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silviascorcella · 5 months
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Antoine Peters, “Space Garments”: abiti e spazio sono senza confini, come l’ottimismo
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Accadono cose sorprendenti nell’universo creativo di Antoine Peters! Ne varchi la soglia e non ne vorresti uscire più, perché qui, insieme a lui si possono indossare giochi divertentissimi per affrontare temi e riflessioni serissime: e non c’è mai un solo vincitore, ma vinciamo tutti. Tutti insieme, sempre. Che cosa si vince? Un premio importantissimo: il sorriso per affrontare con ottimismo granitico la negatività dilagante.
L’universo creativo di Antoine Peters, infatti, sembra fatto della stessa sostanza del mistero buffo.
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Dentro, nel cuore, c’è la sua ricerca spasmodica, entusiasta, instancabile, su concetti così complessi che sfiorano l’inaccessibilità del mistero, che iniziano nella moda, si moltiplicano nei capi d’abbigliamento e negli oggetti di design, fluiscono nelle stampe e nelle stoffe, attraversano il corpo e si espandono nello spazio, si allacciano alla musica, si mostrano nel video, discutono con l’arte, si mettono in relazione tra loro, rivolgono domande a noi, sconvolgono gerarchie, ribaltano preconcetti, abbattono pregiudizi, sconquassano confini mentali, disciplinari, sociali.
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Fuori, c’è il divertimento buffo delle sue creazioni, collezioni, installazioni: fatte di forme bizzarre, colori vibranti, trovate irriverenti, intenzioni scherzose, provocazioni giocose, approcci accoglienti, invenzioni sorprendenti, sperimentazioni stupefacenti. Architetture allestite col principio della semplicità per far passare con immediatezza e leggerezza i messaggi di positività.
Fuori ci siamo anche noi tutti che veniamo invitati dentro, con gentilezza, a prendere parte al grande gioco serissimo di Antoine Peters: e il suo invito è proprio come un abbraccio di cui ci si può fidare. E a cui ci si può affidare.
L’invito più recente ad immergerci - letteralmente! - nel suo mondo è un progetto che s’intitola “Space Garments”: già il nome è premessa, e promessa, di un’intensa riflessione sugli abiti, lo spazio, il corpo a cui capita ci starci nel mezzo, le loro relazioni e le nostre percezioni. Ma prima di inoltrarci in quest’alchimia, concediamoci un percorso breve ma intenso, nella sua biografia personale e creativa: al fine di cogliere e goderci  al meglio quello che il progetto ha da comunicarci.
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L’origine biografica di Antoine Peters ha le radici in Olanda, nato e cresciuto nella campagna di Vorden, vive e lavora ad Amsterdam. L’origine creativa inizia nella formazione all’Accademia d’Arte di Arnhem, prosegue al Fashion Institute, si plasma con l’esperienza da Viktor & Rolf come fosse un’inevitabile affinità elettiva, e matura ben presto nella consapevolezza di un mestiere in cui la moda è un mondo felice di partenza su cui innestare il dialogo euforico con altri mondi creativi. Viene accolto presto e con successo all’Amsterdam Fashion Week: ma la passerella non è il posto del trionfo, piuttosto è un ponte per collegare le numerosi direzioni e visioni anticonvenzionali della sua creatività che si rivolgono alla collettività.
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Antoine Peters, infatti, ha un solo scopo chiarissimo: darsi la possibilità di innescare il cambiamento positivo nel mondo, a proposito di tematiche molto serie come i rischi dell’idealismo, i danni del consumismo, le ingiustizie dei preconcetti sociali, il vizio dell’impazienza di produrre opinioni e scagliare giudizi, la necessità di riscoprire l’intimità con con noi stessi e l’accoglienza con gli altri. L’arma che usa ha come grilletto la diffusione di un piccolo sorriso: in pratica, uno strumento di distrazione di massa dai meccanismi negativi della realtà.
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Antoine Peters ci sposta i punti di vista da davanti agli occhi: ci trattiene a riflettere, ci guida a riconsiderare i pensieri generati dalla frenesia, ci sorprende per migliorarci mentre ci divertiamo. Per questo il suo immaginario non ha niente a che fare con intellettualismi elitari: con lui tutto è pop, la cultura popolare è la sua fonte d’osservazione, il casualwear è la sua fonte di progettazione, l’ironia lieta è la sua lingua d’espressione, anche quando si spinge avanti nella sperimentazione.
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Racconta che qualsiasi cosa, in qualsiasi momento nutre la sua immaginazione: tutto finisce dentro a delle scatole dedicate all’ispirazione, ma che si chiamano ‘scatole della traspirazione’ perché il lavoro da fare poi è questione di fatica e dedizione. Per raggiungere ogni volta un effetto straordinario attraverso l’immediatezza dell’ordinario. Come quella prima volta che è diventato famoso col progetto “A sweater for the world!’: una felpa enorme fatta per accogliere due persone, portata in giro per accogliere più individui possibili, per accoppiare più differenze possibili e dimostrare che la tolleranza è possibile. O come quando con “One Man Show”, Antoine Peters ha deciso che avrebbe saltato il giro sulla giostra semestrale della fashion week perché aveva bisogno di impiegare il tempo per sistemare il suo brand, e usare il tempo extra per imparare a fare la maglia, tra cui la stessa maglia con cui ha gironzolato per i party fashion.
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Come quando fa collezioni dai titoli surrealisti come gli abiti: in “Turn Your Frown Upside Down” invita tutti a capovolgere il broncio, mette alle modelle un nasone da clown ma in paillettes rosa nude e diffonde gli smile sugli abiti; in “To Make An Elephant Out Of A Mosquito” gioca con gli estremi, dimostra che è tutta questione di percezioni, e che se ingigantisci una zanzara si trasforma in un elefante, e viceversa un elefante può essere rimpicciolito nella metamorfosi della fantasia fino a diventare una stampa minima come un insetto; in “The World is Flat” celebra il primato di essere il primo fashion designer a presentare una collezione col video pop con una vera canzone pop, per mostrare una collezione dove tutto è davvero pop e tutto passa dalla tridimensionalità alle due dimensioni piatte come le stampe, persino gli abiti, gli accessori, le modelle; in “Fat Poeple are harder to kidnap” scompone la camicia di forza, sperimenta con quel che ne resta comprese maniche di 5 metri, tappa la bocca alle modelle con scotch a forma di sorriso, crea stampe come fossero lettere di riscatto con lettere prese da brand fashion e multinazionali del food, gioca con gli estremi delle dimensioni per affrontare l’annosa questione del grosso contro snello non per dare una risposta, ma per spalancare la domanda.
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O ancora, come quando fa installazioni che sembrano minimali in apparenza, ma nell’essenza sono ricche di sperimentazione: ad esempio il primo “Lenticular Dress” con cui realizza il desiderio di trasferire la tecnica lenticolare dalla carta alla stoffa, e ci riesce con le pieghe creando l’illusione ottica di molteplici pattern che sfumano l’uno nell’altro a seconda del movimento, mentre riesce anche nell’intenzione di incoraggiarci a sospendere il giudizio perché niente è come appare a prima vista, ma tutto può cambiare a seconda del punto di vista. Un concetto ribadito e sviluppato in “Hey, Wait a Minute!” dove c’è una versione 2.0 del Lenticular Dress che è un piccolo capolavoro di origami giapponese dipinto a mano, con l’importante missione di racchiudere due facce, una tutta nera e l’altra multicolore, l’una che muta nell’altra col movimento, e così facendo ci invita, noi spettatori, a rallentare i pensieri che sganciano giudizi frettolosi, e ad accertarci nel frattempo che la negatività può essere allacciata alla positività, e viceversa.
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Torniamo dunque all’invito più recente che, come accennato, ha come titolo “Space Garments”: un progetto che ci accoglie in una dimensione che non c’è. O meglio, che non è tangibile ma perfettamente intelligibile, non la possiamo abitare ma la possiamo visualizzare, grazie alla tecnologia virtuale che ha tradotto quello che l’ingegno di Antoine Peters continua ad allestire nella sua mente da almeno vent’anni, per l’occasione della Dutch Design Week riassunto in dieci affascinanti proposte.
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L’attributo non è affatto casuale: si tratta di mesh-up tra l’abbigliamento e lo spazio che nascono proprio dal fascino potente che i capi, gli oggetti, il corpo, lo spazio, le relazioni che intessono, le riflessioni filosofiche che stimolano, i punti di vista che sbloccano, i suggerimenti sociali che forniscono, esercitano con vigore e passione su Antoine Peters.
Se proprio dovesse esserci una gerarchia, ecco: per Antoine Peters lo spazio intorno ad un abito è importante tanto quanto l’abito, perciò non è detto che sia importante che l’abito sia indossabile, è più importante, almeno secondo lui, esplorare le interazioni tra tutti gli elementi, compreso il corpo che ci si trova in mezzo, dentro l’abito e nello spazio.
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Sembrano esercizi visionari: gli abiti vengono stirati, distorti, deformati, tagliati, avviluppati, espansi, riconfigurati, le nostre percezioni vengono sfidate ad abbandonare le concezioni tradizionali per abbracciare nuove possibilità, per considerare nuovi significati dei vestiti, dello spazio, del fatto che il nostro corpo potrebbe non essere così necessario a definire i confini, tanto che potremmo ritrovarci ad indossare un intero pavimento o ad assistere ai nostri pantaloni che si estendono a occupare tutta la stanza. Realismo e astrazione si fondono per confonderci: che è il modo migliore per rinfrescare gli occhi, rigenerarci i pensieri, ricollocare i confini sempre un po’ più salvificamente in là.
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All’ingresso dell’universo creativo di Antoine Peters potrebbe esserci una grande insegna, ovviamente coloratissima: con su una scritta ispirata al celebre motto latino “Omnia vincit amor”, ma mettendo “ottimismo” al posto della parola amore, che tanto ci starebbe già felicemente compresa dentro.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Litkovskaya pre p/e 21: sembrano sbagli, invece sono trasformazioni
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La moda come fosse un diario del tempo vissuto, una sorta di taccuino con pagine in stoffa in cui gli eventi esteriori e le emozioni interiori, le sfumature variegate delle culture e le intemperanze degli stili di vita vengono annotati con l’acutezza della creatività e poi trascritti con gli strumenti della sartoria: così accadeva fino al termine del secolo scorso, quando l’evoluzione sociale e del gusto componeva capitoli di stile ben scanditi dalle decadi estetiche, fintanto che il racconto non è esploso nel contemporaneo caleidoscopio affollato di storie e trend stilosi.
