomo Matteotti, Corso Costanzo Ciano riprese il suo nome originario di Corso dei Plebisciti, allo stesso modo Via Larga tornò a chiamarsì così dopo che dal 1936 al 1946 divenne Via Adua; Piazza Predappio venne rinominata con un toponimo usato sino agli anni 20 per indicare l'area sul retro della prima Stazione Centrale, sita nell'odierna Piazza della Repubblica, Piazza Guglielmo Miani. Via Eliseo Bernini, Legionario di Fiume e Fascista della primissima ora, venne assassinato dai comunisti a Turro e gli venne dedicata una via nel quartiere. Nel Dopoguerra venne ribattezzata Via Popoli Uniti. Vittime del cambio di toponomastica furono anche alcune vie e piazza dedicate ad eventi antecedenti al Ventennio ma comunque ad esso legati: Piazzale della Stazione Centrale diventò nel 1931 Piazza Fiume, per diventare Piazza della Repubblica nel 1946. Via degli Arditi ritornò nel 1946 al suo vecchio nome di Via Cerva, dovuto alla presenza di una osteria con una cerva come simbolo. Clamoroso fu il cambio di nome ad uno dei luoghi più antichi di Milano, Piazza Mercanti, che dal 1935 circa divenne Piazza Giovinezza, così come il tratto nord di Via San Marco venne ribattezzato Via Marcia su Roma! *** Uno dei cambi di nome più rilevanti vista l'importanza delle strade in oggetto fu quello della tratto di strada lungo la Cerchia dei Navigli tra le attuali Piazza Cadorna e Corso di Porta Ticinese. Originariamente il tratto lungo la Cerchia aveva questi nomi partendo da nord: Strada del Foro, Strada di San Gerolamo, Strada del Ponte dei Fabbri, Strada delle Signore Bianche sotto il Muro. Per alcuni secoli i nomi rimasero invariati sino a quando la strada dedicata alle Signore Bianche, per via di un vicino monastero, venne intitolata alla Vittoria per celebrare la sconfitta dell'Imperatore Lodovico per mano dei cittadini milanesi, guidati da Marco Visconti, avvenuta il 13 settembre 1329 proprio all'incrocio tra la Strada delle Signore Bianche e la Strada del Borgo di Cittadella (oggi Corso di Porta Ticinese) Nel 1865 la Via della Vittoria si vide estendere il suo toponimo anche alla Strada del Ponte dei Fabbri, alla Piazza della Vittoria e al Ponte degli Olocati, sino al Ponte di San Vittore. Pochi anni dopo anche la Strada del Foro sparì e prese il nome di Via di San Gerolamo. La Cerchia nel frattempo era stata interrata proprio nel tratto tra il Castello e la metà di Via Vittoria. Nel 1907, subito dopo la morte di Giosuè Carducci, Premio Nobel per la Letteratura, la Via San Gerolamo diventò Via Carducci. Nel 1910 fu il turno di Via Vittoria che diventò Via Edmondo De Amicis, deceduto due anni prima. *** Altra strada erratica di Milano è quella intitolata al matematico ed astronomo Francesco Carlini. Dal 1890 circa la Via Carlini collegava Piazza Andrea Doria (l'attuale Piazza Duca d'Aosta di fronte alla Stazione Centrale) con la sponda destra della via Ponte Seveso, dove allora scorreva l'omonimo torrente. Quasi in contemporanea lungo la Via Carlini e la vicina via Ponte Seveso (oggi Via Fabio Filzi) sorgeva l'industria Pirelli. Quando nel 1932 il Senatore Giovanni Battista Pirelli morì la via dove si trovavano ancora alcune piccole parti dell'azienda (spostatasi nel 1906 alla Bicocca), venne a lui reintitolata dopo pochi anni, come appare già nelle mappe del 1937. La Via Carlini venne così spostata in Cittastudi, una piccola traversa che collegava Via Golgi con Via Via Visconti d'Aragona. Si trovava nei pressi dell'Istituto Nazionale dei Tumori, fondato nel 1925 e che proprio negli anni 30 ebbe un importante sviluppo, tanto che già negli anni '40 la via viene letteralmente inglobata dall'INT e si ritrova come viabilità interna dell'ospedale. Viene così deciso di rispostare l'erratica Via Carlini per la terza volta. Questa volta si arriva nella zona sud-ovest, lungo l'asse del Lorenteggio, precisamente una piccola strada che collega Via D'Alviano con Via Pietro Redaelli. *** Numerose sono le omonimie nella toponomastica di una città vasta come Milano. Alcune di queste danno una ragione al perchè talune strade siano indicate con "nome e cognome" e non solo col "conognome". Abbiamo infatti una Via Melchiorre Gioia perchè esiste una piccola Via Flavio Gioia nella parte sud di Cittastudi. Così come ci sono una Via Enrico Forlanini e una Via Carlo Forlanini, una Via Andrea Ponti, una Via Ettore Ponti e una Via Giò Ponti e per breve tempo, in un momento di caos toponomastico negli anni 80, anche una Piazza Giò Ponti poi rapidamente scomparsa. C'è una conosciutissima Via Alessandro Manzoni e un Vicolo Piero Manzoni dal 1995, mentre è molto più complicata la storia se andiamo ad analizzare i toponimi di coloro che hanno cognomi derivanti dall'aver avuto antenati che esercitarono la professione di fabbri: Via Cardinal Ferrari, Via Gaudenzio Ferrari, Via Giuseppe Ferrari, Piazza Paolo Ferrari, Via Virgilio Ferrari, Via Ercole Ferrario, Via Rosina Ferrario Grugnola, Via Galileo Ferraris, Via della Ferrera, Via Ferreri, Via Ferrero, Via Ferrieri, Via Wolf Ferrari. Un pochino meglio con Via Benigno Crespi, Via Daniele Crespi, Via Gaetano Crespi e Via Pietro Crespi. Ci sono anche strade che eccellono in lunghezza: Via Fratelli Camillo e Giannino Antona Traversi. Viale Barbaro di San Giorgio Ramiro. Via Ambrogio da Fossano detto il Bergognone. Via Andrea Fortebraccio detto Braccio da Montone. Via Paulucci di Calboli Fulcieri. Piazza Emanuele Filiberto di Savoia Duca d'Aosta. Via Vittore Ghislandi detto Fra Galgario. Piazzale Governo Provvisorio di Lombardia. Lorenzo d'Andrea d'Oderigo detto Lorenzo di Credi Piazza Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi. Piazzale Martiri della deportazione. Via Tommaso di Cristoforo Fini detto Masolino da Panicale. Via Giacomo Medici del Vascello. Piazza Melozzo di Giuliano degli Ambrosi detto Melozzo da Forlì. Via Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone. Via Alessandro Bonvicino, detto Moretto da Brescia. Via Orlando Vittorio Emanuele. Via Paolo Caliari detto il Veronese. Via Piero di Giovanni Bonaccorsi detto Perino del Vaga. Via Piero di Benedetto de' Franceschi detto Piero della Francesca. Via Bernardino Betti detto il Pinturicchio. Via Agnolo Ambrogini detto Poliziano. Piazza della Resistenza Partigiana. Viale delle Rimembranze di Lambrate. Viale delle Rimembranze di Greco. Via Angelo Beolco detto Ruzzante. Largo San Dionigi in Pratocentenaro. Piazza San Giovanni Battista alla Creta. Via San Giovanni Battista de La Salle. Via fratelli Giuliano e Antonio Giamberti detti Sangallo. Piazzale Santorre di Santarosa. Via Santuario del Sacro Cuore. Via Reggimento Savoia Cavalleria. Via Giovanni Battista Salvi detto il Sassoferrato. Piazza Andrea Meldolla detto lo Schiavone. Via Sebastiano Luciani detto del Piombo. Via Quinto Settimio Fiorente detto Tertulliano. Via Andrea di Michele di Francesco di Cione detto Il Verrocchio.
