Antoine Peters, “Space Garments”: abiti e spazio sono senza confini, come l’ottimismo
Accadono cose sorprendenti nell’universo creativo di Antoine Peters!
Ne varchi la soglia e non ne vorresti uscire più, perché qui, insieme a lui si possono indossare giochi divertentissimi per affrontare temi e riflessioni serissime: e non c’è mai un solo vincitore, ma vinciamo tutti. Tutti insieme, sempre.
Che cosa si vince? Un premio importantissimo: il sorriso per affrontare con ottimismo granitico la negatività dilagante.
L’universo creativo di Antoine Peters, infatti, sembra fatto della stessa sostanza del mistero buffo.
Dentro, nel cuore, c’è la sua ricerca spasmodica, entusiasta, instancabile, su concetti così complessi che sfiorano l’inaccessibilità del mistero, che iniziano nella moda, si moltiplicano nei capi d’abbigliamento e negli oggetti di design, fluiscono nelle stampe e nelle stoffe, attraversano il corpo e si espandono nello spazio, si allacciano alla musica, si mostrano nel video, discutono con l’arte, si mettono in relazione tra loro, rivolgono domande a noi, sconvolgono gerarchie, ribaltano preconcetti, abbattono pregiudizi, sconquassano confini mentali, disciplinari, sociali.
Fuori, c’è il divertimento buffo delle sue creazioni, collezioni, installazioni: fatte di forme bizzarre, colori vibranti, trovate irriverenti, intenzioni scherzose, provocazioni giocose, approcci accoglienti, invenzioni sorprendenti, sperimentazioni stupefacenti.
Architetture allestite col principio della semplicità per far passare con immediatezza e leggerezza i messaggi di positività.
Fuori ci siamo anche noi tutti che veniamo invitati dentro, con gentilezza, a prendere parte al grande gioco serissimo di Antoine Peters: e il suo invito è proprio come un abbraccio di cui ci si può fidare. E a cui ci si può affidare.
L’invito più recente ad immergerci - letteralmente! - nel suo mondo è un progetto che s’intitola “Space Garments”: già il nome è premessa, e promessa, di un’intensa riflessione sugli abiti, lo spazio, il corpo a cui capita ci starci nel mezzo, le loro relazioni e le nostre percezioni. Ma prima di inoltrarci in quest’alchimia, concediamoci un percorso breve ma intenso, nella sua biografia personale e creativa: al fine di cogliere e goderci al meglio quello che il progetto ha da comunicarci.
L’origine biografica di Antoine Peters ha le radici in Olanda, nato e cresciuto nella campagna di Vorden, vive e lavora ad Amsterdam. L’origine creativa inizia nella formazione all’Accademia d’Arte di Arnhem, prosegue al Fashion Institute, si plasma con l’esperienza da Viktor & Rolf come fosse un’inevitabile affinità elettiva, e matura ben presto nella consapevolezza di un mestiere in cui la moda è un mondo felice di partenza su cui innestare il dialogo euforico con altri mondi creativi.
Viene accolto presto e con successo all’Amsterdam Fashion Week: ma la passerella non è il posto del trionfo, piuttosto è un ponte per collegare le numerosi direzioni e visioni anticonvenzionali della sua creatività che si rivolgono alla collettività.
Antoine Peters, infatti, ha un solo scopo chiarissimo: darsi la possibilità di innescare il cambiamento positivo nel mondo, a proposito di tematiche molto serie come i rischi dell’idealismo, i danni del consumismo, le ingiustizie dei preconcetti sociali, il vizio dell’impazienza di produrre opinioni e scagliare giudizi, la necessità di riscoprire l’intimità con con noi stessi e l’accoglienza con gli altri. L’arma che usa ha come grilletto la diffusione di un piccolo sorriso: in pratica, uno strumento di distrazione di massa dai meccanismi negativi della realtà.
Antoine Peters ci sposta i punti di vista da davanti agli occhi: ci trattiene a riflettere, ci guida a riconsiderare i pensieri generati dalla frenesia, ci sorprende per migliorarci mentre ci divertiamo. Per questo il suo immaginario non ha niente a che fare con intellettualismi elitari: con lui tutto è pop, la cultura popolare è la sua fonte d’osservazione, il casualwear è la sua fonte di progettazione, l’ironia lieta è la sua lingua d’espressione, anche quando si spinge avanti nella sperimentazione.