Così torna a succedere ora, in quest’esordio così intenso, di certo provante e al contempo stimolante, della seconda decade del nuovo millennio: l’imponente accadimento della pandemia ha risvegliato l’urgenza spontanea ad annotare nel taccuino della moda quel che dall’immersione nel flusso di esistenza e coscienza imposto dal lock-down è affiorato nella consapevolezza.
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Ogni fashion designer ha collezionato le proprie suggestioni, ha ricomposto il proprio insegnamento e l’ha plasmato in un messaggio attraverso il proprio linguaggio creativo: e anche Lilia Litkovskaya non si è sottratta al richiamo positivo della sensibilità. Lei che dal 2006 guida l’allestimento della sua ricerca stilosa attraverso le creazioni del brand che porta il suo cognome e che, allo stesso tempo, porta anche la sua determinazione all’individualità d’espressione, ha ascoltato con cura le riflessioni e le suggestioni che l’immobilità improvvisa le ha suggerito: e le ha trascritte nel carosello di abiti della pre p/e 2021 che proprio in tempi di pandemia è stata concepita.
Ricerca, ripensamento, rinascita. E, ça va sans dire, riciclo. Son queste le parole-chiave che guidano l’ispirazione alla collezione, nata per l’appunto come reazione costruttiva all’esperienza distruttiva della pandemia: non  c’è un titolo ad indirizzare il racconto, ma bastano le creazioni e i segni distintivi che portano indosso per diffonderne il messaggio. Tutto, infatti, è frutto di una dichiarazione d’intenti che inizia dalla decostruzione delle forme e delle silhouette riconoscibili: Litkovskaya smonta la superficie conosciuta degli abiti così come la pandemia ha smontato la nostra percezione della quotidianità, sfalda gli elementi che partecipano alla conformazione di giacche, camicie, abiti, bomber, gonne, così come il lock-down ha sfaldato i nostri gesti, comportamenti e pensieri che costruivano la nostra routine.
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Tutto nella collezione crolla, come se d’improvviso la sicurezza sartoriale si fosse inceppata, così come son crollate le nostre certezze materiali: eppure, il bello di sfaldare l’apparenza è scoprire le virtù della sostanza nascosta sotto, per questo quelli che sembrano sbagli da modellista sono in verità la dimostrazione del nuovo che può nascere dalla trasformazione.
Sono infinite le possibilità di ripensamento e ricostruzione della nostra esistenza che ci sono offerte: è questo che dichiarano i resti delle maxi camicie scomposte, i colletti appesi alle spalle come decorazione, le maniche ricomposte in modo che possono essere infilate o avvolte alla vita come un abbraccio che si stringe in un fiocco, con lo stesso approccio componibile si comportano le maniche dell’ampio bomber in seta, mentre il classico tessuto a righe da camiceria maschile ripiegato fino a plasmare un minidress senza spalline.
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Intanto un taglio netti fende la superficie maglia e disegna un motivo delicato sul petto, così come la tecnica della scoloritura viene usata a mo’ di metafora per aggredire la superficie colorata della stoffa e grattarne via la patina artificiale per rivelare la verità di sfumatura cromatica originale: gesti di purificazione esteriore per incoraggiare il rinnovamento interiore.
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A proposito di rinnovamento, Litkovskaya prosegue il percorso di sostenibilità che aveva già intrapreso: anche in questa collezione compaiono capi nati dal riciclo di tessuti di giacenza, capi vintage e campioni inutilizzati, intessuti in una tela nuova da cui son nate la giacca cropped e la mini-gonna.
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È l’occasione giusta per approfittare della leggendaria tabula rasa su cui scrivere nuovi valori: una  sorta di tela bianca, come quella del completo in lino tinta a metà del color azzurro carta da zucchero, un invito sincero a ritrovare e indossare la serenità.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Giuliana Mancinelli Bonafaccia: Dihedra e Fine, la bellezza è purezza
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Ogni nuova collezione nata dalla bravura preziosa di Giuliana Mancinelli Bonafaccia è una nuova occasione di esplorazione di quella peculiare suggestione in cui la poesia della ricerca si allaccia alla concretezza. Le sue sono opere di fashion jewelry pregiate nella sostanza orafa artigiana, e felicemente riconoscibili nell’apparenza d’ispirazione al contempo potentemente essenziale, eppur profondamente sofisticata: creazioni che mostrano la bellezza con un gesto ribelle di semplificazione meticolosa, che plasmano la forma con un gesto di design che è un progetto sempre rinnovato di sinfonia tra funzione decorativa ed estetica stilosa.
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Quella di Giuliana Mancinelli Bonafaccia è un’intenzione creativa che, nel caso delle collezioni più recenti, si aggancia ancor più forte al desiderio di purezza: che non è il minimalismo spoglio, bensì è la consapevolezza di concedere alla geometria l’autorevolezza affascinante di portare in superficie i suoi significati più autentici, concentrandoli in una manciata di creazioni dal gusto pulito perfettamente contemporaneo, squisitamente personale, immancabilmente originale.
Architettura e natura: ecco il binomio alla base dell’indole creativa di Giuliana Mancinelli Bonafaccia, che guida alla collezione ultima, ribattezzata Dihendra: un nome che a scomporlo nei suoi strati linguistici svela l’appartenenza al lessico della geometria, esattamente come accade per il simbolo che, in qualità di logo del brand, da icona rappresentativa del mondo di Giuliana Mancinelli Bonafaccia diviene anche fil-rouge della collezione. Ovvero: l’icosaedro.
La vedete, dunque, quella che a un primo sguardo sembra una borchia, un bullone plasmato nella materia preziosa, e che si sposta lungo le linee di orecchini, anelli, bracciali e pendenti, per andarsi ad incastonare in punti sempre diversi?
Ecco, la sua origine ha per l’appunto a che fare con l’icosaedro: parola complessa, che rievoca il suono antico della lingua greca che gli ha dato il nome tecnico. Ma anche un significato che dal pratico sfuma nel mistico, ad opera soprattutto di Platone, il quale l’ha inserito tra i cinque poliedri regolari, figure che nella loro simmetria perfetta sono gli elementi fondanti della geometria, ma anche della natura del mondo di cui siamo parte integrante. Per indagare più nel profondo bisogna leggere il dialogo intitolato “Tmeo”, l’opera scritta in cui Platone illustra l’opera di generazione dell’universo da parte del Demiurgo che assume i cinque poliedri in virtù delle loro proprietà associandoli ai cinque elementi della natura: «alla terra diamo la figura cubica, perché delle quattro specie la terra è la più immobile, e dei corpi il più plasmabile […] e poi all’acqua la forma meno mobile delle altre (icosaedro), al fuoco la più mobile (tetraedro), e all’aria l’intermedia (ottaedro): e così il corpo più piccolo al fuoco, il più grande all’acqua, e l’intermedio all’aria […] Restava una quinta combinazione e il Demiurgo se ne giovò per decorare l’universo (dodecaedro)» Perfette sono le figure geometriche dei poliedri regolari, perfetta è la natura: ecco il principio di totale, perfetta armonia che li unisce.
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Nel cuore di Dihendra c’è un elemento essenziale di tutto questo, ovvero l’angolo diedro: concetto tecnico ben comprensibile a chi l’architettura e le sue discipline tecniche le pratica con saggezza, ma per noi tutti ci basti immaginarlo come l’estensione del concetto di angolo nello spazio. Ed in effetti, come fosse un gioco di affinità, i gioielli della collezione sembrano essere l’estensione nello spazio del concetto di bellezza espressa nella purezza geometrica e nella fattura preziosa dei dettagli: linee asciutte che abitano lo spazio intorno al corpo costruendo forme tridimensionali, così nascono gli orecchini chandelier, e quelli curvilinei che si appigliano a uncino, le maxi-creole impreziosite da perle e cristalli, i cuff che si arrampicano grintosi sul bordo dell’orecchio.
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E ancora: i bracciali a forma di scudo, i pendenti e gli anelli che sembrano sospesi sulle dita, tutti realizzati in ottone placcato oro 18kt, rodio e rutenio ultrablack La ricerca di purezza s’impreziosisce nella linea Fine: sembra quasi fluttuare e brillare nell’aria la sfera che pende dalla collana e dagli orecchino sottili, che culmina sull’anello sottile affianco alle fedine preziose. Creazioni plasmate in oro  9kt, 14kt e 18kt e arricchite dai bagliori della lavorazione a diamantatura fatta a mano.
E mentre lo stesso Platone, nel Timeo, a proposito dei suoi poliedri conferma che è inutile impiegare tempo a cercarne altri perché "non accorderemo a nessuno che vi siano corpi visibili più belli di questi”: Giuliana Mancinelli Bonafaccia restituisce un simile valore di unicità alla bellezza, sostituendo l’inutilità del tempo scandito dalla stagionalità alla buona pratica della rivisitazione dei pezzi migliori natai dalla buona creatività.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Cettina Bucca a/i 20-21,“Fiabe”: narrate dagli abiti, narratrici di emozioni
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"Io credo questo: le fiabe sono vere.
Ora il viaggio tra le fiabe è finito, il libro è fatto, scrivo questa prefazione e ne son fuori: riuscirò a rimettere i piedi sulla terra? Per due anni ho vissuto in mezzo ai boschi e palazzi incantati […] E per questi due anni a poco a poco il mondo intorno a me veniva atteggiandosi a quel clima, a quella logica, ogni fatto si prestava a essere interpretato e risolto in termini di metamorfosi e incantesimo […] Ogni poco mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra. Ora che il libro è finito, posso dire che questa non è stata un'allucinazione, una sorta di malattia professionale. È stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza, quel qualcosa cui prima accennavo, quell'unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed è che io credo questo: le fiabe sono vere. Le fiabe sono nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte della vita che appunto è il farsi di un destino”.
