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silviascorcella · 5 months
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IINDACO: come l’ora blu che sfuma nella notte è il brand che fonde il lusso nella sostenibilità
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Narra la saggezza senza tempo addetta ad esplorare le fila sottili che muovono gli equilibri del mondo e degli animi, che l’indaco è il colore di cui si tinge il risveglio interiore: a localizzarla fuori, indaco è la sfumatura che scorgono gli occhi di fronte alla meraviglia dell’arcobaleno dove prende posto tra l’azzurro e il violetto, a cercarla dentro, dal fascino dell’indaco è avvolto chi risponde alla carezza segreta che sospinge lo spirito ad elevarsi e a rivolgere alla realtà che lo circonda un sano e salvifico occhio critico, alla positiva ricerca dell’armonia.
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Un tale preambolo può sembrare una congettura sospesa nella voglia squisitamente personale e tignosa a sorprendere connessioni impalpabili tra realtà e situazioni, eppure l’affinità sorge spontanea tra il significato segreto del colore e l’intento virtuoso che guida il giovane brand che l’ha incastonato nel nome: IINDACO.
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Che è sì un marchio di calzature femminili desiderabilissime che si è appena affacciato con consapevolezza e meritato successo al fashion world, ma che allo stesso tempo è anche un progetto di ampio respiro, pregiato e concreto, con al cuore la determinazione a realizzare l’opportunità di incoraggiare il cambiamento positivo nella fashion industry restituendo al lusso anche il valore della responsabilità, e dunque della sostenibilità.
Nel nome di IINDACO, in verità, son già riposti con cura elegante tutti gli indizi che ne rivelano la storia dell’essenza e la forza della presenza, ad iniziare da  quella doppia “i” che nell’apparenza maiuscola svela una sorta di codice intimo numerico legato alla sorte: doppio, perché doppia è l’anima del brand composta dalle due fondatrici Pamela Costantini e Domitilla Rapisardi, due “i” maiuscole che somigliano al numero undici, ovvero il mese di novembre che accoglie la nascita non solo di entrambe, ma anche quella del marchio.
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Dal nome IINDACO giunge immediata anche la suggestione, che colora l’ispirazione e dà forma pragmatica all’aspirazione: indaco è il colore della sfumatura elegante di cui si veste la sera in quel momento intenso e avvolgente in cui si prepara ad entrare nella notte, quando le ombre si sciolgono, il sole cala e regala le ultime schegge di luce morbida, e nella vita ordinaria la routine rallenta, l’impegno del lavoro fa spazio al disimpegno rilassato, l’ufficio chiude la porta mentre si apre quella del bar dove regalarsi un aperitivo, preludio di una serata festante.
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Questo momento squisito ha il nome di “blue hour”: l’ora blu in cui Pamela e Domitilla avevano l’abitudine d ritrovarsi, al termine delle rispettive giornate di lavoro e all’inizio della piacevolezza condivisa delle chiacchiere e dei confronti personali. L’ora blu che ha ispirato la sostanza creativa del brand: una manciata di modelli, dedicati a questo momento speciale in cui le donne si spogliano della divisa diurna e, come fossero crisalidi che attraversano una metamorfosi di umore e guardaroba, si rivestono della propria personalità e calzano le scarpe che le accompagnano nell’eleganza confortevole, e contemporanea, della vita affacciata sulla soglia della sera.
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La ricercatezza intrigante delle scarpe IINDACO agguanta rapidissima il desiderio e il gusto: lo stile è un’alchimia che si avvicina all’unicità, dove ci sono le rimembranze dei favolosi anni ’90 fatti di binomi e opposizioni, quando la sottrazione quasi rituale del minimal conviveva con l’estrosità dell’opulenza, e quando le donne uscivano con nuova determinazione dal guscio silenzioso e s’incamminavano con fierezza sulla via del girl power, insieme alle predilezioni di Pamela, che del brand è l’animo creativo dal tocco pratico e asciutto, per i tagli delle scarpe maschili che si prestano ad essere rielaborati con la ricercatezza dello charme femminile e l’esattezza dell’architettura razionalista, ed anche insieme al penchant appassionato di Domitilla, che invece è l’animo fantasioso, per per l’arte e il surrealismo.
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La sofisticatezza dell’ispirazione traduce lo stile in pochi modelli, ma perfetti, pensati attraverso la chiave della versatilità e dell’inclusività, perché ogni donna è diversa, così come i look che ama indossare, e le occasioni con cui compone la sua vita diurna e le sue serate: li distribuisce in tre proposte, ovvero “11 am” dedicata al tempo del lavoro,  “5 pm “ quando il sentimento della sera accarezza la voglia di cambiare abito e mood, e “Midnight” quando ci si immerge nella seduzione della notte; e li plasma nell”Ade Sandal”, la ciabattina con il tacco ricoperto di fiamme luccicanti, lo stivaletto stringato “Argo”, la pump Pegaso, ed infine Orfeo, lo stivale nella doppia versione, una che giunge al ginocchio, l’altra che si innalza sopra con l’appeal del cuissard.
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La virtuosità dell’aspirazione conferma l’intuizione della veridicità del significato segreto dell’indaco, colore del risveglio interiore che guida alla trasformazione positiva della realtà esteriore: il brand IINDACO nasce infatti dalla consapevolezza di Pamela e Domitilla, entrambe valevoli professioniste di lungo tempo nel settore della scarpa di moda, della reticenza cocciuta del fashion world ad aprirsi con lucidità alla sensibilità della sostenibilità, ambientale e sociale, e fiorisce nella determinazione di entrambe di costruire un marchio che dimostrasse come il lusso possa davvero esistere e agire nel rispetto della responsabilità ambientale e dell’etica umana.
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Dentro IINDACO tutto è pianificato, progettato e condiviso nel valore dell’economia circolare: dalla tradizione del Made in Italy, dove la pregiata expertise dello storico distretto di San Mauro Pascoli che realizza le creazioni applica l’artigianalità all’origine ecologica dei materiali, ovvero pelami e tessuti che provengono da giacenze d’eccellenza e dal riciclo degli scarti dell’industria alimentare, la evolve nell’innovazione dei processi certificati, la declina nella sostenibilità che riguarda tutti gli elementi, compresi i tacchi in abs riciclato e riciclabile, le solette interne e le fodere biodegradabili, fino perfino a quella cromia indaco che contraddistingue il packaging che proviene dagli scarti dell’industria agroalimentare della lavanda. Inoltre, le spedizioni sono tracciate per compensare le emissioni di co2, le persone che lavorano nella filiera sono trattate con il rispetto dell’etica, le donne che scelgono di acquistare le scarpe sono educate con le giuste informazioni a curarle affinché attraversino il tempo senza esserne scalfite, e sono coinvolte in un brand che è un vero, bellissimo, progetto di stile di vita rigenerato. Oltre che felicemente stiloso.
Lunga vita a IINDACO! Nel senso della durevolezza concreta del termine, e nell’entusiasmo sincero dello scopo.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Antoine Peters, “Space Garments”: abiti e spazio sono senza confini, come l’ottimismo
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Accadono cose sorprendenti nell’universo creativo di Antoine Peters! Ne varchi la soglia e non ne vorresti uscire più, perché qui, insieme a lui si possono indossare giochi divertentissimi per affrontare temi e riflessioni serissime: e non c’è mai un solo vincitore, ma vinciamo tutti. Tutti insieme, sempre. Che cosa si vince? Un premio importantissimo: il sorriso per affrontare con ottimismo granitico la negatività dilagante.
