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#LO SCIALLE DI LANA
fruitcage · 5 months
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BAIA MIA...
D’estate, lo sai, che aspetto la domenica con trepidazione.
Scruto il cielo dalla sera prima. Leggo nella quantità delle stelle il sereno e il caldo che poi mi avvolgerà come uno scialle importante, lavorato intrecciando alla lana l’immaginazione dell’occasione. Cerco nel riflesso della luna la calma punteggiata dalle luci dei pescherecci e di luminosi millepiedi che, di tanto in tanto, si antepongono all’orizzonte trasportando il piacere di una vacanza in crociera. E se mai la sera prima non ci fosse calma, se mai le nubi ingoiassero le stelle nei loro addensamenti, se mai il dubbio che al mattino il sole possa riscaldarmi mi zampillasse disturbandomi, non rinuncerei al nostro appuntamento domenicale.Mai! Mi alzo di buon’ora, nonostante dopo una settimana di lavoro, le lenzuola tratterebbero fino a tardi mattinata. Il sonno, però, e la stanchezza svaniscono facilmente all’idea di vivermi una giornata intera tra i colori dei tuoi vestiti, i suoni dei tuoi movimenti, la remissività del tuo darti incondizionatamente. Senza riserve. Tentennamenti. Pretese. Ricatti. Compromessi. Preamboli di conquista. Tu ti lasci prendere e basta. Totalmente. E so che mi aspetti per l’intera successiva settimana. Mi aspetterai. Ed io penserò ai grani dorati che sfuggono tra le dita a contare un tempo che non si vorrebbe fermare, come una clessidra impostata all’infinito. Penserò all’acqua che si chiama Chiara dagli occhi cangianti e che sfoggia, smorfiosa, lenti a contatto di vari colori a seconda di come cade il raggio di sole sui suoi fondali. Penserò alla nenia delle onde che culla con tono sommesso ed instancabile uguale a quello di una madre, sulla destra della torre saracena; e alla lirica possente, sulla sinistra, che sovente accompagna lo sfracellare delle acque spinte da forti correnti e da brezze decise. Penserò alla scogliera dove il mare s’infrange. Dolce. Come una carezza. Violento. A scorticare la roccia. A mangiarne porzioni, scavando crateri, increspando la pietra. Per lasciare croste di sale e una coperta in salsedine di pizzi e ricami. Penserò alla torre saracena. Essenziale e possente un tempo. Dove, in alto, sfidando il suo sfarinarsi, ho sbirciato al nemico nascosto da qualche parte oltre quel taglio che divide cielo e terra. Troppe miglia. Troppo mare. Misterioso l’orizzonte. Penserò ai trabucchi. A braccia legnose tese a sostenere le reti. All’attesa dei pescatori. Alle preghiere. Ai guizzi dei pesci. All’esultanza. Al pane sulla loro tavola. Penserò all’erba che cresce anche sulla sabbia, sfruttando granelli di terra per affondarvi radici ed incastrarsi tra murge aride ed avare. Penserò agli arbusti, nani e spinosi, che si prostrano al suolo. Servitori fedeli, ubbidienti ai venti. Competitori dei pini tanto da esserne invidiosi. Perché questi svettano e toccano il cielo e spargono intorno profumo di resina…..
Mi aspetterai ed io penserò. Ti penserò perché tu mi aspetti. Sempre.
Ogni domenica d’estate. Quando di buon’ora mi metto in macchina per raggiungerti. Sei lì, in un chilometro di costa. Con l’ombrello della luna sulla testa quando è notte. La raggiera del sole, da est ad ovest, a coprirti tutta durante il giorno. Ti sento mia anche se mia non lo sarai mai. Ti dai a tutti ed io ti prendo. Mia però voglio chiamarti.
“Baia Mia”.
Dove l’emozione è una casa che apre porte e finestre.
Dove scoppietta, come tra gli alari, la scintilla che accende il bene per la vita.
Dove la Creazione è un dono senza i fiori della carta e nastri di fiocchi
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cinquecolonnemagazine · 4 months
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Ho visto la Befana
I ricordi, si manifestano per associazioni. Ritornano dopo lunghe assenze, richiamati dal desiderio o dalla necessità di rivivere, di riappacificarci con il passato, con noi, o chissà perché. Questa mattina, mi sono svegliata nel 1958, in una casa in via Olivi, a Treviso. Casa modesta con piccolo giardino, tipica costruzione del dopoguerra. La cucina economica, smaltata, riscaldava quell'unica parte, il cuore, lo stomaco della casa. Gli inverni erano gelidi, ricordo un pigiama di flanella, mamma lo riscaldava ponendolo accanto al fuoco, mi spogliava e me lo faceva indossare. Poi, avvolta in una coperta, salendo di corsa la scala, mi accompagnava nel mio letto, precedentemente riscaldato con la boule d'acqua bollente. Mi svegliavo, durante la notte, con il naso ghiacciato, mentre il resto del corpo, era protetto da un piumone blu, gonfio, enorme, lo aveva confezionato mia nonna, sacrificando un discreto numero di oche. Oche che una volta arrostite, venivano conservate in vasi di vetro, coperte dal loro grasso. I vasi, sistemati nella stanzetta più a nord, un vero frigorifero! Solo nel 1962, arrivò a casa un mitico Zoppas… sogno di molte famiglie di allora. E vengo alle associazioni. Nella notte della befana, si svolgeva un rituale a casa mia. Prima di quella corsa verso il sonno, si preparava l'accoglienza per la vecchietta. Mamma quindi, lasciava sopra la stufa, una tazza di latte e un bicchiere di vino rosso (diceva che la befana avrebbe scelto, secondo gusto) e una bella fetta di pinza, dolce tipico per quella festa, tutt'ora in uso. Tutto ciò, serviva a rinfrancare la befana, prima che proseguisse nelle consegne… appesa al filo di ferro, sopra la cucina economica, si lasciava una lunga calza di lana rossa, confezionata a mano, la mattina seguente, per la mia gioia, la ritrovavamo piena di cose deliziose, sempre le stesse, ma molto desiderate e attese. Trovavamo anche un foglietto, con il ringraziamento della vecchia signora, per il dolce e il vino (il latte non l'aveva bevuto)… Momenti di gioia autentica, che costituiscono un deposito prezioso, inestimabile, assieme a molto altro. Un passato di cose semplici, di avvenimenti cardine, soprattutto di parole e insegnamenti trasfusi. L'anno dopo, un'amichetta, pensò fosse necessario avvertirmi che la befana non esisteva, come pure babbo Natale e la cicogna. Per me fu un duro precipitare dalla fantasia. E, ancora una volta, mamma corse ai ripari. Giusto o meno che fosse, dal punto di vista pedagogico, nella notte dell'epifania del 1959, mi provò che la befana era una realtà. Io la vidi! Entrò nella mia cameretta… e dal sacco, in via eccezionale, trasse una bellissima bambola di pezza, che lasciò sul comodino. Io finsi di dormire, il cuore andava a mille! La luce fioca dal corridoio, illuminava appena il suo viso, uno scialle nero le copriva i capelli, se i suoi tratti mi sembrarono quelli di mamma, accantonai subito l'idea. Quando chiuse la porta alle spalle, gridai con quanta voce avevo: "mammaaaa! La befana!!! Io l'ho vistaaaa". I miei genitori si precipitarono da me… papà in pigiama, mamma vestita a metà… condivisero la mia gioia e quella epifania, il meraviglioso dono di lasciarsi sorprendere, ancora. Foto generata con Copilot per Cinque Colonne Magazine Read the full article
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umi-no-onnanoko · 3 years
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Dieci minuti
Quel giorno pioveva forte, rispecchiava pienamente come si sentiva: colma di pensieri ed emozioni contrastanti.
Da circa un'ora aveva appreso che non vi era via d'uscita:la sabbia della vita stava scorrendo troppo in fretta nella sua clessidra. Sarebbe arrivato il momento prima di quello che si sarebbe aspettata e contro ogni previsione medica precedente,ora non restava che decidere come finire.
Decise che mancavano 10 minuti, quei minuti anche se lei non sarebbe stata lì sarebbero rimasti in eterno ricordandola, sorrise riprendendo a camminare lungo la vita semideserta di case e strade che si intrecciavano.
Di fronte a sé incrociò una vecchina che trasportava il peso del suo corpo ricurvo coperta dalla sua veste stinta e coperta unicamente da un violaceo scialle di lana e da un giornale sul capo; le si avvicinò coprendola con il proprio ombrello assicurandosi che fosse riparata a dovere.
"Grazie piccina" le vecchietta mostró il ritratto rugoso e sdentato che celava la sua gioventù accettando l'ombrello che la giovane le protendeva.
Era passato un minuto, "meno nove" pensò la ragazza proseguendo il suo cammino.
Dopo circa una ventina di secondi un triciclo andò dritto dritto contro di lei che prontamente afferrò un riccioluto bambino di 3 anni dal viso spruzzato di lentiggini.
Il piccolo piangeva spaventato per l'impatto con la ragazza, così lei risollevò la vettura del piccolo e asciugando amorevolmente il suo visino con un fazzoletto morbido e profumato di lavanda lo applicò con cura sul ginocchio sbucciato rimettendolo in sella nello stesso istante in cui giungeva una donna vestita d'eleganza e conducente al seguito un passeggino imperalato dalla pioggia, che ringraziandola riprese con sé il figlio proseguendo per il loro cammino, mentre la piccola scimmietta lentigginosa sventolava la manina in cenno di saluto.
"Meno otto" appuntò mentalmente.
Passò attraverso un verde viale alberato dove il ticchettio incessante della pioggia andava a formare bizzarre costellazioni gocciolanti sul suo cappotto ambrato.
Mentre procedeva ciacchettante tra le pozzanghere che le infangavano gli stivaletti scamosciati osservava con curiosità gli abitanti del parco e le loro attività ed il suo sguardo si soffermò su un senzatetto acciambellato sulla sua panchina tenendo tra le mani nodose ed incallite un caldo e soffice batuffolo dal musetto umido. Notò che erano entrambi tremanti e che i loro stomaci affamati brontolavano in risposta al vento tagliente che si era andato ad aggiungere allo scrosciare della pioggia.
Gli si avvicinò sfilandosi il cappotto per avvolgere i due sfortunati, successivamente si ripiegò su sé stessa rovistando all'interno del suo zaino finché infine trovò ciò che stava cercando: una busta contenente un panino con prosciutto, una mela, dei biscotti ed una bottiglietta d'acqua. Protese questa piccola ancora di salvezza all'uomo che allungo tremante la mano commosso dalla sua bontà e benedicendone la vita.
"Meno sette" sottrasse dal suo conteggio camminando.
Uscendo dal parco il vento era calato e la pioggia da fitta si faceva più merlettata.
Dirigendosi verso la periferia della città giunsero al suo orecchio una voce alterata e indelicata contro un pianto sommesso, finché avvicinandosi,mano a mano, a queste voci vide una figura piangente che cercava di riappropriarsi della propria cartella ed un bulletto che correva in tondo come un grasso tacchino ondeggiando lo zaino rubato.