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Così testimoniava la scrittura gentile di Italo Calvino ad introduzione di quella sua sorprendente avventura letteraria che compì con “Fiabe Italiane”, la raccolta pubblicata nel 1956: e questa lunga introduzione non è affatto una mera citazione intellettuale. Bensì una benevola dimostrazione felice di come quella certezza meravigliata che di Calvino sigillava il termine del viaggio interiore, oggi sia il punto d’avvio meraviglioso di un viaggio esteriore che prosegue in modo simile ma squisitamente personale, e per questo speciale, nelle creazioni che Cettina Bucca ha raccolto per l’a/i 2020-21: e ha intitolato “Fiabe”.
“Siamo partiti dalle fiabe e dalla loro grande importanza dal punto di vista esoterico, spirituale e simbolico: leggendo tra le righe si trovano in esse soluzioni alternative per il proprio percorso di vita”. Così narra, infatti, la voce gentile di Cettina Bucca ad introduzione della collezione: per chi ha già avuto la gioia di imbattersi in lei e nel suo itinerario biografico caleidoscopico, che da biologa l’ha riallacciata al sogno realizzato di stilista di couture emozionale in cui ogni capo nasce come via d’espressione sincera e sartoriale per la femminilità, ecco non c’è stupore che la cura profonda che Cettina ripone in ogni scelta d’ispirazione, in ogni gesto di creazione e in ogni selezione di materiale e decorazione sia approdata al valore prezioso e senza tempo che le fiabe ci riservano, sempre.
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Bensì c’è la fiducia confermata nella generosità entusiasta di Cettina e nella sua conoscenza stratificata dell’animo umano, grazie anche all’antroposofia che ha saldato in lei la dote d’interprete saggia e delicata di desideri e necessità che nascosti dentro l’animo giungono fuori a vestire il corpo. Or dunque, Cettina Bucca, come Italo Calvino, è giunta alla certezza che sì, le fiabe sono vere: sono l’occasione pregiata per scoprire la nostra identità, decifrare gli indizi che i mondi di fantasia ci offrono per superare le prove che il mondo reale ci presenta, e così per abbracciare il nostro destino con consapevolezza. E bellezza: sempre.  
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La collezione “Fiabe”, dunque, offre la possibilità di vestirci di questa stessa certezza e di gustarne i benefici dalla pelle alle emozioni: iniziando dal sollazzo delle illustrazioni, nate da disegni e pitture originali perché ideati nel mondo di Cettina Bucca, divenute stampe che ritraggono animali ed oggetti fiabeschi, scarpette cenerentolesche, il grillo parlante e l’oca, specchi magici e piante fatate, e li distribuiscono su abiti morbidi che scendono fin quasi alla caviglia. Il Bianconiglio si tramuta nel pattern protagonista sull’abito chemisier, stesso destino spetta alla volpe ritratta come miniatura giocosa, mentre l’happy ending d’amore del principe che salva la principessa cavalcando il bianco destriero si svolge sul nero velluto elegante.
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Sempre loro, i grandi protagonisti delle fiabe e innanzitutto delle nostre vicende interiori, tornano sui pullover realizzati a mano: la principessa, specchio delle emozioni bramose che prendono il sopravvento e conducono nei guai, e lil principe, ovvero l’io che si ricongiunge alle emozioni per salvare l’armonia.
È una storia di armonia anche la scelta della palette: che per la prima volta accoglie il nero a simbolo del buio malefico e il bianco segno di luce benefica, messi a contrasto reciproco e orchestrati col rosso luminoso della gioia di vivere, il verde brillante e il turchese del cielo, il rosa e il violetto genziana che son i gusti tocchi fatati.
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Le stoffe continuano a raccontare una storia di naturalezza sostenibile: velluti lisci e a coste, viscose, sete, lane mohair e alpaca, cotoni invernali, insieme alle palette luccicanti come bagliori di magia. Le silhouette continuano a narrare una storia di sincerità verso la ricca complessità della personalità femminile: abiti dagli ampi volumi, dalle strutture consistenti o arricchite di tulle e balze per chi ama sentirsi principessa, capi più asciutti e brevi per chi desidera un’altra fiaba, e per tutte la sveltezza dei pantaloni dritti, e la morbida avvolgenza nei capispalla esatti ma col piccolo vezzo delle tasche staccabili.
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Tra le Fiabe narrate nella collezione a/i 20-21 compaiono due nuove, bellissime storie: i foulard in pura seta che raccontano fiabe uniche attraverso stampe originali e ricche di colori brillanti, e le calzature realizzate in armonia bellissima con Sergio Amaranti, anch’esso marchio d’eccellenza e mondo di stile generoso verso la femminilità. Una sinergia da cui han preso vita stivaletti e décolleté dal tacco ricurvo, slip on e ballerine, in pelle e nello stesso velluto stampato degli abiti, con lo stesso stupore fantastico dei particolari unici e mai uguali.
Se il viaggio di Calvino nelle fiabe era terminato con la compiutezza del libro, il nostro grazie alle Fiabe di Cettina Bucca è appena iniziato: buon viaggio fiabesco a tutte!
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Andrea Lambiase: gli abiti sono arte della sperimentazione indossabile
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Andrea Lambiase crea performing couture: lievi strutture d’architettura sartoriale che vestono il corpo, che nascono dalla seduzione dell’innovazione nei campi più inaspettati a chi si aspetta solo la moda, e dalle mani che dove non arrivano a costruire chiamano in sinergia la tecnologia. Quello che ci apprestiamo a fare dentro il suo giovane mondo creativo è dunque un viaggio immaginifico, a tratti visionario, ricco di suggestione, come quando ci si inoltra tra le pagine o nelle pellicole di racconti che imbrigliano la fantasia in scenari futuristici, abitati da personaggi che mantengono il vivo fascino carnale dentro gusci di creature macchinose e artificiali.
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Il tutto decantato dall’umiltà gentile e appassionata lo caratterizzano, mischiati alla caparbietà di tracciarsi una strada che col coraggio della coerenza rifiuta la tentazione al facile consumismo, per prediligere una visione che ad oggi può suonare tanto rischiosa quanto ribelle: credere profondamente nel valore dell’arte che allacciata alla moda si rivela uno strumento d’espressione sincero, una fonte di scoperte d’avanguardia, una via di rivoluzione della visione e fruizione della moda stessa.
Avanguardia da indossare, o da contemplare: non ci sono regole né intellettualismi nella sua moda, c’è solo l’invito a comprendere con rispetto il valore delle creazioni, e a godersele come e quando si vuole, senza diktat o restrizioni di stagionalità e styling. Andrea Lambiase è una bella mischia esplosiva nelle idee, che sublimano nelle creazioni. Sin dall’infanzia in un paesino in provincia di Avellino, in Irpinia, quando dentro la sartoria industriale dei genitori se la prendeva con le macchine da cucire e le smontava, per capire i meccanismi e indagare i funzionamenti, poi le rimontava. La sua è una curiosità sempre affamata di nuove lavorazioni, nuovi meccanismi, nuovi materiali, nuove costruzioni: per saziarla frequenta l’istituto per geometri, dove mentre salda la passione per l’architettura assorbe la formazione tecnica che lo supporta quando poi, all’Accademia Italiana di Roma, la mancanza di un background di tecniche di disegno e modellistica della moda lui la risolve con i teoremi delle costruzioni geometriche degli angoli e delle forme. E con la determinazione fortissima a migliorarsi: obiettivo che raggiunge appieno.
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A proposito, perché la moda? “Ho deciso di studiare moda perché mi piaceva l’idea che potevo partire da una visione astratta per farla indossare: mi piace intendere la moda come arte indossabile, quello che realizzo non è uno strumento commerciale privo di contenuto, ma quando vesti una mia creazione ti stai mettendo addosso una visione, un modo di pensare, un’idea”. Per effetto delle affinità elettive, la formazione prosegue con la realizzazione di un sogno, l’esperienza da Iris Van Herpen, che incarna e potenzia le sue ispirazioni e aspirazioni: “ero all’interno di un’atmosfera surreale, in atelier a lavorare con lei, e ho imparato tantissimo. Soprattutto a intendere la moda in un modo diverso, come ragionare per trovare nuove soluzioni e nuove tecniche e arrivare a realizzare una collezione: che non c’è sempre uno schema da seguire, cioè partendo dal disegno, facendo i cartamodelli e poi realizzando l’abito, ma si può iniziare anche da un punto intermedio. Io già lo facevo prima e lo faccio anche ora: l’ispirazione mi viene da una lavorazione, un tessuto o un materiale, ed è inutile cominciare dal disegno perché quello che ho in mente lo vedo soltanto facendo la creazione e mettendola sul manichino, solo così riesco a passare direttamente da un modo di pensare ad una cosa concreta e materiale”.
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Come farebbe un artista: “che non per forza fa prima il disegno, perché la cosa artistica non ha schemi, è d’impatto. Appena hai l’ispirazione trovi subito il canale più veloce e più preciso che può rendere meglio la tua idea.” Andrea Lambiase nel 2018 fonda il brand che porta il suo nome, perché è la realizzazione della sua natura nutrita dalla passione, agganciata ad un’ampia visione: “mi piace utilizzare la tecnologia nella moda, dove il braccio umano ha dei limiti e non riesce ad arrivare: amo applicare fisica, chimica, architettura, ingegneria meccanica, mixare campi scientifici da cui sono molto attratto per ottenere risultati interessanti. Per realizzare le mie collezioni studio e collaboro con ingegneri e professionisti: sono sempre alla ricerca di nuove forme e materiali” perciò, laddove già non esistono è lui stesso a crearseli, sperimentando con taglio laser, stampa e modellazione 3d, per ottenere texture inedite ed effetti sorprendenti.
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La sua moda è frutto di un approccio da inventore e di una pratica da alchimista, esercitata con l’aspirazione alla perfezione fin nel minuscolo dettaglio, per arrivare a smuovere non solo la mente ma anche le emozioni: “per le prossime presentazioni mi piacerebbe fare qualcosa che non dovrà essere chiamata sfilata, ma vorrei che il pubblico si trovasse all’interno di uno spettacolo e interagisse con gli abiti, con le modelle, con delle installazioni fatte in collaborazione con artisti. Vorrei creare connessioni: una performance di moda, un’esplosione di emozioni. Potrebbe essere in un museo, in una galleria d’arte, in un contesto dove le interazioni possano accadere”. Non a caso nel suo immaginario convivono Iris Van Herpen e Alexander McQueen, Marina Abramović maestra del far interagire le persone con il corpo e con l’opera d’arte, il Duchamp dei Ready Made.