L’universo creativo di Antoine Peters, infatti, sembra fatto della stessa sostanza del mistero buffo.
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Dentro, nel cuore, c’è la sua ricerca spasmodica, entusiasta, instancabile, su concetti così complessi che sfiorano l’inaccessibilità del mistero, che iniziano nella moda, si moltiplicano nei capi d’abbigliamento e negli oggetti di design, fluiscono nelle stampe e nelle stoffe, attraversano il corpo e si espandono nello spazio, si allacciano alla musica, si mostrano nel video, discutono con l’arte, si mettono in relazione tra loro, rivolgono domande a noi, sconvolgono gerarchie, ribaltano preconcetti, abbattono pregiudizi, sconquassano confini mentali, disciplinari, sociali.
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Fuori, c’è il divertimento buffo delle sue creazioni, collezioni, installazioni: fatte di forme bizzarre, colori vibranti, trovate irriverenti, intenzioni scherzose, provocazioni giocose, approcci accoglienti, invenzioni sorprendenti, sperimentazioni stupefacenti. Architetture allestite col principio della semplicità per far passare con immediatezza e leggerezza i messaggi di positività.
Fuori ci siamo anche noi tutti che veniamo invitati dentro, con gentilezza, a prendere parte al grande gioco serissimo di Antoine Peters: e il suo invito è proprio come un abbraccio di cui ci si può fidare. E a cui ci si può affidare.
L’invito più recente ad immergerci - letteralmente! - nel suo mondo è un progetto che s’intitola “Space Garments”: già il nome è premessa, e promessa, di un’intensa riflessione sugli abiti, lo spazio, il corpo a cui capita ci starci nel mezzo, le loro relazioni e le nostre percezioni. Ma prima di inoltrarci in quest’alchimia, concediamoci un percorso breve ma intenso, nella sua biografia personale e creativa: al fine di cogliere e goderci  al meglio quello che il progetto ha da comunicarci.
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L’origine biografica di Antoine Peters ha le radici in Olanda, nato e cresciuto nella campagna di Vorden, vive e lavora ad Amsterdam. L’origine creativa inizia nella formazione all’Accademia d’Arte di Arnhem, prosegue al Fashion Institute, si plasma con l’esperienza da Viktor & Rolf come fosse un’inevitabile affinità elettiva, e matura ben presto nella consapevolezza di un mestiere in cui la moda è un mondo felice di partenza su cui innestare il dialogo euforico con altri mondi creativi. Viene accolto presto e con successo all’Amsterdam Fashion Week: ma la passerella non è il posto del trionfo, piuttosto è un ponte per collegare le numerosi direzioni e visioni anticonvenzionali della sua creatività che si rivolgono alla collettività.
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Antoine Peters, infatti, ha un solo scopo chiarissimo: darsi la possibilità di innescare il cambiamento positivo nel mondo, a proposito di tematiche molto serie come i rischi dell’idealismo, i danni del consumismo, le ingiustizie dei preconcetti sociali, il vizio dell’impazienza di produrre opinioni e scagliare giudizi, la necessità di riscoprire l’intimità con con noi stessi e l’accoglienza con gli altri. L’arma che usa ha come grilletto la diffusione di un piccolo sorriso: in pratica, uno strumento di distrazione di massa dai meccanismi negativi della realtà.
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Antoine Peters ci sposta i punti di vista da davanti agli occhi: ci trattiene a riflettere, ci guida a riconsiderare i pensieri generati dalla frenesia, ci sorprende per migliorarci mentre ci divertiamo. Per questo il suo immaginario non ha niente a che fare con intellettualismi elitari: con lui tutto è pop, la cultura popolare è la sua fonte d’osservazione, il casualwear è la sua fonte di progettazione, l’ironia lieta è la sua lingua d’espressione, anche quando si spinge avanti nella sperimentazione.
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Racconta che qualsiasi cosa, in qualsiasi momento nutre la sua immaginazione: tutto finisce dentro a delle scatole dedicate all’ispirazione, ma che si chiamano ‘scatole della traspirazione’ perché il lavoro da fare poi è questione di fatica e dedizione. Per raggiungere ogni volta un effetto straordinario attraverso l’immediatezza dell’ordinario. Come quella prima volta che è diventato famoso col progetto “A sweater for the world!’: una felpa enorme fatta per accogliere due persone, portata in giro per accogliere più individui possibili, per accoppiare più differenze possibili e dimostrare che la tolleranza è possibile. O come quando con “One Man Show”, Antoine Peters ha deciso che avrebbe saltato il giro sulla giostra semestrale della fashion week perché aveva bisogno di impiegare il tempo per sistemare il suo brand, e usare il tempo extra per imparare a fare la maglia, tra cui la stessa maglia con cui ha gironzolato per i party fashion.
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Come quando fa collezioni dai titoli surrealisti come gli abiti: in “Turn Your Frown Upside Down” invita tutti a capovolgere il broncio, mette alle modelle un nasone da clown ma in paillettes rosa nude e diffonde gli smile sugli abiti; in “To Make An Elephant Out Of A Mosquito” gioca con gli estremi, dimostra che è tutta questione di percezioni, e che se ingigantisci una zanzara si trasforma in un elefante, e viceversa un elefante può essere rimpicciolito nella metamorfosi della fantasia fino a diventare una stampa minima come un insetto; in “The World is Flat” celebra il primato di essere il primo fashion designer a presentare una collezione col video pop con una vera canzone pop, per mostrare una collezione dove tutto è davvero pop e tutto passa dalla tridimensionalità alle due dimensioni piatte come le stampe, persino gli abiti, gli accessori, le modelle; in “Fat Poeple are harder to kidnap” scompone la camicia di forza, sperimenta con quel che ne resta comprese maniche di 5 metri, tappa la bocca alle modelle con scotch a forma di sorriso, crea stampe come fossero lettere di riscatto con lettere prese da brand fashion e multinazionali del food, gioca con gli estremi delle dimensioni per affrontare l’annosa questione del grosso contro snello non per dare una risposta, ma per spalancare la domanda.
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O ancora, come quando fa installazioni che sembrano minimali in apparenza, ma nell’essenza sono ricche di sperimentazione: ad esempio il primo “Lenticular Dress” con cui realizza il desiderio di trasferire la tecnica lenticolare dalla carta alla stoffa, e ci riesce con le pieghe creando l’illusione ottica di molteplici pattern che sfumano l’uno nell’altro a seconda del movimento, mentre riesce anche nell’intenzione di incoraggiarci a sospendere il giudizio perché niente è come appare a prima vista, ma tutto può cambiare a seconda del punto di vista. Un concetto ribadito e sviluppato in “Hey, Wait a Minute!” dove c’è una versione 2.0 del Lenticular Dress che è un piccolo capolavoro di origami giapponese dipinto a mano, con l’importante missione di racchiudere due facce, una tutta nera e l’altra multicolore, l’una che muta nell’altra col movimento, e così facendo ci invita, noi spettatori, a rallentare i pensieri che sganciano giudizi frettolosi, e ad accertarci nel frattempo che la negatività può essere allacciata alla positività, e viceversa.