Acquattandosi alle sue spalle, favorevole l'effetto sorpresa,la ragazza riuscì a mandare il ragazzo a gambe all'aria lanciandolo al suo proprietario che ancora con il moccio al naso si rialzo correndo nella direzione opposta.
"Meno sei" sospirò la ragazza soffiando sulle mani arrossate dal freddo.
Ormai era quasi arrivata al limitare della città dove un uomo nero come la pece, vestito con una pesante tuta da lavoro usciva da una fabbrica anch'essa annerita con volto atterrito.
"Sta cercando qualcosa signore?" gli chiese.
"Sì ragazza, ho perso la busta contente la paga del mese,come farò a sfamare la mia famiglia?"
La ragazza si mise anch'essa a cercare la busta e finalmente la trovò incastrata nella grata di un tombino. Tempestivamente introdusse la mano e l'estrasse porgendola al suo proprietario.
"La ringrazio" le disse mostrando un sorriso bianco in netto contrasto con la sua ombra scura.
"Meno cinque"
Fatti pochi passi un gattino nero attraverso di filato il suo cammino nascondendosi dietro un albero e seguito poco dopo da un grosso cane, la ragazza prese in grembo il gattino allontanandosi e tenendo lontano il cane con l'utilizzo di un ramo trovato poco distante, andando a depositarlo dinanzi all'orfanotrofio cittadino,dove un gruppetto di bambini stava rientrando all'interno dell'edificio, ma rallentó deliziato alla vista del cucciolo ed accogliendolo tra loro.
"Meno quattro"sussurrò tornando sui suoi passi.
Era ormai arrivata alla stazione ferroviaria,"sarebbe un buon modo andare via potrei andare al mare" pensò ma poi scosse la testa entrando nella stazione e raggiungendo i vari binari.
"1,2,3,4,5,6,7,8,9,10" contó come cantilenando.
"Meno tre"
Si avvicinò ad un binario deserto tranne che per due ragazzi seduti sul bordo.
"Sta arrivando il treno ti prego togliti di lì" supplicava un ragazzo ad una fanciulla sempre più in bilico sul binario
"No ormai ho deciso non ne vale la pena" la ragazza aveva il volto rigato dal pianto,mentre la pioggia era cessata.
Le sì avvicinò pian piano anch'ella
Il ragazzo era sempre più disperato e parlava in modo concitato e sconfusionato cercando di dissuaderla
"Meno due" la ragazza osservava l'orologio della stazione
"ARRIVA!"
"Meno uno"
Un fischio...un arcobaleno...poi nulla.
Sul binario giaceva il corpo di una ragazza, sul bordo del binario, in salvo tra le braccia di un ragazzo, un altro corpo.
Una vita, per una vita,zero,punto di non ritorno.
-umi-no-onnanoko (@umi-no-onnanoko )
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love-nessuno · 3 years
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Donne veneziane: lo zengale e l’arte de tacar boton
Le donne veneziane, sia nobili, sia popolane hanno sempre avuto un modo particolare di esprimere la propria femminilità: donne argute, decise, la battuta pronta, e consapevoli del proprio essere persone, oltre che donne.
A Venezia queste caratteristiche venivano definite con un termine “morbin”: questo brio, questa vivacità, questo modo di sapersi districare tra le attenzioni degli uomini senza offendere, ma lasciando in qualche modo, aperta la strada per continuare a relazionarsi con gli altri, senza per questo promettere nulla. Esempio eclatante nella letteratura è la descrizione di Goldoni, occhio acuto e sornione sulla civiltà veneziana, che seppe così magistralmente descrivere Marietta nelle ” Morbinose ” giovane allegra e piena di vita che, fa credere per scherzo ad uomo di essere innamorata di lui , cadendo poi, vittima felice del suo stesso gioco, e la ” Locandiera”, giovane donna energica inseguita da uno stuolo di ammiratori, che riesce in qualche modo a gestire queste attenzioni, fino a che non si arrende anch’essa all’uomo di cui si era innamorata!
Questo atteggiamento così disinvolto nelle relazioni sociali, nulla aveva a che fare con l’essere facili. Rifletteva la concezione non ipocrita e bigotta che in altri Stati veniva imposta, da un modo di concepire i rapporti umani, era frutto di un atteggiamento mentale legato ad uno Stato laico, anche se la Religione veniva professata e vissuta quotidianamente (basti pensare alle centinaia di chiese che sono state erette nella Serenissima).
Nel 1761 fu concessa a tale Giovanni Zivaglio, di origine armena, fuggito dal suo Paese per motivi religiosi e rifugiatosi a Venezia, la licenza di fabbricare “fazzoletti come si usano nelle Indie e portati anche dalle donne dello Scià di Persia”, per poter mantenere la sua numerosa famiglia. La seta a Venezia era conosciuta e lavorata fin dall’antichità, ma ricevette un grande impulso con l’arrivo della comunità dei Lucchesi a partire dal 1314. Tale “fazzoletto” venne chiamato “zendado, o zendàle, e altro non era che un grande scialle con lunghe frange confezionato in seta, in pizzo, e, per le popolane più povere, in lana, tutti di vari colori o delicatamente ricamati ( dal 1848, quando venne proclamato il lutto per i caduti della lotta di liberazione diventarono rigorosamente neri), ed in seguito venne rinominato scialle (da Scià di Persia, appunto).
Con la loro eleganza e l’innata capacità seduttiva le popolane utilizzarono questo indumento che poteva essere aperto, avvolto, coprire la testa, o maliziosamente lasciare leggermente scoperte le spalle per un innocente quanto attraente mezzo, per far avvicinare i giovani da cui si sentivano attratte e che percepivano in qualche modo troppo timidi per esprimere loro la propria ammirazione. All’avvicinarsi del prescelto con un rapido gesto della mano prendevano un lembo dello scialle e lo facevano volteggiare per ricoprire la spalla, facendo svolazzare le lunghe frange …. che, quasi magicamente, andavano ad impigliarsi sui bottoni del futuro innamorato….piccole ragnatele colorate e delicate che, impigliavano e imprigionavano il cuore dell’uomo. Ecco da dove nasce il termine: attaccare bottone (tacàr botòn). Chissà quante storie d’amore sono nate in passato in questo modo: le nostre ave, occhi vivaci, sorriso allegro, sguardo malizioso ed uno scialle “malandrino”. Come al solito a scegliere era la donna! altro influencer, della babbiona... e omini con il smalto sulle unghie.
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ilsalvagocce · 3 years
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salvagocce del 20 novembre 2020
Abbiamo fatto il bollito, perché a babbo piace 
Ho comprato il cappello del prete che pare sia perfetto, anche se quando l’ho chiesto al macellaio, forse intuendo la mia poca esperienza, è sfociato in un’irrisoria battuta — Perché, ci aveva freddo?, a cui è seguita una risata solitaria, a cui è seguito che io sono andata dal macellaio successivo.
Insomma, brodo e carne chiusi in bottiglie e scatoline, da cappuccetto rosso di nero vestita ho inforcato la strada con un’autocertificazione naif, sbarcando a casa dei miei ancora nel pisolo pomeridiano. 
prima è arrivato babbo con gli occhi acciaccati - ma, non so come fa, sempre con quella bellezza effortless - che mi ha beccato uscire le cibarie a sorpresa dalla shopper di lino
poi a ruota mamma, scapecciata, in maglietta di cotone e mutande, coi calzettoni uno su e uno giù sorridente leggera con gli occhi assonnati e limpidi come quelli dei bambini che si alzano prima perché forse sono arrivati i regali di natale
erano molto belli e buffi.
dopo la vestizione dell’imperatrice, abbiamo cercato i cappelli invernali di mamma, ché ora arriva il gelo pure a star chiusi in auto
ho aperto gli armadi delle camere, pieni di cappotti, giacche in disuso nostre, peluche in disuso nostri, cinture in disuso per sempre di plastica della mia adolescenza, pellicce finte attaccate a gran colli di gran cappotti fatti da mamma, merletti merlini e merluzzi dentro buste con fili ferri, scialle sciarpine minime forse delle bambole, ricordi imbuttabili, bottoni singoli preziosi, marsupi di topolino guadagnati a puntate
di cappelli ne ho trovati 3, un basco rosso, una cuffia di lana grezza, una cuffia di lana blu 
abbiamo provato quello rosso, gliel’ho sistemato col ciuffo di capelli bianchi fuori, così babbo capiva come farglielo indossare
Guardati mamma, che dici?
lei si è voltata verso lo specchio e, come una cascata da stenderti di gioia, è scoppiata a ridere.
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der-papero · 4 years
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Una lana per dimenticare
Non vorrei sentirmi come mi sento, eppure succede.
Tra una build e l’altra penso a come fare per non perdermi nei ricordi e in tutto quello che ne viene dopo.
E, non so perche’, mi e’ venuta in mente l’immagine di mia madre, che lavorava ai ferri. Stava li’, per ore, a far incrociare le punte di quelle due bacchette di metallo, con le quali tirava fuori scialle, maglioni, sciarpe, calze. La vernice delle punte era completamente sparita per l’attrito, i ferri erano appena appena piegati, come a voler seguire le curve del suo torace. Quando non li usava, io immaginavo fossero spade e giocavo al cavaliere che duella contro il cattivo all’assalto del castello.
E io me ne stavo li’, rannicchiato, a guardarla, in una stanza silenziosa, si sentiva solo il “tic” continuo del suo sferruzzare. La danza di quelle punte mi ipnotizzava. Ogni tanto la fissavo, lei era immersa nei suoi pensieri. Io sentivo cosa provava, ma non le chiedevo niente. Non ce la facevo a chiederle “c’e’ qualcosa che non va?”, e me stavo zitto, sperando che la mia vicinanza silenziosa potesse comunque darle sollievo.
Il mio programmare oggi e’ lo sferruzzare di mia mamma. Lo faccio perche’ mi piace, ma molte volte mi aiuta a non pensare. Al “tic” dei ferri si e’ sostituito quello dei tasti, e ho bisogno di stare in una stanza silenziosa, dove fissare le mie dita che si muovono, portando via tutto quello che non voglio tenere. 