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La collezione “Parametric Power” è dimostrazione tangibile ed emozionante della couture performante di Andrea Lambiase: vere sculture di femminilità e tecnologia nate da un’ispirazione assai originale, ça va sans dire: “ho immaginato di trovarmi in un mondo con assenza di gravità dove tutti i materiali avessero perso le proprietà, rigidità, flessibilità, elasticità, e sarei stato io a ridistribuirle ma non in modo naturale, bensì secondo una mia visione, in modo calcolato”. Nasce così l’abito plasmato da un lurex su una base di organza che è un finto plissé, un materiale a cui Andrea ha ricreato il movimento a pieghe rimpiazzando il movimento naturale con degli angoli calcolati da lui con appositi strumenti di misurazione. Allo stesso modo, l’abito che sembra cosparso di squame bianche nasce da un tessuto mesh a cui Andrea ha dato le proprietà del plissé costruendo il movimento in un modo da lui calcolato, grazie ad un software di modellazione 3d, il taglio laser e la pressa industriale, montando poi le tessere di vinile così da dare una graduale rigidità al materiale.
Non c’è palette colorata. Ci sono solo il bianco assoluto che è luce, il nero che è il pozzo profondo in cui si raccolgono gli altri colori: “ricordano anche il mio carattere, che quando ho in mente una cosa deve essere o al 100% o niente, o bianco o nero”. Però c’è anche la loro unione, la conciliazione degli opposti, come quando la sua precisione si scontra col caos: “ma credo anche che il caos, a volte, scontrandosi con la precisione crei qualcosa di molto interessante: un risultato a sorpresa che non immaginavi di ottenere”. E noi, di certo, continueremo a sorprenderci con le sue sperimentazioni indossabili!
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Bona Calvi: l’orafa che narra il fascino del quotidiano in miniature
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Accarezzano il sentimento della meraviglia con dolcezza e giocosità i gioielli nati dalle mani felicemente operose e dall’innamoramento per l’arte orafa di Bona Calvi: già solo a guardarli regalano il sorriso desideroso di indossarli. Ma regalano anche la conferma rassicurante che riporre la fiducia nell’artigianato come maestro di tecniche antiche e come mestiere da modellare a misura della vita contemporanea, è ancora e sempre una scelta buona e giusta.
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Ecco, Bona Calvi racchiude nella bellezza speciale dei suoi piccoli capolavori preziosi proprio queste virtù: il talento sorprendente di saper lavorare la materia metallica con finezza certosina, e con il desiderio di dare vita a creazioni che compongono un racconto semplice, popolato da forme ordinarie, animali, piante, fiori e oggetti, che abitano il nostro mondo quotidiano. Ma che Bona Calvi tramuta in miniature straordinarie che affascinano il nostro gusto in un baleno!
La storia di Bona Calvi è breve ma intensa, perché giovane ma densa di concretezza determinata e rivelazioni che hanno il sapore della fiaba: a Milano, Bona nasce nel 1989 e resta, in una sorta di fedeltà che le dà piena ragione. Perché è all’Accademia delle Belle Arti di Brera che studia scenografia per poi accorgersi, grazie al lavoro in un laboratorio specializzato in conservazione e restauro di antichi strumenti scientifici, che la dimensione vera che la anima di soddisfazione ha a che fare con le mani che lavorano i metalli e con l’intenzione di vivere del suo saper fare.
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Ed è quindi alla scuola orafa ambrosiana che salda, letteralmente, questa predilezione e vive una seconda, fondamentale illuminazione: è la tecnica antica della cera persa lo strumento ideale che le consente di modellare le sue ispirazioni in forme plastiche sospese tra sogno e realtà. Ed è nel cuore di Milano che Bona Calvi stabilisce il cuore della sua attività: nel laboratorio di di via Stampa 8, dove accade ogni fase del percorso di creazione, dal disegno del bozzetto alla modellazione paziente di ogni dettaglio anche il più sottile e minuscolo, che dalla cera si trasferisce su oro, argento e bronzo e s’impreziosisce di pietre e perle. 
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Perché quelle di Bona Calvi son autentiche micro-sculture delle realtà: o meglio, son miniature fedeli all’apparenza oggettiva, e al contempo leali all’immaginazione di Bona stessa e alla sua sensibilità generosa a soddisfare i desideri della sua clientela.
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La sua è dunque una collezione che pian piano si popola di nuovi protagonisti: che dal mare esotico, dalla lontana savana o dal parco vicino a casa diventano anelli, orecchini e ciondoli, come accade per le alici dagli occhi di pietre brillanti, la balena, il polpo e il granchio, la giraffa e l’elefante, il serpente che può abbracciare le dita o cingere il polso, il bradipo e l’orso, la rana che stringe tra le zampe una perla, il coccodrillo che la rincorre lungo la catena, le coccinelle dal corpicino di pietra colorata, i pesciolini appesi ai cerchietti degli orecchini.
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Ci sono anche gli inseparabili, come i pappagallini che si guardano vis-à-vis nell’anello aperto, o come gli oggetti che nel quotidiano funzionano a coppia: teiera e tazzina, e la bottiglia di vino col suo calice. Quelli di Bona Calvi son micro-mondi pregiati: sono gioielli che come un lessico familiare raccontano storie, quelle dell’orafa che a loro da vita, e quelle personali di coloro che li scelgono per affinità elettiva.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Loredana Roccasalva p/e 20: tutte le donne son “Santuzze” da celebrare
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C’è qualcosa che brilla immediato nelle creazioni di Loredana Roccasalva: e tal bagliore arriva prima del suo talento sartoriale custodito sin dalla giovane età, nutrito dalla formazione eccellente, e maturato nel tempo con la cura profonda della costanza artigiana e della passione sempre vigorosa verso la manualità sartoriale allacciata alla ricerca del nuovo. Arriva ancor prima anche della sua abilità di conciliare gli amati contrasti con la stessa leggiadria sapiente di un gesto di giocoleria: come quando fa decantare l’amore sconfinato per la sua terra siciliana per distillarlo nel gusto della contemporaneità, o ancora come quando sa far risplendere tesori di tradizioni e decori dal passato incastonandoli perfettamente nel nostro presente più minimale.
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Ecco, quel che più brilla immediato dai suoi abiti è il dono di Loredana Roccasalva per la sensibilità. Ogni nuova collezione, infatti, è una nuova occasione felice di ricevere una storia tra cultura antica e attualità narrata in ogni dettaglio delle creazioni, ma non solo: perché intessuto nelle trame aggraziate della stoffa, Loredana aggiunge sempre un messaggio di grande forza rivolto a migliorare con grinta realista la nostra quotidianità.
Quella di Loredana Roccasalva è un’ispirazione creativa che diventa l’intenzione concreta di restituire bellezza autentica laddove rischia di venir deturpata.
La p/e 2020 rinnova quest’attitudine nobile, non in senso d’opulenza naturalmente, bensì di nobiltà di cuore, proprio come fosse un rito: e a ben vedere tale definizione rituale si rivelerebbe ideale, dato che il tema fondamentale della collezione aggancia le radici nelle figure iconiche delle tre “Santuzze” siciliane, e da lì sboccia e fiorisce in una dedica alle donne tutte.
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S’intitola proprio così, “Santuzze”, prendendo in prestito l’appellativo affettuoso con cui il popolo siciliano onora da secoli le sue tre icone protettrici: Sant’Agata, patrona di Catania, Santa Lucia patrona di Siracusa, e Santa Rosalia patrona di Palermo. Ma attenzione, please, perché è qui che il rischio di un’appiattita celebrazione folkloristica si scioglie, invece, nell’intuizione accogliente: oltre la santità gloriosa che le ammanta, le tre icone custodiscono anche l’identità umana di tre giovanissime donne che hanno subìto e affrontato le asperità di un terra storicamente non propensa ad esaltare la figura femminile, una terra verso la quale hanno comunque riversato la loro bontà miracolosa.
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Ebbene, la femminilità tutta è fatta di quella stessa sostanza delle “Santuzze”: donne che quotidianamente affrontano la matassa di difficoltà e sacrifici per compiere il miracolo di essere se stesse, nella veste sociale di professioniste, di figlie, di madri e di sorelle, ma anche e soprattutto nella veste personale della propria unicità. Ecco, dunque, che la celebrazione di Loredana Roccasalva inizia proprio dalle Santuzze: delle quali riporta l’effigie sulle magliette, ma a modo squisitamente suo, naturalmente! Ovvero, grazie alla collaborazione pregiata con Rosa Cerruto, illustratrice e architetto, che le ha ritratte nel suo stile distintivo deliziosamente pop: nella loro nuova versione, i ritratti delle Santuzze son stati riportati sulle  T-shirt in cotone biologico.
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La celebrazione, naturalmente, prosegue e abbraccia tutte le donne, vestendole di capi che son una versione rinnovata dei capisaldi classici prét à couture firmati Loredana Roccasalva: le gonne ampie che racchiudono la figura come fosse raccolta in una corolla; i giochi di volumi che se nel minidress e nei pantaloni son asciutti e netti, nelle spalle si compongono in strutture geometriche e poetiche come origami; l’abito fluente e fiorito fatto di un tessuto innovativo realizzato in tulle e fiori sagomati con taglio laser e cuciti a mano; le stolkap, l’ibrido di stola e cappa, che sono un capolavoro di combinazione tra la geometria giapponese, l’indossabilità multipla e la ricchezza materica, i colletti che son veri gioielli, i guanti senza dita ricamati e i cerchietti arricchiti dai bottoni antichi.