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iniziativa21058 · 5 years
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Libri di Sport da leggere e da regalare
CINQUE CERCHI E UNA STELLA. 
Shaul Ladany, da Bergen-Belsen a Monaco '72
di Andrea Schiavon - Editore: ADD 
5 settembre 1972, ore 4:30, villaggio olimpico di Monaco di Baviera. Un commando di terroristi palestinesi di Settembre nero fa irruzione negli alloggi della squadra israeliana. Comincia così la pagina più tragica della storia delle Olimpiadi e si concluderà solo 20 ore dopo con le cifre di una strage: 17 morti tra cui 11 israeliani, 5 palestinesi e un poliziotto tedesco. In quella squadra c’è anche Shaul Ladany, marciatore, l’unico sportivo israeliano che era sopravvissuto, bambino, a un campo di concentramento: Bergen-Belsen, lo stesso in cui morì Anna Frank. Per la seconda volta Ladany riesce a sopravvivere alla Storia. Ladany è un docente di ingegneria prestato all’atletica, capace di incastrare allenamenti estenuanti tra una lezione e l’altra. La sua vita è stata un’infinita sequenza di chilometri, quasi un Forrest Gump che ha attraversato il XX secolo lasciando un segno a ogni passaggio. Vive il ’68 a New York da studente della Columbia, combatte la Guerra dei Sei Giorni e quella di Yom Kippur, nel 1973, quando per difendere Israele rientra dagli Stati Uniti pagandosi il biglietto dell’aereo. Da Eichmann a Sharon, da Bikila agli All Blacks, da Nixon alla Thatcher: ci sono tutti nella marcia di Ladany. Andrea Schiavon racconta la vita di quest’uomo straordinario e con lui ripercorre le tappe di un intero secolo di eventi. «Uno scherzo. A Stroch piace sorprendere i compagni di squadra con le sue trovate. Ci ha provato ancora una volta, facendo credere che sia in corso un attacco terroristico. Questo pensa Shaul Ladany, quando lo svegliano: è l’alba di martedì 5 settembre 1972, il giorno che ha cambiato la storia dei Giochi Olimpici.»
Jesse e Joe. Gli atleti che sconfissero Adolf Hitler
di Francesco Gallo
editore Ultra Edizioni
Molti sostengono che il declino della potenza nazista ebbe inizio su una pista d’atletica di Berlino, quando un afroamericano semianalfabeta dell’Alabama vinse quattro ori olimpici sotto gli occhi furenti di Adolf Hitler; e che fu poi ancora più evidente quando un ex operaio della Ford, figlio di schiavi affrancati, fece partire il suo famigerato gancio sinistro sul ring dello Yankee Stadium a New York. Tra il 1936 e il 1938, Jesse Owens e Joe Louis – due dei più grandi atleti della storia – sono stati protagonisti non solo di eroiche imprese sportive, ma anche del più grande scontro politico e ideologico di sempre: la democrazia americana contro il nazismo tedesco. Le Olimpiadi di Berlino del 1936 e l’incontro di boxe tra Joe Louis e Max Schmeling del 1938 hanno perciò rappresentato gli eventi mediatici più decisivi degli anni Trenta. Da una parte i Giochi più controversi di tutti i tempi, dall’altra due appassionanti e straordinari incontri di boxe rimasti per sempre nella storia del pugilato. Imprese indimenticabili che hanno trasceso lo sport e infuocato i mesi che precedettero lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Una guerra annunciata, e sotto certi aspetti inevitabile, che ebbe inizio su due inediti campi di battaglia: un ring e una pista di atletica. Attraverso le straordinarie biografie di Jesse Owens e Joe Louis – per molti aspetti vicine e coincidenti – in questo libro si sfogliano alcune delle pagine più drammatiche del Novecento. Per prendere nota che non molto distante da qui, e non troppo lontano nel tempo, “si era creato un buco nella storia, ma noi non ce n’eravamo accorti”.
