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#CasArsa Teatro
djtubet · 1 year
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Dj Tubet: Fin Cumò Tour 2023
Con l’avvento della primavera ripartono gli appuntamenti dal vivo in cui poter ascoltare il rapper friulano Dj Tubet impegnato in una serie di concerti che coinvolgono, scuole, rassegne culturali e festival.
Alcune date sono già state fissate altre saranno comunicate di volta in volta sui social dell’artista e su questo blog.
Il 2023 è un anno particolarmente significativo per Dj Tubet, poiché festeggia il suo 25° anniversario di attività anche continuando il tour del suo fortunato disco “Fin Cumò”.
Il rapper coinvolgerà gli ascoltatori con il suo spettacolo capace di spaziare dal rap al reggae alla world music in un percorso vario tra, lingue, culture, e tradizioni. Non mancheranno le improvvisazioni “freestyle” e i giochi di parole con il pubblico con cui Dj Tubet è solito trainare ed entusiasmare la platea.
MARZO
24 Museo Etnografico Friulano  - Udine - Mattinata
28 Scuole di Reana del Rojale
29 Dj Tubet & Angelo Floramo - Scuole di San Daniele del Friuli
30 Dj Tubet & Anna Bogaro - Villa de Brandis - ore 18.30 - San Giovanni al Natisone
31 Museo Etnografico Friulano  - Udine - Mattinata
APRILE
1 Scuole di Tavagnacco
5 Scuole di Pozzuolo del Friuli
12 Scuole di Basaldella (Campoformido)
13 Dj Tubet & Luigina Lorenzini - Hospitale Di San Giovanni - Majano (Ud)
14 Scuole di Mereto di Tomba
16 Dj Tubet & Romeo dj set - Festa di Primavera - Cinto Caomaggiore - Veneto
17 Scuole di Tarvisio
19 Scuole di Casarsa della Delizia
21 Museo Etnografico Friulano  - Udine - Mattinata
26 Scuole di Basiliano
27 Ludere non pugnare - Sala Madrassi - Udine 
28 Museo Etnografico Friulano  - Udine - Mattinata
29 Castions di Strada
MAGGIO
3 Scuole di Codroipo
5 Teatro Giovanni da Udine
29 Leadership al femminile - Scuole di Udine
GIUGNO
20 Spilimbergo
27 Spilimbergo
LUGLIO
2 Tricesimo
7 Tolmezzo
9 Rifugio Chiadinas -  Panoramica delle vette Monte Crostis, Comeglians
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agrpress-blog · 7 months
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Quarantotto anni fa, nella notte fra il 1° e il 2 novembre 1975, veniva barbaramente assassinato all’Idroscalo di Ostia il grande scrittore, saggista, giornalista, regista, sceneggiatore e intellettuale friulano. Nato a Bologna nel marzo 1922 da madre friulana - Susanna Colussi (1891-1981), insegnante -originaria di Casarsa della Delizia (PN) e padre bolognese - Carlo Alberto Pasolini (1892-1958), ufficiale di fanteria) - ha un’infanzia difficile (vissuta fra Bologna e Casarsa) e teatro di grandi sofferenze: il rapporto conflittuale con il padre, l’uccisione del fratello Guido Alberto (1925-1945) da parte dei partigiani comunisti. Nel ’47 comincia ad insegnare alle scuole elementari di Valvasone (PN), non lontano da Casarsa. Sensibile ai valori dell’ideologia di sinistra, aderisce al Partito Comunista, ma ne viene espulso per omosessualità nell’autunno del 1949. Si tratta del primo di una lunga serie di processi (ne subirà un’altra trentina nei successivi venticinque anni) e dell’inizio di una persecuzione che durerà per il resto della sua vita. Perduto il lavoro da insegnante, nel gennaio 1950 il giovane Pasolini si trasferisce a Roma con la madre. Senza mezzi e con un futuro immediato che dipende esclusivamente dall’aiuto economico di uno zio, si trasferisce in una camera di piazza Costaguti, nel ghetto ebraico. Chiede invano di dare lezioni private e s’iscrive al sindacato comparse di Cinecittà. Lavora come correttore di bozze per un giornale, riesce a far pubblicare qualche articolo su alcuni quotidiani cattolici e di estrema destra («Il Quotidiano», «Il Popolo di Roma», «Libertà d’Italia»), continua a scrivere (o riscrive) le opere cominciate in Friuli nei due anni precedenti (Atti impuri, Amado mio, La meglio gioventù). Scrive anche le poesie raccolte in Roma 1950 – Diario, che un decennio dopo verrà pubblicato da Scheiwiller. Nel ’51 si trasferisce in un modesto appartamento di via Giovanni Tagliere, 3 - in zona Ponte Mammolo, vicinissimo all’attuale carcere di Rebibbia -, dove rimarrà due anni, fino al ’53. Grazie al poeta dialettale abruzzese Vittorio Clementi, ottiene un posto da insegnante presso la scuola media “Francesco Petrarca” a Ciampino. Fra i suoi allievi, il futuro scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami (1940-2013). Nel ’54 collabora con Mario Soldati - insieme all’amico Giorgio Bassani (futuro Premio Strega 1956 con Cinque storie ferraresi) - alla sceneggiatura di La donna del fiume e, con i soldi guadagnati, si trasferisce a Monteverde, quartiere in cui rimarrà per nove anni (dal ’54 al ’59 in via Fonteiana, 86 e poi, dal ’59 al ’63, in via Giacinto Carini, 45 - nello stesso edificio in cui abitava il poeta e critico letterario Attilio Bertolucci, padre dei fratelli Bernardo e Giuseppe). Fra il ’54 e il ’60 svolge un’intensa attività di sceneggiatore - soprattutto in film diretti da Mauro Bolognini (Marisa la civetta, Giovani mariti, La notte brava, La giornata balorda, Il bell’Antonio), ma anche da Federico Fellini (Le notti di Cabiria ), King Vidor (Addio alle armi, tratto dal libro omonimo di Ernest Hemingway), Franco Rossi (Morte di un amico), Leopoldo Savona (Le notti dei teddy boys), Gianni Puccini (Il carro armato dell’8 settembre), Florestano Vancini (La lunga notte del ’43), Luciano Emmer (La ragazza in vetrina) -, che gli permette di fronteggiare le difficoltà economiche e di dedicarsi anche alla letteratura, alla poesia ed alla pittura. La grande crisi politica e ideologica del 1956 (il rapporto Kruscev al XX Congresso del Partito Comunista Sovietico, che segna il rovesciamento dell’epoca staliniana e la speranza di un rinnovamento nel mondo comunista, che stridono con i fatti di Polonia e d’Ungheria) ispira la trama degli scritti di questi anni (le ultime parti di Le ceneri di Gramsci ed il suo nuovo romanzo Una vita violenta). Nel ’60 recita nel ruolo di Leandro - detto “il gobbo” - in Il gobbo di Carlo Lizzani, fornisce alcune idee per La dolce vita di Federico Fellini
e comincia a scrivere la sceneggiatura di La commare secca, progetto che verrà poi abbandonato (il film verrà realizzato due anni dopo e sarà esordio alla regia del giovane Bernardo Bertolucci). Nel ’61 esordisce dietro alla macchina da presa con Accattone, il primo di uno serie di film che si svolgono nel mondo del sottoproletariato delle borgate romane, vissuto attraverso i temi dell’epica, della violenza e della poesia. All’interno di un’ideologia di sinistra, Pasolini cerca di fondere marxismo e spiritualità cristiana, la nostalgia dei valori del mondo rurale precapitalistico con la denuncia della violenza dell’industrializzazione e dell’imborghesimento della società. Il cupo pessimismo delle sue opere riflette la durezza del mondo e la conseguente solitudine che pervade gli esseri umani attraverso una prosa lucida che utilizza lo strumento del paradosso nel tentativo di demistificare ideologie considerate degradanti e repressive. La ricerca del contrasto fra musica ed immagine, la ieratica fissità – di stampo pittorico – di molte inquadrature, sovente di volti presi dalla strada, l’attenzione per le luci naturali e per la fotografia (avvalendosi di direttori della fotografia del calibro di Tonino Delli Colli e Giuseppe Ruzzolini), la scelta di esterni remoti e brulli, la scoperta di attori dallo stile ingenuo e spontaneo (Franco Citti, Ninetto Davoli ed altri) rappresentano