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Il racconto della storia siciliana scorre anche attraverso i materiali splendidi: il cotone biologico, genuino come l’artigianalità isolana, le tele di cotone corposo, la seta pregiata, il tulle ricamato che sembra provenire dalle velette di donne le cui storie di vita ed eleganza quotidiana son state racchiuse per lungo tempo dentro ad un baule, finché la loro bellezza non è stata nuovamente indossata. Anche la palette colori partecipa al racconto: pochi cenni vividi di giallo lime, dell’arancio caldo del sole al tramonto e del turchese delle acque brillano sulla coppia del bianco e nero, fatta del bianco delle spiagge assolate, e del nero grafico delle tappezzerie di antichi divani decadenti, delle geometrie dei pavimenti in pietra pece, della materia lavica.
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Ad onor di cronaca, la sensibilità di Loredana Roccasalva non si chiude nella poesia della collezione, ma in questo momento storico di grave difficoltà sociale collettiva, ha confermato la sua forza solidale: e quelle mani, assieme alle macchine, che han realizzato abiti e accessori, hanno subito convertito la produzione per sopperire alla mancanza di mascherine d’uso quotidiano, e per supportare la lotta al coronavirus dell’Ospedale Centrale di Modica, città d’appartenenza dell’atelier e della sua amorevole titolare.
Voilà: il bello e il buono della creatività!
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Calcaterra a/i 20: ascolta il silenzio del superfluo, scopri il bello nell’essenziale
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C’è la poesia della purezza leggera eppur concreta nella moda di Daniele Calcaterra. Il suo è un linguaggio di stile sartoriale squisitamente personale e allo stesso tempo generoso: il suo è il gesto di un couturier italiano che opera con la morbidezza rigorosa della rinuncia agli orpelli per far brillare il bello riposto nell’essenziale delle forme e delle idee. Ogni collezione regala una visione piacevolissima, una conferma confortante e allo stesso tempo coraggiosa: sin dagli esordi professionali, accaduti vari anni or sono di esperienza preziosa, la sua devozione alla moda è infatti sempre una dichiarazione d’intenti virtuosa che ha che fare con la sostanza del mestiere, anziché con la volatilità vanitosa dell’apparenza.
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Con la sua moda, Daniele Calcaterra dichiara la fiducia nell’eccellenza tipicamente italiana di ogni azione che compone la creazione, dalla qualità altissima dei materiali che guidano la concezione dei capi a quella altrettanto perfetta della sapienza che ne rende possibile la realizzazione. Dall’amore per la cultura che suggerisce l’ispirazione, alla convinzione entusiasta riposta nel valore della bellezza che non sfida il tempo: ma lo accompagna nel suo scorrere senza sfiorire mai, perché frutto di quell’autenticità che la rende davvero timeless, ma sempre perfettamente calata nella contemporaneità. E quest’alchimia accade nuovamente e felicemente con la collezione a/i 2020-21. Il titolo che la battezza è già a suo modo preludio di ricercatezza: “What inspires you?”
Prima di fornire la risposta attraverso il carosello di capi e accessori affascinanti, Daniele Calcaterra ci fornisce l’indizio su cui si è inerpicata la sua ispirazione per compiere il percorso di creazione: spiazzante e salvifico, come il messaggio stesso della collezione. Il riferimento ha infatti la stessa sofisticatezza di sostanza della sua moda: l’opera 4’33’’con cui il genio sperimentale di John Cage rivoluzionò il concetto di musica facendo suonare il suo opposto, il silenzio. Era il 1948 quando Cage parlò solo di un ipotesi, un’ispirazione “di comporre un brano di ininterrotto silenzio. Sarà lungo tre minuti o quattro minuti e mezzo, dato che queste sono le durate standard della musica preregistrata, e s’intitolerà Silent Prayer. Inizierà con una singola idea che cercherò di rendere tanto seducente quanto il colore e la forma o la fragranza di un fiore”.
Era il 1952 quando l’opera fu performata per la prima volta da David Tudor a New York davanti ad un pubblico che da un musicista e il suo pianoforte si aspettava di ascoltare una sinfonia di note, e invece si trovò immerso in un silenzio in tre atti. Ed è proprio John Cage ad illustrare il grande inganno del silenzio musicale e la rivelazione della verità in “Silenzio”, il suo libro cult del 1961: “la musica è in primo luogo nel mondo che ci circonda, in una macchina per scrivere, o nel battito del cuore, e soprattutto nei silenzi. Dovunque ci troviamo, quello che sentiamo è sempre rumore. Quando lo vogliamo ignorare ci disturba, quando lo ascoltiamo ci rendiamo conto che ci affascina”. Or dunque, è ascoltando il silenzio che si scopre la presenza, la bellezza peculiare, dell’essenziale. Ecco, Daniele Calcaterra con la collezione a/i 2020-21 fa sua l’intenzione che a suo tempo solleticò l’intuizione di John Cage: ha iniziato con una singola idea, ovvero la rinuncia alla seduzione degli orpelli inutili in favore della semplificazione, e l’ha resa seducente
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“Basico irrazionale”, così Daniele Calcaterra definisce la sua opera, come fosse un percorso di meditazione concreta: l’esercizio sartoriale va dritto a plasmare i volumi e le forme, a scolpire le spalle volitive dei capispalla come nei ‘90s, ad amplificare l’ampiezza dei cappotti che si allargano come mantelle o ad asciugarla come fossero vestaglie, ad equilibrare l’oversize casual con l’appiombo elegante, ad appaiare con i jeans ampi e sdruciti ad arte il cappotto cammello con i baveri affilati o la giacca che sfoggia uno dei rari decori consentiti assieme alle piume, cioè le frange, a disegnare la fluidità dei completi dove la lavorazione delle bordature cieche rendono gonne e pantaloni leggerissimi come coperte, tanto agili da poter essere infilati negli stivali.
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Basico irrazionale perché il minimalismo, quando non è esasperato, ma esercitato con consapevolezza, dimostra che ci si può avvolgere in un ampio cappotto dai bellissimi intarsi geometrici anni ’20, e nel frattempo ci si può infilare nel rigore affascinante di un abito nero che pare appoggiato per caso sul corpo, invece è un piccolo capolavoro di dote di sintesi sartoriale come la palette. Naturalissima, e per questo conferma di ricercatezza purificata.
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Or dunque, niente ostentazione di ascetismi frutto di complessi percorsi concettuali, bensì una risposta moderna alla necessità di lasciar andare il superfluo per ritrovare il godimento di vestirsi della sofisticatezza che proviene dalla sostanza sartoriale maneggiata con cura e passione, con la competenza affinata delle tecniche sartoriali allacciata alla sperimentazione curiosa di materiali pregiati e al rispetto profondo della bellezza femminile. Bravò Daniele Calcaterra!
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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PLV Milano: i bijoux con dentro messaggi da custodire
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Basta nominarlo, e ancor prima di indossarlo il cuore si scioglie in gioia. Suona come una ricetta per la felicità, ed in effetti nella sua sostanza più preziosa, ovvero il messaggio che custodisce nel cuore di metallo pregiato, lo è davvero. Invece è un bijoux: quello più iconico tra le collezioni, quello più rappresentativo di questa che è una storia bella di imprenditoria giovane, femminile e italiana, fatta con la giusta combinazione delle dosi di ingredienti complementari per dare concretezza efficace ad un progetto nato da un’illuminazione improvvisa e semplicissima: passione vera, intuito saggio, genuinità costruttiva, competenze lungimiranti, generosità accogliente.
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Ogni dose ben precisa, soprattutto quella che riguarda l’ingrediente dell’amore, il motore dell’abilità di trasformare i sogni in realtà: di amore, nel fare e vivere le cose, ne son necessari almeno 10 grammi al giorno. Gli indizi sparpagliati in quest’introduzione dovrebbero aver già guidato l’intuito verso la soluzione: questa infatti è la storia di PLV Milano, il brand che innanzitutto è le due giovani donne, le cugine Laura e Veronica, che lo hanno fondato e che oggi continuano a condurlo sulla strada del successo conquistato.
E che è la sua creazione più celebrata: i “10 grammi d’amore”, assieme a tutte le persone che dal primo giorno in cui avvenne la folgorazione creativa, continuano ad innamorarsi delle collezioni e a lasciarsi ispirare dalle storie che ci sono allacciate dentro.
Un brand che è l’acronimo di tutto ciò che racchiude: “in realtà è nato per caso, urgeva darci un nome, ci piaceva l’idea che all’interno ci fossero le nostre iniziai, L e V, poi un’amica ci suggerì la parola Pulse intesa come forte passione e ci è piaciuto, per racchiudere la nostra passione per il bello e il mondo della moda e dei bijoux. Milano è per ringraziare la città in cui siamo nate e che ogni giorno ci mette di fronte a sfide ed opportunità nuove”. 
Anche i bijoux nascono in modo inaspettato, come tutte le cose semplici che hanno il guizzo dell’intuizione brillante: “PLV Milano è nato nel 2012 con l’aiuto un ingrediente fondamentale, la fortuna. Laura era in maternità e io lavoravo da poco, ma per quanto mi appassionasse mi sentivo oppressa dall’entrare in ufficio la mattina ed uscirne la sera, sentivo il bisogno di fare qualcosa di manuale e creativo, cosa che mi ha sempre accompagnata. Mi iscrissi ad un corso serale di sartoria alla Naba, dove ho imparato a creare cartamodelli, tagliare tessuti e cucire, tra cui una gonna a ruota per l’esame finale: ricordo che corsi in merceria ad acquistare del gros grain ricamato per il cinturino e lì mi innamorai di alcune “code di topo” (dei cordini in seta) e di una catena di cristalli luminosissima. Feci così il primo bracciale, che ho ancora, base arancio e filo in cotone viola, la sera lo indossai e uscii con delle amiche: spopolò, si sparse la voce fino ad ottenere talmente tanti ordini da chiamare Laura e chiederle se le andava di aiutarmi a far crescere questa piccola idea. Da lì è stato un susseguirsi di casualità bellissime e fortunate, in breve tre negozi ci contattarono per avere i nostri bracciali, aprimmo la partita iva per far diventare più concreto il nostro sogno, e poi la magia vera: Chiara Ferragni ci indossò in vari scatti tra Milano e Barcellona, e da lì fu il boom!”.