Racconta che qualsiasi cosa, in qualsiasi momento nutre la sua immaginazione: tutto finisce dentro a delle scatole dedicate all’ispirazione, ma che si chiamano ‘scatole della traspirazione’ perché il lavoro da fare poi è questione di fatica e dedizione. Per raggiungere ogni volta un effetto straordinario attraverso l’immediatezza dell’ordinario.
Come quella prima volta che è diventato famoso col progetto “A sweater for the world!’: una felpa enorme fatta per accogliere due persone, portata in giro per accogliere più individui possibili, per accoppiare più differenze possibili e dimostrare che la tolleranza è possibile. O come quando con “One Man Show”, Antoine Peters ha deciso che avrebbe saltato il giro sulla giostra semestrale della fashion week perché aveva bisogno di impiegare il tempo per sistemare il suo brand, e usare il tempo extra per imparare a fare la maglia, tra cui la stessa maglia con cui ha gironzolato per i party fashion.
Come quando fa collezioni dai titoli surrealisti come gli abiti: in “Turn Your Frown Upside Down” invita tutti a capovolgere il broncio, mette alle modelle un nasone da clown ma in paillettes rosa nude e diffonde gli smile sugli abiti; in “To Make An Elephant Out Of A Mosquito” gioca con gli estremi, dimostra che è tutta questione di percezioni, e che se ingigantisci una zanzara si trasforma in un elefante, e viceversa un elefante può essere rimpicciolito nella metamorfosi della fantasia fino a diventare una stampa minima come un insetto; in “The World is Flat” celebra il primato di essere il primo fashion designer a presentare una collezione col video pop con una vera canzone pop, per mostrare una collezione dove tutto è davvero pop e tutto passa dalla tridimensionalità alle due dimensioni piatte come le stampe, persino gli abiti, gli accessori, le modelle; in “Fat Poeple are harder to kidnap” scompone la camicia di forza, sperimenta con quel che ne resta comprese maniche di 5 metri, tappa la bocca alle modelle con scotch a forma di sorriso, crea stampe come fossero lettere di riscatto con lettere prese da brand fashion e multinazionali del food, gioca con gli estremi delle dimensioni per affrontare l’annosa questione del grosso contro snello non per dare una risposta, ma per spalancare la domanda.
O ancora, come quando fa installazioni che sembrano minimali in apparenza, ma nell’essenza sono ricche di sperimentazione: ad esempio il primo “Lenticular Dress” con cui realizza il desiderio di trasferire la tecnica lenticolare dalla carta alla stoffa, e ci riesce con le pieghe creando l’illusione ottica di molteplici pattern che sfumano l’uno nell’altro a seconda del movimento, mentre riesce anche nell’intenzione di incoraggiarci a sospendere il giudizio perché niente è come appare a prima vista, ma tutto può cambiare a seconda del punto di vista. Un concetto ribadito e sviluppato in “Hey, Wait a Minute!” dove c’è una versione 2.0 del Lenticular Dress che è un piccolo capolavoro di origami giapponese dipinto a mano, con l’importante missione di racchiudere due facce, una tutta nera e l’altra multicolore, l’una che muta nell’altra col movimento, e così facendo ci invita, noi spettatori, a rallentare i pensieri che sganciano giudizi frettolosi, e ad accertarci nel frattempo che la negatività può essere allacciata alla positività, e viceversa.
Torniamo dunque all’invito più recente che, come accennato, ha come titolo “Space Garments”: un progetto che ci accoglie in una dimensione che non c’è.
O meglio, che non è tangibile ma perfettamente intelligibile, non la possiamo abitare ma la possiamo visualizzare, grazie alla tecnologia virtuale che ha tradotto quello che l’ingegno di Antoine Peters continua ad allestire nella sua mente da almeno vent’anni, per l’occasione della Dutch Design Week riassunto in dieci affascinanti proposte.
L’attributo non è affatto casuale: si tratta di mesh-up tra l’abbigliamento e lo spazio che nascono proprio dal fascino potente che i capi, gli oggetti, il corpo, lo spazio, le relazioni che intessono, le riflessioni filosofiche che stimolano, i punti di vista che sbloccano, i suggerimenti sociali che forniscono, esercitano con vigore e passione su Antoine Peters.