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kissingischaos · 4 years
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Altro giorno altro prodotto. Oggi voglio farvi vedere questa meraviglia di colori, amo molto l'accostamento caramello e petrolio e non lo uso abbastanza. Scialle Dried Lavender in una versione più autunnale in cui si combinano il colore caramello con un bellissimo blu petrolio. Uno dei lati dello scialle è rifinito con lana marrone. Scialle perfetto per i primi freddi o per chi non ama indossare sciarpe grosse ed ingombranti durante l’inverno. Data la sua forma triangolare lo scialle può essere indossato in modo più classico in modo più moderno. Una delle particolarità che rende unico questo scialle è il materiale con cui è realizzato, 100% lana di yak tinta a mano. È un pezzo unico e identico a questo non posso rifarlo. ※※※ Dried Lavender shawl in a more autumnal version in which a warm caramel colour is combined with a beautiful petrol blue. One of the sides of the shawl is finished with brown wool. Perfect shawl for the first cold weather or for those who do not like to wear big and bulky scarves during the winter months. Due to its triangular shape the shawl can be worn in a more classic way or in a more modern way. One of the peculiarities that makes this shawl unique is the material with which it is made. 100% yak wool hand dyed. . . . #driedlavendershawl #unpeusauvageknitwear #shawlpattern (at Milan, Italy) https://www.instagram.com/p/CGMYzoIB0p6/?igshid=7h13om83a8be
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sandnerd · 3 years
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SAO Alicization: War of Underworld - Ep. 1 - Nelle terre del nord
In Italia l’anime è disponibile sulla piattaforma gratuita Vvvvid! Supportiamola! ---> https://www.vvvvid.it/show/892/sword-art-online-alicization-war-of-underworld/1005/541010/nelle-terre-del-nord
 L'insegna della confusione sta sopra a questo episodio, ma penso proprio che sia una cosa voluta. Le cose infatti ci vengono raccontate senza un preambolo nè premessa di quello che è successo appena dopo l'ultimo episodio dello scorso arco narrativo. Alice è passata da cavaliera a contadina, almeno il cibo non le manca. Dopo aver raccolto gli ingredienti per la zuppa getta uno sguardo preoccupato alla finestra di casa, ed è così che vediamo nonno Kirito, sulla sedia a rotelle e lo scialle di lana sulle gambe, in attesa della pensione. Alice viene raggiunta da sua sorella Selka, che nel frattempo si è scurita i capelli o è impressione mia? boh, in ogni caso Selka chiede alla sorella se è possibile fare una passeggiata vista la bella giornata, ed Alice acconsente. Si porta dientro nonno Kirito, che sembra attaccato alla sua spada e a quella di Eugeo tanto da non volersene separare nemmeno per la passeggiata, metti caso che entrano i ladri in casa e si fregano le spade, oggigiorno son cose che costano. E vabene, accontentiamo il nonnino. 
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Durante la passeggiata ci viene finalmente concesso un piccolo flashback, che ci riporta al momento subito dopo che Quinella ci ha salutato e si è tolta dalle scatole. La fluctlight di Kirito, molto probabilmente per l'attacco in corso alla Ocean Turtle, ha subito qualcosa come una disconnessione, ed adesso conserva poco più di un barlume di coscienza nel proprio corpo. Dopo ciò è stato arrestato, anche se in stato di coma non può andare poi così lontano, ed i cavalieri superati dal dinamico duo hanno tenuto una riunione dove decidono di lasciar perdere per il momento la sua punizione per concentrarsi nell'addestramento di nuove forze militari, metti caso il Dark Territory voglia sferrare un attacco. Alice tuttavia vede che c'è rancore nei confronti di Kirito, poichè a nessuno è stato detto che in realtà quella simpaticona di Quinella voleva trasformare la popolazione in armi da dare in dotazione all'esercito, quella vecchia burlona (e gli esperimenti di resurrezione effettuati sui bambini ce li siamo scordati?).  Dunque Alice comprende che la Central Cathedral non è un luogo sicuro per Kirito, e nottetempo lo riporta a Rulid, sperando di venire accolti anche se lei non ricorda nulla del suo tempo in questo villaggio. 
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Arrivati nel villaggio vengono accolti con occhiate di disprezzo ed il padre di Alice la caccia visto che non ha espiato le sue colpe, complimenti paparino; ma poi aveva sfiorato il Dark Territory col dito per sbaglio, se rubava una mela al mercato la decapitavate e probabilmente tu facevi il boia giusto? bah. Ad ogni modo grazie a Selka però ci viene spiegato che ad Alice è stato concesso di vivere nella campagne circostanti al villaggio in cambio di alcuni servizi come ad esempio il giardinaggio; è richiesta infatti dal signor Barbossa, che stanco di solcare i mari in veste di pirata ha deciso di fare...il proprietario terriero? non si capisce, sta di fatto che chiede ad Alice di tagliare un albero che dieci uomini grandi e grossi con le loro asce non erano riusciti nemmeno a scalfire. Bravo capitan Barbossa, potere alle donne. Ed Alice ce la fa usando la spada di Kirito che ha chiesto gentilmente in prestito, occhio che bisogna portare rispetto al nonno. Fa poi la bulla con degli omuncoli che se lo meritavano perchè avevano preso la spada di Eugeo a Kirito, e questo era caduto dalla sedia per riaverla. Quelli se la fanno sotto e le ridanno la spada. Ma davvero, si chiede Alice, abbiamo combattuto fino ad ora per queste persone? 
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Tornata a casa dopo un tenero scambio con la propria draghessa Alice riceve la visita di niente meno che del proprio sottoposto, il viola cavaliere che si era fatto valere eccome mentre le prendeva di santa ragione da Kirito e Eugeo evasi di prigione. Costui rivela ad Alice che c'è scompiglio fra i cavalieri a causa del pericolo costituito dal Dark Territory, che pare sempre più prossimo ad un attacco, anche lui era stato mandato a controllare le caverne agli angoli del regno che gli orchi ed i goblin stavano scavando, ma le ha trovate crollate come da programma, dunque per il momento nessuna emergenza. Il cavaliere afferma di non capire perchè Alice sia scappata dalla capitale ed ora spenda il suo tempo con il nonnino e si offre di ucciderlo così da toglierle il ruolo di badante ma naturalmente Alice, che non vuole rinunciare allo stipendio gli dice di andarsene a cuccia perchè non può lontanamente pensare di uccidere il protagonista, ma stiamo scherzando, che se si riscuote dal coma questo fa il sedere a strisce a tutti quanti. 
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E' ora di andare a dormire, ma Kirito non ne vuole sapere, e con un infarto spinge Alice a correre fuori casa perchè il cielo si tinge di rosso. Che sia in opera un attacco del Dark Territory? e da dove si sarebbero infiltrati? Il villaggio di Rulid è dunque distrutto? Ma soprattutto Kirito continuerà a fare il nonno mentre Alice diventa la protagonista o succederà qualcosa alla Ocean Turtle per cui ripristineranno la sua fluctliht com'era? Ed in tutto questo, siamo proprio sicuri che Eugeo sia morto così? Speriamo di trovare risposta nel prossimo episodio.
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Un ultimo appunto però voglio farlo sulla opening, che ci dice innanzitutto quanto sarà centrale la figura di Alice in questo arco narrativo, forse più di quella di Kirito. Si profila all'orizzonte una battaglia che vede il fronte del Dark Territory e quello di Underwold, ma in questa battaglia si scontrano anche figure del mondo reale, si vedono infatti gli avatar di tutti i personaggi delle scorse stagioni, da Sinon a Sugua a tutti gli altri, compresa Yui. A queste figure si affiancano antagonisti in giacca e cravatta intenti a giocare partite a scacchi o a digitare su grosse tastiere, dunque è probabile che la battaglia nell'Underworld sia pilotata e portata avanti da entità esterne a questa realtà e che ancora non conosciamo, e ciò che viene da chiedersi è cosa possano mai guadagnare questi loschi figuri da una battaglia portata avanti in una realtà virtuale; okay che il piano originale era creare coscienze senza corpo da impiantare poi in robot in modo da sostituire i soldati del mondo reale, ma qui ho l'impressione che ci sia un altro scopo. Ritroviamo poi anche se per poco la figura di Eugeo, cosa che non può assicurarci del fatto che sia vivo, perchè è possibile che continui ad essere presente nei ricordi dei protagonisti. Chiudo, al prossimo commentone! -sand-
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silviatorani · 5 years
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FIAMMIFERI di Silvia Torani
Le luci della panetteria si spengono e il buio soffoca la strada. La vetrina è tiepida contro la schiena, ma non ti proteggerà dalla notte.
Ti stringi nello scialle. Il freddo raspa la pelle sotto ai vestiti e la neve ti punge le dita nelle scarpe rotte. Erano di tua madre. È un anno che lei sta sottoterra, ma i tuoi piedi sono più freddi dei suoi.
Le scatole dei fiammiferi pesano nella tasca del grembiule lurido.
Prendine uno. Accendilo. Nessuno se ne accorgerà e potrai ancora venderli a prezzo pieno.
Affondi la mano nella tasca e stringi una scatola. I tuoi polpastrelli intorpiditi riconoscono appena gli spigoli di cartone.
Forza, accendine uno. Ti scalderà.
Una donna svolta l’angolo in fondo alla strada. Trascina una bambina per la mano e cammina spedita lungo il marciapiede.
Tiri la scatola fuori dal grembiule e la mostri nel palmo aperto. Forse la comprerà. Non puoi tornare a casa senza averne venduta almeno una. I lividi dell’ultima volta fanno ancora male.
La bambina si ferma e ti guarda, avvolta in un cappottino rosso. I boccoli biondi le sfuggono dalla cuffia di lana e batuffoli di pelliccia color crema spuntano dagli scarponcini di capretto. Sembrano della tua misura. La donna la tira via e affretta il passo. Non ti rivolge neanche uno sguardo, affonda il volto nel colletto del cappotto e si allontana dal tuo cumulo di stracci, verso la sua casa, le finestre illuminate, il camino acceso, la cena in tavola e i regali sotto l’albero. Faresti anche tu come loro, ma a casa non c’è nessuna tavola imbandita, nessun fuoco, nessun albero di Natale.
Chiudi le dita attorno alla scatola.
Aprila. Prendi un fiammifero, sfregalo sul muro e fallo bruciare.
Spingi con il pollice e il cassetto scivola fuori come una teglia dal forno. Le teste bianche dei fiammiferi brillano come glassa sui biscotti. Ne prendi uno e lo sfreghi contro la parete ruvida e scura di fumo. Sfrigola, ma non si accende.
Smettila di tremare e prova di nuovo.
La capocchia manda una scintilla e prende fuoco. L’odore di zolfo ti pizzica le narici e la notte si fa più scura. Sei sola nel buio, ma la piccola sfera di luce ti conforta.
La punta del fiammifero diventa nera e la fiamma si affievolisce.
Non lasciarlo spegnere. Non farlo cadere finché il fuoco non ti brucerà le dita.
Lo inclini e la fiamma divora il gambo di legno, ti scotta i polpastrelli. Apri le dita e il fiammifero avvizzito piomba nella neve grigia.
Al buio il freddo morde più di prima.
Accendine un altro.
«Quanto per una scatola?»
Un uomo smilzo prende forma nelle tenebre. È vestito di nero, i capelli bianchi spuntano appena sotto al cappello a cilindro.
Nascondi nella mano la scatola iniziata e gliela porgi. Magari non se ne accorgerà.
«Uno scellino, signore. Sono di prima qualità.»
L’uomo col cilindro prende la scatola, se la rigira tra le dita e sorride. L’ultima falange del mignolo è piegata verso l’anulare, come se fosse rotta. Nemmeno i guanti riescono a nasconderlo.