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La nascita del pesetto pieno d’amore è altrettanto spontanea: “per dare più concretezza al nostro progetto decisi di fare il corso di oreficeria professionale alla Scuola Orafa Ambrosiana, sempre a Milano. Stava arrivando il periodo natalizio e io dovevo portare dei pezzi in cera a fondere in argento: la forma del pesino della bilancia da orafo mi aveva sempre colpita, lo trovavo molto buffo, e decisi di fonderlo in bronzo. Trovai la frangia di una borsa che si era staccata e la accostai al pesino, mi piacque un sacco. Chiamai Laura per parlargliene dopo averle mandato la foto via messaggio: non fu convintissima dell’accostamento ma le venne la geniale idea di chiamarlo “10 grammi d’amore” e che dovevamo unirci una storia, qualcosa che desse un significato a quella forma. Io le suggerii l’idea del bugiardino e  lei durante la notte ‘partorì’ le frasi -cioè la ricetta con le indicazioni terapeutiche e il dosaggio amorevole- del nostro cartoncino. Fu un successo!”
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E lo è ancora un grande successo, quel pesetto protagonista di collane, bracciali e orecchini, accompagnato da piccole frange soffici che son tocchi di allegria colorata, infilato in una provetta da laboratorio farmaceutico a ricordare la storia vera di Veronica, laureata in farmacia e che negli anni si è occupata di sperimentazione in una grande multinazionale prima di scoprire che il suo destino, insieme a Laura, laureata in economia e con una grande esperienza nel trade marketing di multinazionali, fosse quello di creare bijoux che raccontano storie e diffondono messaggi di positività gentile.
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Et voilà la formula segreta di PLV Milano: ogni creazione è completamente made in Italy, come l’artigianato autentico insegna, ed ogni collezione custodisce storie ed immagini dedicate ad inebriare d’ispirazione chi le sceglie. Come “Io So Volare”, il motto inciso sulla medaglietta che accompagna il ciondolo a forma di aeroplanino di carta e la frangina in cotone thailandese, a decorare collane e bracciali in argento 925 bagnato in oro rosa o bronzo rosa, che raccomanda di non dimenticare mai che “solo chi sogna può volare”; e per suggellare ulteriormente l’appello c’è anche la collezione “Sogno”, dove appesa ad una catena sottile brilla una stella che si appaia ad un ciondolo unico creato con i vetrini di mare sabbiati e una piastrina anch’essa cosparsa di stelline, quelle da impugnare per disegnarci sopra i propri sogni e farli brillare. Grazie PLV Milano della vostra generosità preziosa!
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Gilberto Calzolari p/e 20: “Dune”, inno elegante alla lotta sostenibile 
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Il bello della qualità di frivolezza, spesso controversa, eppur felicemente inconfutabile, che è connaturata alla moda si rivela in occasioni preziose come questa: quando la moda stessa concede a chi la progetta con profonda cognizione di diventare uno strumento potentissimo per diffondere messaggi importantissimi, persino catastrofici, pur mantenendo intatto, e anzi rafforzato, il valore altrettanto indiscutibile del dritto alla bellezza.
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L’occasione preziosa in questione è la collezione p/e 2020 ideata, progettata, costruita e firmata con saggezza appassionata da Gilberto Calzolari, andata in scena alla settimana della moda milanese: s’intitola “Dune”, e il messaggio intessuto nelle creazioni va ben oltre l’evocazione suggestiva di romanticherie esotiche immerse in paesaggi desertici da cartolina. Bensì, va dritta al cuore della questione ambientale in cui è invischiata la moda, per chiamare tutti a scendere in campo e prendere parte alla doverosa lotta per la sostenibilità.
Or dunque, è anzitutto necessario sfumare qualsivoglia dubbio sull’autenticità di intenzioni relative a questa parola che oggi corre sulla bocca di tutti: sostenibilità. Ebbene, Gilberto Calzolari ne ha fatto il vessillo coerente e fondamentale del suo stile di moda, allacciato stretto al suo stile di vita, sin dagli esordi con il suo marchio omonimo di demi-couture, giunto dopo una lunga carriera all’interno degli uffici stile tra i più prestigiosi per storia e maestria (ovvero Marni, Alberta Ferretti, Valentino, Miu Miu, Giorgio Armani).
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La sua dedizione all’eco-sostenibilità è infatti completa e militante: inizia nell’osservazione disincantata della realtà consumistica in cui siamo immersi, attraversa l’analisi della realtà deteriorante del fast fashion da cui siamo accalappiati, e si costruisce nell’ecosistema virtuoso del suo marchio. Qui la ricerca è votata a trovare materiali e lavorazioni del tutto ecosostenibili, dai metodi di riciclo e upcycling alla progettazione di materie innovative ma pur sempre eco-compatibili, coinvolge aziende che condividono la stessa fede e la certificano, percorre una filiera eccellente completamente made in Italy.
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E apporta il suo contributo prezioso a cambiare l’industria della moda nel profondo attraverso la bellezza lussuosa: un impegno che gli è valso il prestigioso Franca Sozzani GCC Award for Best Emerging designer al Green Carpet Fashion Award Italia 2018, e il premio come Best Emerging Designer della Monte Carlo Fashion Week.
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Nella collezione p/e 2020 il messaggio è dunque già incapsulato nel titolo: le “Dune” sono quelle della desertificazione  del nostro pianeta a cui siamo già condannati. Un grido d’allarme a spalancare occhi e coscienza sulla realtà in corso: un inno attraverso creazioni d’eleganza a lottare per un futuro sostenibile. Un appello che si traduce in un gusto tribale, con echi di primitivismo e semplificazioni da minimalismo: la divisa per la battaglia deve essere funzionale, deve portare scolpiti addosso gli intenti militanti, i nemici da combattere ma anche gli strumenti per farlo, pur mantenendo salda la raffinatezza.
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A proposito di intreccio tra estetica, confortevolezza e materiali inediti: l’appeal tribale connota l’abito iconico in “tessuto di sughero” ecologico, ricavato da sottilissimi fogli di sughero naturale accoppiato al cotone organico GOTS certificato, e impreziosito da frange con su cristalli Swarovski privi di piombo; mentre l’appeal techno pervade i capi ultra high-tech realizzati con l’upcycling di airbag scoppiati, nati grazie dalla partnership con Volvo Car Italia, realizzati con il materiale sintetico degli airbag già dispiegati che così è nobilitato in chiave couture, come succede anche per le cinture di sicurezza divenute fusciacche.
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Il piglio militaresco è nei capi safari e nelle uniformi con tasche decorate con mostrine svolazzanti di cotone grezzo; mentre la linearità quasi monastica si alterna alle stratificazioni asimmetriche di gonne strutturate sotto abiti in organza nude.
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La narrazione è affidata non solo alle forme, ma anche ai materiali: tra cui il raso derivato da poliestere riciclato, il nuovissimo canvas di cotone biodegradabile che si decompone in un anno, il pizzo macramè optical il cui disegno ricorda i copertoni e richiama la più grande discarica di pneumatici al mondo nel deserto del Kuwait.
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E ai colori: con una palette che sui toni pallidi della natura desertica si accende di rossi e gialli allarmanti del grido di protesta, fino ad essere cosparsa del nero lucido e del verde cupo dell’inquinamento industriale che contamina le preziose falde acquifere, come fossero pesanti macchie di petrolio che contaminano la leggerezza dell’organza increspata.
Le “Dune” di Gilberto Calzolari sono anche quelle del suo amato archivio di riferimenti cinematografici: in questo caso, l’omonimo film cult del visionario David Lynch, e le dune dello scenario post-atomico dell’altrettanto visionario “Mad Max”, dove il fascino steampunk risuona come un monito a non divenire vittime del nostro progresso, bensì a padroneggiarlo virtuosamente. Bravò Gilberto Calzolari!
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Bav Tailor: Vikasa, la vita è evoluzione, la bellezza è sostenibile
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L’incontro con Bav Tailor è una di quelle occasioni rare e pregiate in cui la moda compie un piccolo autentico miracolo concreto: condensare in un progetto di stile la bellezza caleidoscopica che ha che fare con l’eleganza dell’apparenza e il lusso materiale della sostanza, ça va sans dire, con ma anche con l’etica generosa e profondamente consapevole rivolta a preservare il benessere della natura del mondo e delle creature tutte, animali e umane.
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E, dettaglio che in questo caleidoscopio s’incastona come una pietra preziosa: ci condensa dentro anche il percorso di vita, di spirito e di creatività ricca della sua fondatrice. In una parola, evoluzione: e la collezione p/e 2020 “Vikasa” ne è la sua celebrazione.
Un viaggio costante, profondo, sorprendente, felice: un destino, quello della moda consapevole, che in Bav Tailor nasce già nel suo cognome, quel “tailor” che in inglese ha a che fare con la sartoria, il mestiere esercitato con passione e saggezza anche dai suoi nonni, si aggancia alla sua biografia di londinese con le radici innestate nella cultura indiana così sensibile alla connessione con la Terra, si nutre di uno spirito nomade che grazie ai viaggi tra terre e genti differenti la rende così sensibile all’umanità intera, e si afferma nella scelta rigorosa di un progetto strutturato a 360° nella sostenibilità.
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Bav Tailor il brand è un inno concreto all’importanza essenziale del benessere inteso come armonia, che nel linguaggio della moda diventa cura profondissima della relazione virtuosa tra la persona e l’abito che indossa: i materiali che fondono la migliore naturalezza certificata all’avanguardia della ricerca e all’eccellenza della sartorialità, linee e forme studiate per rispettare la libertà del corpo e valorizzare il piacere profondo della sensorialità.
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Bav Tailor la giovane e talentuosa fondatrice è colei che con il suo viaggio di vita scandisce i capitoli della sua moda rappresentati nelle collezioni: e con la p/e 2020 celebra con gentilezza e condivisione il valore del ciclo perpetuo di nascita e crescita, di quel concetto a tratti insondabile eppur imprescindibile che è l’evoluzione individuale.
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In sanscrito “Vijkasa”: traduzione di “evoluzione”, che è anche il titolo della collezione in cui l’omaggio grato al rituale di venire al mondo e fiorire, di affidarsi con amore e pazienza al proprio destino ascoltandosi dentro e fidandosi delle leggi della natura è narrato attraverso capi che già nei nomi portano con sé il valore materiale e spirituale di cui son plasmati.