Se proprio dovesse esserci una gerarchia, ecco: per Antoine Peters lo spazio intorno ad un abito è importante tanto quanto l’abito, perciò non è detto che sia importante che l’abito sia indossabile, è più importante, almeno secondo lui, esplorare le interazioni tra tutti gli elementi, compreso il corpo che ci si trova in mezzo, dentro l’abito e nello spazio.
Sembrano esercizi visionari: gli abiti vengono stirati, distorti, deformati, tagliati, avviluppati, espansi, riconfigurati, le nostre percezioni vengono sfidate ad abbandonare le concezioni tradizionali per abbracciare nuove possibilità, per considerare nuovi significati dei vestiti, dello spazio, del fatto che il nostro corpo potrebbe non essere così necessario a definire i confini, tanto che potremmo ritrovarci ad indossare un intero pavimento o ad assistere ai nostri pantaloni che si estendono a occupare tutta la stanza.
Realismo e astrazione si fondono per confonderci: che è il modo migliore per rinfrescare gli occhi, rigenerarci i pensieri, ricollocare i confini sempre un po’ più salvificamente in là.
All’ingresso dell’universo creativo di Antoine Peters potrebbe esserci una grande insegna, ovviamente coloratissima: con su una scritta ispirata al celebre motto latino “Omnia vincit amor”, ma mettendo “ottimismo” al posto della parola amore, che tanto ci starebbe già felicemente compresa dentro.
Silvia Scorcella
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Convidamos a artista Pri Barbosa ( @priii_barbosa ) para fazer a arte da segunda edição do nosso Zine, onde falamos sobre 3 mulheres inspiradoras para nós. A intenção é incentivar artistas mulheres brasileiras e abrir espaço para que elas possam passar a sua mensagem. Ficamos muito felizes com a parceria e abaixo você pode conferir a entrevista completa com a artista.
MSP: Qual sua cidade natal, sua atual cidade e qual a sua profissão?
Pri: Sou daqui de São Paulo mesmo e sou artista visual e ilustradora.
MSP: Como começou a se engajar com o feminismo?
Pri: O feminismo sempre esteve presente na minha maneira de pensar, mas eu só comecei a me considerar uma mulher feminista e entender mais sobre isso aos 20 e poucos anos. Fui indo atrás de mais informações e esse processo foi permeando meu trabalho e virou uma das minhas grandes motivações pra criar.
MSP: Conte-nos um pouco do seu trabalho com criação de conteúdo nas redes sociais. Qual foi sua motivação?
Pri: A criação de conteúdo vem de forma natural, acompanhando o crescimento do meu trabalho. Acho importante me colocar como pessoa e não só mostrar o trabalho final, isso traz as pessoas mais para perto e tira a aura sagrada que muitas vezes colocam num artista. Também acho uma boa maneira de incentivar novos artistas, mostrando um pouquinho do meu processo.
MSP: Pra você qual a importância da conscientização sobre os assuntos que aborda?
Pri: É fundamental que a gente torne natural conversar sobre política, que a gente entenda nosso poder e nossa responsabilidade coletiva. Falar sobre feminismo é falar sobre política, é repensar nossas ações e ter outros pontos de vista.
MSP: Como conheceu a Modelaria? O que acha da marca?
Pri: Conheci a Modelaria pelo Instagram e já sigo há um tempão, adoro os produtos e acho que essa collab com ilustradoras nacionais é demais. Também amei ver mulheres por trás de uma marca tão legal!
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Prada s/s 21: nella sfilata mai avvenuta gli abiti sono più concreti che mai
Concretezza e surrealtà: sembra un’azzardata accoppiata di contraddizioni… e lo è davvero. Anzi, son proprio le contraddizioni ad essere valorizzate, persino celebrate, con quel modo di fare sottilmente cerebrale ed al contempo esteticamente pungente, quasi pruriginoso, perché veritiero, che è tipico di Prada.
Accade nuovamente nella collezione s/s 2021 che quell’approccio perfettamente disturbante finalizzato a scuotere la rigidità delle prese di posizione per spostare sempre oltre i confini del gusto e dello stile, ma anche i confini della visione sulla realtà che abitiamo e che negli abiti viene rifratta, ce l’ha già nel titolo: “Prada Multiple Views, The Show That Never Happened”. Suona un pizzico magrittiano, nevvero?