le cifre stilistiche di un regista che cerca continuamente una complementarietà fra cinema e scrittura. Dopo l’intenso Mamma Roma (1962), interpretato da Anna Magnani, e La ricotta (1963), episodio di RoGoPaG - gli altri tre episodi sono diretti rispettivamente da Roberto Rossellini (Ro), Jean-Luc Godard (Go), e Ugo Gregoretti (G) -, considerato “blasfemo” e finito sotto processo per vilipendio alla religione di Stato, batte la strada del film religioso realizzando Il Vangelo secondo Matteo (1964), in cui proietta nella figura di Gesù Cristo il suo stesso fervore pedagogico e la sua stessa vocazione alla provocazione ed allo “scandalo”. Nel ’63 lascia il quartiere Monteverde e si trasferisce in zona Eur - in via Eufrate, 9 - , dove rimarrà per i successivi dodici anni. Nello stesso anno esce il film Milano nera, diretto da Gian Rocco e Pino Serpi e tratto (molto liberamente) dalla sceneggiatura La Nebbiosa, da lui scritta a Milano alla fine del ’59. Pasolini annuncia una causa per far togliere il suo nome dai titoli di testa del film. Nel ’66 dirige l’amara fiaba Uccellacci e uccellini, parabola umoristica che affronta, fra i vari temi, la crisi del marxismo, il destino del proletariato ed il ruolo degli intellettuali, ed è supportata dalla ricchezza mimica di un grande fuoriclasse come Totò, spogliato dagli schemi della sua abituale comicità. Affascinato dal mito e da varie esperienze teatrali, porta sul grande schermo i suggestivi Edipo re (1967), Medea (1969), interpretato da Maria Callas, e Appunti per un’Orestiade africana (1970), ma il tema della violenza - esplicita ed implicita - è presente anche in molte altre sue opere cinematografiche, fra cui il metaforico e provocatorio Teorema (1968), tratto dal suo libro omonimo, ed il crudo e grottesco Porcile (1969). All’inizio degli anni Settanta realizza veri e propri “adattamenti erotici” velati di forte pessimismo di classici come Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974). Il conseguente successo, strumentalizzato da un filone di film volgari e di livello infimo che venivano prodotti a quell’epoca, lo costringerà all’abiura di quella che lui stesso aveva definito come la “Trilogia della vita”. Da tale delusione nascerà il suo ultimo film, il crudo e apocalittico ritratto dell’intolleranza del potere Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), sul genocidio degli antichi valori popolari e sulle forme di dominio che connotano e degradano i rapporti fra gli uomini. Fra gli altri film ricordiamo La rabbia (1962), il film-documentario
Comizi d’amore (1964), Che cosa sono le nuvole? (1967), episodio di Capriccio all’italiana, (gli altri cinque episodi sono diretti da Mario Monicelli, Steno, Mauro Bolognini, Pino Zac e nuovamente M. Bolognini), La terra vista dalla luna (1967), episodio de Le streghe (gli altri quattro episodi sono diretti rispettivamente da Luchino Visconti, Mauro Bolognini, Franco Rossi e Vittorio De Sica), La sequenza del fiore di carta, episodio di Amore e rabbia (gli altri quattro episodi sono diretti rispettivamente da Carlo Lizzani, Bernardo Bertolucci, Jean-Luc Godard e Marco Bellocchio), il documentario Le mura di Sana’a, in forma di appello all’Unesco, girato nello Yemen e prodotto da Franco Rossellini, il documentario su Orte (VT) e Sabaudia (LT) Pasolini e… la forma della città, realizzato insieme a Paolo Brunatto. Teorico arguto e polemista, Pier Paolo Pasolini rappresenta uno fra i casi più originali e riusciti di uso del cinema da parte di un’intellettuale di formazione umanista che trova nella cosiddetta “Settima arte” quella che lui stesso ha definito «la lingua scritta della realtà». Fra i libri di Pasolini ricordiamo Ragazzi di vita, il suo primo romanzo, pubblicato da Garzanti nel 1955; la raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci (1957), in cui troviamo anche la celebre Recit; Una vita violenta (Garzanti, 1959); La lunga strada di sabbia (pubblicato da Contrasto – Roma – nel 2014), vasto reportage realizzato nell’estate 1959 per la rivista «Successo» percorrendo le coste italiane al volante della sua Millecento; il già citato Teorema (1967) e Petrolio, cominciato nel 1972, mai portato a termine e che verrà pubblicato per la prima volta solo nel 1992, diciassette anni dopo la sua morte. Nel novembre/dicembre 1959 a bordo della medesima Millecento, va a Milano, dove, nel giro di circa tre settimane, scrive La Nebbiosa, sceneggiatura che avrebbe dovuto trasformarsi in film (diretto da Gian Rocco e Pino Serpi). Alla fine il film non verrà più realizzato a causa del produttore, Renzo Tresoldi, un industriale milanese che non rispetterà gli accordi presi. Lo stesso Pasolini si sforzerà di dimenticare quella sfortunata parentesi e, negli anni successivi, quasi non ne parlerà più. La sceneggiatura originale è stata pubblicata, per la prima volta in versione integrale, da il Saggiatore nel 2013. Nel ’72 comincia a scrivere articoli (i cosiddetti Scritti corsari) per il «Corriere della Sera», all’epoca diretto da Piero Ottone, il quale rimarrà alla guida del quotidiano fino al ’77. In tali articoli prende di mira il Potere - parola che lui scriveva volutamente con la “p” maiuscola - in maniera sempre più caparbia e diretta. A tal proposito, celebre è la lunga lettera Cos’è questo golpe? Io so, che apparirà sul «Corriere della Sera» del 14 novembre 1974. Pier Paolo Pasolini muore barbaramente assassinato all’Idroscalo di Ostia nella notte fra il 1° e il 2 novembre 1975. Aveva cinquantatré anni. Tre giorni dopo, il 5 novembre, ai suoi funerali, Alberto Moravia griderà un sentito elogio funebre: «Abbiamo perso prima di tutto un poeta… e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo. Ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando questo secolo sarà finito Pasolini sarà fra i pochissimi che conterà come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro». Il biennio 2015-2016, in occasione del quarantennale del delitto Pasolini, è stato un periodo ricco di eventi sul grande intellettuale friulano. Incontri, presentazioni di libri - ricordiamo I tanti Pasolini di Maurizio Riccardi e Giovanni Currado, il coraggioso Pasolini. Massacro di un poeta (Ponte alle Grazie, 2015; nuova edizione 2018) e L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini. Stragi, Vaticano, DC: quel che il poeta sapeva e perché fu ucciso (Ponte alle Grazie, 2020) di Simona Zecchi, Poesie e pensieri per Pasolini (David & Matthaus Edizioni, 2015) di Silvio Parrello, il quale, da più di trent’anni fa, si batte caparbiamente per cercar di arrivare alla verità sull’uccisione
di Pasolini -, dibattiti culturali, proiezioni di film e documentari - fra cui il docufilm Un intellettuale in borgata (2014) di Enzo De Camillis -, mostre fotografiche, fra cui ricordiamo I tanti Pasolini, curata dall’Archivio Fotografico Riccardi e formata da ventisei scatti del grande fotografo Carlo Riccardi (1926-2022) degli anni compresi fra il 1960 e il 1969. La mostra, inaugurata nell’aprile 2015 a Cinecittà nell’ambito della manifestazione “Libri al Centro”, ripresentata presso la libreria Nuova Europa  - nel centro commerciale I Granai, in zona viale Tintoretto -, presso Spazio5 - via Crescenzio 99/d, a pochi metri da piazza del Risorgimento - presso la Sala Presidenziale della Stazione Ostiense, sulla “Nave dei Libri” per Barcellona nel 2016, – a Monterosi (VT), a Palazzo Santa Chiara - in zona via di Torre Argentina -, e al Centro Studi “Pier Paolo Pasolini” di Casarsa (dal settembre al novembre 2017), sarà esposta prossimamente a Spazio5.