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Torniamo dunque all’invito più recente che, come accennato, ha come titolo “Space Garments”: un progetto che ci accoglie in una dimensione che non c’è. O meglio, che non è tangibile ma perfettamente intelligibile, non la possiamo abitare ma la possiamo visualizzare, grazie alla tecnologia virtuale che ha tradotto quello che l’ingegno di Antoine Peters continua ad allestire nella sua mente da almeno vent’anni, per l’occasione della Dutch Design Week riassunto in dieci affascinanti proposte.
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L’attributo non è affatto casuale: si tratta di mesh-up tra l’abbigliamento e lo spazio che nascono proprio dal fascino potente che i capi, gli oggetti, il corpo, lo spazio, le relazioni che intessono, le riflessioni filosofiche che stimolano, i punti di vista che sbloccano, i suggerimenti sociali che forniscono, esercitano con vigore e passione su Antoine Peters.
Se proprio dovesse esserci una gerarchia, ecco: per Antoine Peters lo spazio intorno ad un abito è importante tanto quanto l’abito, perciò non è detto che sia importante che l’abito sia indossabile, è più importante, almeno secondo lui, esplorare le interazioni tra tutti gli elementi, compreso il corpo che ci si trova in mezzo, dentro l’abito e nello spazio.
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Sembrano esercizi visionari: gli abiti vengono stirati, distorti, deformati, tagliati, avviluppati, espansi, riconfigurati, le nostre percezioni vengono sfidate ad abbandonare le concezioni tradizionali per abbracciare nuove possibilità, per considerare nuovi significati dei vestiti, dello spazio, del fatto che il nostro corpo potrebbe non essere così necessario a definire i confini, tanto che potremmo ritrovarci ad indossare un intero pavimento o ad assistere ai nostri pantaloni che si estendono a occupare tutta la stanza. Realismo e astrazione si fondono per confonderci: che è il modo migliore per rinfrescare gli occhi, rigenerarci i pensieri, ricollocare i confini sempre un po’ più salvificamente in là.
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All’ingresso dell’universo creativo di Antoine Peters potrebbe esserci una grande insegna, ovviamente coloratissima: con su una scritta ispirata al celebre motto latino “Omnia vincit amor”, ma mettendo “ottimismo” al posto della parola amore, che tanto ci starebbe già felicemente compresa dentro.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Loro Piana p/e 2021: un lungo viaggio estivo nella raffinatezza eccellente
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Immergersi nell’estate firmata Loro Piana per la prossima bella stagione 2021 è una promessa di eleganza suggellata dall’alchimia del bello e ben fatto, che in più serba una suggestione assai particolare, un’esperienza quasi d’illusionismo: come se si varcasse la soglia di un caleidoscopio dedicato al viaggio, dove le storie intrecciate nei tessuti e negli abiti percorrono strade tracciate, col gusto della sofisticatezza e la sapienza del mestiere eccellente, nella geografia non solo dello spazio, ma anche del tempo. Quella di Loro Piana è infatti una brillante storia italiana che, a quantificarla in termini cronologici, risale a quasi un secolo fa: una storia che nel cuore ha la ricerca integerrima e appassionata della migliore qualità per le fibre più pregiate, comprese quelle più rare.
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Un’impresa che si dispiega nei viaggi in territori lontani, persino remoti, dove raccogliere dei veri tesori: il “baby cashmere” del nord della Cina e della Mongolia, la vicuña delle Ande, la lana Merino extra-fine dell’Australia e della Nuova Zelanda, la fibra del fiore di loto della Birmania. Tesori che una volta lavorati in Italia riserveranno un dono prezioso ai tessuti: la bellezza della qualità che viaggia attraverso il tempo, oltrepassandolo. Quella che Loro Piana intesse nelle creazioni dedicate alla prossima p/e 2021 è un’ispirazione che è, a sua volta, un invito al viaggio, anzi un invito a scoprire più itinerari: a lui è dedicato un intenso percorso nella raffinatezza versatile del lifestyle estivo, mentre a lei è dedicato un vero grand tour che l’accompagna a gustare il leggendario bien vivre dell’estate italiana.
Il viaggio nella collezione maschile si dipana nelle tappe della quotidianità estiva, scandite dal grado di formalità che man mano si scioglie nella leggerezza dell’informalità: un itinerario che compone un guardaroba completo ed essenziale al contempo, che a sua volta segue il fil rouge della praticità eccellente e si compone dei capi chiave della raffinatezza maschile, interpretati attraverso l’esattezza della sartorialità e il gusto della contemporaneità. I materiali, ça va sans dire, sono le punte di damante della maison, ovvero la seta carezzevole e lucente, il lino delicato e soffice, il cachemire pregiato e la lana che, come gli altri, si mischia per regalare il piacere della freschezza e il gioco delle texture.
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Tutto è slanciato per favorire la confortevolezza, tutto è pensato per garantire la raffinatezza: a proposito di capispalla, c’è l’attitude sportiva della giacca da motociclista, la giacca da viaggiatore che rievoca la sahariana, il parka asciutto e la giacca così alleggerita dalle strutture e soffice da sembrare una camicia, il bomber classico con collo e polsini a costine e il completo sartoriale con i rever ampi come piaceva a Sergio Loro Piana a cui rende omaggio. La maglieria è un capolavoro di savoir faire e comprende anche l’iconica polo senza bottoni; il rispetto delle necessità dello stile di vita e della voglia di eleganza riguarda anche il tempo libero, a cui è dedicato un completo che appare come una tuta, ma in verità è un ensemble di polo e pantaloni dal taglio sportivo.
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I colori sono una sinfonia suggestiva che prende parte importante all’armonia elegante: dal calore delle sfumature del deserto e dei suoi tramonti fatti di beige, arancio, i ruggine intensi e i rossi profondi, si attraversano i verdi delle foreste e ci si rinfresca nei blu che, man mano, s’illuminano negli azzurri fino a culminare nella lucentezza festosa delle tinte pastello. Il viaggio nella collezione femminile si dipana, invece, attraverso la delicatezza delle stoffe che dalla primavera si fa sempre più impalpabile fino a raggiungere la leggerezza carezzevole dell’estate: un racconto gentile sulla pelle che a sua volta narra un percorso d’intensa piacevolezza che corre lungo la riviera italiana, sfiora la costa, esplora i laghi incantevoli, si rifugia su isole meravigliose, e s’immerge con i sensi tutti nell’eleganza gustosa del bien vivre tipicamente italiano.
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Niente costruzioni indosso, né costrizioni: il guardaroba femminile è un’armonia di forme ispirate alla naturalezza, che rispettano la silhouette e la vestono di raffinatezza. Come per l’uomo, accade anche qui l’eccellenza dei materiali: il pregio morbidissimo del cashmere e baby cashmere, assieme alla freschezza dei lini, la piacevolezza delle sete, la praticità dei cotoni jacquard, popeline e jersey di seta.