Ed in effetti lo è: pensiamo di vedere una sfilata, ma la sfilata come la conoscevamo, quello spettacolo che accadeva nella vita offline con al centro una passerella solcata dalle creazioni indossate, circondata da un’élite di pubblico applaudente e giudicante, e su cui alla fine si affacciava sfuggente e sorniona la signora Miuccia a porgere il suo iconico inchino non c’è.
Al suo posto, c’è la versione che è la conseguenza del periodo sconvolgente e trasformativo, almeno in questo brevissimo termine, che è stata la pandemia con annesso lock-down: ovvero il digitale come strumento principale di sostituzione alla realtà fisica, e la moltiplicazione dei punti di vista, come trasposizione di quella molteplicità di percezioni e opinioni che avveniva tra il pubblico durante la sfilata tradizionale, ma anche come necessità di mantenere il valore della conversazione collettiva.
All’atto pratico questa dichiarazione d’intenti si è realizzata nella molteplicità di 5 visioni: 5 narrazioni affidate a 5 famose e differenti personalità creative, ovvero Willy Vanderperre, Juergen Teller, Joanna Piotrowska, Martine Syms e Terence Nance, ognuno autore e autrice di un microfilm, un frammento a suo modo unico e corale al tempo stesso, allacciati l’un l’altro a formare l’intero show.
Ma dentro questo caleidoscopio che moltiplica visioni, percezioni, intenzioni di messaggi e significazioni, un principio di stabilità c’è: gli abiti, focus vero del progetto di collezione, unico strumento davvero utile per dare un senso al fare moda almeno adesso, almeno secondo la signora Miuccia.
Gli abiti che nascono dall’identità di chi li concepisce, e che son destinati ad allacciarsi all’identità di chi sceglierà di possederli e indossarli: quelli della collezione s/s 2021 sono, ça va sans dire, frutto anch’essi di una riflessione profonda, quasi brutale, sulla realtà che mentre sfugge alla possibilità di previsione sul futuro, di certo richiede la necessità di coerenza col passato e di consapevolezza nel presente.
Ed eccola la visione primaria, quella che da Prada s’infonde nella manciata concisa di creazioni in collezione: più i tempi si fanno complessi, più gli abiti diventano semplici.
Per chi al lessico pradesco è avvezzo, ci riconoscerà l’acme della quintessenza di Prada: la funzionalità che è la ragion d’essere del suo minimalismo, la praticità che è la ragione di fare anche attraverso materiali resistenti come quelli tecnici e ormai leggendari come il nylon. Il nylon by Prada, ovviamente: quello che ha segnato l’inizio della sua fama fashion e che adesso ne chiude il cerchio dentro una collezione che sembra un riassunto rapido eppur senza tempo della sua storia.
Non manca nulla: la silhouette così affilata da sembrare brutale, la camicia bianca netta e geometrica che mai scompare, la mancanza assoluta di qualsiasi orpello che lascia spazio al protagonismo dei materiali e della conciliazione dei loro opposti, come quando i tessuti di derivazione industriale vengono trattati con manifatture classiche, quando l’asciuttezza delle forme quasi futuristiche viene giustapposta alle linee di derivazione formale.
Accade così che l’abito con l’elegante gonna vaporosa ha tutta l’efficienza pratica del nylon seppur attraversato dal pizzo, il pantalone asciutto a staffa si aggancia alla ballerina con la punta più o meno affilata, la maglina sottile compone completi da sfoggiare anche fuori casa sotto un soprabito snello, il dinamismo dell’abbigliamento sportivo bianco candido tratto da Linea Rossa si mescola alla delicatezza quasi fragile dei colori pastello dei maglioni soffici e degli abiti tratti dalla lingerie. Unici vezzi: un paio di fiocchi così esatti da apparire grafici e un paio di motivi floreali che s’insinuano in una carrellata di neri assoluti.
A rifletterci ben bene, però, c’è un aspetto non del tutto vero in ciò che ho appena raccontato, o forse non del tutto finto: alla fine della sfilata mai accaduta l’inchino di Miuccia Prada di fronte al suo pubblico accade davvero. Ma il pubblico non esiste, o meglio: esiste ovunque.
Silvia Scorcella
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