«Te ne do cento.»
Spalanchi gli occhi e la bocca. Cento scellini fanno cinque sterline. Con cinque sterline potresti mangiare per un mese. Potresti comprare una bambola da ricchi, una di quelle con le braccia che si muovono. Potresti tornare subito a casa. Tuo padre non oserà picchiarti se gli dirai che hai venduto una scatola a cento scellini. Potresti perfino dirgli che l’hai venduta a dieci e tenere il resto per te.
«Oppure potrei ridarti la scatola, e i fiammiferi che contiene realizzeranno ogni tuo desiderio.»
Aggrotti la fronte e affili lo sguardo. Sta cercando di fregarti. Non avresti dovuto lasciargliela prima che pagasse.
L’uomo apre la scatola, tira fuori un fiammifero e te lo porge.
«Prova. Il primo lo offro io.»
La sua voce ti accarezza le orecchie e ti riempie la testa.
Prendilo.
Allunghi le dita e le stringi attorno al fiammifero.
«Cosa dovrei farci?»
«Accendilo, pensa a ciò che desideri e guardalo bruciare.»
Serri le labbra. La scatola è iniziata e provare non costa nulla. Ne avresti comunque acceso un altro per tenere a bada il freddo.
Stringi il fiammifero tra le dita, sfreghi la capocchia sul muro e il fuoco si accende al primo colpo. Il riflesso brilla nelle pupille dell’uomo col cilindro. La bocca gli si piega in un sorriso sghembo e viene inghiottito dalla luce.
La fiamma ti acceca, ma tu non distogliere lo sguardo.
È da ieri che non mangi. Il tuo stomaco si contorce e grida. Vuoi mangiare. Anche il freddo conterà di meno dopo.
L’odore di arrosto ti riempie la bocca. Il fiammifero si spegne e nel buio lo vedi appena: una tavola apparecchiata, una sedia, un vassoio d’argento e un tacchino. Una nuvola di vapore lo circonda, la pelle croccante è increspata come se anche lui sentisse il freddo. Lo guardi a bocca aperta e il fiammifero cade senza un suono nella neve.
Mangia.
Le mani si stringono attorno all’osso della coscia, tiri e la carne non oppone resistenza. Mordi. Le fibre dell’arrosto si sfaldano sotto ai denti, il calore ti riempie lo stomaco e ti pervade la mente.
Mastica in fretta. Tutto potrebbe svanire prima che riesca a saziarti. Lo stomaco ristretto dalla fame si lamenta, ma continua a mangiare finché non ne puoi più. Non ti sei nemmeno seduta. La bocca trema al ritmo del sangue che ti rimbomba nelle orecchie. Te la copri con la mano appiccicosa di grasso.
«Come hai fatto?»
L’uomo col cilindro ti guarda, ma non risponde.
Non è quella la domanda che vuoi fargli. Fagli quella che vuoi davvero.
«Come funziona?»
Fa un passo verso di te.
«È semplice. Accendi un fiammifero e realizzi un desiderio.»
Il tuo respiro esce in rivoli di condensa, il suo fiato lascia l’aria limpida e intatta.
«Qualunque desiderio?»
«Qualunque cosa il tuo cuore desideri. Devi solo esserne convinta.»
Apre il palmo e ti porge la scatola.
Prendila. Ti basta tendere la mano.
L’uomo col cilindro sorride.
«Se non lo desideri abbastanza, potrebbero servire più fiammiferi, ma si tratta comunque di uno scambio equo.»
La tua mano si ferma a metà del gesto.
«Uno scambio equo? Che cosa ottieni in cambio?»
«Nulla.» Il suo sorriso diventa più sottile. «Ma una volta finiti i fiammiferi, tornerò a prenderti.»
Ritiri la mano e te la stringi al petto.
«Tu chi sei?»
«Sai benissimo chi sono.» Le sue parole sono come ghiaccio che si spezza. «Eppure, sei ancora qui a parlare con me. Dubito che la mia identità costituisca un problema.»
Si piega verso di te e ti offre la scatola.
Prendila.
Il tuo respiro è affannato.
«Che succede se non li finisco?»
«In quel caso non avrai nulla da temere. Nessuno ti obbliga a finirli… ma lo farai. Lo fanno sempre tutti.»
Le tue dita tremano, ma prendi la scatola. L’uomo col cilindro sorride, abbassa la mano e distende la schiena.
«Ci vediamo più tardi.»
Ti volta le spalle e rientra nella notte.
Sei sola. Il tavolo, la tovaglia, il vassoio e i resti del tacchino non ci sono più. Forse ti sei addormentata e hai sognato tutto. Forse il freddo e la fame ti hanno dato alla testa, ma la fame se n’è andata e il freddo è solo un prurito sulla punta delle dita. Prendi un fiammifero, lo sfreghi sul muro e lo guardi mentre brucia.
Le scarpe di tua madre sono zuppe per la neve. Vorresti delle scarpe nuove e gli stivaletti che portava la bambina sembravano così comodi e asciutti. Erano proprio della tua misura. Te li meriti molto più di lei. Puoi averli, adesso. Sono tuoi, i batuffoli di pelliccia ti spuntano dalle caviglie, le suole sono morbide e calde come se non avessero ancora perso il calore del suo corpo.
Il fiammifero avvizzito cade a terra e gli stivaletti sono ancora ai tuoi piedi.
Accendine un altro.
*** *** ***
Il riflesso nella vetrina buia non sei tu. È una bambina con le guance rotonde, gli stivaletti ai piedi, il cappottino rosso e i capelli puliti e abboccolati come quelli delle riviste.
Tuo padre non ti riconoscerà.
Ferma. Quanti fiammiferi ti restano? Apri la scatola e controlla. Per non finirli basta usarli tutti tranne uno. Lo prendi e te lo nascondi nella tasca.
Tieni la scatola stretta nella mano e ti precipiti lungo la strada illuminata dai lampioni a gas. Puoi correre, adesso. Non rischi più di perdere le scarpe di tua madre ad ogni passo. Dove saranno finite? Saranno ancora da qualche parte o sono sparite per sempre, come lei?
Continua a correre.
Se volessi, potresti cambiare strada. Potresti andartene lontano e non tornare più. Ora che hai i fiammiferi non hai più bisogno di tuo padre, ma lui ha bisogno di te e non hai altro posto dove andare.
La strada termina in un vicolo davanti allo stretto seminterrato che chiamate casa. Un tempo lo era davvero, ma potrebbe esserlo di nuovo. Scendi i gradini e apri la porta. Tuo padre dorme nella poltrona sfondata dove è morta tua madre. Ha la nuca di capelli stopposi riversa sullo schienale, la bocca dischiusa verso il soffitto e la mano aperta che pende sul fianco, sopra una bottiglia rovesciata. Russa piano, sembra un bambino con il raffreddore.
Allunghi una mano per svegliarlo e il tuo stomaco si contorce. Sai già come andrebbe a finire. Vedrà i vestiti nuovi e ti darà della ladra. Ti strapperebbe i fiammiferi di mano e li getterebbe nel fuoco, senza darti il tempo di mostrargli ciò che puoi fare.
Deve vederlo con i suoi occhi. Prendi un fiammifero e lo accendi. Lo scoppiettio del fuoco nel camino invade la stanza. Un altro fiammifero e il tavolo si ricopre di una tovaglia candida. Ne accendi ancora, finché la tavola non è coperta di vassoi ricolmi di cibo, candele dipinte e posate d’argento. Un albero di Natale tocca il soffitto con la punta. Cento sfere di vetro colorato riflettono la luce del camino nell’angolo più lontano della stanza. Sfiori gli angeli di cristallo appesi ai rami e li fai tintinnare.
La casa non è mai stata così bella, nemmeno quando c’era tua madre, tuo padre era sobrio e aveva ancora un lavoro. Le cose andranno meglio, d’ora in poi. Una volta che avrai dato a tuo padre il suo regalo lo capirà anche lui, ma deve vederlo mentre accade o non ti crederà.
Prepari un fiammifero, gli scuoti la spalla e il russare si interrompe. Apre gli occhi e le pupille si restringono per effetto della luce. Socchiude le palpebre e se le copre con la mano.
«Che succede?» La sua voce sembra carta vetrata. Ad ogni sillaba la lingua gli si impasta nella saliva densa come melassa. «Cos’hai addosso?»
«Papà, devo farti vedere una cosa.»
Il suo sguardo si sposta sul resto della stanza e sbarra gli occhi. Sfavillano, si spengono, tornano cupi. Contrae le sopracciglia e indurisce la mascella. «Dove hai preso questa roba?»
Le mani gli si stringono a pugno e tu ti fai più piccola.
«L’ho desiderata.» Sollevi il fiammifero. «Guarda.»
Sulla parete nell’angolo il contorno annerito del pianoforte non è mai andato via. Accendi il fiammifero e guardi la fiamma. Il giorno in cui quelli della banca se lo sono preso è stato il giorno in cui hai capito che le cose non sarebbero più tornate come prima, anche se tuo padre te l’aveva promesso. Ti aveva promesso che, anche se la mamma non c’era più, sareste stati felici, che ti avrebbe voluto bene per entrambi. Ma poi ha continuato a bere, ha perso il lavoro, ha lasciato che si prendessero il pianoforte, e ogni volta ti prometteva che avrebbe rimediato, che non ti avrebbe più fatto del male, che non saresti mai rimasta sola. La fiamma si spegne e la tua gola si gonfia. La parete è ancora vuota.
Tuo padre tossisce. «Che stai facendo?»
Apri la bocca e la richiudi. Per tutto il resto ha funzionato. Perché non funziona più? Ne accendi un altro, fissi la fiamma e aspetti. Il fiammifero brucia e si spegne, ma la parete resta vuota.
«Ti ho chiesto dove hai preso queste cose.»
Non rispondi. Prendi un altro fiammifero e lo sfreghi contro il tavolo.
La mano di tuo padre ti afferra il polso e ti dà uno strattone. «Falla finita e guardami quando ti parlo.»
Trattieni il fiato, ma la fiamma non si spegne. La luce ti acceca. Deve funzionare. La fiamma resta impressa nei tuoi occhi anche quando svanisce.
Tuo padre emette un gemito strozzato e ti lascia andare il polso. Sbatti le palpebre. La sagoma della fiamma scompare. Il vecchio pianoforte è contro la parete, dove era sempre stato prima che lo portassero via.
«Buon Natale, papà.» La voce ti resta incastrata da qualche parte nella gola ed è più flebile di quanto vorresti. Ti massaggi il polso. Resterà il segno.
Tuo padre si alza a fatica dalla poltrona e si tiene al bracciolo con una mano. «Cosa…? Come…?»
Gli mostri la scatola. «Questi fiammiferi… realizzano i desideri.» Non ti guarda. Fissa il pianoforte a bocca aperta. «Basta accenderli.»