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Come per l’uomo, accade anche qui che il guardaroba sia essenziale: un compendio di quel che non dovrebbe mai mancare, come l’abito chemisier in cotone impreziosito dai ricami in stile broderie anglaise, la gonna ariosa e lunga appaiata alla polo senza bottoni in cachemire, il vestito in lino libero da maniche e dall’appiombo dritto, il top con le spalline sottili che assieme alla gonna abbinata regala lo charme da riviera, la maglieria che è sempre un capolavoro di mischie e texture, i completi sartoriali che si poggiano fluidi sul corpo, i capispalla che il corpo lo avvolgono, come il trench in cotone, la giacca in seta tecnica allacciata in vita, il cappotto morbido in cachemire.
Come per l’uomo, anche sulla donna i colori compongono un’armonia di luce e raffinatezza orchestrata spesso in blocchi vibranti di sfumature intense: dalla delicatezza del burro, del rosa pallido e del celeste tenue, l’allure delle tinte s’intensifica nel blu boreale e nei verdi brillanti, fino a dipingere l’intensità abbaiante del Mar Mediterraneo e del sole che ci si tuffa lasciando la sua traccia dorata.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Prada s/s 21: nella sfilata mai avvenuta gli abiti sono più concreti che mai
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Concretezza e surrealtà: sembra un’azzardata accoppiata di contraddizioni… e lo è davvero. Anzi, son proprio le contraddizioni ad essere valorizzate, persino celebrate, con quel modo di fare sottilmente cerebrale ed al contempo esteticamente pungente, quasi pruriginoso, perché veritiero, che è tipico di Prada. Accade nuovamente nella collezione s/s 2021 che quell’approccio perfettamente disturbante finalizzato a scuotere la rigidità delle prese di posizione per spostare sempre oltre i confini del gusto e dello stile, ma anche i confini della visione sulla realtà che abitiamo e che negli abiti viene rifratta, ce l’ha già nel titolo: “Prada Multiple Views, The Show That Never Happened”. Suona un pizzico magrittiano, nevvero?
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Ed in effetti lo è: pensiamo di vedere una sfilata, ma la sfilata come la conoscevamo, quello spettacolo che accadeva nella vita offline con al centro una passerella solcata dalle creazioni indossate, circondata da un’élite di pubblico applaudente e giudicante, e su cui alla fine si affacciava sfuggente e sorniona la signora Miuccia a porgere il suo iconico inchino non c’è. Al suo posto, c’è la versione che è la conseguenza del periodo sconvolgente e trasformativo, almeno in questo brevissimo termine, che è stata la pandemia con annesso lock-down: ovvero il digitale come strumento principale di sostituzione alla realtà fisica, e la moltiplicazione dei punti di vista, come trasposizione di quella molteplicità di percezioni e opinioni che avveniva tra il pubblico durante la sfilata tradizionale, ma anche come necessità di mantenere il valore della conversazione collettiva.
All’atto pratico questa dichiarazione d’intenti si è realizzata nella molteplicità di 5 visioni: 5 narrazioni affidate a 5 famose e differenti personalità creative, ovvero Willy Vanderperre, Juergen Teller, Joanna Piotrowska, Martine Syms e Terence Nance, ognuno autore e autrice di un microfilm, un frammento a suo modo unico e corale al tempo stesso, allacciati l’un l’altro a formare l’intero show.
Ma dentro questo caleidoscopio che moltiplica visioni, percezioni, intenzioni di messaggi e significazioni, un principio di stabilità c’è: gli abiti, focus vero del progetto di collezione, unico strumento davvero utile per dare un senso al fare moda almeno adesso, almeno secondo la signora Miuccia.
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Gli abiti che nascono dall’identità di chi li concepisce, e che son destinati ad allacciarsi all’identità di chi sceglierà di possederli e indossarli: quelli della collezione s/s 2021 sono, ça va sans dire, frutto anch’essi di una riflessione profonda, quasi brutale, sulla realtà che mentre sfugge alla possibilità di previsione sul futuro, di certo richiede la necessità di coerenza col passato e di consapevolezza nel presente.
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Ed eccola la visione primaria, quella che da Prada s’infonde nella manciata concisa di creazioni in collezione: più i tempi si fanno complessi, più gli abiti diventano semplici. Per chi al lessico pradesco è avvezzo, ci riconoscerà l’acme della quintessenza di Prada: la funzionalità che è la ragion d’essere del suo minimalismo, la praticità che è la ragione di fare anche attraverso materiali resistenti come quelli tecnici e ormai leggendari come il nylon. Il nylon by Prada, ovviamente: quello che ha segnato l’inizio della sua fama fashion e che adesso ne chiude il cerchio dentro una collezione che sembra un riassunto rapido eppur senza tempo della sua storia.
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Non manca nulla: la silhouette così affilata da sembrare brutale, la camicia bianca netta e geometrica che mai scompare, la mancanza assoluta di qualsiasi orpello che lascia spazio al protagonismo dei materiali e della conciliazione dei loro opposti, come quando i tessuti di derivazione industriale vengono trattati con manifatture classiche, quando l’asciuttezza delle forme quasi futuristiche viene giustapposta alle linee di derivazione formale.
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Accade così che l’abito con l’elegante gonna vaporosa ha tutta l’efficienza pratica del nylon seppur attraversato dal pizzo, il pantalone asciutto a staffa si aggancia alla ballerina con la punta più o meno affilata, la maglina sottile compone completi da sfoggiare anche fuori casa sotto un soprabito snello, il dinamismo dell’abbigliamento sportivo bianco candido tratto da Linea Rossa si mescola alla delicatezza quasi fragile dei colori pastello dei maglioni soffici e degli abiti tratti dalla lingerie. Unici vezzi: un paio di fiocchi così esatti da apparire grafici e un paio di motivi floreali che s’insinuano in una carrellata di neri assoluti.
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A rifletterci ben bene, però, c’è un aspetto non del tutto vero in ciò che ho appena raccontato, o forse non del tutto finto: alla fine della sfilata mai accaduta l’inchino di Miuccia Prada di fronte al suo pubblico accade davvero. Ma il pubblico non esiste, o meglio: esiste ovunque.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Litkovskaya pre p/e 21: sembrano sbagli, invece sono trasformazioni
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La moda come fosse un diario del tempo vissuto, una sorta di taccuino con pagine in stoffa in cui gli eventi esteriori e le emozioni interiori, le sfumature variegate delle culture e le intemperanze degli stili di vita vengono annotati con l’acutezza della creatività e poi trascritti con gli strumenti della sartoria: così accadeva fino al termine del secolo scorso, quando l’evoluzione sociale e del gusto componeva capitoli di stile ben scanditi dalle decadi estetiche, fintanto che il racconto non è esploso nel contemporaneo caleidoscopio affollato di storie e trend stilosi.
Così torna a succedere ora, in quest’esordio così intenso, di certo provante e al contempo stimolante, della seconda decade del nuovo millennio: l’imponente accadimento della pandemia ha risvegliato l’urgenza spontanea ad annotare nel taccuino della moda quel che dall’immersione nel flusso di esistenza e coscienza imposto dal lock-down è affiorato nella consapevolezza.