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Nell’incanto morbido e nella leggerezza fluttuante dei capi fa il suo ingresso il Dvaita Leaf Top: “Dvaita” a significare il concetto di dualismo, che qui diventa la versatilità d’uso, e “leaf” come la foglia che ricorda nella forma, ma anche le foglie vegan ed eco-compatibili, raccolte in aree sostenibili e derivate da fonti rinnovabili di cui si compone l'innovativo materiale Green Leaf di cui è fatto. Dalle foglie ai petali, quelli delicatissimi della rosa di cui è composto il morbido cotone organico della Lokya Cube Shirt, che nel nome promette il regalo prezioso della libertà del corpo che lo abita e della mente che lo percepisce.
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L’eccellenza del lusso sostenibile è la sostanza di cui è composta il must-have, la tuta Shakti Leaf, impreziosita da un foulard in foglia 3D sperimentale: l’apparenza eterea proviene dalle sete riciclate italiane e rifinite con seta giapponese Garza o eco-piume e seta certificata Wastemark, e di cui è fatto il Lokya Bloom Dress in cotone biologico in appaiata al Prana Bloom Coat, che attraverso l’ispirazione alla decostruzione giapponese dona un’interpretazione tridimensionale della fioritura. La palette colori è uno straordinario amplificatore della dedizione al benessere: le sfumature acquamarina, malachite verde, ematite grigia e giallo sole provengono dai cristalli  e dai materiali della terra. La collezione si completa con il debutto delle calzature: il sandalo Vikasa realizzato da artigiani toscani.
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Un’alchimia di design contemporaneo e devozione alla sostenibilità virtuosa che ha accolto Bav Tailor tra i brand finalisti della rassegna Who’s On Next? 2019 all’appena trascorsa edizione estiva di AltaRoma: congratulazioni Bav! Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Montegallo a/i 19-20: il cappello, questione di ragione e sentimento
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“Tutti vanno a cavallo o usano il treno, ma il modo assolutamente migliore di viaggiare è a cappello”, disse il Cappellaio Matto all’Alice immersa nella Wonderland immaginata da Tim Burton: e queste parole, che sembrano poggiate qui come citazione comoda ad introdurre un racconto di cappelli, in realtà intrecciano al loro interno una combinazione di coincidenze sorprendenti!
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Anche in questa nostra storia c’è una protagonista di nome Alice, che del cappellaio ne ha fatto il mestiere posto al centro del cuore suo e del brand, e che dell’azzardo matto a scriversi le proprie regole ne ha fatto il motore appassionato del successo del suo Montegallo: un marchio, certo, ma soprattutto un mondo che a sua volta dischiude mondi storici, geografici, artigiani, di stile e di sentimenti. Ed anche di viaggi, tanti e suggestivi: tutti racchiusi nei modelli della collezione a/i 2019-20!
Quella di Montegallo, il paesino marchigiano, è una storia che inizia secoli fa: nelle mani contadine, che allora intrecciavano gli steli di grano scrivendo tra i gesti delle dita le regole dell’arte antica di forgiare cappelli da indossare nei campi per ripararsi dal sole. Quella del brand Montegallo, di storia, nasce solo tre anni fa, nel 2016, quando la sua fondatrice, Alice Catena, scopre quest’arte antica, se ne innamora e al contempo intuisce bene che è il momento di riportare il cappello di paglia protagonista dello stile contemporaneo: sì, proprio il cappello di paglia classico, realizzato rigorosamente da maestri cappellai in ogni sua fase, dalla raccolta degli steli del grano Jervicella all’intreccio, fino alla cucitura e alle decorazioni.
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Dopotutto, il cappello è già dentro la storia di Alice Catena sin dall’infanzia incastonata in quel paesino bucolico che condivide il nome con il suo marchio, Montegallo: era una necessità per la salute, come il buonsenso insegna, ma anche un accessorio di bellezza fondamentale. Oggi il cappello, per Alice Catena, è ancora un accessorio che soddisfa la ragione che richiede protezione per la testa, ma è ancora e sarà sempre una questione di sentimento, che ha preso la dimensione di collezioni composte da cappelli pregiati che intrecciano la tradizione artigiana e il gusto contemporaneo stiloso, eclettico, appassionato, affascinante e sorprendente.
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La collezione a/i 2019-20 ne è una nuova felice conferma: ogni modello è un invito suggestivo al viaggio,  dal sogno californiano con lo stile cowboy al Messico con indosso un sombrero, dalle pampas in groppa al cavallo con su un modello da gaucho, allo chic dell’intramontabile Fedora, allo charme del feltro romantico, all’eleganza intensa del modello Pamela alla novità delle trecce di lana pura che formano il berretto e la cuffia-sciarpa da indossare da sola o sotto il cappello, per aumentare la protezione, ma anche il fascino.
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A proposito di materiali: assieme alla lana ci sono i pregiati lapin, gli Harris Tweed… e l’immancabile paglia, perfetta anche per l’inverno dato che mantiene il calore del corpo, nonostante l’immaginazione la allacci frettolosa all’estate. A proposito di modelli, assieme ai cappelli ci sono anche le borse: meravigliose, nel senso letterale del termine, perché la loro foggia inaspettata tondeggiante eppur così elegante, dove la paglia intrecciata si appaia con il montone, la lana e la pelle, meravigliano il gusto e nutrono il desiderio.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Cettina Bucca a/i 19-20: “Liber”, i libri liberano le emozioni 
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L’incontro con Cettina Bucca e le sue collezioni è un appuntamento, sempre felice e sempre sorprendente, con la gioia generosa: la gioia del sorriso di una stilista che è innanzitutto una donna con una mente colta e un cuore ricco spalancato sul mondo, e che per questo è una stilista che ha cucito, con la stessa cura d’artista sartoriale che dedica agli abiti, l’amore per la moda sulla sua anima. E su quella dei capi a cui da vita. E sull’anima delle donne che con la sua moda veste.
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Et voilà, che ogni nuovo incontro con le collezioni di Cettina Bucca è un appuntamento sempre inaspettato con un’ispirazione che non proviene da una caccia affannosa nei labirinti della creatività esibita, ma giunge dalla semplicità preziosa della vita quotidiana, anzi delle piccole gioie inestimabili della vita quotidiana.
Ecco spiegata la gioia generosa della sorpresa, come accade nella collezione a/i 2019-20.
Che è un invito ad un viaggio speciale, quello a riscoprire l’amore per la lettura dei libri (nell’era della moltiplicazione delle specie dei contenuti è meglio specificarlo). Quali? Beh, la collezione s’intitola “Liber”: e se anche non è letteralmente una raccolta di tomi rilegati, è di certo una raccolta di spunti narrata in stoffe, stampe e colori!
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Qui, nei capi, in ogni minuzioso dettaglio sartoriale che li plasma, dentro alle trame dei tessuti pregiati, sempre eccellenti, sempre speciali perché organici e lavorati attraverso una filiera virtuosa, si dispiegano anche le trame delle storie che gli abiti narrano. Le creazioni di Cettina Bucca sono storie di femminilità che si scrivono sul corpo che l’indossa, canovacci di vite intrise di emozioni intense, vive, poetiche, testardamente allacciate alla realtà concreta vissuta ogni giorno, ma anche libere di innalzarsi nel cielo limpido dell’immaginazione che accoglie i sogni fatti della stessa sostanza della bellezza.
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La bellezza consapevole: la donna di Cettina Bucca non è racchiusa in un modello, ma è aperta ad accogliere qualsiasi animo femminile desideri innamorarsi dell’abito che, a sua volta, l’accompagna ad innamorarsi di se stessa, e da lì a scrivere la sua storia. 
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Nella “Liber collection” al posto di carta e penna ci sono le stoffe, che disegnano modelli su cui creano giochi di pesi e consistenze: le lane pure e i velluti, di soprabiti e abiti che avvolgono morbidi la figura richiamano suggestioni dagli anni ’50 e ’60, per poi piombare a terra scorrendo sulle linee del corpo con la sveltezza tipica degli anni ’70, gli stessi da cui proviene la memoria dei pattern a grandi quadrati, che esaltano la leggerezza delle sete e degli chiffon degli abiti che proteggono, anch’essi spesso lunghi, così delicati eppur assertive della femminilità che li veste.
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Le storie si dipanano via via nei colori: caldi come le copertine collezionate in schiera su scaffali affettuosi, quindi color marrone, ruggine, cammello, rosso intenso e giallo luminoso, ma anche freddi, pur sempre accoglienti, blu e azzurri che rispecchiano il mare e il cielo della Sicilia da cui provengono, il rosa della tenerezza e il viola deciso. E il mélange delle tinte a comporre la stampa che l’ispirazione la racchiude tutta: quella che tratteggia un’infinità di libri, infiniti come le storie di femminilità gioiosa delle donne abbracciate dalla creatività appassionata di Cettina Bucca.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Villa Trentuno: borse preziose come stelle, letteralmente!
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Quante storie può serbare una borsa! Compagna inseparabile dell’apparire femminile, scelta per accordarsi con l’abito e con l’animo, tra i mille oggetti che ospita trova sempre spazio per sistemare anche gli innumerevoli racconti di vita, i frammenti sparsi di esperienze quotidiane, le romantiche speranze del cuore, ma anche le aspirazioni di bellezza allo specchio!
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Ma se per un breve momento ci soffermiamo a pensare alla nascita di una borsa, di una di quelle creazioni eccellenti che sono opera della creatività densa di chi lo stile lo plasma per professione, e per passione, ça va sans dire, ecco che le storie si moltiplicano: perché si aggiungono quelle che appartengono all’universo sorprendente dell’ispirazione, dove si può trovare di tutto, e dove questo tutto trova sempre il suo senso. 
Come accade nelle borse firmate Villa Trentuno!
Così, pour parler, si potrebbe persino pensare che dentro il contenitore creativo dell’ispirazione di stilista possono venir fuori suggestioni come il bagliore delle costellazioni celesti, la straordinaria bellezza artistica di storiche ville italiane, la presenza inaspettata e trionfante del cervo volante: tutte insieme, tutte in armonia consapevole a formare il fil rouge di una collezione. Ebbene, tale collezione esiste davvero, ed è la nuova collezione Autunno-Inverno 2019-20 di Villa Trentuno!