Lascia andare il bracciolo e zoppica verso il pianoforte. La mano tesa in avanti tocca la superficie laccata del legno. «Non è possibile…»
Le sue dita tastano il coperchio e si fermano su una scheggiatura. Tua madre ci fece cadere sopra una pentola di rame, un anno prima che morisse.
«Hai visto? È proprio il nostro.»
Il suo sguardo si perde, non è più lì con te.
Gli afferri un lembo della giacca. «Sei contento, papà?»
La sua mano indugia sul punto del legno in cui la lacca è saltata e ci passa dentro un’unghia.
Indichi la stanza addobbata. «E poi c’è la cena di Natale.»
«Non capisci…» Scuote la testa e si lascia cadere sullo sgabello davanti al pianoforte. «Non ha senso se—»
«Forza!» Lasci andare la giacca e ti avvicini alla tavola. «Vieni a mangiare o si raffredda.»
Tuo padre fissa il pianoforte in silenzio. «Chi te li ha dati?»
Non dirglielo. Se sapesse da dove vengono, se sapesse chi te li ha dati, non te li farebbe più usare.
Alzi il coperchio da un vassoio e il vapore ti bagna la faccia. «Ora mangiamo, e dopo cena mi suonerai le ballate di Natale, come facevi una volta.»
«Riportala indietro.» Si volta a guardarti. «Hai riportato il pianoforte. Se è come dici e puoi realizzare i desideri, riporta indietro anche lei.»
Stringi il manico del coperchio. «Possiamo avere qualsiasi cosa. Posso desiderare una casa nuova, un nuovo lavoro…» Perché non gli basta quello che puoi dargli? Perché non gli basti tu?
Si alza dallo sgabello e ti guarda con il volto vuoto. «Riportala indietro.»
Si avvicina e tu fai un passo indietro lungo il tavolo. Annuisci, prendi un fiammifero e lo accendi. La fiamma si spegne e non succede nulla.
Tuo padre si guarda intorno con gli occhi umidi e sporgenti. «Riprova.»
Ti trema la mano. Prendi un altro fiammifero e provi ancora, ma sai che non funzionerà. La fiamma trema e si spegne. Siete ancora soli.
Tuo padre fa un singhiozzo e spinge il volto nei palmi delle mani. «Prova di nuovo…»
Non farlo. I fiammiferi rimasti sono troppo pochi.
«Non posso.»
Tira su la testa, il labbro superiore gli lascia scoperti i denti. «Come sarebbe a dire che non puoi?»
Affondi la testa nelle spalle.
Il suo sguardo passa dal tuo volto alle tue mani. Si sporge verso di te. «Dammeli!»
Stringi la scatola al petto. «No.»
Lo schiaffo ti colpisce lo zigomo e ti scaraventa contro l’albero di Natale. Le decorazioni tintinnano l’una contro l’altra, cadono a terra e si infrangono in schegge colorate.
Arretri senza pensare e le schegge ti si infilano sotto la pelle delle mani. Trattieni un gemito. Hai perso la scatola. Tasti il pavimento, ma non la trovi.
L’ha presa tuo padre. Tenta di aprirla, ma gli tremano le mani.
Tu sei più veloce di lui. Fermalo. Fagli del male.
Infili la mano in tasca, trovi il fiammifero e lo sfreghi sul pavimento di legno. Lo sfrigolio della capocchia che si accende è un tutt’uno con lo schiocco di vertebre della schiena di tuo padre. Il fiammifero brucia, tuo padre geme sul pavimento.
Fagli provare quello che hai provato tu. È ciò che hai sempre voluto.
Il bruciore delle schegge nei palmi sparisce con ogni suo gemito. Il fiammifero si spegne e il busto spezzato di tuo padre ricorda il mignolo storto dell’uomo col cilindro. La sua mano destra ha uno spasmo attorno alla scatola di fiammiferi. Il cartone si è piegato dentro la sua stretta.
Prendila.
Ti trascini verso di lui, ti arrampichi sul suo petto. Rantola e gorgoglia ad ogni respiro. Gli afferri le dita e ti scavi la strada con le unghie per liberare la scatola.
Tuo padre mugola qualcosa.
Non ascoltarlo. Non deve osare rivolgerti la parola dopo quello che ti ha fatto.
Ti siedi a cavalcioni su di lui e gli punti le ginocchia ai lati della pancia. Vuoi sentire il tuo peso che lo schiaccia a terra.
Prendi un fiammifero e lo sfreghi così forte che si spezza. Lo butti e ne accendi un altro.
Tuo padre urla.
Vuoi gridare più forte di lui.
«Avevi detto che sarebbe andato tutto bene!»
Vuoi che la tua voce laceri le tende e faccia tremare le pareti.
«Avevi detto che saremmo stati felici anche senza di lei! Me lo avevi promesso!»
Non hai mai voluto che lei tornasse. Volevi solo che tuo padre mantenesse la promessa.
I suoi lamenti si fanno più deboli. Lasci andare il fiammifero e ne accendi un altro.
«Avevi ancora me!»
Hai fatto tutto quello che ti ha chiesto, hai sopportato i lividi, la fame, il freddo, ma non ti ha mai dato uno sputo del suo amore.
«Perché non ti bastava?»
Vuoi strappargli la pelle e farla a brandelli.
Prendi un fiammifero. «Perché non ti bastavo?»
Ti guarda con il volto strabuzzato, il respiro ansante e rapido.
Non c’è paura né dolore nei suoi occhi. C’è solo il vuoto lasciato da tua madre quando è morta, quel vuoto che non ti ha mai permesso di riempire.
Vuole morire. Vuole soffrire come ha sofferto lei e raggiungerla nella tomba. Per tutto questo tempo ha aspettato la morte. Non gli è mai importato niente di te.
Un singhiozzo ti scuote.
«Perché non mi ami?»
Tiri su con il naso.
«Dovevi solo amarmi…»
Accendi il fiammifero e ti chini su di lui.
«Amami.»
La fiamma si riflette nel bianco dei suoi occhi e si spegne.
«Amami!»
Le sue pupille si dilatano e il suo torace si ferma. Non respira più. Trattieni il fiato e scuoti la testa. «No…»
Ti alzi e scivoli al suo fianco. Appoggi l’orecchio sul suo cuore, senti il silenzio.
«No, no, no, no…»
Agiti la scatola e i pochi fiammiferi rimasti ci rotolano dentro. Ne accendi uno.
«Torna qui.»
I suoi occhi restano lucidi e vuoti come biglie di vetro.
«Torna!»
Il fiammifero non si è ancora spento, ma le tue dita ne cercano un altro nella scatola.
«Ti prego…» Lo accendi. «Torna da me.»
Uno spiffero gelido spegne il fuoco nel camino e rimani sola. La luce del fiammifero trema e illumina appena il volto deformato di tuo padre.
I tuoi singhiozzi si riducono a un sussurro.
Cerchi un altro fiammifero nella scatola, ma è vuota. Hai acceso l’ultimo e ti sei dimenticata di metterne un altro da parte. È troppo tardi, sta già bruciando.
I tuoi muscoli si fanno di pietra, un sudore gelido ti scivola dalle tempie e si mescola alle lacrime. Trattieni il respiro. Hai ancora tempo. Pochi secondi, ma sono tutto quello che hai. Lasci cadere la scatola e ti aggrappi all’ultimo fiammifero. Il legno avvizzisce e la fiamma si avvicina alla punta delle dita. È così piccola che per spegnerla basterebbe un tuo respiro. La casa scricchiola nel buio. Vorresti guardare fuori e vedere un’ultima volta il cielo, ma non osi distogliere gli occhi dalla luce.
Una mano guantata ti si posa sulla spalla e te la stringe. L’ultima falange del mignolo è piegata verso l’anulare.
Non voltarti.
Il fiammifero si spegne, il buio si piega su di te e ti inghiotte.
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nineteeneighty4 · 5 years
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undefined
youtube
Stile di vita. ❤️😊
Mina
E mah è forse è quando tu voli rimbalzo dell'eco
è stare da soli
è conchiglia di vetro, è la luna e il falò
è il sonno e la morte è credere no
margherita di campo è la riva lontana
è la riva lontana è, ahi! è la fata Morgana
è folata di vento onda dell'altalena un mistero
profondo una piccola pena
tramontana dai monti domenica sera è il contro è
il pro è voglia di primavera
è la pioggia che scende è vigilia di fiera è l'acqua
di marzo che c'era o non c'era
è si è no è il mondo com'era è Madamadorè
burrasca passeggera
è una rondine al nord la cicogna e la gru, un
torrente una fonte una briciola in più
è il fondo del pozzo è la nave che parte un viso
col broncio perché stava in disparte
è spero è credo è una conta è un racconto una
goccia che stilla un incanto un incontro
è l'ombra di un gesto, è qualcosa che brilla il
mattino che è qui la sveglia che trilla
è la legna sul fuoco, il pane, la biada, la caraffa
di vino il viavai della strada
è un progetto di casa è lo scialle di lana, un
incanto cantato è un'andana è un'altana
è la pioggia di marzo, è quello che è
la speranza di vita che porti con te
è la pioggia di marzo, è quello che è
la speranza di vita che porti con te
è mah è forse è quando tu voli rimbalzo dell'eco
è stare da soli
è conchiglia di vetro, è la luna e il falò
è il sonno e la morte è credere no
è la pioggia di marzo, è quello che è
la speranza di vita che porti con te
è la pioggia di marzo, è quello che è
la speranza di vita che porti con te
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cosediisa · 3 years
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La primavera avanza a grandi passi... È il momento di tirare fuori gli scialli. Di lana, cotone, lino o viscosa lo scialle è l'indumento più versatile per le stagioni di passaggio. Completa il tuo look con una nota di colore, lo getti sulle spalle con un solo gesto, ti riscalda, se serve senza ingombrare... Scopri qual è lo scialle che aspetta te nel mio #etsyshop www.cosediisa.etsy.com (link in bio o tocca la foto) #crochet #crochetersoftheworld #crochetersofinstagram #crochetersoninstagram #uncinetto #gancillocreativo #fattoamano #häckeln #häckelnmachtglücklich #crochetinspiration #cottagestyle #outdoorlife #cottagecore #veganyarn #veganshawl #luxurylifestyle #eleganceisanattitude #sciallipreziosi #sciarpabandana #scialletriangolare #crochetshawl #scialleafazzoletto https://www.instagram.com/p/CNEriOzBW2W/?igshid=9o7fqyspjwaw
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D’estate, lo sai, che aspetto la domenica con trepidazione.
Scruto il cielo dalla sera prima.
Leggo nella quantità delle stelle il sereno e il caldo che poi mi avvolgerà come uno scialle importante, lavorato intrecciando alla lana l’immaginazione dell’occasione.
Cerco nel riflesso della luna la calma punteggiata dalle luci dei pescherecci e di luminosi millepiedi che, di tanto in tanto, si antepongono all’orizzonte trasportando il piacere di una vacanza in crociera.