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paolodechiara · 9 months
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A Casarsa, dal 6 al 9 settembre 2023. Le lezioni si focalizzeranno in particolare sullo studio delle esperienze drammaturgiche, sul Manifesto per un nuovo teatro, sulle fonti autoriali e sulla ricezione del teatro di parola nella contemporaneità.
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Pasolini: anteprima a Casarsa del docu-film di Finazzer Flory
(ANSA) – CASARSA DELLA DELIZIA, 24 GEN – Anteprima nazionale, sabato 28 gennaio, alle 20.45, nel teatro Pasolini di Casarsa della Delizia (Pordenone) di “Altri comizi d’amore”, il docu-film firmato da Massimiliano Finazzer Flory – una produzione Movie&Theater in collaborazione con Rai Cinema e il Centro Studi Pier Paolo Pasolini Casarsa della Delizia, con il sostegno di IGT.    Il lavoro, sulla…
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lamilanomagazine · 1 year
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Milano, “DENTRO. Una storia vera, se volete” a Teatro Carcano
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Milano, “DENTRO. Una storia vera, se volete” a Teatro Carcano.   Al Teatro Carcano di Milano dal 26 al 29 gennaio 2023 in scena DENTRO. Una storia vera, se volete, scritto diretto e interpretato da Giuliana Musso. Un lavoro sull’occultamento della violenza, la storia di una verità chiusa dentro ai corpi e che lotta per uscire allo scoperto. NOTE DI REGIA a cura di Giuliana Musso: “DENTRO è la messa in scena del mio incontro con una donna e con la sua storia segreta. La storia di una verità chiusa dentro ai corpi e che lotta per uscire allo scoperto. Un’esperienza difficile da ascoltare. Una madre che scopre la peggiore delle verità. Una figlia che odia la madre. Un padre innocente fino a prova contraria. E una platea di terapeuti, consulenti, educatori, medici, assistenti sociali, avvocati che non vogliono sapere la verità. Il segreto ha un contenuto preciso e un fine positivo: protegge qualcosa o qualcuno. Il segreto silenzia una verità che potrebbe danneggiare degli innocenti. Anche la censura ha un contenuto preciso ma il suo fine è contrario a quello del segreto: danneggia gli innocenti, protegge vili interessi. Il tabù invece, per noi, oggi, è il puro terrore di sapere; quindi, il suo contenuto rimane ambiguo e indeterminato. In tutte le vicende di abuso sui minori che io ho conosciuto per voce delle vittime nessun colpevole è mai stato condannato. La violenza sessuale è un segreto che permane tutta una vita dentro alle case, dentro agli studi dei medici, degli psicoterapeuti o degli avvocati, in quelle dimensioni private in cui le vittime possono restare confinate senza venire riconosciute. I fini compassionevoli del segreto quasi sempre si fondono con quelli vergognosi della censura e con quelli inconsci del tabù. L’esistenza stessa delle vittime, con la loro rabbia inavvicinabile o con il loro inconsolabile dolore, ci turba fino alle radici e così, pur di non maneggiare l’odio dei padri, deploriamo quello dei figli. Storia antica quanto il patriarcato: narrazioni che sono strategie di rimozione e occultamento, prime tra tutte la normalizzazione stessa dell’abuso e la colpevolizzazione della vittima. Persino le storie fondanti della civiltà occidentale sono tutte storie di traumi, eppure, mentre conosciamo tutto di Edipo, di Laio invece, il padre assassino, sappiamo ben poco. Da sempre, pur di salvare l’ordine dei padri, costruiamo impalcature concettuali che fanno perdere consistenza alla realtà dei traumi e alla voce dell’esperienza. E se la nostra esperienza di violenza non può essere riconosciuta allora viene minata alla radice la nostra dimensione ontologica, noi stessi forse smettiamo di esistere. DENTRO non è teatro d’indagine, è l’indagine stessa, quando è ancora nella vita, la mia stessa vita. DENTRO non è un lavoro sulla violenza ma sull’occultamento della violenza. DENTRO è un piccolo omaggio teatrale alla verità dei figli. «Quello che devi dimostrare nei processi penali di questo tipo è che quello che è successo è assolutamente reale». Intervista a P.F., magistrato, 29 Ott 2019 «Purtroppo mio padre stesso è stato un perverso e ha causato l’isteria di mio fratello (tutti i sintomi del quale sono identificazioni) e di una delle mie sorelle minori». Sigmund Freud, Lettera a W. Fleiss, 8 Feb 1897 “Io le dicevo -Mi devi dire cosa ti ha fatto, dimmelo!- ma dentro di me pregavo – Non me lo dire, non me lo dire...-” Intervista a V.M., la madre   SCHEDA SPETTACOLO DENTRO Una storia vera, se volete. Drammaturgia e regia Giuliana Musso Con Maria Ariis e Giuliana Musso Musiche originali Giovanna Pezzetta Consulenza musicale e arrangiamenti Leo Virgili Scene Francesco Fassone Assistenza e direzione tecnica Claudio Parrino Produzione La Corte Ospitale Coproduzione Operaestate Festival Veneto Spettacolo ideato per La Biennale Teatro ATTO IV NASCONDI(NO) Si ringraziano per il supporto il Teatro di Artegna, l'Associazione Amici del Teatro, Servizi Teatrali S.r.l. - Casarsa (PN) PREZZI posto unico numerato venerdì, sabato e domenica € 38,00 posto unico numerato giovedì € 27,00 VENDITE ONLINE teatrocarcano... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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lampioneditrieste · 2 years
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24/09/22 - "Pasolini e la musica di Bach" - "Vorrei essere scrittore di musica" - R.Calabretto, rel.- D.Mason, dir.- Acc. d'Archi Arrigoni - Concerto - Teatro Pasolini - Casarsa della Delizia (PN)
24/09/22 – “Pasolini e la musica di Bach” – “Vorrei essere scrittore di musica” – R.Calabretto, rel.- D.Mason, dir.- Acc. d’Archi Arrigoni – Concerto – Teatro Pasolini – Casarsa della Delizia (PN)
Vi informiamo che sabato 24/09/22, ore 20.45, presso Teatro Pasolini – Casarsa della Delizia (PN), vi sarà il concerto dal titolo “Pasolini e la musica di Bach”, nelll’ambito del progetto “Vorrei essere scrittore di musica”. L’evento organizzato dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini insieme all’Accademia d’Archi Arrigoni, avrà come relatore R.Calabretto, D.Mason, direttore, Accademia d’Archi…
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pangeanews · 4 years
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“Dove non arrivi la parola del nostro mondo”. Pier Paolo Pasolini: nel giorno della morte parliamo di lui bambino, ragazzo
Il corpo di Pier Paolo Pasolini, dicono, muore il giorno dei morti del 1975, teatralmente scannato. Per ricordare il morto, voglio sondare gli esordi, l’utero poetico, la parola per sempre ulteriore, da subito. La parola bambina, bambolina. Nel 1990 Pier Vittorio Tondelli per l’allora “Premio Riccione Ater Teatro” organizzò una mostra, Ricordando Fascinosa Riccione, dove immaginava – questo è il bello – un canone ‘alternativo’ della letteratura italiana, coagulatosi lì, sulla Riviera romagnola, lungo l’Adriatico. Nel suo studio (titolo: Cabine! Cabine! Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica; il catalogo fu pubblicato da Grafis, poi ripreso, con altri materiali, da Guaraldi, nel 2005) antologizza Giorgio Bassani e Giovanni Guareschi, Filippo De Pisis, Sibilla Aleramo, Mario Luzi, Alfredo Panzini, Raffaello Baldini, Valerio Zurlini e Ippolito Nievo. C’è anche Pier Paolo Pasolini. Con una cartolina. Del 1930. Al padre. Dalla riviera di Riccione. “Forse sono le prime righe che possediamo di Pasolini. Certo non hanno alcun valore letterario, ma ci inteneriscono, chiedono quasi la nostra protezione, ci fanno immaginare il bambino Pier Paolo al mare con la madre, perso nei giochi di spiaggia, un po’ nostalgico della figura paterna”. “Carissimo babbo… conto i giorni che ci mancano per la partenza con le dita!… Arrivederci al mare! Desidero che venga questo momento per abbracciarti”. Carlo Alberto Pasolini morirà nel 1958, “passionale, sensuale e violento di carattere: era finito in Libia, senza un soldo; così aveva cominciato la carriera militare; da cui sarebbe poi stato deformato e represso fino al conformismo più definitivo”, ricorderà, adulto, PPP. Da Riccione, la moglie dettava lettere oblique: “…se ti sono proprio diventata così antipatica, come dimostri spesse volte, a causa della mia incapacità di trovare risorse contro il tuo disgusto”. Al mare si consumavano peripezie psichiche, plastiche crudeltà, esordi d’astio.