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Ogni fashion designer ha collezionato le proprie suggestioni, ha ricomposto il proprio insegnamento e l’ha plasmato in un messaggio attraverso il proprio linguaggio creativo: e anche Lilia Litkovskaya non si è sottratta al richiamo positivo della sensibilità. Lei che dal 2006 guida l’allestimento della sua ricerca stilosa attraverso le creazioni del brand che porta il suo cognome e che, allo stesso tempo, porta anche la sua determinazione all’individualità d’espressione, ha ascoltato con cura le riflessioni e le suggestioni che l’immobilità improvvisa le ha suggerito: e le ha trascritte nel carosello di abiti della pre p/e 2021 che proprio in tempi di pandemia è stata concepita.
Ricerca, ripensamento, rinascita. E, ça va sans dire, riciclo. Son queste le parole-chiave che guidano l’ispirazione alla collezione, nata per l’appunto come reazione costruttiva all’esperienza distruttiva della pandemia: non  c’è un titolo ad indirizzare il racconto, ma bastano le creazioni e i segni distintivi che portano indosso per diffonderne il messaggio. Tutto, infatti, è frutto di una dichiarazione d’intenti che inizia dalla decostruzione delle forme e delle silhouette riconoscibili: Litkovskaya smonta la superficie conosciuta degli abiti così come la pandemia ha smontato la nostra percezione della quotidianità, sfalda gli elementi che partecipano alla conformazione di giacche, camicie, abiti, bomber, gonne, così come il lock-down ha sfaldato i nostri gesti, comportamenti e pensieri che costruivano la nostra routine.
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Tutto nella collezione crolla, come se d’improvviso la sicurezza sartoriale si fosse inceppata, così come son crollate le nostre certezze materiali: eppure, il bello di sfaldare l’apparenza è scoprire le virtù della sostanza nascosta sotto, per questo quelli che sembrano sbagli da modellista sono in verità la dimostrazione del nuovo che può nascere dalla trasformazione.
Sono infinite le possibilità di ripensamento e ricostruzione della nostra esistenza che ci sono offerte: è questo che dichiarano i resti delle maxi camicie scomposte, i colletti appesi alle spalle come decorazione, le maniche ricomposte in modo che possono essere infilate o avvolte alla vita come un abbraccio che si stringe in un fiocco, con lo stesso approccio componibile si comportano le maniche dell’ampio bomber in seta, mentre il classico tessuto a righe da camiceria maschile ripiegato fino a plasmare un minidress senza spalline.
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Intanto un taglio netti fende la superficie maglia e disegna un motivo delicato sul petto, così come la tecnica della scoloritura viene usata a mo’ di metafora per aggredire la superficie colorata della stoffa e grattarne via la patina artificiale per rivelare la verità di sfumatura cromatica originale: gesti di purificazione esteriore per incoraggiare il rinnovamento interiore.
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A proposito di rinnovamento, Litkovskaya prosegue il percorso di sostenibilità che aveva già intrapreso: anche in questa collezione compaiono capi nati dal riciclo di tessuti di giacenza, capi vintage e campioni inutilizzati, intessuti in una tela nuova da cui son nate la giacca cropped e la mini-gonna.
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È l’occasione giusta per approfittare della leggendaria tabula rasa su cui scrivere nuovi valori: una  sorta di tela bianca, come quella del completo in lino tinta a metà del color azzurro carta da zucchero, un invito sincero a ritrovare e indossare la serenità.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Rahul Mishra, Butterfly People: gli artigiani sono farfalle che ricamano il giardino della vita
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“Vivere non è abbastanza" disse la farfalla, “uno deve avere il sole, la libertà e un piccolo fiore”: l’essenza del racconto prezioso che si dipana nella collezione Couture a/i 2020-21 Rahul Mishra la incastona qui, in queste parole che hanno la semplicità della realtà e la suggestione della fantasia. Sono, infatti, parole prese in prestito da una fiaba di Hans Christian Andersen, opera, come lo sono tutte le fiabe, di sincerità e poesia: ovvero un’alchimia narrativa creata con minuzia e dedizione generosa, per intessere nelle trame surreali composte di parole e immaginari gli insegnamenti universali che compongono la grande trama della vita vera.
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L’antica fiaba in questione s’intitola “il farfallone”: narra le vicende di una farfalla che spreca la giovinezza sua e della primavera rigogliosa scartando la bellezza peculiare di ogni fiore in virtù della ricerca di una egoistica perfezione, finché giunto l’inverno che spegne la natura e con essa anche la gioventù, il farfallone si ritrova invecchiato e imprigionato nel compromesso di sopravvivere chiuso dentro una casa, appuntato con uno spillo dentro una teca, privato della bellezza essenziale della vita di cui ha scoperto e rimpianto ormai troppo tardi il sentimento.
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Ecco, come fosse un gesto di ribaltamento al contempo romantico ed eroico, Rahul Mishra ha creato la collezione Couture a/i 2020  su quello che il farfallone della fiaba aveva dato per scontato: il valore vitale della bellezza della natura che va difesa e celebrata. Ma anche, e soprattutto il valore etico della condivisione umana che tale bellezza la crea ogni giorno nell’armonia del lavoro da cui sbocciano i capolavori couture, così come le farfalle nutrono ogni giorno la linfa vitale della natura.
La fiaba contemporanea narrata da Rahul Mishra s’intitola per l’appunto “Butterfly People”: ed è un gesto di celebrazione e ringraziamento alle “sue” farfalle, ovvero i Karigar, gli artigiani ricamatori e sarti indiani che con le loro mani abili e le conoscenze sapienti danno forma e vita alla meraviglia delle creazioni. Ed è anche un gesto di profonda consapevolezza che dalla dimensione personale abbraccia con gentilezza anche quella universale: la forza dell’ispirazione e del messaggio della collezione si rinsaldano con la violenza della pandemia che si è abbattuta in India infliggendo al suo popolo una crisi devastante, in cui migliaia di lavoratori migranti si sono ritrovati chiusi in casa, privati del lavoro, a lottare per sopravvivere. Rahul Mishra, infatti, che sin dall’inizio ha fondato l’essenza del  brand sull’etica della “migrazione inversa”, cioè valorizzando il lavoro artigiano dislocato nei villaggi indiani d’appartenenza anziché convogliare gli artigiani in massa nella capitale dove sono gli headquarter, non solo è riuscito a realizzare la collezione Couture a/i 2020 ma l’ha trasformata in un diario interiore, e al contempo in una grande metafora di umanità che in ogni ricamo narra e celebra l’importanza della partecipazione collettiva alla co-creazione della vita.
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Un’allegoria dell’animo che si dipana sui tessuti diafani: nel cuore dell’immaginario c’è il giardino, quello che in natura riprende a fiorire rigoglioso grazie al lock-down che blocca l’intervento infestante dell’uomo, e quello metaforico della couture, in cui Rahul Mishra è il couturier-giardiniere che solo grazie alla sinergia con i suoi artigiani-farfalla può ricreare a distanza l’ecosistema dell’atelier e realizzare la meraviglia rigogliosa delle creazioni, facendo fronte al lock-down con un’azione collettiva in cui in brevissimo tempo son stati recuperati ricami e stoffe dall’archivio di collezioni precedenti, e in sei settimane son stati plasmati gli abiti, una paillette alla volta, una perlina alla volta.
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Una storia ricamata che narra il ritorno alla vita: le gru e gli uccelli migratori che sono tornati a volare nei cieli di Delhi che nel frattempo si sono tinti di sfumature di un blu mai stato così intenso, la leggerezza poetica delle libellule che sono tornate a brillare sui fiumi, la magnificenza dei fiori di loto che celebrano la rinascita di una vita purificata, i fondali marini con le barriere coralline guarite dall’inquinamento e dallo sfruttamento.