E se mai la sera prima non ci fosse calma, se mai le nubi ingoiassero le stelle nei loro addensamenti, se mai il dubbio che al mattino il sole possa riscaldarmi mi zampillasse disturbandomi, non rinuncerei al nostro appuntamento domenicale.
Mai!
Mi alzo di buon’ora, nonostante dopo una settimana di lavoro, le lenzuola tratterebbero fino a tardi mattinata. Il sonno, però, e la stanchezza svaniscono facilmente all’idea di vivermi una giornata intera tra i colori dei tuoi vestiti, i suoni dei tuoi movimenti, la remissività del tuo darti incondizionatamente. Senza riserve. Tentennamenti. Pretese. Ricatti. Compromessi. Preamboli di conquista.
Tu ti lasci prendere e basta. Totalmente. E so che mi aspetti per l’intera successiva settimana.
Mi aspetterai.
Ed io penserò ai grani dorati che sfuggono tra le dita a contare un tempo che non si vorrebbe fermare, come una clessidra impostata all’infinito.
Penserò all’acqua che si chiama Chiara dagli occhi cangianti e che sfoggia, smorfiosa, lenti a contatto di vari colori a seconda di come cade il raggio di sole sui suoi fondali.
Penserò alla nenia delle onde che culla con tono sommesso ed instancabile uguale a quello di una madre, sulla destra della torre saracena; e alla lirica possente, sulla sinistra, che sovente accompagna lo sfracellare delle acque spinte da forti correnti e da brezze decise.
Penserò alla scogliera dove il mare s’infrange. Dolce. Come una carezza. Violento. A scorticare la roccia. A mangiarne porzioni, scavando crateri, increspando la pietra. Per lasciare croste di sale e una coperta in salsedine di pizzi e ricami.
Penserò alla torre saracena. Essenziale e possente un tempo. Dove, in alto, sfidando il suo sfarinarsi, ho sbirciato al nemico nascosto da qualche parte oltre quel taglio che divide cielo e terra. Troppe miglia. Troppo mare. Misterioso l’orizzonte.
Penserò ai trabucchi. A braccia legnose tese a sostenere le reti. All’attesa dei pescatori. Alle preghiere. Ai guizzi dei pesci. All’esultanza. Al pane sulla loro tavola.
Penserò all’erba che cresce anche sulla sabbia, sfruttando granelli di terra per affondarvi radici ed incastrarsi tra murge aride ed avare.
Penserò agli arbusti, nani e spinosi, che si prostrano al suolo. Servitori fedeli, ubbidienti ai venti. Competitori dei pini tanto da esserne invidiosi. Perché questi svettano e toccano il cielo e spargono intorno profumo di resina…..
Mi aspetterai ed io penserò. Ti penserò perché tu mi aspetti.
Sempre.
Ogni domenica d’estate. Quando di buon’ora mi metto in macchina per raggiungerti.
Sei lì, in un chilometro di costa. Con l’ombrello della luna sulla testa quando è notte. La raggiera del sole, da est ad ovest, a coprirti tutta durante il giorno. Ti sento mia anche se mia non lo sarai mai. Ti dai a tutti ed io ti prendo. Mia però voglio chiamarti.
“Baia Mia”.
Dove l’emozione è una casa che apre porte e finestre.
Dove scoppietta, come tra gli alari, la scintilla che accende il bene per la vita.
Dove la Creazione è un dono senza i fiori della carta e nastri di fiocchi.
Dove i sensi mai sorridono tanto e mai così profonda immane e viscerale è la tranquillità.
Dove, Baia Mia, tra i segreti trasportati dai venti, potrei nuovamente cominciare ad amare.
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montecorriere · 3 years
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Lo scialle della nonna
Lo scialle della nonna
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Lo scialle è un accessorio che le donne hanno utilizzano da sempre. Inizialmente si usavano materiali pregiati, quindi erano poche le donne che potevano permetterselo. Man mano fu gradualmente sostituito da imitazioni economicamente più accessibili, specialmente alle donne di classe meno abbiente.
Con la lana, infatti, le nostre nonne cominciarono a confezionare un piccolo scialle che copriva le…
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iltuofiorelisergico · 5 years
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qui
estate 2019, la stanchezza mi si getta addosso come se fosse una coperta invernale di lana, forse è meglio io dorma ma due righe le devo scrivere sennò mi scordo quello a cui stavo pensando
è notte, stamane ero a Bologna per la casa, oggi pomeriggio lo stesso in giro per la città della mia vita e nemmeno il tempo di tornare...dritta al concerto dei Subsonica, a Napoli.
direi che la mia vita non potrebbe essere più piena e colorata di così e sono allegra (nei secoli, dei secoli...) ma rifletto, come di consueto. D’altronde, attività preferita della sottoscritta
sembrerebbe che ci siano quasi tutti i presupposti per farsì che si realizzino le mie celebri velleità adolescenziali; Bolo, gente nuova, ambienti stimolanti e freschi, una vita in arancione, la mia micia, fantastiche persone che stanno entrando nella mia vita e così via, però...
“Specchio questa mattina quanti anni mi dai? ho l’anima fuori servizio, è un vizio” canta il gruppo prima citato
essì, c’è rimane il famoso disequilibrio mens soma ancora in voga nei meandri del mio Io più recondito e forse neanche poi così tanto
pensavo anche che, fino a due tre anni fa la versione migliore di me e i miei desideri restavano intrappolati in qualche scialle a fiori colorati Pimkie e mi stava bene così, era così bello sognare qualcosa che difficilmente si sarebbe concretizzato; quasi pensavo sarebbero rimasti sempre lì chiusi
eppure eccomi qui
qui
qui dove gli scialli tornano ad essere tali e io comincio a dipingere la mia tela
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silbri15 · 7 years
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Here I Stand. Capitolo VII
Note dell'Autrice: Prosegue il PoV di ser Rowan, uno sguardo diverso e più attento alla vita di Alto Giardino. Il viaggio è la parte iniziale del racconto, sebbene non l'unica. Ho pensato alla storia in tre differenti scenari, in cui i personaggi completassero il loro arco evolutivo. PoV Aguilar Rowan La tenda a cui era stato assegnato ser Aguilar era di modeste dimensioni, ma questo non gli procurava alcun fastidio, sebbene il viaggio fosse stato ammanto dell'aura di tragitto piacevole, dettaglio che aveva imposto il trasporto di orpelli inutili: una vasca in rame, uno scrittoio in legno ed un letto con un soffice materasso, come se potesse illudersi di essere ancora a casa. Sapeva di essere lontano da Goldengrove, e sapeva che lo sarebbe stato ancora per parecchio tempo. Aguilar sospirò, scrollò la testa, era stanco e non si spiacque di essere stato esonerato dal banchetto di ser Gunthor, che sarebbe durato sino a notte. Lo scudiero, che gli era stato raccomandato dallo zio, Vyrenus Kidwell, era alto, pallido, dinoccolato con una zazzera bionda in perenne disordine e gli occhi blu della lady sua madre, che Aguilar aveva incontrato poco prima che spirasse di parto. Era stato suo dovere, avvisare il giovane Serle Kidwell della lacerante perdita; aveva cercato di essere comprensivo, aveva usato termini delicati per illustrare la morte della donna e del bimbo che portava in grembo. Aguilar si era aspettato di vedere Serle in lacrime, di placarlo mentre prendeva a pugni la parete o cercava di trovare fiato per urlare, ma il ragazzino si era stretto nelle spalle in un pianto silenzioso, inconsolabile, non aveva voluto bere il vino, aveva chiesto di ritirarsi nella sua stanza. Era stato straziante, Aguilar aveva cercato di distrarlo, nei giorni a venire, con lezioni e battute di caccia. Serle aveva smesso di essere sorridente, qualcosa in lui era svanito ed era l'infanzia; riusciva a tenere la pena nascosta. Aguilar lo guardò avvicinarsi, salutarlo e porgerli delle cortesi domande. «Sì, tutto è andato secondo i piani.» gli disse, sentì di aver mentito, senza comprenderne il motivo, cambiò argomento in fretta: «Toglierò l'armatura. Portami una bacinella di acqua per rinfrescarmi.» aggiunse, armeggiò con le cinghie interne mentre lo scudiero ordinava i guanti, che il cavaliere aveva gettato con indolenza: «Per cena, basterà del vino, un piatto di carne calda e del pane.» lo informò: «Mi coricherò presto.» la sua voce non era dura, attese che Serle annuisse per sorridergli. Serle Kidwell procedette a liberarlo della lorica, poi degli stivali, gli vennero affidati la spada ed il pugnale, egli sistemò le armi non distante dal cavaliere, riordinò il resto ed uscì. Non impiegò molto tempo a rimediare l'acqua, gli porse un telo di lino, con cui Aguilar si asciugò, dopo l'essersi tolto la polvere del tragitto, indossò dei pantaloni di lana ed una camicia leggera, sotto alla giacca ed arrivò anche la cena, Serle apparecchiò la tavola con il cibo ancora fumante. «Hai fatto un buon lavoro.» sentenziò Aguilar, allungò la mano per posarla sulla testa di Serle: «Ricongiunti con gli altri, avremo spazio e tempo per un paio di lezioni con l'arco.» decise, notò che l'umore dello scudiero pareva più sereno: «Ora, sei libero. Buonanotte, Serle.» lo congedò. «Grazie, ser.» Serle aveva la voce spezzata, ancora sgraziata e nessuna traccia di barba sul viso: «Sia una notte lieta per te.» fece un inchinò e si dileguò dietro alla tenda. Aguilar Rowan rilassò i muscoli, era stata una lunga giornata dall'esito positivo: il rilascio dell'ostaggio non aveva subito imprevisti, lady Mormont si era riunita alla Casata materna, sotto la cui tutela avrebbe viaggiato. Sarebbe giunta ad Approdo del Re, così che il Nord potesse piegarsi alla grandezza dei Lannister. 