E D'IMPROVVISO SUCCESSE UN SESSANTOTTO
di Giorgio Cimbrico  
Editore: Absolutely Free
Gli otto giorni che sconvolsero l'atletica, che continuano a sconvolgerla: ai Mondiali di Londra di pochi mesi or sono i campioni di mezzo secolo fa avrebbero messo le mani su dieci medaglie: sei sarebbero state d'oro. Quarantanove anni dopo! In un mondo mutato, in uno sport sottoposto a stucchevoli cambiamenti, ad adeguamenti alle mode, i giorni di Messico - come tutti giorni di quel '68 di sangue, tormenti, aspirazioni, voglia di libertà, fantasia che voleva arrivare al potere - rimangono meraviglie del possibile, una catena di racconti di fantascienza che seppero calarsi in uno stordente reale. Chi li ha vissuti da protagonista, da testimone diretto, da spettatore che guardava estasiato quelle immagini in bianco e nero, non ha dimenticato, non ha rimosso. Come il 1453, quando cadde Costantinopoli, come il 1789, quei giorni si trasformarono in un confine storico, in una nascita del moderno, in un respiro mai interrotto di contemporaneo. Riviverli è stato un piacere e un esercizio di ardore.
Oro, argento e Tania. Le parole della mia vita
di Cagnotto Tania e Vegliani Stefano  
editore Mondadori Electa
C'è come un filo che guida la nostra vita! È il nostro destino. Ci credo assolutamente, e la mia storia sportiva ne è la conferma. Qualcuno scrive la sceneggiatura della nostra esistenza... ». Una carriera di trionfi e successi, di sacrifici, lavoro e determinazione. Nel corso degli anni, con le sue prodezze dal trampolino, Tania Cagnotto è riuscita ad appassionare milioni di tifosi e si è imposta come una delle atlete italiane più apprezzate, anche a livello internazionale. In questo libro Tania ripercorre i momenti più significativi del suo importante percorso sportivo, ma non solo: attraverso un racconto che procede per temi e parole chiave, ci accompagna alla scoperta della sua adolescenza, del rapporto con gli amici e con i genitori, della sua quotidianità e della sua famiglia. E ci parla delle paure, dei sogni, dei rimpianti e dell'universo di una ragazza straordinaria e semplice al tempo stesso.
Sonny Liston. Il campione che doveva perdere contro Ali.
Maurizio Ruggeri
Minerva Edizioni
Riuscito a scappare da una situazione terribile, con un padre che lo brutalizzava tra i campi di cotone dell'Arkansas, Sonny Liston fece in tempo a raggiungere sua madre a Saint Louis, a tredici anni, prima di finire nel penitenziario di Jefferson City. Capace di reagire al branco che voleva sottometterlo, fu notato dai cappellani della prigione che ne riconobbero l'immenso talento. Dopo aver sbaragliato il campo tra i dilettanti Liston portò a termine una delle più rapide e devastanti scalate al titolo mondiale dei pesi massimi, culminata nei due incontri fulminei con Floyd Patterson. Finito in mano alla mala che lo aveva tolto di galera e che controllava la boxe, fu costretto a eseguire gli ordini del boss Frankie Carbo fino alla fine dei suoi giorni, quando fu trovato senza vita a causa di un'iniezione di eroina pur avendo il terrore degli aghi. Considerato dai più grandi esperti ed interpreti della noble art, compresi George Foreman e Mike Tyson, il pugile più potente e spaventoso che sia mai salito sul ring, Liston deve gran parte della sua fama ai due incontri con Cassius Clay e Muhammad Ali. Sia il match mondiale di Miami, che la rivincita di Lewinston, sono avvolti dal "mistero", tanto che dopo cinquant'anni l'FBI ha deciso di riaprire il caso sul primo incontro, considerandolo truccato. Ed è proprio sulla prima sfida di Miami, nel 1964, che si raccoglie questo libro, dando per scontata la messinscena del secondo atto, quello del "pugno fantasma". Come ha potuto un campione del mondo in carica restare seduto sul suo sgabello dopo sei round, in una situazione di perfetta parità, per un improbabile dolore alla spalla? Non era forse dato favorito 7 contro 1 nei confronti di Clay? E la mafia dei Carbo, dei Palermo, dei Vitale, non spalmò forse decine di milioni di dollari puntando contro Liston?
Chi ha ucciso Marco Pantani
di Roberto Manzo
Editore: Mondadori
Un libro per restituire doverosamente al Pirata l'onore perduto e ai suoi tifosi il sogno infranto della bellezza che spunta in testa alla corsa dietro un tornante in salita. 1995-2001, processo per frode sportiva nella classica Milano-Torino del 1995: assolto.  1999-2003, processo per frode sportiva nel Giro d'Italia del 1999: assolto. 14 febbraio 2004, Residence Le Rose di Rimini: deceduto. "La storia giudiziaria di Marco Pantani è una storia triste, un vero dramma umano, che ha trascinato il Pirata nel baratro più profondo." L'ultimo avvocato di Marco Pantani ha deciso di scrivere questo libro perché il Pirata se lo merita. Se lo merita non solo perché è stato il campione che negli anni Novanta ha incendiato l'entusiasmo delle folle, ha "spianato" le salite più celebri del mondo e rinverdito nel cuore dei tifosi il mito di Coppi e Bartali. Ma perché è stato assolto da tutti i procedimenti giudiziari che lo scaraventarono giù dalla bicicletta e dalla sua esistenza. Nel ventennale della doppia vittoria Giro d'Italia - Tour de France, dopo fiumi di inchiostro versato sui giornali e sugli atti dei tribunali, è necessario ricostruire con oggettività la vicenda giudiziaria, sportiva e umana di Pantani. Chi ha ucciso Marco Pantani ripercorre la sua incredibile via crucis processuale e spiega come il ciclista sia stato spazzato via da un'implacabile campagna denigratoria, da una serie di clamorosi errori procedurali ed enormi ingiustizie che hanno pompato sangue amaro nella sua vena autodistruttiva, la stessa che lo faceva andare fortissimo in salita solo "per abbreviare l'agonia". Il libro dimostra che quel Pantani che ha scollinato per primo sull'Alpe d'Huez, che ha vinto la maglia rosa e che ha sfoggiato quella gialla sugli Champs-Élysées era pulito, era il più forte, era talento puro, il fuoriclasse che tutti amavano e che tutti oggi rimpiangono. Il punto di vista dell'autore è quello privilegiato dell'avvocato di fiducia che ha vissuto insieme a lui il suo dramma giudiziario e umano. È stato il suo ultimo difensore e ha avuto modo di consultare i documenti processuali, dormire con loro, odiarli, leggerli e rileggerli, e infine servirsene nei processi. L'avvocato Manzo c'era sempre. C'era per l'assoluzione per i fatti del Giro d'Italia 1999 e c'era durante la pietosa autopsia del 16 febbraio 2004, in una gelida stanza dell'obitorio dell'ospedale di Rimini. E c'è oggi con questo libro per restituire doverosamente al Pirata l'onore perduto e ai suoi tifosi il sogno infranto della bellezza che spunta in testa alla corsa dietro un tornante in salita.