Sul ciglio dell’ultimo fiato, nel 1975, mentre monta Salò, termina La Divina Mimesis e si orienta alla morte, Pier Paolo Pasolini pubblica La nuova gioventù, con Einaudi. Ora il cerchio – l’anello o il cappio – è chiuso: Pasolini ripubblica La meglio gioventù come era uscito per Sansoni, nel 1954, il resoconto dell’alba poetica, la raccolta delle poesie friulane scritte dal 1941, meno che ventenne, al 1953. A questo mette altro, il sigillo. L’alba viene tumefatta di stimmate.
L’ultima raccolta poetica di Pasolini è la prima: ricalcata e rifatta. Il canonizzatore Pier Vincenzo Mengaldo ne parla come di “tenebroso rifacimento”, dove “il lettore non può non scoprire la dolorosa pulsione masochistica a ferire la propria immagine giovanile, come di un pittore che s’induca a sfregiare i suoi antichi dipinti”. Come se un pittore di beatissime Madonne tornasse sul loro immacolato corpo stuprandole, storpiandole, passando dai modi del Beato Angelico a quelli di Francis Bacon.
In realtà, più che lo scandalo (d’altronde, questo è Giovanni Giudici, “Pasolini è il poeta che dà ‘scandalo’, che vuole ‘dare scandalo’, perché senza ‘scandalo’ non si dà poesia”) oggi siamo rinvigoriti di meraviglia: ogni poeta, intuendo il proprio tramonto, profetizzando la morte, vorrebbe ritornare nell’utero della propria opera, scassandola, scassinandola. L’ultimo gesto poetico di Pasolini è in friulano, è la poesia Saluto e augurio, testamentaria, congedo dal linguaggio proprio – non natio, connaturato, ma della stirpe e del mito – e perciò dalla patria, dalla Storia, dalla vita: “A è quasi sigùr che chista/ a è la me ultima poesia par furlàn”. Il testo, prima di deporsi in volume, esce sull’“Almanacco dello Specchio”, nel marzo del 1975. Ha dei passaggi di tenera bellezza (che calchiamo nella traduzione italiana): “Tu difendi, conserva, prega:/ ma ama i poveri: ama la loro diversità./ Ama la loro voglia di vivere soli/ nel loro mondo, tra prati e palazzi// dove non arrivi la parola/ del nostro mondo; ama il confine/ che hanno segnato tra noi e loro;/ ama il loro dialetto inventato ogni mattina// per non farsi capire”. Pare un ritratto di Pasolini con l’autoscatto, il programma estetico e dunque esistenziale. Pasolini povero al mondo, che percorre l’esilio, mordendo il fango, odorando la stella.
Due parole ne bloccano l’atto: cunfìn, confine, e poi diversitàt, diversità. Di Pasolini, scrittore sconfinato, in effetti, sappiamo tutto, troppo, ne abbiamo scartavetrato la vita, già nudo lo abbiamo dissezionato, organizzando un ‘mostro’. Dimenticando le origini. Nato a Bologna, celebrato a Roma, Pasolini scopre la poesia in Friuli, a Casarsa della Delizia, la terra materna, dove nasce, appunto, poeta. E la poesia, per Pasolini, parla già una lingua ‘diversa’ e della magnetica diversità, si esprime in friulano, esercitando versi edenici, liquidi (la Dedica è alla “Fontana d’acqua del mio paese”, Fontana di rustic amòur), tesi tra Pascoli e Rimbaud, assoluti. In effetti, lo scopo di Pasolini, che nel 1945 fonda, a 23 anni, l’“Academiuta de lengua furlana”, con tanto di rivista fraterna (“Stroligut”) e dichiarazione d’intenti letterari (“Il Friuli si unisce, con la sua sterile storia, e il suo innocente, trepido desiderio di poesia, alla Provenza, alla Catalogna, ai Grigioni, alla Rumenia, e a tutte le Piccole Patrie di lingua romanza”), era quello di creare “una specie di linguaggio assoluto, inesistente in natura” (così nella Nota a La meglio gioventù). Da una parte Pasolini agisce come un nuovo ‘trovatore’, dall’altra esplicita una furia linguistica onnivora, joyciana, che tende all’“epoca inconsumata della coscienza” a “cose e fatti di una verginità sicura” (“Stroligut”, aprile 1946), una lingua propria, appropriata, privata, capace perfino di annientare l’italiano (“le versioni in italiano a piè di pagina”, ci spiega PPP, non sono sterili calchi ma “parte integrante del testo: stese con cura e quasi, idealmente, contemporaneamente al friulano”).
Il precoce esito, delicatissimo, di questa catabasi linguistica sono le Poesie a Casarsa, stampate in privato a Bologna, nel 1942, presso la Libreria Antiquaria Mario Landi, riconosciute immediatamente da Gianfranco Contini, che scrive sul “Corriere del Ticino” nel 1943, un articolo che ne benedice il genio (“in questo fascicoletto si scorgerà la prima accensione della letteratura dialettale all’aura della poesia d’oggi”) e poi, tra l’altro, su “L’Approdo”, nel 1954 (Dialetto e poesie in Italia): “Ciò che fa di lui un autentico félibre, come in Provenza o in Catalogna […] è che attorno a una linea melodica e concettuale carica ma semplice […] l’autore inventa una nuova fisicità verbale, una materia di poesia nel senso più letterale e artigianale”. A quella latitudine cronologica, comunque, Pasolini ha già compiuto il suo titanico atto intellettuale, la composizione, per l’editore Guanda, dell’antologia sulla Poesia dialettale del Novecento (1952). Prima di lui, il nulla o quasi, reperti folcloristici, raccolte più utili all’antropologia che alla letteratura. Nell’introduzione oceanica, che intende giustificare i dialetti come lingua ‘patria’ per davvero e non sibilo sinistro, carnevalesco, buono per la fiera e oppresso dall’educazione scolastica, PPP ci dice due cose (parlando di sé in terza persona, augusteo).
Primo: che il friulano era “una lingua non sua, ma materna, non sua, ma parlata da coloro che egli amava con dolcezza e violenza, torbidamente e candidamente”. Quindi: il friulano è frullato di linguaggio, invenzione alchemica. Secondo: che il friulano versificato dai ‘suoi’, i “félibri casarsesi”, non ha alcun legame “con le forme per definizione dialettali: il loro apprentissage poetico si compie tutto al di fuori del dialetto”. Al di là di “una educazione sentimentale condizionata quasi morbosamente dall’amore-nostalgia per il loro dialetto e la loro terra” ci si è educati alla corte di Pascoli, di Mallarmé, dei provenzali, di Machado, di Joyce (che muore appena Pasolini comincia a dar versi). Pasolini, poi, farà esplodere altri linguaggi, pressoché tutta la gamma della comunicazione, dal saggio al romanzo, dalla poesia al cinema, diventando avanguardia a sé, senza scuole né scolari. Bagliori di quella ferocia friulana si leggono sul rasoio di alcuni estratti autobiografici.