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Una storia che con i ricami sartoriali narra l’importanza vitale del lavoro che nobilita l’animo degli artigiani eccellenti che la allestiscono: artigiani che di solito esprimono la propria preziosa impressione sulle opere attraverso le espressioni delle labbra, ma che ora per via delle mascherine hanno trasferito la loro validazione nell’espressione degli occhi, sfumature di linguaggio che Rahul Mishra per primo ha imparato a decodificare, un cambiamento piccolo eppur epocale che ha riportato nelle mascherine in collezione, che sembrano sculture, ma che nella bellezza racchiudono il valore del monito sociale, e nessun intento commerciale.
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La collezione Couture a/i 20-21 è stata presentata alla Paris Couture Week nella sua edizione digitale: tutte le suggestioni, e la bellezza della realizzazione delle creazioni ad opera delle Butterfly People sono narrate in un bellissimo fashion film realizzato in collaborazione con il fotografo e film-maker Hormis Anthony Tharkan.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Giuliana Mancinelli Bonafaccia: Dihedra e Fine, la bellezza è purezza
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Ogni nuova collezione nata dalla bravura preziosa di Giuliana Mancinelli Bonafaccia è una nuova occasione di esplorazione di quella peculiare suggestione in cui la poesia della ricerca si allaccia alla concretezza. Le sue sono opere di fashion jewelry pregiate nella sostanza orafa artigiana, e felicemente riconoscibili nell’apparenza d’ispirazione al contempo potentemente essenziale, eppur profondamente sofisticata: creazioni che mostrano la bellezza con un gesto ribelle di semplificazione meticolosa, che plasmano la forma con un gesto di design che è un progetto sempre rinnovato di sinfonia tra funzione decorativa ed estetica stilosa.
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Quella di Giuliana Mancinelli Bonafaccia è un’intenzione creativa che, nel caso delle collezioni più recenti, si aggancia ancor più forte al desiderio di purezza: che non è il minimalismo spoglio, bensì è la consapevolezza di concedere alla geometria l’autorevolezza affascinante di portare in superficie i suoi significati più autentici, concentrandoli in una manciata di creazioni dal gusto pulito perfettamente contemporaneo, squisitamente personale, immancabilmente originale.
Architettura e natura: ecco il binomio alla base dell’indole creativa di Giuliana Mancinelli Bonafaccia, che guida alla collezione ultima, ribattezzata Dihendra: un nome che a scomporlo nei suoi strati linguistici svela l’appartenenza al lessico della geometria, esattamente come accade per il simbolo che, in qualità di logo del brand, da icona rappresentativa del mondo di Giuliana Mancinelli Bonafaccia diviene anche fil-rouge della collezione. Ovvero: l’icosaedro.
La vedete, dunque, quella che a un primo sguardo sembra una borchia, un bullone plasmato nella materia preziosa, e che si sposta lungo le linee di orecchini, anelli, bracciali e pendenti, per andarsi ad incastonare in punti sempre diversi?
Ecco, la sua origine ha per l’appunto a che fare con l’icosaedro: parola complessa, che rievoca il suono antico della lingua greca che gli ha dato il nome tecnico. Ma anche un significato che dal pratico sfuma nel mistico, ad opera soprattutto di Platone, il quale l’ha inserito tra i cinque poliedri regolari, figure che nella loro simmetria perfetta sono gli elementi fondanti della geometria, ma anche della natura del mondo di cui siamo parte integrante. Per indagare più nel profondo bisogna leggere il dialogo intitolato “Tmeo”, l’opera scritta in cui Platone illustra l’opera di generazione dell’universo da parte del Demiurgo che assume i cinque poliedri in virtù delle loro proprietà associandoli ai cinque elementi della natura: «alla terra diamo la figura cubica, perché delle quattro specie la terra è la più immobile, e dei corpi il più plasmabile […] e poi all’acqua la forma meno mobile delle altre (icosaedro), al fuoco la più mobile (tetraedro), e all’aria l’intermedia (ottaedro): e così il corpo più piccolo al fuoco, il più grande all’acqua, e l’intermedio all’aria […] Restava una quinta combinazione e il Demiurgo se ne giovò per decorare l’universo (dodecaedro)» Perfette sono le figure geometriche dei poliedri regolari, perfetta è la natura: ecco il principio di totale, perfetta armonia che li unisce.
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Nel cuore di Dihendra c’è un elemento essenziale di tutto questo, ovvero l’angolo diedro: concetto tecnico ben comprensibile a chi l’architettura e le sue discipline tecniche le pratica con saggezza, ma per noi tutti ci basti immaginarlo come l’estensione del concetto di angolo nello spazio. Ed in effetti, come fosse un gioco di affinità, i gioielli della collezione sembrano essere l’estensione nello spazio del concetto di bellezza espressa nella purezza geometrica e nella fattura preziosa dei dettagli: linee asciutte che abitano lo spazio intorno al corpo costruendo forme tridimensionali, così nascono gli orecchini chandelier, e quelli curvilinei che si appigliano a uncino, le maxi-creole impreziosite da perle e cristalli, i cuff che si arrampicano grintosi sul bordo dell’orecchio.
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E ancora: i bracciali a forma di scudo, i pendenti e gli anelli che sembrano sospesi sulle dita, tutti realizzati in ottone placcato oro 18kt, rodio e rutenio ultrablack La ricerca di purezza s’impreziosisce nella linea Fine: sembra quasi fluttuare e brillare nell’aria la sfera che pende dalla collana e dagli orecchino sottili, che culmina sull’anello sottile affianco alle fedine preziose. Creazioni plasmate in oro  9kt, 14kt e 18kt e arricchite dai bagliori della lavorazione a diamantatura fatta a mano.
E mentre lo stesso Platone, nel Timeo, a proposito dei suoi poliedri conferma che è inutile impiegare tempo a cercarne altri perché "non accorderemo a nessuno che vi siano corpi visibili più belli di questi”: Giuliana Mancinelli Bonafaccia restituisce un simile valore di unicità alla bellezza, sostituendo l’inutilità del tempo scandito dalla stagionalità alla buona pratica della rivisitazione dei pezzi migliori natai dalla buona creatività.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Cettina Bucca a/i 20-21,“Fiabe”: narrate dagli abiti, narratrici di emozioni
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"Io credo questo: le fiabe sono vere.
Ora il viaggio tra le fiabe è finito, il libro è fatto, scrivo questa prefazione e ne son fuori: riuscirò a rimettere i piedi sulla terra? Per due anni ho vissuto in mezzo ai boschi e palazzi incantati […] E per questi due anni a poco a poco il mondo intorno a me veniva atteggiandosi a quel clima, a quella logica, ogni fatto si prestava a essere interpretato e risolto in termini di metamorfosi e incantesimo […] Ogni poco mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra. Ora che il libro è finito, posso dire che questa non è stata un'allucinazione, una sorta di malattia professionale. È stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza, quel qualcosa cui prima accennavo, quell'unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed è che io credo questo: le fiabe sono vere. Le fiabe sono nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte della vita che appunto è il farsi di un destino”.