Il codice Federer
di Stefano Semeraro
Editore: Pendragon
Gennaio 2018: Roger Federer vince il suo ventesimo torneo del Grande Slam, ed entra definitivamente nella leggenda, del tennis e dello sport. Questo libro racconta tutti i suoi novantasei tornei conquistati in vent'anni di carriera. Vent'anni che Stefano Semeraro ha trascorso a osservarlo e ammirarlo in azione, a intervistarlo, studiarlo, rincorrendolo per i tornei di tutto il mondo, da Roma a Shanghai, da Wimbledon a New York, e persino a disegnarlo sul taccuino, per cercare di decifrarlo meglio. Il risultato è non solo, o soprattutto, una biografia di Roger Federer ma anche un racconto, quasi un romanzo, delle sue (tante) vittorie e dei suoi (rari) passi falsi, arricchito dai mille aneddoti rubati a chi Federer lo ha incontrato sul campo e ne ha condiviso la vita randagia del tennista professionista. I ritratti dei suoi avversari più pericolosi, da Agassi a Djokovic, da Nadal a Murray, e le statistiche curate dall'esperto Luca Marianantoni, raccolte in coda al volume, completano il quadro della carriera ormai oltre ogni aggettivo del Genio di Basilea.
Camminare. Un gesto sovversivo
Erling Kagge
Editore: Einaudi
Chi cammina sa far tesoro del silenzio e trasformare la piú semplice esperienza in un'avventura indimenticabile. 
«Con un senso di stupore e meraviglia, Kagge vaga piú che narrare, muovendosi tra filosofia, scienza ed esperienza personale...È sempre bene ricordare le antiche verità. E Kagge sa come farlo.» - Los Angeles Review of Books
Camminare è diventato un gesto sovversivo. Non serve essere atleti professionisti, aver scalato l'Everest o raggiunto il Polo Nord, come Erling Kagge. La rivoluzione è alla portata di chiunque. Basta decidere di rinunciare a qualche comodità e spostarsi a piedi ogni volta che è possibile. Anche in città, anche nel quotidiano. Sottrarsi alla tirannia della velocità significa dilatare la meraviglia di ogni istante e restituire intensità alla vita. Chi cammina gode di migliore salute, ha una memoria piú efficiente, è piú creativo. Soprattutto, chi cammina sa far tesoro del silenzio e trasformare la piú semplice esperienza in un'avventura indimenticabile.
Goals. 98 storie + 1 per affrontare le sfide più difficili
Gianluca Vialli
Editore: Mondadori
«Voglio essere di ispirazione agli altri. Voglio che qualcuno mi guardi e mi dica: "È anche per merito tuo se non ho mai mollato"»
Gianluca Vialli, grande campione di Juventus e Sampdoria e poi allenatore di Chelsea e Watford, ha raccolto e raccontato 99 quotes e 99 storie sportive (l’ultima è autobiografica) che lo hanno ispirato e tuttora lo ispirano nella sua progressione di vita quotidiana. Ogni quote è strumento di meditazione e motivazione ed è collegato a ogni storia. Non è un’autobiografia e nemmeno un semplice libro di imprese sportive altrui. Il taglio motivazionale delle storie e l’abbinamento al quote iniziale ne fanno un originale manuale di ispirazione e meditazione. L’obiettivo del libro è quindi quello di condividere la morale e gli spunti che emergono dalle storie, nella speranza che possano essere utili nell’affrontare le proprie grandi e piccole sfide di tutti i giorni. Goals quindi va tradotto con ”obiettivi” e non semplicemente con il suo significato meramente sportivo.
Vincere, ma non solo. Crescere nella vita 
e raggiungere i propri obiettivi
Javier Zanetti
Editore: Mondadori
Un grande campione diventato dirigente ci accompagna lungo il percorso che dai campi da calcio lo ha portato in uno dei business più globali del terzo millennio, e ci mostra come i princìpi appresi nello sport e nella vita siano validi e applicabili in tutte le attività professionali. 
«Questo libro è il racconto schietto e sincero di quello che mi è successo o, meglio, di quello che sono riuscito a capire di me stesso una volta che i riflettori di San Siro si sono spenti per l'ultima volta sulle mie galoppate fino alla linea di fondo.»
Javier Zanetti, già capitano dell'Inter e della Nazionale argentina, è un'icona unanimemente riconosciuta e ammirata, portatore di valori universali che sta trasferendo anche nella sua ultima avventura. E che in queste pagine traduce in suggerimenti semplici e concreti per chiunque si trovi, in qualsiasi ruolo, a operare all'interno di un gruppo di lavoro. Dal rispetto per i ferri del mestiere alla chiarezza degli obiettivi, dalla lealtà verso colleghi e avversari alla capacità di fare autocritica, al coraggio di cercare sempre nuove sfide, Zanetti ci indica in undici capitoli altrettanti punti fermi che lo hanno accompagnato dall'infanzia, vissuta nel Dock Sud, uno dei quartieri più poveri di Buenos Aires, fino all'arrivo in Italia, nella grande famiglia dell'Inter, con cui ha conquistato tutti i trofei più importanti. Nel suo racconto sport e business non sono solo gli strumenti del successo individuale: tutto ha più senso se si ha come stella polare la solidarietà sociale, la vicinanza ai più deboli. Da calciatore ieri e da dirigente oggi, «il Capitano» indica nella sensibilità umana non semplicemente un dovere morale ma una chiave importante di qualunque impresa.