Nel 1953 Pasolini scopre un giovanissimo lirico. Ha sedici anni, viene dalla provincia di Verona, si chiama Cesare Padovani, scrive in dialetto veneto ed è un handicappato. Pasolini lo legge su “Oggi”, è a Roma, gli scrive, “sconosciuto e irrichiesto”, impulsivamente. “Non c’è niente di peggio di divenire subito ‘merce’. Se tu dipingi e scrivi poesie sul serio, per una ragione profonda e non solo per consolarti delle tue disavventure fisiche (o magari, come dicono, per ragioni terapeutiche…), sii geloso di quello che fai, abbine un assoluto pudore”. Poi instaura una fratellanza, “devi sapere che anche io a diciotto anni ho cominciato a scrivere dei versi in dialetto (friulano)”, sancisce un contatto-contratto tra diversità (“la mia malattia non era fisica né nervosa, ma psicologica”), invia al giovane Padovani la raccolta in versi Tal còur di un frut, pubblicata quell’anno, con una dedica cannibale (“A Cesarino Padovani come a un antico me stesso miracolosamente nuovo”), si designa, da diverso a diverso, in contrariata innaturalità, maestro. In altre lettere Pasolini disciplina i versi in dialetto di Padovani (“c’è implicitamente, dietro le tue parole, l’opinione errata che il dialetto debba servire a trasporti affettivi convenzionali e senza mordente”), gli indica gli studi da percorrere (“ti consiglio senz’altro il Ginnasio e il Liceo: le difficoltà le supererai”) e ne battezza il destino intellettuale (“credo di capire che in te prevarrà la vocazione critica su quella poetica”). Poi si scorda di lui, e della malia del friulano. Vi torna, appunto, prefigurando la fine, alla fine, come una stanza ancora virginea nello squallore della Storia, come una definitiva malinconia, tra la pugnalata e la salvezza. (d.b.)
*In copertina: ritratto di Pier Paolo Pasolini realizzato da Sandro Becchetti (la fotografia è tratta da qui)
L'articolo “Dove non arrivi la parola del nostro mondo”. Pier Paolo Pasolini: nel giorno della morte parliamo di lui bambino, ragazzo proviene da Pangea.
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persinsala · 7 years
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Fisiko | Fuori Luogo
Fisiko | Fuori Luogo
In arrivo il fine settimana, lungo e intenso, di Fisiko, ovvero i quattro giorni di Fuori Luogo dedicati alla danza e al teatro danza – quattro giorni di cattive azioni, necessarie e urgenti, che prenderanno sul palco del Dialma Ruggiero e il rifugio antiaereo Quintino Sella di via del Prione a La Spezia. (more…)
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fotopadova · 5 years
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Elio Ciol, un fotografo contadino
di Andrea Scandolara
-- Novant’anni all’anagrafe e 75 dedicati alla fotografia: soltanto Elio Ciol ha queste caratteristiche. Figlio d’arte ha cominciato a fare fotografia a 15 anni nello studio del padre, a Casarsa nella piana friulana, ma dopo ne ha fatta di strada anche se si è fermato nel paese natale. E’ un fotografo prevalentemente naturalista, paesaggista e di architettura, ma non solo; i suoi lavori sono esposti nelle maggiori gallerie e nei migliori musei del mondo, per non parlare dei meritati riconoscimenti che lo rendono famoso più all’estero che in Italia; ma qui non si vuole ripercorrere una biografia che merita ben altri spazi.
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 © Elio Cio, ln attesa - San Giovanni di Casarsa, 1959 (Coll.G.Millozzi)
Le immagini di Elio Ciol sono note a tutti e non si smetterebbe mai di ammirarle; molte foto colpiscono per quel bianco e nero insolito dato dalla pellicola all’infrarosso che lui usa sin dagli inizi della sua carriera. E’ stato Ciol stesso a spiegare il perché. Alla fine della guerra le forze militari alleate avevano cominciato a svendere ogni cosa dei loro rifornimenti che non serviva più; così il nostro fotografo, allora sedicenne, aveva comperato un grosso rotolo di pellicola che poi avrebbe dovuto tagliare per adattarla al formato della sua macchina 4,5x6 cm: ma era una pellicola all’infrarosso, gli americani la usavano per la fotogrammetria aerea ricavandone negativi da cm 24x24. Ciol sin dai primi scatti di paesaggi resta affascinato dalla resa tonale, serendipity diremmo oggi, che contribuisce a collocare il soggetto fuori dal tempo ed esalta la bellezza della natura che lui vuole sottolineare; l’infrarosso tende a distanziare la rappresentazione dal soggetto.
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© Elio Ciol, Sogni di prosperità - Morsano al Tagliamento, 1985 (Coll. G.Millozzi)
Giuseppe Turroni a questo proposito scrisse: “Tecnica e arte, secondo la concezione classica, procedono in Ciol di pari passo. La tecnica non diviene mai tecnicismo fine a sé stesso, e l’arte, dato che di arte si deve parlare per le opere fotografiche di Ciol, non assume mai le valenze aride e pretestuose dell’astrazione, della forzatura intellettualistica, del formalismo perentorio e grossolano.” (1)
Il paesaggio, nella serie Sculture e disegni nella campagna friulana, è una contemplazione della bellezza della natura, tema quanto mai attuale dopo Greta Thunberg, dove a volte i tronchi dei gelsi e le ombre assumono sembianze quasi antropomorfe e comunque evocano la presenza dell’uomo in un panorama ben più profondo di lui. A volte non ci si accorge della scala di lettura facendoci precipitare in un contesto ideale ben diverso da quello rappresentato. Lui vuole vivere “dove lo spazio è tutto ciò che ti circonda, dove regna un silenzio non artefatto ma naturale”. Qualcuno l’ha accostato ad Ansel Adams ma quando poi lui ha affermato di voler “fotografare soprattutto il paese dell’uomo” qualcun altro ha visto un accostamento a Paul Strand, autore di riferimento a metà degli anni ’50 del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia a cui Ciol aveva aderito.
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© Elio Ciol, Viti come disegni - M. Ramandolo, 1996 (Coll. G.Millozzi)
Ma forse Ciol è un’altra cosa, e cerca di farcelo capire quando dice: “Credo che la bellezza esista ovunque e che ciascuno può documentarla e comunicarla se la sa davvero guardare. Ciascuno di noi è stato posto al centro dell’infinito per poterlo osservare.” Per dirla con Paul Valèry, “un’opera d’arte dovrebbe sempre insegnarci che non avevamo veduto quello che vediamo”.
A lui interessa raccontare la bellezza e la dignità della sua terra e della sua gente. E’ un segno della sua friulanità?
Ancora Turroni (1): “Il Friuli ci viene incontro con una dolcezza pulsante e vibrante, secondo forme che la nostra immaginazione non aveva mai tenuto in considerazione. E’ come se vedessimo per la prima volta quei campi lavorati, quegli alberi, quei cieli, quelle nuvole, che altri avevano rappresentato con modi più comuni, anche se non banali e stereotipati. E’ come se Ciol inventasse la sua terra.” E Ciol aggiunge: ”Il senso religioso per me vuol dire contemplare, cioè sentire, verificare, vedere, vivere la realtà del mondo.” Carlo Sgorlon, friulano anche lui, sostiene che nelle sue fotografie “si trova una mescolanza di panteismo istintivo e di cristianesimo di superficie.” E aggiunge: “Ciol ha conservato intatta una componente culturale che gli uomini di oggi vanno perdendo, ossia il sentimento del rapporto tra l’uomo e la natura, anzi tra l’uomo e l’universo.” … “Ciò che egli sottolinea, con le sue splendide fotografie, è l’umiltà dell’uomo nei confronti della natura e le dimensioni sterminate dell’universo.” (2)
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 © Elio Ciol, Il teatro: orchestra ed edificio scenico - Palmira, 1996
Bastano questi motivi per dire che Ciol non è un fotografo di denuncia, non è un neorealista come i suoi colleghi all’inizio della carriera, nel paesaggio raramente si scorgono figure umane e se ci sono queste ultime non fanno parte del soggetto.