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Ovvero il brand giovane fondato dall’altrettanto giovane Emilia Poli, e che della sua fondatrice sublima ogni aspetto: le origini lucchesi presenti già nel nome, ovvero quella “Villa” che rievoca il patrimonio pregiato delle ville storiche incastonate nella Piana di Lucca, vere opere d’arte intrise di meraviglia lussuosa perché volute dalle classi abbienti come residenza estiva immersa nel verde e nell’opulenza di affreschi e stature, portici e giardini; l’appartenenza toscana, la stessa della maestria artigiana pelletteria che crea a mano ogni singola borsa e la rifinisce in ogni dettaglio eccellente; la passione per la moda che l’ha orientata negli studi e nelle collaborazioni con brand rinomati.
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L’origine lucchese è nuovamente la guida per l’ispirazione della collezione per la prossima stagione fredda: le volte celesti che fanno da sfondo notturno alle ville lucchesi adagiano le loro costellazioni sulle borse, dove diventano preziosi decori che brillano sul blu profondo della palette delicata; preziosi come il rametto Twig che funge da manico, ottenuto dal calco di un rametto di quercia della Villa Trentuno, e come il cervo volante che sfavilla come simbolo di buona sorte e segno distintivo del brand. Le forme son variegate tanto quanto le necessità di uso pratico e sfizio estetico di qualsiasi donna: dalla mini alla maxi, geometrica o tondeggiante, profonda o sottile. Tutte uniche, perché vere opere d’arte artigiana: perfettamente personalizzabili per assecondare qualsiasi stile, e storia.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Loredana Roccasalva: gli abiti sono occasioni sartoriali d’incontro
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“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso: ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”: il grande poeta inglese John Donne perdonerà l’azzardo del prestito di queste sue parole che scrisse una buona manciata di secoli fa, ma mai affermazione fu più adeguata per accompagnarci a conoscere il pregio generoso dell’intenzione che s’intreccia alla materia eccellente della nuova collezione di Loredana Roccasalva per la prossima stagione Autunno-Inverno 2019-20!
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Affinità elettive non solo poetiche, ma innanzitutto biografiche: per Loredana Roccasalva, fondatrice e cuore stilistico del brand con cui condivide il nome di battesimo, l’isola in questione non è solo un’immagine metaforica, ma è anche quella che accoglie le radici della sua identità, di donna e di stilista, ovvero la terra siciliana, modicana per l’esattezza.
Ma anche se le radici sono infilate letteralmente sull’isola, le fronde della creatività di Loredana crescono, si espandono determinate e curiose a osservare cosa accade oltre l’orizzonte conosciuto della tradizione locale: l’arte stilosa che nutre l’anima talentuosa e le mani sagge di Loredana Roccasalva, infatti, da sempre posa il suo sguardo sul continente vasto della società, delle persone variegate che la abitano, dei loro guardaroba che necessitano meno vestiti standardizzati e più abiti allacciati all’animo oltre che al corpo che li indossa.
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E la collezione Autunno-Inverno 2018-19 è una celebrazione rinnovata a questa dedizione sociale attraverso l’arte sartoriale! Le creazioni della collezione sono infatti una declinazione felicemente personale dell’arte relazionale: come fossero degli itinerari sensoriali, i capi sono pensati per vestire, certo, ma anche per essere un invito a superare l’isolamento e a riscoprire la meraviglia spontanea dell’incontro. Come? 
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Osservateli bene: gustate pure la piacevolezza ricca della manifattura eccellente, che della sartorialità artigianale di Loredana Roccasalva è la cifra distintiva. Ed ora lasciate che alla contemplazione dell’esattezza si aggiunga il gusto curioso della scoperta imprevista dell’imperfezione: li vedete quei fili che sembrano lasciati lì per distrazione sugli orli delle gonne e sui perimetri degli abiti? Non sono errori, bensì sono le strade sulle quali incamminarsi per andare alla scoperta dell’altro, pretesti sartoriali per innescare il dialogo, geografie sul tessuto che tracciano la via dell’incontro.
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Gli abiti della collezione Autunno-Inverno 2019-20 di Loredana Roccasalva, infatti, chiedono di essere avvicinati: invitano con garbo e familiarità ad essere esplorati su quegli orli vivi e vitali, a soffermarsi per far giocare i fili tra le dita che pendono dalle lane lavorate a telaio, per coccolare tra le mani le protuberanze soffici del macro-cardigan, a tirar fuori la gentilezza sorridente e attenta anziché la sveltezza superficiale della fretta, per chiedere a voce curiosa come mai sono stati lasciati liberi di fluttuare nell’aria sul confine di un abito di qualità palesemente sartoriale.
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O come ci sono finiti tutti quei pannelli di tessuti diversi a formare un cappotto che sia lui che lei può indossare? Il regalo che quest’invito a varcare il confine dell’isolamento frettoloso riserva a chi lo, accoglie indossando gli abiti o incontrandoli, è di certo assai sorprendente: la rivelazione dell’incontro spontaneo.  L’incrocio possibile di storie di vita: è la scoperta che la bellezza si accoccola nell’imperfezione, smussa gli spigoli respingenti dell’esattezza eccessiva e apre lo spazio per la conoscenza reciproca.
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Per concludere, potremmo chiedere un ulteriore prestito poetico e allacciare letteralmente il filo con un’artista che ha abitato l’ispirazione di Loredana Roccasalva per questa collezione, ovvero Maria Lai. In occasione del suo intervento ambientale “Legarsi alla montagna” (Ulassai, 1981), sovvenendo alla richiesta di un monumento da parte del sindaco, l’artista parte da una leggenda locale e unisce, insieme ai suoi concittadini, una con l’altra tutte le case, e allaccia le case alla montagna franosa che incombe, con 26 chilometri di nastro azzurro: «Lasciai a ciascuno la scelta di come legarsi al proprio vicino.
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E così dove non c’era amicizia il nastro passava teso e dritto, dove l’amicizia c’era invece si faceva un nodo simbolico. Dove c’era l’amore veniva fatto un fiocco.» Complimenti dunque a Loredana Roccasalva, e al suo invito sartoriale ad allacciare fiocchi spontanei laddove il perimetro dell’isolamento sarebbe attraversato da un filo dritto e solitario.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Caterina Moro: gli abiti sono una musica che suona per chi li indossa 
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Incontrare Caterina Moro la fashion designer, talentuosa ed entusiasta, ed incontrare le creazioni del brand che porta impresso il suo stesso nome e la sua stessa gioia creativa generosa e talentuosa, ecco: è un’occasione davvero speciale. Speciale perché intrisa di autenticità: nei vari veri sensi felici della parola!
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Per immergersi al meglio con tutta la piacevolezza consapevole in questo nostro incontro condiviso è necessaria una doverosa presentazione, ça va sans dire: Caterina Moro, la stilista, è la giovane donna fondatrice, anima creativa, cuore appassionato e mente brillante del marchio omonimo, altrettanto giovane nel fashion world, nel quale ha fatto il suo ingresso con grazia e grinta solo una manciata di mesi fa. Ma all’interno del quale sta pavimentando la sua personalissima strada di successo non solo con le leggendarie buone intenzioni, ma anche con creazioni che agguantano con applaudita concretezza il gusto e il desiderio.
L’autenticità inizia già nella storia creativa personale: apriamo il bagaglio di esperienze di Caterina e troviamo un background inusuale, se comparato ad un’eventuale carriera tipica nella moda, ma la cui essenza atipica è proprio la forza che ne rende la sostanza unica. Tradotto in termini più immediati: nella formazione di Caterina c’è una densa presenza di musica classica. Et voilà l’ingrediente diverso, e per lungo tempo anche sofferto: una laurea in Musicologia, e un diploma di secondo livello in canto lirico presso il conservatorio di Santa Cecilia di Roma.
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Eppure, è proprio quest’educazione al bello musicale, all’armonia propria della musica classica che ha plasmato in Caterina un senso della misura peculiare, una spinta costante a sperimentare andando al fondo delle cose, per risalirne ad un ritmo che suona sulle note di Mozart ed Handel mentre la mente cerca l’ispirazione e la traduce in collezioni d’abbigliamento e accessori.
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Un’alchimia creativa speciale miscelata alla passione per la moda: ecco l’essenza alla base di una carriera inaugurata all’Accademia di Costume e Moda con un master in Haute Couture, e concretizzata in una dimensione costruita davvero su di sé, sulla visione personalissima, nuova e indipendente di uno stile sartoriale che non è né couture né industria, bensì è eccellenza di forma e sostanza applicata alla quotidianità femminile, e sublimata con il gusto per la sperimentazione.
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La collezione del prossimo Autunno-Inverno 2019-20 è una conferma rinnovata delle virtù dell’universo fashion di Caterina Moro: abiti e accessori ideati per nobilitare la vita quotidiana, per accompagnare le donne in ogni momento della giornata e in ogni variante di occasioni, per impreziosire la propria vita e la propria persona con una nuova visione di bellezza, dove la sofisticatezza è libertà dagli orpelli e dalle forzature, per divenire un inno felice al minimalismo.
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Le creazioni sono un gioco di equilibrismo tra semplicità delle linee e sofisticatezza dei dettagli, grazie anche e tantissimo alla sinergia con le aziende del Made in Italy, che per Caterina sono un valore nel quale ripone la sua fiducia appassionata e pienamente ricambiata.
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È grazie alla collaborazione con aziende come Imago Rola, che ha creato per lei il macro pied de poule della collezione, e Omnia Piega, eccellenza per la plissettatura in Italia, che si è offerta di sponsorizzare tutti i plissettati della nuova collezione, ed ha anche messo a disposizione i suoi bellissimi tessuti, studiati appositamente per la plissettatura, che Caterina ha ottenuto quei risultati straordinari che caratterizzano la collezione, come le gonne in denim plissettato, il check in 3D sull’ecopelle, il tacco in nappa plissettata del suo iconico tronchetto.
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A proposito di autenticità, lasciamo alla voce di Caterina Moro la bellezza di raccontare la sua moda: “immagino i miei abiti come una musica che solo chi li indossa possa sentire, e che costituisca un’armatura nei confronti delle bruttezze del mondo: non disegno per rendere le donne sexy, disegno per farle sentire speciali, e per metterle in condizione di fare cose speciali.  
Silvia Scorcella
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