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gregor-samsung · 2 months
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“ Ricordo che incontrai Moro alla vigilia del suo rapimento. Era sera e, poche ore prima, un importante esponente del Partito comunista mi aveva pregato di comunicare a Moro e a Zaccagnini che il suo partito aveva molte difficoltà a votare il governo Andreotti. Cercai Zaccagnini e non lo trovai, con rammarico perché era con fiducia che mi rivolgevo a lui. Fummo sempre molto vicini, umanamente e politicamente, e lo saremmo stati ancor di più in quei terribili giorni del 1978. Sentivo la trasparenza, la linearità, l’onestà con le quali giocò tutte le carte che poteva avere in mano per salvare l’amico, fino a impegnarsi affinché Moro, una volta liberato, uscisse dalla politica, se questo poteva servire a tenerlo in vita. Infine trovai Moro e gli riferii il messaggio, e la sua replica fu: «Pochi si rendono conto che siamo sull’orlo di un abisso». Visto con il senno di poi, sembra che il suo fosse un giusto timore e un funesto presagio.
Che cosa ricordo ancora di quei terribili giorni? Troppo e troppo poco. Non posso dimenticare il clima pesante, il senso di claustrofobia: le stanze dove ci si riuniva sembravano sempre anguste, non che fossimo più di prima, ma l’angoscia, l’impotenza le occupavano tutte. Angoscia, impotenza, e non solo per quella minaccia che incombeva sul paese, non solo per il dolore per la morte degli uomini della scorta, vittime innocenti, ma perché la tragedia che aveva fatto irruzione nel Palazzo, e pretendeva toni alti, non poteva non confrontarsi con la prosaica quotidianità. E della quotidianità restavano, nel nostro partito, e trasversalmente, seppure in maniera minore, con gli altri partiti, legami politici antichi, consolidate amicizie, che continuavano a intrecciarsi con vecchie incomprensioni, dispute mai sedate, nervosismi senza fine. E al centro di questo «gioco» perverso c’era sempre lui, Aldo Moro, il capo del partito, l’uomo carismatico, che scriveva, che ancora una volta, come era nella sua personalità, continuava a pretendere attenzione. E la cui assenza, più passavano i giorni, più diventava una inquietante presenza, occupava la scena: Moro era il nostro convitato di pietra. I tempi del dramma volevano che il passato fosse azzerato, e che ci confrontassimo con ciò che stava accadendo con occhi nuovi. Ma come pretendere che ciò si realizzasse? Alcuni ne furono capaci. Alcuni. I meno politici. I più umani. Ma le risposte da dare ai brigatisti non dovevano essere risposte politiche? Noi, dopo quei giorni, non saremmo più stati quelli di prima. Dopo l’affare Moro si è aperta una ferita nella nostra intelligenza e nella nostra umanità. “
Tina Anselmi con Anna Vinci, Storia di una passione politica, prefazione di Dacia Maraini, Chiarelettere (Collana Reverse - Pamphlet, documenti, storie), 2023; pp. 89-91.
Nota: Testo originariamente pubblicato da Sperling & Kupfer nel 2006 e nel 2016.
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gregor-samsung · 1 month
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" Avevamo visto insieme i risultati delle elezioni; eravamo in una casa con un salone molto grande, mangiavamo e bevevamo, eravamo chiassosi, e poi all'improvviso era calato un silenzio molto serio, preoccupatissimo, complicato. Scuotevamo la testa, ma non avevamo il coraggio di dire nulla. E vero che i sondaggi avevano suggerito di stare all'erta, ma ciò che stava accadendo sembrava impossibile a noi che eravamo l'Italia civile e moderna. Ogni tanto, se appariva uno di quelli che avevamo votato, qualcuno urlava un insulto - qualcosa di generico contro la sinistra; era un urlo stonato, in mezzo al silenzio, e veniva accolto con altro silenzio. E allora questa ragazza, che era seduta per terra davanti alla tv, si voltò solo un attimo per afferrare il suo bicchiere di vino rosso, poi disse: «Va bene, che sarà mai, Berlusconi ha vinto le elezioni e governerà, cosa può succedere?»
Quella frase ruppe il tappo del silenzio. Le si scagliarono tutti contro, dicendo che forse non si rendeva conto, elencando cosa aveva fatto Berlusconi fino a quel momento, come si era procurato i soldi, in quali rapporti era stato con Craxi. Il baratro che ci aspettava. E molti dicevano soltanto questa frase, come un mantra: dobbiamo andare via dall'Italia. Cosa ci sarebbe capitato, da quel giorno in poi, non si poteva nemmeno immaginare. Dovevamo andare a vivere in un altro Paese, più civile, più vicino a noi, perché l'Italia era caduta nelle mani di esseri umani che non sapevamo nemmeno che esistessero. Io non dicevo nulla, però continuavo a guardare quella ragazza che ascoltava tutti, diceva si lo so però dai, che sarà mai, e continuava piuttosto serenamente a sorseggiare il suo vino. L'unica impressione che dava era che quel vino le piacesse. Non so perché, e non importa, ma mi si piantarono dentro due sensazioni precise: una maggiore tranquillità verso quello che era appena accaduto, e un innamoramento diverso da tutti quelli che avevo avuto finora; non chiassoso, solido. "
Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Einaudi (collana Super ET), 2017 [1ª ed.ne 2013]; pp. 163-164.