Come si diceva, più volte è stato accostato ad Ansel Adams, quasi suo contemporaneo, tanto che nel 1988 ha voluto fotografare proprio quel tempio naturale dello Yosemite National Park tanto amato da Adams. Ma le differenze sono troppe per giustificare questo accostamento, frutto forse di un’analisi superficiale: la sola comunanza del soggetto non basta per suggerirlo. Adams predilige l’idea di un paesaggio tattile, i dettagli pare di poterli toccare, Ciol “esprime un concetto di paesaggio in formazione e in lotta, che vive cercando la luce…” (3)
Ma l’analisi più limpida dei lavori di Elio Ciol è quella di Fabio Amodeo che ha cercato di collocare il nostro autore in un ben preciso momento storico. Partendo da Roland Barthes quando sostiene che la fotografia sia un intercettatore cronologico che ci costringe a raffrontarci con il trascorrere del tempo (la distanza dal momento dello scatto della foto che stiamo guardando) ha osservato che per conoscere il tempo degli scatti di Ciol bisogna leggere la didascalia. “Nelle immagini non ci sono mai elementi che possano concorrere a datare le fotografie. Le sue immagini non sono moderne, neppure antimoderne o postmoderne. Le foto di Ciol sono amoderne: appartengono a un mondo da un respiro più lento, imparentato con la crescita degli alberi, non con i ritmi che ci sono abituali. Ci portano in un altro ritmo temporale, non in un altro tempo.” (4)
Un fotografo contadino, potremmo dire.
Auguri Elio per i tuoi novant’anni, continua a farci sognare!
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 © Elio Ciol, La densità del silenzio-Assisi, 2009 (Coll. G.Millozzi)
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(1) Elio Ciol, Ascoltare la luce, Libreria Editrice IL LEGGIO, 2003
(2) Carlo Sgorlon, Elio Ciol, Cinquant’anni di fotografia, Federico Motta Editore, 1999
(3) Ian Jeffrey, Elio Ciol, Cinquant’anni di fotografia, Federico Motta Editore, 1999
(4) Fabio Amodeo, Elio Ciol, Ascoltare la luce, Libreria Editrice IL LEGGIO, 2003
 http://www.zam.it/biografia_Elio_Ciol
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allnews24 · 6 years
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Al concorso sull’ambiente coinvolti quasi 3 mila alunni Il teatro Pasolini di Casarsa ospiterà martedì, in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente, la cerimonia conclusiva del progetto scuola “Creattivi” promosso da Ambiente servizi ed Eco sinergie in collaborazione con Achab Group.
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cresy · 7 years
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Puglia da amare Quotidiano d’informazione
Presentazione del libro di Lino De Venuto:
“PASO Pier Paolo Pasolini – pallone poesia passione civile”
Sabato 25 Marzo presso Quintiliano La Libreria di Bari, Via Arcidiacono Giovanni 9, alle ore 18,30 verrà presentato il libro “PASO Pier Paolo Pasolini – pallone poesia passione civile” di Lino De Venuto, edito da Gelsorosso Editore
“ Pier Paolo Pasolini è morto quarant’anni fa, ma è come se fosse stato sempre presente nei dibattiti culturali di tutti questi anni: continua a graffiare le nostre coscienze, a dividere, a sollecitare (re)azioni spesso contrapposte. Coscienza critica di un’epoca, analista scomodo, acuto, anticonformista, disarmante e preveggente della società italiana, le sue tematiche e i suoi approfondimenti mostrano la loro impressionante attualità e intrecciano, di rimando, incessanti e continue riflessioni, anche conflittuali, ma sempre vive e feconde. Sceneggiatore, regista, pedagogo amato, calciatore, tifoso, scrittore capace di leggere e interpretare la complessità del proprio tempo, di coglierne l’essenza più profonda e nascosta, di osservare quello che agli altri scivolava sotto gli occhi: ma soprattutto un Poeta coraggioso, capace con la sua Poesia (in)civile di parlare di tutto e di condurre aspre battaglie sociali. Ma Paso, così come lo chiama l’autore Lino De Venuto, è anche uno sportivo ipercinetico e un innovatore nel Teatro: entrambi gli aspetti sono sviluppati nei due approfondimenti che aprono il volume, seguiti dal testo dell’omonima rappresentazione teatrale. Dalla fuga dall’Eden-Casarsa a Roma, in un periodo di grandi mutamenti sociali, la pièce teatrale coglie piccoli o grandi segmenti di alcune sue opere, attinge da diversi suoi scritti (anche lettere, sceneggiature, testi teatrali) che conservano intatta la propria vis polemica”
Sarà presente l’autore Lino De Venuto. Attore, regista, drammaturgo, conduttore di laboratori teatrali e progetti didattici. Ha interpretato ruoli quasi sempre da protagonista in spettacoli di autori classici e contemporanei. Ha curato adattamenti teatrali portando in scena: Bradbury, Ginsberg, Prévert, Quasimodo, Neruda, Borges…
Saranno presenti gli attori: Simone Bracci, Cecilia Ranieri, Nicolò Restaini e Giuseppe Trotta
Presenta Manlio Triggiani. Giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno. Da anni si occupa di studi delle tradizioni, di attualità e di cultura.
Quintiliano La Libreria DI MARINA LEO & C. S.A.S. Via Arcidiacono Giovanni, 9 – 70124 Bari Tel 0805042665 Facebook: La Libraia
— con La Libraia presso Libreria Quintiliano.
INFO FALEGNAMERIA FORTE – Viale Japigia, 8 – BARI – 3397874793 368492818
 di  Crescenza Caradonna
  “PASO Pier Paolo Pasolini – pallone poesia passione civile” Puglia da amare Quotidiano d’informazione Presentazione del libro di Lino De Venuto: “PASO Pier Paolo Pasolini – pallone poesia passione civile”
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djtubet · 2 years
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Dj Tubet: FinCumò Tour
Con l’avvento della bella stagione ripartono anche gli appuntamenti dal vivo in cui poter vedere il rapper friulano Dj Tubet impegnato in una serie di concerti che coinvolgono, scuole, rassegne culturali e festival.
Alcune date sono già state fissate altre saranno comunicate di volta in volta sui social dell’artista e su questo blog.
L’estate 2022 si preannuncia il vero ritorno alla normalità post Covid e sarà una bella occasione anche per ascoltare dal vivo il recente album Fin Cumò .