'Sylvia non merita questa umiliazione.' pensò, mentre portava il vino alle labbra: 'Ha visto i suoi famigliari massacrati. È stata trattenuta nelle segrete. Potrebbe giurare privatamente, ma dopo una guerra, i sopravvissuti devono espiare per i morti.' Aguilar aveva studiato la storia di Westeros: il Continente era una torta, che da anni, era spartita secondo gli appetiti delle grandi famiglie. Il Nord era troppo impervio, racchiuso in uno scrigno gelido, minacciato da creature che si credevano leggende, sbiadite nella memoria eppure temute,  governato da un'antica Casata. Era stato  il Giovane Lupo a far piegare il Nord, a lasciarlo spezzare da altri, solamente per la sua necessaria vendetta, per il suo prezioso onore. Il cavaliere mangiò, udiva banchetti ben più allegri, ebbe l'impressione di sentire la voce di ser Gunthor invitare ad un brindisi, sperò che Sylvia non fosse costretta a procrastinare a lungo,   il riposo. Archibald passò davanti alla tenda, rise e non era solo, Aguilar sentì dei passi più leggeri, scosse il capo, ma l'amico non parlò per evitare di essere notato da altri soldati o dai nobili e compromettere la sua compagnia notturna; non era un uomo sleale o crudele, forse una moglie sarebbe riuscito a quietarlo, anche perché non era certo un giovinetto. Aguilar finì la cena, lesse qualche pagina di un libro sulle imprese dei Signori dei Draghi, poi spente le candele, scivolò sotto il lenzuolo di lino, le coperte di lana e le pellicce, il freddo gli diede qualche crampo allo stomaco ma vi era abituato, si chiedeva come si potesse dormire a Grande Inverno o alla Barriera, visto il clima del Guado era considerato mite. Le torce emanavano raggi rossastri, che sfioravano il tavolo, la cassapanca, i suoi occhi ne erano attratti, ma le palpebre erano pesanti e lentamente smise di lottare per alzarle I raggi di un sole pallido, illuminavano il corridoio inferiore del palazzo di Goldengrove; Aguilar seguiva i passi affrettati di sua sorella, Edeline, che stava andando nei sotterranei, avvolta in uno scialle bianco, che apparteneva alla loro madre. Edeline  era una fanciulla graziosa, aveva lunghi capelli fulvi, che sfioravano i fianchi, gli occhi azzurri e se il suo onore non fosse stato macchiato, avrebbe concluso un vantaggioso contratto matrimoniale. Non pensava a quello, suo sorella, mentre avanzava scarmigliata e con la pelle più diafana del consueto. C'era silenzio nel castello, ma non all'esterno, anche se Aguilar non riusciva a distinguere i rumori, pareva uno sferragliare di armi, oppure il rombo di un tuono. L'inverno arrivava sempre, come ricordavano gli Stark, ma i Rowan non erano costretti a cercare riparo, perché il calo delle temperature era sopportabile, i temporali passeggeri, i danni contenuti. Nell'androne principale, però, c'erano tutte le donne, i vecchi ed i bambini del palazzo, alcuni piangevano, altri pregavano; le dame erano attorno a lady Rowan che sorrideva incoraggiante alla figlia. «Siedi con noi.» allungava la mano, la sua voce affettuosa, un mormorio delicato, faceva accostare i figli, anche se Aguilar pareva invisibile; Edeline tremava, il viso portava i segni delle lacrime, annuiva per apparire degna del proprio ruolo, ma il terrore la scuoteva sin nelle viscere. «Hai paura, molti ne hanno, senza che ve ne sia motivo, figliola.» proseguiva sua madre, il piglio sicuro ed autorevole di una donna allevata per governare una casa. L'angoscia vibrava attorno ad Aguilar, perché seppure non vi fossero finestre, qualcosa si avvicinava; Edeline stringeva il proprio cagnolino, un meticcio color grano, invocava la protezione della Madre, come tutti gli altri. Il candelabro sul soffitto oscillava,  l'oscurità pareva calata con la forza violenta dell'aria, che aveva spalancato, forse persino frantumato, le finestre ai piani superiori. «Gli accordi sanciti sono chiari: non ci verrà fatto del male.» diceva lady Rowan, accarezzava il braccio della figlia, un'ombra di dubbio offuscava il suo sguardo. Aguilar sentiva suoni cavernosi, simili a grida e lo sferzare di una tempesta senza acqua, senza tuoni, senza fulmini. «Madre.» sussurrava Edeline: «I draghi non sottoscrivono accordi.» Non vi era il caos, a ridosso di Goldengrove e nessuno poteva trattenerlo. Aguilar Rowan aprì gli occhi, era notte e non c'erano rumori, oltre al crepitare dei fuochi, i soldati di guardia erano taciturni. L'incubo allontanò il sonno, pensò alle chiacchiere dei mercanti, sull'ultima Targaryen, sui draghi fatti nascere dalla pietra e dal fuoco, sulle sue conquiste militari ed Aguilar si domandò cosa avrebbe fatto con una simile potenza, se non ridurre i Sette Regni ad un cumulo di macerie. 'Fuoco e Sangue' ricordò Aguilar: 'Un drago a tre teste che promette fuoco e sangue. Per gli Dei vecchi e nuovi, sarà quello che avrà.' Il Nord avrebbe resistito, in mano ad un lord più capace di Roose Bolton, perché il ghiaccio può spegnere qualsiasi fuoco, anche quello di un drago, ma non sarebbe accaduto e non era successo in passato. La devastazione portata dai Targaryen era stata tale da richiedere una soluzione meno cruenta, gli Stark erano re, pur di non ridurre la popolazione allo stremo, avevano ceduto. Era stato un nobile gesto, forse anche giusto, ma il Nord aveva un'arma contro i draghi e non l'aveva usata, lo sapevano bene i Targaryen. Aguilar cercò a tentoni il boccale d'acqua, che Serle gli provvedeva ogni notte, inoltre, si rese conto di aver bisogno del pitale, sospirò. In quella quiete, che favoriva speculazioni lugubri, sentì distintamente Archibald ridere mentre una voce femminile voleva zittirlo, dovevano essere nella tenda di lui, Aguilar non se ne meravigliò. «Non fare baccano.» sussurrò lei. Rowan la riconobbe subito: era Ilya Flowers, la cameriera scelta per lady Mormont; non si sapeva molto della ragazza, si favoleggiava avesse il sangue della casata Grimm e di una cameriera di lady Tyrell; questo avrebbe giustificato l'interesse della Regina di Spine nei confronti della bimba, educata per divenire una septa. Ilya decise di cedere ad un cavaliere ma non con discrezione, bensì con lettere d'amore, regali, una breve fuga, fu impossibile mettere a tacere la storia, così il cavaliere venne portato all'altare ed Ilya scacciata in malo modo, salvo fare la sua ricomparsa, come domestica degli Hightower. L'uomo arguì che la ragazza fosse riuscita ad uscire, perché la padrona era addormentata; trasse sollievo da quel pensiero: lady Mormont non era perfettamente guarita, aveva bisogno di molto sonno. Cercò di spostare la mente su altro, però udì altri suoni, fin troppo plateali per apparire equivoci; il cavaliere trasse un lungo respiro e bevuta l'acqua, decise che i suoi oscuri incubi erano preferibili al rumoroso sollazzo altrui. Lord Hightower era in attesa, sfiorava di tanto in tanto, il pesante bordo di pelliccia del mantello, come se lo indispettisse, alle sue spalle, lo scudiero stava sistemando il cavallo. «Dimmi, dunque.» salutò in tono serio, il cavaliere di Goldengrove: «Com'è il paesaggio offerto dal Guado?» chiese, il viso duro non si distese nel sorriso, ma era raro che lo facesse. «Singolare, milord.» rispose Aguilar, che si attendeva una reprimenda assai peggiore, per il ritardo della sera precedente: «Io non ho viaggiato molto, però il Guado è umido, ma non molesto, il freddo pungente però tollerabile, vi è del verde, molta acqua e poche zone abitate. Non ispirano fiducia quei sentieri senza mai un cavallo o un carretto, fanno pensare che possano esservi dei ladri.» spiegò con la massima onestà, perché Gunthor Hightower non faceva richieste di cui non ascoltasse la replica. L'uomo annuì, la mano sinistra era posata sull'elsa della spada: «Ladri, tagliagole, disertori.» acconsentì: «La tua è stata una scelta saggia, purtroppo, non avevi pensato che lady Mormont abbisognasse di parecchie soste, perciò stavi incappando nel buio.» era una sorta di elogio, a cui ser Rowan chinò la testa. Sylvia Mormont, accompagnata da Ilya Flowers e da Deary, uscì dalla proprio tenda, quasi nel medesimo istante; Aguilar notò la fasciatura alla spalla, il braccio piegato verso il busto, però la cameriera aveva sistemato i capelli castani in una complicata acconciatura, in cui brillavano piccoli pettini bianchi, inoltre, aveva un abito differente in stoffa blu; i motivi ornamentali dorati sulla gonna, per quanto potesse vedere, sembrano petali di rosa ed altri in argento erano simili a rami flessuosi, che risalivano sino al busto, con perle, quali spine. 'Potrebbero ricamare su ogni indumento: proprietà della Casata Tyrell.' pensò irritato Aguilar Rowan, non comprese, esattamente cosa lo infastidisse, l'intero guardaroba, della promessa sposa di ser Willas Tyrell, era stato commissionato dai signori di Alto Giardino, supervisionato Margaery Tyrell, affinché la futura cognata possedesse uno stile elegante, raffinato, ma adatto alla sua età, quindi, colorato e piacevole; non si era badato a spese ed in ciò, avevano contribuito gli Hightower. Era logico sfoggiasse gli emblemi dei suoi benefattori, della Casata a cui sarebbe appartenuta, Aguilar sentiva che c'era qualcosa di sbagliato, ma non sapeva dove. Sylvia aveva un passo celere, il viso era ancora segnato dalla prigionia, ma gli occhi avevano uno sguardo brillante, che andò a posare su Aguilar per una manciata di secondi, in cui respirò a malapena, lei distese le labbra carnose in un sorriso gentile ed era bella, forse, non l'aveva ammesso con se stesso, non aveva osato, pero la ragazza del Nord era bella, come il sole in inverno. «Lieta giornata, miei signori.» esordì in tono garbato, chinò la testa in direzione di lord Hightower; Aguilar notò che  aveva già messo un caldo mantello, dello stesso colore del vestito, aveva anche infilato i guanti, calzato gli stivaletti alla caviglia, ma un dettaglio catalizzò la sua attenzione, gli ricordò la fanciulla fiera, che aveva ignorato Walder Frey, che era uscita a testa alta in sella al suo cavallo: era la spilla con la testa dell'orso dallo sguardo feroce; era stata applicata sopra al cuore, ben visibile a chiunque. Lui ne fu felice, insospettabilmente, perché quelle vesti, quegli agi non avevano celato la fermezza della ragazza, tutto sembrò avere un senso. Lord Kidwell si aggiunse per salutarla, mentre attorno a loro, i vessilli erano sollevati, le tende smontate; i carri erano pronti, ma non si poteva dire altrettanto del seguito. Sylvia non pareva farvi caso, sollevò il cappuccio posato sulle spalle, si sporse verso Ilya, che indossava un mantello verde acqua, sul quale quasi brillava la treccia di capelli rossi, cosa si dissero, Aguilar non lo intese, né gli parve il caso di origliare. «Lord Hightower, permettimi di ringraziarti.» disse lady Mormont, mentre cavalieri e scudieri sembravano intenti a ripetere i medesimi gesti, nonché a sbuffare: «Ho goduto di un ottimo riposo, la colazione è stata deliziosa.» lasciò il braccio sano a sorreggere l'orlo della gonna, senza fare un passo. «Esigo il meglio per i miei famigliari.» puntualizzò Gunthor Hightower, era chiaro che apprezzasse le parole, ma che avrebbe gradito maggior