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gregor-samsung · 11 months
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“ Mia cara Francesca, le tue lettere arrivano, per lo più, alla sera. Verso le nove. Una mano entra nel buco, dicono "posta", poi le aprono e me le danno. Così le tue parole sono le ultime che ricevo: e me le porto in sogno. [...] Ho lavato i piatti (una ciotola di plastica, un piatto di plastica, delle posate idem) e le pulizie le farò nel pomeriggio, nell'interminabile viaggio che va dalle 15 al mattino dopo. Oggi è giorno di doccia (qui ci si lava un giorno sì e uno no) e aspetto il mio turno. Poi mi vestirò, e andrò all'aria. Girerò in tondo fino alle 11. In questa giostra assurda s'incontra ogni genere di uomini: falsari, spacciatori, zingari, bancarottieri; è un mondo tutto suo, credimi. E pieno di assurde favole, di storie incredibili; è impressionante il numero di giovani, di ragazzi, quasi. Da fuori, non si ha la sensazione di quello che accade qui, e di come enormi siano oggi i problemi della giustizia. Mi chiedi se desidero un libro. Sì. Di Dostoevskij "Memorie da una casa morta": attenzione, non "Memorie dal sottosuolo", che è un altro suo libro. Dico quello (alcuni lo traducono "M dalla casa dei morti") che parla della sua prigionia a Semipalatinsk, in Siberia. Lo lessi anni fa, e siccome è pieno di pensieri sulla pena, la prigione, e altro, vorrei rileggerlo. Davvero. Va bene? E io che posso restituirti? Senti, sbaglio o con Renata sei in freddo? Non so, mi è parso di capire che, in quel suo tirarsi indietro ti desse della pena. Guarda: succede, e alle volte è meglio che un amico dica francamente il suo pensiero piuttosto che vederlo accettare per forza. E il resto del lavoro? E la vita? E Milano? Io sono disgustato all'idea che esistano "giornalisti" del tipo attualmente in circolazione: criminali della penna, analfabeti della vita, irresponsabili, folli. Adesso è di moda chiamare questo "il carcere dei vip": perché non vengono, per sette giorni, a questo Portofino delle manette? Credimi: il nostro non è un Paese. Ho gioito al ritrovamento delle reliquie del tuo S. Francesco: non avevo dubbi, credi, che il finale fosse quello. E troveranno il resto. Vuoi scommettere? Mi chiedi dei sogni? Beh, sono molto teneri, dolcissimi. Mi pare di essere accanto a te, e di perdermi nei tuoi occhi. È delizioso. Anche se è la sbiadita, pallida immagine del vero. Ma ti sogno spesso. Ti ho detto: ora sono sereno, niente può più toccarmi. Mi metterò a studiare storia, che e la mia passione. Storia italiana. Poi, mi interessa enormemente la "comune coscienza del peccato", che è cosa ancora più debole, da noi, del "comune senso del pudore". Parlo con delinquenti veri, Cicciotta: e mi interessa la loro psicologia, la loro relatività, il loro codice, che è, in molti casi, anche se patologico, regolato da leggi ferree. Sì, ho vissuto molte vite: so e conosco cose che nessun viaggiatore vede e vedrà mai, avrò da riempire sere e sere d'inverno. Non andrò mai più allo zoo: l'idea di una gabbia mi darà, per sempre, un fremito di disgusto. Tu dici che sono forte: io non lo so, Cicciotta. Sento che mi sentirei indegno di vivere, se fossi diverso. Non si può concedere loro niente: sono dei bari, capisci? Questo Paese ha sempre piegato la schiena, baciando la mano di chi lo pugnalava. E non ci sarebbero tiranni, se non ci fossero schiavi. Il vero patrono d'Italia (e non capisco perché non lo facciano) dovrebbe essere Don Abbondio. San Francesco poteva nascere benissimo in qualunque altra parte del mondo. Solo Don Abbondio è irresistibilmente, disgustosamente italiano. A me spiace parlar male del mio Paese: ma deve cambiare. È l'"odi et amo" di Catullo (traduzione di Ceronetti): e se vuoi un ritratto, che condivido, dell'Italia, leggi, sempre di Ceronetti "Viaggio in Italia" (Einaudi). È una barca cariata, un guscio vuoto, pieno di vermi, che galleggia su un mare inquinato. E per le anime, è peggio. Ti abbraccio, Cicciotta. Tanto tanto Enzo [Bergamo, domenica 9 Ottobre '83] “
Enzo Tortora, Lettere a Francesca, Pacini Editore, 2016¹; pp. 82-84.
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gregor-samsung · 8 months
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“ Degli anni della mia formazione scolastica l’esperienza più emblematica che mi torna in mente è il sabato fascista: le ore che era obbligatorio trascorrere nella sede del fascio per essere indottrinati. Non che allora noi rifiutassimo o aderissimo alla dottrina di Mussolini, semplicemente la imparavamo a memoria, era un compito come un altro. Imparavamo a memoria anche le poesie, e non è che ne capissimo ogni verso. Ancora ricordo l’articolo primo, che era la base di tutto ciò in cui ogni bravo fascista doveva credere: «Lo Stato è un valore assoluto, niente fuori dello Stato, niente contro lo Stato, niente al di là dello Stato, lo Stato è fonte di eticità». È vero che chi non si presentava al sabato fascista, il lunedì non veniva ammesso a scuola ed era redarguito severamente, ma ciò ci appariva una punizione circoscritta all’ambito scolastico, legata al fatto che non eravamo stati buoni scolari, più che solerti futuri camerati. Non bisogna inoltre dimenticare che non tutti gli insegnanti subordinavano il loro dovere di maestri alle imposizioni del regime. Senza contare che quella dottrina era troppo lontana dal nostro mondo, dalla nostra cultura per far breccia dentro di noi, anzi, aggiungerei, era quasi considerata un’eresia. Sentivo a casa mia e in altre famiglie amiche discuterne, criticarla, rifiutarla: nel nostro Veneto cattolico l’eticità delle leggi era avocata a sé dalla Chiesa.
Solo quando lo Stato fascista cominciò ad applicare i suoi principi con mano pesante, a perseguitare, a processare, a deportare in Germania, a eliminare chi non li rispettava, solo quando l’alleanza tra fascismo e nazismo si fece sempre più stretta e infine, dopo l’8 settembre 1943, i nazisti divennero i veri padroni del territorio, solo allora capimmo che quel «fuori», «contro», «al di là» non erano termini con cui si potesse scherzare. Fu così che alcuni discorsi ascoltati nella mia famiglia, quando si era sicuri di poter parlare, e l’esempio di mio padre, le vessazioni che subiva, ebbero un altro valore. Le parole dei nostri parroci che, nelle prediche della domenica e negli incontri con noi giovani dell’Azione cattolica, invitavano all’amore e alla concordia, al rispetto solo dei dogmi della Chiesa, alla professione della fede, uscirono dalle parrocchie, a volte contro la volontà degli stessi preti. E le leggi razziali del 1938 smisero a un tratto di essere qualcosa di stabilito dal fascismo non tanto per intima convinzione quanto per mera opportunità politica, dovuta all’alleanza con Hitler, con il nazismo; infine ne cogliemmo tutta la portata, mentre, per lungo tempo, non avevamo avuto gli strumenti per decifrarle e non eravamo riusciti a immaginare che si sarebbe creato un sistema spietato per farle rispettare. Dopo l’8 settembre non ci fu più alcuna distanza tra le due dittature. E fu impossibile non schierarsi. “
Tina Anselmi con Anna Vinci, Storia di una passione politica, prefazione di Dacia Maraini, Chiarelettere (Collana Reverse - Pamphlet, documenti, storie), 2023; pp. 10-11.