Dj Tubet #FinCumò Tour
MAGGIO :
14 Dj Tubet + Laca Collective @ Campeglio
17 Scuole di Codroipo
20 Scuole di Nimis
23 Palio Teatrale Studentesco - Ud
27 Scuole di Casarsa
30 Scuole di Tarcento
GIUGNO:
3 Scuole Campoformido
6 Scuole di Mereto di Tomba
8 Scuole di Ragogna
9 Scuole di Povoletto
9 JOHNNY SANSONE - Op. Act DJ Tubet | Anteprima Blues In Villa 2022
10 La Notte dei Lettori - Udine - Mattinata in corte Morpurgo
18 Museo delle case narranti Fvg - CCSR Campolonghetto - Chiarmacis
22 Come l'acqua de' fiumi - Teatro Miotto - Spilimbergo (Pn)
24 Terminal - Festival dell'arte in strada - Parco Moretti -Udine
LUGLIO
29 Udinestate - Circolo Nuovi Orizzonti Arci Udine Rizzi
AGOSTO:
14 Youtube the Google Generation - Monfalcone
SETTEMBRE:
2 FIUME IN CORSO - San Giorgio di Nogaro
9 Scuole di Tarvisio
18 Dialoghi Festival itinerante della Conoscenza - Cormons
21  FREESTYLE RAP! - Iniziano gli incontri del corso - Istituto Giudo Alberto Fano - Spilimbergo (Pn)
OTTOBRE
22 Conferenza 28 OTTOBRE 1922: LA MARCIA SU ROMA. CENT’ANNI DI STUDI E RICERCHE (mattina) - Teatro Palamostre - Udine
27 Leadership al femminile - Sala Riunioni dell’ISIS Malignani di Udine (Solo per pubblico scolastico)
NOVEMBRE
4  DI NUOVO NOI! - Laboratorio rap pomeridiano - Circolo Arci Nuovi Orizzonti - Udine
26 NOTE DI PACE - Teatro comunale di Talmassons (ud) - ore 15.30
DICEMBRE
1 ROCK HISTORY - Scuole Einaudi/Marconi - Staranzano (go)
7 RAP E FREESTYLE - Enaip Fvg - Pasian di Prato (ud)
18 CREAttivo #3 - Parco Gianni Rodari - Gorizia ore 11.00
20 ROCK HISTORY - Teatro Comunale - Monfalcone ore 10.30
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persinsala · 7 years
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Willy Willy Shake
Centinaia di studenti in scena al Civico di Spezia per Willy Willy Shake, esito finale del progetto Play! (more…)
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pangeanews · 5 years
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“Ci siamo sentiti tanto vivi da credere di poter vivere per sempre”: il genio atrocemente precoce di Pasolini. Intervista a Ivan Crico
Di implacabile bellezza, una vertigine biblica. Avvicino I Turcs tal Friùl, dramma friulano di Pier Paolo Pasolini del 1944, pubblicato postumo nel 1976, meritoriamente edito, ora, da Quodlibet, ai testi biblici più possenti, gli atroci, Giobbe, Isaia, Kohelèt. Sottolineo certe frasi, di ulcerata meraviglia, tradotte con talento, in versi, dal poeta – e pittore – Ivan Crico. “La morte/ oggi ci attende in ogni dove. Qui/ intorno a noi, Cristo. Dove ci siamo/ sentiti tanto vivi da credere/ di poter vivere per sempre”; “Pregare e lavorare;/ non altro ci resta… come/ sempre siamo vissuti morire”; “quello che prima/ non capivo del Signore, adesso/ lo capisco: anche il più grande/ mistero, anche le cose più nascoste,/ anche la morte”. Vanno sottolineate queste frasi, teologia cruenta, ferocia estatica, cielo di creta, Dio con lingua d’argilla. Come si sa, Pasolini esordisce nell’alveo friulano, con le Poesie a Casarsa (1942) e lì muore (nel recupero, allucinato, delle “Poesie friulane” in La nuova gioventù, nel 1975), segno di una indifesa fedeltà alla giovinezza e a quella fiammata ispirazione. Sulla dignità della poesia in lingua ‘altra’ Pasolini edifica il suo primo sforzo critico – l’antologia sulla Poesia dialettale del Novecento, 1952 – con perizia poliedrica (il 31 luglio 1953 al giovane poeta veronese, e paraplegico, ‘Cesarino’ Padovani, Pasolini scrive, con cannibale dedizione, “La prosa della tua lettera mi piace assai di più dei tuoi versi dialettali, che, a parte una certa goffaggine e ingenuità infantile… rivelano la presenza di influenze, chiamiamole letterarie, non buone. C’è implicitamente, dietro le tue parole, l’opinione errata che il dialetto debba servire a trasporti affettivi convenzionali e senza mordente, conditi da un’obbligatoria intonazione comica. Cosa che avrà entusiasmato i nuovi veronesi di “musa triveneta”. Essi sono dei dilettanti e dei superficiali: magari simpatici come persone, ma molto impreparati e faciloni come letterati. Tu hai probabilmente le doti per metterli per una strada più seria”). In fondo, è grazie all’audacia critica di Pasolini se oggi riconosciamo in Franco Loi, Albino Pierro e Raffaello Baldini alcuni dei poeti grandi del secondo Novecento e in Pierluigi Cappello – che del me donzel di PPP è figlioccio – e Flavio Santi e Fabio Franzin e Isacco Turina, per dire di alcuni, i talentuosi di oggi. Dunque, è perfino necessario, ineludibile, il progetto editoriale costruito per Quodlibet da Giorgio Agamben, che in ‘Ardilut’ – araldica pasoliniana – pubblica testi in lingue altre, d’altrove, rintracciando nel multilinguismo l’origine stessa della letteratura italiana (“Era stato Dante a porre le origini della poesia italiana sotto il segno del bilinguismo…”). La curatela del testo di Pasolini, che si basa sulla storia – foriera di leggende e di canti popolari – dell’avanzata dei “Turchi” – cosiddetti, a indizio di sterminata ferocia – in Friuli, fino a Casarsa risparmiata, è impeccabile. Alla traduzione ‘di servizio’ di Graziella Chiarcossi, infatti, fa il paio quella in versi del poeta Ivan Crico, che esalta la forza del friuliano secondo Pasolini. Il testo, costruito assecondando la snervante attesa dell’invasore, secondo i lamenti degli abitanti – il crisma, appunto, che sta tra il coro della tragedia greca e quello delle Lamentazioni bibliche – ha abissi bianchi, “Ma, qui, in fondo a/ questi campi, tra quattro case/ grigie di fumo sperduti, in un buco/ del Friuli, come può il Signore/ ricordarsi di noi? Si nasce. Si vive./ Si muore. E non sa niente di noi./ Ci uccidono; e Lui non sa nulla”.
Come si colloca questo ‘atto sacro’ di Pasolini, che cosa è, da che storia arriva?
Il testo teatrale di Pasolini, un atto unico con un’impostazione frontale che si rifà al teatro misterico medievale (scritto a ventidue anni nel maggio del 1944 e pubblicato postumo nel 1976), si ispira ad un fatto reale: la tragica invasione del Friuli, nel settembre del 1499, da parte di truppe provenienti in gran parte dalla Bosnia e definite in modo generico, dalle cronache del tempo, “i Turchi”. Le incursioni, sempre rapidissime e violentissime, in realtà furono più d’una, distribuite nell’arco di quasi due secoli. Tutte, però, contraddistinte dalla medesima sistematica ferocia nel distruggere interi paesi, bruciandoli, uccidendo, violentando, imprigionando ragazzi e ragazze per poi rivenderli, come schiavi, nei marcati d’oriente. La scia insanguinata di terrore lasciata dietro di sé da questi terribili cavalieri continuò, fino alle soglie del nostro tempo, ad alimentare le paure dei friulani nei racconti nelle stalle, nelle osterie, ricomparendo perfino in certe cantilene infantili, nei modi di dire. Pasolini raccoglie memorie orali, studia le descrizioni delle stragi nei documenti dell’epoca, ma soprattutto rimane molto colpito da una lapide, conservata nella Chiesa di Santa Croce a Casarsa della Delizia, in cui alcuni paesani ricordano il “miracolo” che risparmiò il paese e la promessa di erigere l’edificio sacro in segno di ringraziamento alla Beata Vergine. Con tanto di nomi e cognomi che diventano i protagonisti del dramma pasoliniano. Il giovane poeta scrive di getto questo capolavoro in un frangente altrettanto drammatico: sotto i bombardamenti, la minaccia delle truppe naziste; e quel lontano episodio diventa un pretesto per parlare del ripetersi, nella storia, di questa voragine immensa – che annienta ogni certezza e tutto trascina nel suo fondo buio – che è la guerra.