calore, purtroppo si conoscevano da meno di un giorno e lord Hightower non era paziente: «Il viaggio non è confortevole per una dama, quindi, le tue parole mi danno sollievo.» decise di aggiungere. Sylvia spostò il capo: «Ser Rowan.» gli parve fosse vicina, se avesse teso il braccio, sarebbe riuscito a sfiorarla, ma suo zio gli avrebbe reciso la mano, cercò distrazione nell'ovale perfetto di Ilya, nei suoi occhi verdi come il mare, nel suo fisico slanciato avvolto in abiti semplici, nella grazia che pareva farla danzare, anziché muoversi. Erano pochi gli uomini disposti a negare il fascino di Ilya Flowers ed Aguilar Rowan non era tra essi, eppure c'era qualcosa di più attraente in Sylvia Mormont, che lo spingeva a cercarla: «Ti ringrazio, perché sono stata un bagaglio di notevole peso, che hai trattato con impeccabile cura.» fece un cenno: «Non scorderò la tua gentilezza.» concluse. Aguilar pensò che Sylvia possedesse qualcosa che andava oltre la sua stessa anima, trascendeva la sua natura, che non riguardava il suo rango, era dell'altro, indescrivibile e reale; era ciò a renderla così bella, a donarle una bellezza che non conosceva il Tempo, una bellezza che si sprigionava attraverso di lei. Possedeva qualcosa di raro, di prezioso, che riusciva ad intravedere a sprazzi, restando abbagliato, senza cognizione dell'errore che compiva nei riguardi dei Tyrell. «Né io potrò scordare il tempo trascorso in tua compagnia.» si accorse di aver risposto, nel momento il suono si estese nell'aria: «Mia signora.» vide che la replica era parsa unicamente educata, consona al dialogo, trasse un sospiro sollevato. Lord Hightower spiegò come si sarebbe svolto il tragitto: la nipote avrebbe usufruito di una carrozza, i suoi bagagli erano stati caricati e si sarebbe unita ai cavalieri per il pasto serale; nulla le vietava di cavalcare su Brina o sul destriero dello zio, qualora si fosse sentita in forze e Sylvia annuì con diligenza, prima ringraziare di nuovo. Ser Archibald Chester si palesò nel preciso istante in cui Gunthor Hightower era pronto ad andare nella sua tenda per afferrarlo con le proprie mani e gettarlo in mezzo all'accampamento; non sarebbe stata la prima volta, sebbene non mai arrivato ad un simile trattamento con ser Chester, in pochi sfuggivano all'ira di Hightower. Il cavaliere aveva un aspetto rilassato, portava una cappa verde scuro, chiusa da una mano di rubino; aveva capelli e barba curati, diede indicazioni per i suoi averi, poi notato il piccolo assembramento in attesa, rivelò un sorriso che invitava all'indulgenza, come alla severità. 'Vediamo, come se la cava.' Aguilar incrociò le braccia al petto, ansioso di assistere al prodigio. Archibald si posizionò ove fosse ben visibile da tutti, lanciò una sola occhiata ad Ilya e si produsse in un inchino formale, degno di una presentazione reale; elencò i presenti ad uno ad uno, iniziando giustamente da lady Mormont, finendo con Serle Kidwell, arrivato per porgere la borraccia scordata da Aguilar, le sue scuse furono semplici, essenziali, impregnate della sua notoria galanteria, perché chiunque si sarebbe privato del sonno, pur di rimirare lo splendore di Sylvia Mormont, perché il poter servire Gunthor Hightower era un alto onore ed accompagnarsi a tali esempi di cavalleria poteva definirsi un dono dei Sette. Non usò soltanto le parole, informò Kidwell di piccoli dettagli circa il trasporto di alcune cassapanche, che potevano essere spostate in un carro più robusto; ribadì le proprie scuse in forma ufficiale. Ser Archibald Chester tra sguardi ammonitori ed indulgenti, fu perdonato. «Canaglia!» esclamò Aguilar, dandogli una pacca sulla pacca. Archibald rise piano: «Non sono neppure andato a giocare.» finse di giustificarsi. Sylvia Mormont ed Ilya Flowers, così come Deary passarono la mattina nella carrozza, dietro le cortine rosse con il bordo bianco degli Hightower. Kidwell e Hightower guidavano il Seguito, che terminava con i soldati di scorta ai cavalieri ed alle vettovaglie, c'erano soltanto sei carri, ma il distaccamento era stato organizzato per muoversi agilmente sino al Guado. Ser Rowan  e ser Chester erano in seconda linea, il primo era ancora incatenato al proprio incubo, ai draghi dell'ultima Targaryen in volo su Alto Giardino, un'immagine antica e spaventosa di cui non voleva fare parola, meno che mai intendeva indugiare sulle riflessioni circa lady Mormont; il secondo sbadigliava a cadenze regolari, a tratti, sonnecchiava palesemente. 'Devi trovare un passatempo.' Aguilar non era abituato a ragionare in simili termini, ma Sylvia sarebbe stata la signora di Alto Giardino, la moglie di Willas Tyrell, uno degli uomini migliori che conoscesse: 'Archibald ha un occhio allenato, Ilya è già sua e lo resterà per un po' e non credo di aver notato nessun'altra, fra le cameriere.' sentenziò torvo. Archibald si curvò in avanti, anche troppo e l'amico, allarmato, si sporse per agguantargli il braccio e questi si svegliò di soprassalto, ricambiando l'occhiata con aria confusa. «Ben ti sta.» commentò ser Rowan, quando lo vide stringere le briglie. «Potevo non avere più le gambe, considerato quanto vi ho fatti aspettare. L'età addolcisce l'animo.» ribatté con una sorta di sbuffo o sbadiglio, rise piano: «Da quando osservi con scrupolo la castità?» lo punzecchiò sarcastico: «Da una luna, circa. Perdonami, dunque, ho scandalizzato la rinata innocenza.» Aguilar storse la bocca: «Una luna di tempo?» finse indignazione: «Hai dimenticato come si contano i giorni.» ridacchiò a suo volta: «Non essere sciocco, piuttosto. Io ho il senso della misura.» consigliò in tono più serio. Archibald sbatté le palpebre, infastidito dalla luce del Sole: «Il senso della misura, ser Rowan?» domandò scherzoso: «Spero non sapere mai a cosa tu alluda.» «Lo sai bene.» L'uomo fece un profondo respiro: «Io non agisco da stupido.» parlò in un sussurro: «Evito qualsiasi scandalo, molti li ho sfiorati. Non vi sono caduto. Non darti pena.» concluse. 'Non ti preme della reputazione di Ilya?' Aguilar non lo chiese, conosceva la risposta, mai esplicitata eppure chiara, come il cielo del mattino, distolse il viso da ser Chester, senza più menzionare la faccenda. La giornata ebbe un clima mite, tanto che pasteggiarono su teli posati sull'erba fresca, lasciando ai camerieri, l'arduo compito di non rovesciare i boccali di vino. Lady Mormont fu aiutata da lord Hightower a scendere dalla carrozza, mentre Serle Kidwell si precipitò ad aiutare Ilya Flowers. 'Madre, preservalo almeno da questa delusione.' pensò Aguilar Rowan, scrollando il capo. Era stato Gunthor Hightower a spiegare, con una buona dose di tatto, quanto fosse semplice essere ammaliati da una fanciulla, nutrire tenere emozioni nei suoi confronti, ma la ragione ed un temperamento fortificato dall'educazione, erano in grado di discernere fra ciò che è consono da quel che non lo è affatto. Aguilar Rowan capì che avrebbe dovuto affrontare una simile, incidentata lezione. Le visite nelle Case di Piacere erano uno svago, aveva aggiunto il lord, da non scambiarsi per una malsana abitudine o peggio, nel posto in cui incontrare donne a cui regalare tenerezze e sostanze, esse erano già ricompensate, il loro unico scopo era il divertimento, non certo il calore che una moglie può offrire. 'Questa parte, può aspettare.' si convinse egli: 'Gli vieterò di seguire Archibald, anche sotto invito.' «Ser Willas Tyrell ama la cultura, non è stato in condizione di viaggiare, ma ha ricevuto diversi Maestri della Cittadella.» la voce di Hightower distrasse Aguilar: «Ho avuto l'onore di insegnargli la lingua di Lys.» non sorrise, né lo fece Sylvia, il silenzio calò fra loro. 'Ha imparato la vulgata dell'isola in cui lady Mormont ha trovato fortuna. Sarà stato il destino.' Sylvia riprese a sbocconcellare pane dolce, beveva ancora acqua e soltanto un calice di vino su insistenza di lord Kidwell, certo che l'aiutasse a sopportare la fatica. «Ho veduto alcune illustrazioni di Vecchia Città.» interloquì lady Mormont: «Ricordo che mi affascinava quel maestoso faro, candido come neve, che portava sino in cielo, una fiamma dorata, quasi fosse stato un braccio teso. Sono certa che esista qualcosa di altrettanto magnifico o anche di più, ma io ho avuto solo disegni.» era una domanda implicita allo zio, un modo per cercare di apprendere qualcosa in più su di lui, sulla famiglia e su di sé. Gunthor ne parve lieto, sorrise per più di un fugace istante, per poi rispondere: «Dovresti visitare il Tempio Stellato, so che sei stata introdotta al culto degli Dei del Nord, ma il Tempio ha mura di marmo nero, in cui puoi vedere il tuo viso e le finestre sono ad arco, quando la luce lo inonda, sembra che gli Dei posino le dita sulle teste dei pellegrini.» fu un racconto gradevole, che piacque alla fanciulla: «Esiste la Cittadella, puoi scorgerne le cupole già dalle sponde del fiume, Vino di Miele ed è una visione misteriosa, quasi oscura, molti ne hanno timore.» si portò il boccale alle labbra, bevve in fretta per continuare: «Arrivata ai cancelli, potrai ammirare due creature di pietra vegliare sulla sicurezza del Sapere dei Sette Regni: hanno il corpo di leone, fiero e muscoloso, agili ali d'aquila, pericolose code da serpente ma arrivando al capo, scorgerai il volto di un uomo a destra e di una donna a sinistra, impassibili e vigili.» accennò un sorriso, nel finire la frase. Sylvia era raggiante, annuì diverse volte, come cercasse di vedere quanto le era narrato, alla fine chinò il viso: «Una meraviglia.» commentò. «Lo è.» acconsentì lord Hightower: «Potrai visitarla, a tempo debito e col permesso del tuo sposo. C'è tanto da vedere a Vecchia Città.» Non menzionarono i parenti, perché Gunthor pareva il solo ad avere ricordo della sorella, della sua progenie, l'interesse mostrato era parso sincero, l'affetto era germogliato, sarebbe cresciuto, lord Hightower avrebbe impiegato ore, mentre lady Mormont sarebbe stata più cauta. Aguilar sentì un colpo al costato, volgendosi, trovò Archibald con il vino nella mano sinistra. «Non agire da sciocco.» gli ripeté sottovoce. Il cavaliere volle sorridere, ma non vi riuscì, restò fermo per qualche istante, poi riprese a mangiare, spostando l'attenzione e la conversazione sui cavalieri.
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