Nota: Testo originariamente pubblicato da Sperling & Kupfer nel 2006 e nel 2016.
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gregor-samsung · 9 months
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“ Dobbiamo avere la consapevolezza che noi conosciamo solo pezzi di verità, sull’assassinio di Moro, sulla P2, sulla strage della stazione di Bologna – l’elenco, ahimè, potrebbe continuare –, e che non abbiamo ancora chiarito i collegamenti tra gli uni e gli altri. Siamo nel tempo della dimenticanza assurta a valore, quasi che chi coltiva la memoria sia una persona desiderosa di vendetta, piena di rancori e meschinità, ingabbiata nel passato, che non guarda al futuro. Eppure non è forse attraverso il passato, ciò che siamo o non siamo stati, che possiamo intuire dove stiamo andando? Non viene forse anche da una mancanza di consapevolezza delle nostre radici – salvo esaltarle in contrapposizione a quelle degli altri – l’illusoria certezza che la democrazia sia un bene di consumo come un altro, facilmente esportabile, magari con una guerra? La nostra storia di italiani ci dovrebbe insegnare che la democrazia è un bene delicato, fragile, deperibile, una pianta che attecchisce solo in certi terreni, precedentemente concimati. E concimati attraverso l’assunzione di responsabilità di tutto un popolo. Ci potrebbe far riflettere sul fatto che la democrazia non è solo libere elezioni – quanto libere? –, non è soltanto progresso economico – quale progresso e per chi? È giustizia. È rispetto della dignità umana, dei diritti delle donne. È tranquillità per i vecchi e speranza per i figli. È pace. “
Tina Anselmi con Anna Vinci, Storia di una passione politica, prefazione di Dacia Maraini, Chiarelettere (Collana Reverse - Pamphlet, documenti, storie), 2023; pp. 93-94.
Nota: Testo originariamente pubblicato da Sperling & Kupfer nel 2006 e nel 2016.
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gregor-samsung · 1 year
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“ Ecco la lezione che Marx trae dalla Comune: « ... che dopo la guerra più sconvolgente dei tempi moderni, il vinto ed il vincitore fraternizzino per massacrare in comune il proletariato, questo fatto senza precedenti prova, non come pensa Bismarck lo schiacciamento definitivo di una nuova società al suo sorgere, ma la decomposizione completa della vecchia società borghese. Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale: ed è ora dimostrato che questa è una semplice mistificazione dei vari governi, la quale tende a ritardare e ad affossare la lotta delle classi e viene messa da parte non appena questa lotta di classe divampa in guerra civile ». Inoltre nella crisi che precede la guerra i rapporti di forza sono strategicamente favorevoli alla rivoluzione proletaria. La crisi infatti genera contraddizioni sociali fortissime che determinano uno scontro di classe violentissimo, e nella misura in cui questo scontro di classe si approfondisce e si sviluppa trasformandosi in Guerra di Classe, la borghesia non può porsi sul terreno della guerra imperialista: la crisi diviene così irreversibile, acuendo contemporaneamente ancor più il processo di guerra civile in atto. È questa la dialettica che potrà inchiodare lo sviluppo capitalistico. Possiamo perciò formulare la seguente generalizzazione: nella crisi la parola d'ordine della borghesia è "bloccare il processo di guerra civile trasformandolo in guerra imperialista e sconfiggere così la rivoluzione"; quella dei comunisti deve necessariamente essere: "sviluppare il processo di guerra civile in atto ed impedire così la guerra imperialista". “
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Brano tratto dalla Risoluzione della direzione strategica delle Brigate Rosse, testo diramato nel febbraio 1978.
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gregor-samsung · 2 years
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“ Come presidente del consiglio, nell'autunno '63, quasi piangendo, [Giovanni Leone] assicurò alle famiglie delle duemila e piú vittime della catastrofe del Vajont che al piú presto giustizia sarebbe stata fatta e i colpevoli assicurati alla giustizia. Solo che pochi mesi dopo, diventato semplice deputato, al tribunale dell'Aquila egli accettò di far parte del collegio di difesa dei dirigenti della Sade, la società responsabile del disastro. Dopo il suicidio di un ingegnere geologo, otto erano i rinviati a giudizio. Risultato: cinque assolti e tre condannati al minimo della pena. È noto a tutti che il disastro si poteva evitare, che da anni i comuni che poi verranno travolti lamentavano smottamenti e slittamenti temendo il peggio, è noto che senatori e onorevoli democristiani avevano precise responsabilità (quanti avevano approvato il progetto del bacino costruito sotto il controllo diretto dei Lavori pubblici e senza ordinare la piú stretta vigilanza sui lavori della Sade, quelli che non avvertirono di eventuali pericoli la popolazione). Cosí la sentenza si commenta da sé: evidentemente l'eloquente, e lautamente retribuita, memoria scritta che mandò allora Leone ebbe il suo peso sui giudici e sul tribunale. Eccola: "Gli imputati sono persone ineccepibili sotto ogni aspetto e la loro colpa sta nel non aver avuto nell'ora suprema l'appercezione e la riflessione, il lampo illuminante dell'imminente pericolo." (Come se fossero stati tutti là a sorvegliare e si fossero distratti un momento.) Quindi non sono responsabili di questo "tragico errore" (errore di chi? di quella loro fatale distrazione?). E poi: "Ciò che ha ucciso non è la frana, cioè la prevedibile cedevolezza dell'area scelta e non tenuta sufficientemente sotto controllo, ma soltanto l'inondazione per cui l'evento non può essere addebitato all'agente, cioè alla Sade-Enel." (E chi ha la colpa dell'inondazione, se non chi non ha tenuto sotto controllo quell'area cedevole?) Le stesse argomentazioni che si leggevano il giorno dopo la tragedia sui giornali conservatori, difensori delle società idroelettriche. "Calamità naturale" era il ritornello d'allora, quando invece la calamità era prevista da anni, denunciata dai sindaci e dai giornalisti locali, temuta anche da qualcuno, tra i meno cinici, dei funzionari dei Lavori pubblici. “
Camilla Cederna, Giovanni Leone. La carriera di un presidente, Milano, Feltrinelli, 1978; pp. 130-31.