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Così testimoniava la scrittura gentile di Italo Calvino ad introduzione di quella sua sorprendente avventura letteraria che compì con “Fiabe Italiane”, la raccolta pubblicata nel 1956: e questa lunga introduzione non è affatto una mera citazione intellettuale. Bensì una benevola dimostrazione felice di come quella certezza meravigliata che di Calvino sigillava il termine del viaggio interiore, oggi sia il punto d’avvio meraviglioso di un viaggio esteriore che prosegue in modo simile ma squisitamente personale, e per questo speciale, nelle creazioni che Cettina Bucca ha raccolto per l’a/i 2020-21: e ha intitolato “Fiabe”.
“Siamo partiti dalle fiabe e dalla loro grande importanza dal punto di vista esoterico, spirituale e simbolico: leggendo tra le righe si trovano in esse soluzioni alternative per il proprio percorso di vita”. Così narra, infatti, la voce gentile di Cettina Bucca ad introduzione della collezione: per chi ha già avuto la gioia di imbattersi in lei e nel suo itinerario biografico caleidoscopico, che da biologa l’ha riallacciata al sogno realizzato di stilista di couture emozionale in cui ogni capo nasce come via d’espressione sincera e sartoriale per la femminilità, ecco non c’è stupore che la cura profonda che Cettina ripone in ogni scelta d’ispirazione, in ogni gesto di creazione e in ogni selezione di materiale e decorazione sia approdata al valore prezioso e senza tempo che le fiabe ci riservano, sempre.
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Bensì c’è la fiducia confermata nella generosità entusiasta di Cettina e nella sua conoscenza stratificata dell’animo umano, grazie anche all’antroposofia che ha saldato in lei la dote d’interprete saggia e delicata di desideri e necessità che nascosti dentro l’animo giungono fuori a vestire il corpo. Or dunque, Cettina Bucca, come Italo Calvino, è giunta alla certezza che sì, le fiabe sono vere: sono l’occasione pregiata per scoprire la nostra identità, decifrare gli indizi che i mondi di fantasia ci offrono per superare le prove che il mondo reale ci presenta, e così per abbracciare il nostro destino con consapevolezza. E bellezza: sempre.  
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La collezione “Fiabe”, dunque, offre la possibilità di vestirci di questa stessa certezza e di gustarne i benefici dalla pelle alle emozioni: iniziando dal sollazzo delle illustrazioni, nate da disegni e pitture originali perché ideati nel mondo di Cettina Bucca, divenute stampe che ritraggono animali ed oggetti fiabeschi, scarpette cenerentolesche, il grillo parlante e l’oca, specchi magici e piante fatate, e li distribuiscono su abiti morbidi che scendono fin quasi alla caviglia. Il Bianconiglio si tramuta nel pattern protagonista sull’abito chemisier, stesso destino spetta alla volpe ritratta come miniatura giocosa, mentre l’happy ending d’amore del principe che salva la principessa cavalcando il bianco destriero si svolge sul nero velluto elegante.
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Sempre loro, i grandi protagonisti delle fiabe e innanzitutto delle nostre vicende interiori, tornano sui pullover realizzati a mano: la principessa, specchio delle emozioni bramose che prendono il sopravvento e conducono nei guai, e lil principe, ovvero l’io che si ricongiunge alle emozioni per salvare l’armonia.
È una storia di armonia anche la scelta della palette: che per la prima volta accoglie il nero a simbolo del buio malefico e il bianco segno di luce benefica, messi a contrasto reciproco e orchestrati col rosso luminoso della gioia di vivere, il verde brillante e il turchese del cielo, il rosa e il violetto genziana che son i gusti tocchi fatati.
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Le stoffe continuano a raccontare una storia di naturalezza sostenibile: velluti lisci e a coste, viscose, sete, lane mohair e alpaca, cotoni invernali, insieme alle palette luccicanti come bagliori di magia. Le silhouette continuano a narrare una storia di sincerità verso la ricca complessità della personalità femminile: abiti dagli ampi volumi, dalle strutture consistenti o arricchite di tulle e balze per chi ama sentirsi principessa, capi più asciutti e brevi per chi desidera un’altra fiaba, e per tutte la sveltezza dei pantaloni dritti, e la morbida avvolgenza nei capispalla esatti ma col piccolo vezzo delle tasche staccabili.
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Tra le Fiabe narrate nella collezione a/i 20-21 compaiono due nuove, bellissime storie: i foulard in pura seta che raccontano fiabe uniche attraverso stampe originali e ricche di colori brillanti, e le calzature realizzate in armonia bellissima con Sergio Amaranti, anch’esso marchio d’eccellenza e mondo di stile generoso verso la femminilità. Una sinergia da cui han preso vita stivaletti e décolleté dal tacco ricurvo, slip on e ballerine, in pelle e nello stesso velluto stampato degli abiti, con lo stesso stupore fantastico dei particolari unici e mai uguali.
Se il viaggio di Calvino nelle fiabe era terminato con la compiutezza del libro, il nostro grazie alle Fiabe di Cettina Bucca è appena iniziato: buon viaggio fiabesco a tutte!
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Romeo Gigli a/i 20: i colori nascono dal sogno, i materiali dall’innovazione
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Il segreto per evitare il tranello e godere appieno il piacere del risultato è racchiuso nell’approccio. Mettersi all’affannosa e speranzosa ricerca di Romeo Gigli, l’autore ineguagliabile della propria maison ed elegante rivoluzionario della moda dell’ultima tranche del secolo scorso, dentro le attuali collezioni della label Romeo Gigli plasmate dalla cura creativa di Alessandro De Benedetti, sarebbe un’impresa per certi versi vuota e di certo fuorviante: perché il bello della bravura non è saper citare a modino, ma è saper bilanciare in un lucido gioco d’equilibri la coerenza con la propria personalità, che è unica per natura, e il rispetto per il valore grande dei codici di stile che hanno reso altrettanto unico il mondo Romeo Gigli.
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Dunque, il segreto è accostarsi alle creazioni Romeo Gigli silenziando il pregiudizio, cioè l’istinto a sovrapporre la storia passata con il racconto di stile che prosegue nei nuovi capitoli scanditi dalle ultime due stagioni, e affidarsi alla bravura di Alessandro De Benedetti. Alla sua abilità a bilanciare l’eredità importante della storia con la propria personalità: che nella passione per l’indipendenza delle espressioni creative come il cinema d’essai, la musica gotica, la femminilità vestita di un’apparenza sartoriale sofisticata mentre svela un’allure quasi surreale -come le donne firmate dal Thierry Mugler con cui ha mosso i primi passi professionali nella couture e quelle di Mila Schön con cui l’ha proseguita- fa risuonare la forza gentile eppur potentemente scardinante della visione indipendente e alternativa che ha sorretto e guidato l’unicità di Romeo Gigli.
E se tra le suggestioni allacciate a Romeo Gigli c’era il sogno, oggi è proprio nel sogno che Alessandro de Benedetti trova l’appiglio istintivo da cui ha tratto il fil-rouge creativo col quale ha costruito la collezione a/i 2020-21: “The Lysergic Side of Dreams”. Niente di forzatamente poetico, anzi: la suggestione si arricchisce di concretezza, perché è davvero nella libertà surreale della dimensione onirica che l’inconscio ha tracciato i bozzetti della visione della collezione, come risposta alla missione di rendere giusto omaggio alla memoria del Romeo Gigli e una giusta interpretazione contemporanea attraverso gli abiti.