C’è un senso del sacro, fin dalla preghiera iniziale, incessante, e una domanda di Dio tra chi non lo capisce (“Oggi noi / ci accorgiamo che molto più in alto / Tu sei della nostra pioggia e del sole/ e di tutti i nostri affanni. La morte / oggi ci attende ovunque”) e chi non capendo lo cerca. Insomma, si tratta di pensieri austeri, australi, che in italiano, probabilmente, rischiano di essere astratti rispetto al terreno dialettale.
In questo particolare caso, il rischio di distanziarsi troppo dal testo originale, in termini di astrazione, non è stata in realtà la principale preoccupazione perché il friulano impiegato da Pasolini, come è stato definito da una grande studiosa locale, Andreina Ciceri, amica del poeta e prima curatrice dell’opera, è un friulano estremamente letterario, con echi leopardiani e addirittura dannunziani, “reso classico, candido, assoluto dalla sapienza elettiva-selettiva e da qualche inserto arcaicizzante”. Una definizione perfetta per descrivere un linguaggio decantato, depurato, illimpidito come un diamante grezzo da una sapiente opera di politura. Il friulano scritto di Pasolini non è il linguaggio mimetico che ricercherà, qualche anno più tardi, frequentando le degradate borgate romane. Qui il friulano scritto sta a quello parlato come la lingua purissima, assoluta di Penna confrontata con la nostra lingua di ogni giorno. Con la differenza che il friulano, arcaica lingua romanza costellata da dolci palatalizzazioni, dittonghi, straordinari arcaismi, è comunque una lingua estremamente musicale, anche nel suo darsi più quotidiano ed umile, che Pasolini sapeva mettere in risalto e far ‘cantare’ come nessun altro era mai riuscito a fare prima di lui.
Che armi linguistiche hai adoperato, quindi, per tradurre in italiano questo Pasolini?
La preoccupazione di Agamben, quando mi ha proposto questo lavoro in forma poetica, era quella di tentare di riflettere in italiano una medesima, fluida, sospesa musicalità, che nella traduzione letterale spesso, in modo evidente, si perdeva quasi del tutto. Anche in una traduzione splendida, come quella approntata da Graziella Chiarcossi, che permette in ogni caso al lettore di farsi un’idea molto precisa del testo originale. Come procedere quindi? Nel testo pasoliniano vi sono due brevi intensissimi momenti lirici, i “cori dei Turchi”, che sono scritti in endecasillabi giambici, che ho proposto da subito di prendere a modello. Casualmente, proprio in quei giorni, la Valduga presentava a Pordenone la sua interessante traduzione per Einaudi delle poesie milanesi del Porta, caratterizzata da un uso sapiente dell’endecasillabo e della rima. Parlai delle mie impressioni di lettura con Agamben, che aveva già letto il testo, e convenimmo che non era un modello applicabile a questo lavoro: il rischio di creare delle forzature, obbligando un testo così lungo all’interno di una forma predeterminata, rendendolo poco scorrevole, era troppo grande. Così proposi di lavorare con versi liberi, ricercando una musicalità simile a quella dell’originale, a costo di invertire interi periodi, tenendo però sempre in mente una certa durata similare del verso che poi spesso, ma non sempre, in modo non predeterminato, coincideva con quella della metrica adottata nei “Cori”. Scrivendo, ho pensato anche ad alcuni ‘maestri di stile’ di Pasolini, da Pascoli a Penna a Caproni, con uso frequente, tipicamente pasoliniano, dell’enjambement ed un impiego, in modo sempre assai parco, della rima (a volte anche non immediatamente percepibile), sia interna o, a volte, anche molto distanziata.
…e la scelta, così particolare, di una traduzione in versi?
Si tratta, come avevo accennato, di un’intuizione di Agamben. Che mi è sembrata da subito, per quanto ardita e rischiosa, una strada interessante da percorrere, potendo anche contare sui suoi preziosi, sempre puntuali consigli. Poi, a traduzione quasi completata, mi sono imbattuto in questa osservazione di Andreina Ciceri che, all’improvviso, ha illuminato con una nuova luce tutta questa operazione: “Circa l’estrema affinità, in Lui, tra prosa e poesia, sono rivelatrici alcune pagine dei suoi manoscritti dove, alla redazione in prosa segue o si affianca lo stesso testo trasposto in ritmi e versi, con pochissimo scarto quantitativo”.
Un’altra novità di questa edizione è la revisione critica ed una nuova traduzione filologica dell’opera.
Sì. La cugina di Pasolini, la filologa Graziella Chiarcossi, ha portato avanti in questi anni un approfondito studio comparativo delle varie redazioni manoscritte de I Turcs tal Friul, apportando integrazioni e correzioni significative rispetto alle edizioni precedenti. Nel volume di Quodlibet è riportata anche una sua autorevole traduzione letterale del testo, fondamentale per aiutare il lettore interessato ad un confronto diretto con il testo originale in lingua friulana.
La poesia, qui, si muove tra dimensione teatrale, drammatica, e teologica, furibonda (“come può il Signore/ ricordarsi di noi?”), in una ricerca della verità che scortica (“La sera, quando rientro/ dai campi, in cima al carro colmo/ di fieno, mi sembra di toccarlo/ con le mani il Signore, nel cielo”). Da una parte, mi pare prefigurare l’opera intera, polimorfica, di Pasolini, dall’altra, in fondo, che la poesia non sia altro che questo. Dimmi.
In effetti, rileggendo a fondo questo testo esemplare, che lo stesso Pasolini considerava «forse la migliore cosa che io abbia scritto in friulano», ci si rende conto che, in nuce, qui già troviamo molti temi con cui il poeta tornerà a confrontarsi per il resto della sua vita. Qui, all’incrollabile (sincera oppure di facciata) fede popolare che anima alcuni protagonisti della vicenda si contrappone, sempre, il dubbio, che spesso sfocia nell’imprecazione, nella bestemmia. Bestemmia che però è anch’essa alla fine un atto, forse ancor più forte e cosciente, di fede e speranza di poter cambiare – magari a costo della propria vita – il corso delle cose. Presentando questa edizione, il curatore della collana ci ricorda che “Sotto l’apparenza di un’evocazione storica, è tutto il mondo di Pasolini che I Turchi in Friuli mette in scena in un inestricabile ordito di elementi personali (i protagonisti portano lo stesso nome della madre Susanna Colussi) e motivi ideali: l’appassionata fede religiosa e la rivolta contro la Chiesa, l’amore per la vita e la fascinazione per la morte (l’uccisione di Meni Colùs alla fine del dramma sembra annunciare quella del fratello Guido solo un anno dopo), l’impegno nell’azione e la fuga nella preghiera. E non è certo un caso se tutti questi motivi, almeno in apparenza contraddittori, si compongono in una parola che è la stessa che il poeta molti anni dopo avrebbe proposto come titolo per la raccolta delle sue poesie complete: bestemmia”.
*In copertina: Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino, scatto tratto dalla mostra fotografica “Poeti a Roma”.
L'articolo “Ci siamo sentiti tanto vivi da credere di poter vivere per sempre”: il genio atrocemente precoce di Pasolini. Intervista a Ivan Crico proviene da Pangea.
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allnews24 · 7 years
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A Casarsa va in scena “La valigia dei ricordi” Si chiama “La valigia dei ricordi” lo spettacolo che andrà in scena oggi, alle 15.30, al teatro Pier Paolo Pasolini di Casarsa, con l’attore Carlo Pontesilli (nella foto) e la partecipazione degli utenti del centro “Fruts di un timp” per persone malate di Alzheimer.
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allnews24 · 7 years
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Casarsa, il portaombrelli antifurto in edifici comunali e a teatro CASARSA. Niente più furti di ombrelli negli edifici comunali e al teatro Pier Paolo Pasolini: l’amministrazione civica ha acquistato alcuni esemplari di “Ombrellosicuro”, ideato e brevettato dal ventenne casarsese Federico Morello, premiato come “Giovane talento” nella recente cerimonia del Cittadino dell’anno. «La locale ditta Federico Morello – afferma l’amministrazione – ha ideato,... Continua su messaggeroveneto
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