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gregor-samsung · 2 years
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“ Il 9 ottobre 1963, circa 300 milioni di metri cubi di roccia precipitarono nella riserva d’acqua della Valle del Vajont, provocando un’onda gigantesca che superò gli argini della diga e distrusse la cittadina di Longarone, uccidendo circa 2000 persone. Il disastro del Vajont è tra gli eventi piú tragici della storia del secondo dopoguerra in Italia; ciò nonostante, fu rimosso dalla memoria collettiva nazionale. A parte i lavori di pochi storici (Reberschak e Mattozzi 2009; Reberschak 2013), non ve ne sono tracce nella narrazione ufficiale del cosiddetto miracolo economico degli anni Sessanta. È stato grazie al lavoro di Marco Paolini, attore e autore di teatro, che alla fine degli anni Novanta la vicenda del Vajont è entrata a far parte della memoria collettiva del Paese, grazie a un monologo di due ore trasmesso dalla televisione pubblica. Evidentemente, la storia del modo in cui la modernità e la crescita economica si erano materializzate in una valle remota del Nord Italia grazie all’arroganza di una potente azienda idroelettrica e alla complicità dello Stato non erano adatte alla narrazione generale di un’Italia che finalmente diventava una società ricca e moderna. La storia del disastro del Vajont è un esempio da manuale della logica del Wasteocene. Nel nome del progresso e di un superiore «bene comune» (Roy 1999), alcuni luoghi ed esistenze vengono sacrificati, letteralmente messi al lavoro per il benessere di altri. Le wasting relationships che trasformarono una valle remota in una macchina idroelettrica non soltanto produssero vite di scarto – l’immenso cimitero di Longarone –, ma scartarono anche saperi e memorie. Saperi, sí, perché gli abitanti del posto tentarono piú volte di allertare le autorità riguardo ai prevedibili rischi che sarebbero derivati dalla diga, ma vennero ignorati o ridicolizzati. Fu una battaglia tra competenza scientifica ed esperti professionisti da una parte e la gente comune di una valle alpina dall’altra. La partita era persa fin dall’inizio.
Rifiutare la memoria del Vajont significò cancellare quella tragedia dalla narrazione storica dominante, ma anche addomesticarla. Mentre l’invisibilizzazione cancella ogni traccia di che cosa / chi è stato scartato, l’addomesticamento della memoria è forse una strategia piú sofisticata per continuare a riprodurre wasting relationships. Nei casi come quello del Vajont, addomesticare la memoria significa organizzare una certa versione della storia che non rivela le ingiustizie né lascia spazio alla rabbia sociale: piangere la perdita di vite umane può essere accettabile, ma lo si deve fare senza alcuna implicazione politica. Perciò il disastro del Vajont fu rappresentato semplicemente come uno sfortunato incidente, e il suo ricordo avrebbe dovuto portare pace e coesione, non rabbia e conflitto. Ricordando la propria esperienza, Carolina, sopravvissuta alla tragedia, ha spiegato questo processo di addomesticamento della memoria: Le istituzioni hanno fatto e fanno di tutto per dividere i buoni dai cattivi superstiti. I buoni sono quelli che raccontano del dolore, quelli che commuovono chi li ascolta, ma poi sanno fermarsi lí, sanno stare zitti e lasciare alle istituzioni il compito di raccontare i fatti e rendere cosí la memoria innocua in modo che non disturbi i poteri economici che ancora mettono al primo posto il profitto rispetto alla vita umana. I cattivi sono quelli che cercano giustizia e che lottano affinché i loro morti siano un monito ai vivi per non dimenticare mai di cosa sia capace l’uomo in difesa del profitto. I cattivi sono quelli che puntano il dito contro il sistema che privilegia i soldi alla vita umana (Vastano 2017). La giornalista Lucia Vastano (2008) ha raccontato la storia del cimitero delle vittime del Vajont in un modo che mi pare confermi meravigliosamente la mia idea dell’addomesticamento della memoria quale wasting relation istituita con mezzi diversi. Nel 2003, l’amministrazione comunale di Longarone decise di trasformare il vecchio cimitero di Fortogna, dove erano sepolte le vittime, in un monumento ufficiale alla memoria. Il vecchio cimitero venne raso al suolo, cancellando ancora una volta i ricordi e i simboli riuniti lí dai sopravvissuti, compresa la lapide della famiglia Paiola (sette morti, di cui tre bambini) sulla quale era inciso: Barbaramente e vilmente trucidati per leggerezza e cupidigia umana attendono invano giustizia per l’infame colpa. Eccidio premeditato (Vastano 2008, p. 157). Nel nuovo cimitero, il ricordo delle vittime fu organizzato in geometrici blocchi di marmo con la sola incisione dei nomi dei defunti: il lutto deve essere addomesticato, la logica del Wasteocene non può essere messa in questione. Se un episodio tragico rende lo scarto di vite umane troppo evidente per poter essere nascosto, va visto come un incidente e non come l’epifania del Wasteocene, la prova del fatto che il sistema si fonda sullo scarto di umani e non-umani, delle loro vite, del loro sapere e anche delle loro storie. “
Marco Armiero, L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale, traduzione di Maria Lorenza Chiesara, Einaudi (collana Passaggi), 2021. [Libro elettronico] [Edizione originale: Wasteocene. Stories from the global dump, Cambridge University Press, 2021]
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