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Accade così: tutto inizia dai colori, che nel Romeo Gigli di allora erano intensi, sempre inaspettati e diversi lungo le stagioni, ed ora attraverso il sogno si fanno ancora più intensi, più inaspettati e vividi, perché l’energia onirica intensifica tutto quel che incontra, e i colori li rende irreali, pressoché lisergici.
Nuance acide, come il giallo lime, il verde roulette, l’azzurro evidenziatore sottolineano rigori e morbidezze delle forme, giocano sulle fasce che intrecciano gli abiti al corpo, si fondono alla profonda esattezza sartoriale che costruisce capi che aspirano a stupire, certo, ma anche ad essere senza tempo. Accadono dunque sinergie stupefacenti tra immaginario in technicolor e maestria modellistica: come nel completo tinto di un giocoso rosa caramella, e assemblato con un serissimo sistema di 5 metri di crêpe tagliati a spicchi per creare micro ruote incastonate nella giacca e nel pantalone. Come nella breve serie dei gessati: frutto di combinazioni ingegneristiche dal punto di vista modellistico che consentono alle righe di combaciare perfettamente.
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Tra le suggestioni allacciate a Romeo Gigli c’era anche l’innovazione: che oggi si rinnova attraverso i materiali in un’opera di sperimentazione importante che si aggiunge alla sinergia di colori e sartorialità di cui sopra, e dà vita alla coppia trench e maxi-chiodo, entrambi tinti di verde giava, entrambi realizzati in un tessuto speciale, da una parte gommato anti-pioggia e dall’altra in misto cachemire, un materiale dalla doppia faccia molto tecnica e molto morbida realizzata in esclusiva con aziende tessili italiane.
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L’innovazione materica da vita anche al contenuto della micro-capsule “Oh Romeo”: qui i colori fluo ricolmano i maxi-piumini gonfi per ricordare la celebre forma a uovo, reversibil, doppiati in moiré e nylon stampato, e colorati con uno speciale enzima fluo che ravviva le vibrazioni cromatiche. Sempre qui sono raccolte le maglie rigorosamente fatte a mano in Abruzzo da artigiane abili al punto da realizzare la versione contemporanea, pixellata e fluorescente, di quegli antichi mosaici bizantini preziosi che Romeo ricreava nei suoi indimenticabili jaquard. 
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La dichiarazione d’intenti è lodevole: un prêt-à-porter scandito da 66 pezzi, costruito con capi che invitano ad essere amati, indossati, sfoggiati e custoditi senza alcun timore del tempo che passa, delle mode che rotolano veloci tra i capricci del gusto, di scadenze imposte dall’esterno. Perché il cuore che batte per la bellezza ha sempre ragione, e non ha scadenze di stagione.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Caterina Moro, “Wood”: dal bosco al decoro, il legno è il nuovo passo sostenibile
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C’è una grazia che incanta in Caterina Moro: è il riverbero della sua determinazione, così gentile eppur così grintosa, ad invitarci a proseguire con lei sul percorso saldo che da appena due intensi anni traccia con le intenzioni di giovane donna che progetta la bellezza attraverso la moda. E a cui dà forma con le creazioni di giovane stilista consapevole che la bellezza ha a che fare innanzitutto con la naturalezza. Del corpo e dell’animo, ma anche e molto con quella che abitiamo: sì la natura, che da sempre ci solleva dagli affanni e ci rasserena le emozioni con la meraviglia dei suoi elementi, e che oggi più che mai ci richiede indietro il rispetto attraverso la sostenibilità.
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Ecco, Caterina Moro risponde all’appello della natura con pienezza: con l’allegrezza di continuare a portare con sé il valore prezioso dell’accoglienza suggestiva e salvifica che la frequentazione della natura le riserva da sempre, ma anche con la saggezza di portare avanti il suo percorso creativo nell’eco-sostenibilità. Un passo concreto alla volta, una collezione innovativa alla volta: diretta alla totalità dell’impresa. 
Ecco che così si rinnova anche l’intenzione racchiusa nell’etichetta che definisce l’indole della moda di Caterina Moro: quel “daily luxury” che significa la nobilitazione dell’abbigliarsi quotidiano, perché l’eleganza e la naturalezza devono essere gesti da compiersi e abiti da godersi appieno in ogni occasione della nostra vita.
La nuova collezione a/i 2020-21, che è dunque il nuovo passo di Caterina Moro nella sostenibilità, s’intitola “Wood”: ovvero legno, proprio inteso come la materia prima e la scoperta della sua lavorazione rispettosa dell’ambiente che ha dato il via all’ispirazione per ogni creazione, e allo stesso tempo inteso come la suggestione carezzevole dell’impressione di una passeggiata nel bosco in autunno, tra il fruscio croccante del foliage e l’aria scaldata dalle luci morbide.
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Grazie alla collaborazione con l’azienda italiana Blue Italy, Caterina ha scoperto il legno che da frammenti scartati dall’industria automobilistica diventa quasi un tessuto, e laserato diventa un decoro: legni riciclati certificati per lavorazioni dedicate e delicate, questa è la sostanza di cui son fatte le frange che danzano dagli orli, i top e la gonna corta da cui son volate via le foglie, e i ricami che le posano, le foglie lignee, su tessuti impalpabili come l’organza. 
A proposito di tessuti, anch’essi son sostenibili: grazie alla collaborazione con la piattaforma Wastemark, quelli che diventano bellissimi abiti in origine sono scarti di magazzino di grandi aziende, rielaborati, e stampati con tinture completamente biologiche.
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E, a proposito, di stampe: ogni dettaglio che la natura disegna Caterina lo ritrae nelle creazioni e ne fa texture, motivi, decori: come le immagini che ricordano i profili delle fonde guardate a naso in su e gli occhi pieni di luce, sono immagini che appartengono a Caterina, e che l’azienda di Como le ha tradotto sulla seta. O come le venature che percorrono il completo blusa e pantalone, il trench raffinato e le ariose gonne plissé, e che rievocano le storie scritte sulle cortecce degli alberi: anche questa, come quelle che si stanno qui narrando, è frutto di un’altra sinergia eccellente italiana, con l’azienda Omniapiega, che consente a Caterina di continuare a plasmare immaginari con la sua amata plissettatura, lavorazione che che respiro vitale e leggerezza al tessuto spalmato e con effetto pelle.
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Tutto quindi nasce ed è fatto in Italia, e tutto nella collezione “Wood” narra la bellezza confortevole della natura autunnale: anche la maglieria in mohair, altro punto d’orgoglio che con uno speciale punto goffrato ricrea l’effetto tridimensionale, soffice come una nuvola da infilare.
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E ancora, c’è il velluto floccato color lime che con i riccioli somiglia all’astrakan, c’è anche la sinergia altrettanto giovane e creativa con Virginia Severini, designer di borse in legno e compagna di partecipazioni ad AltaRoma, che per effetto delle affinità elettive ora è autrice delle borse in legno, personalizzate per Caterina a partire da alcuni suoi modelli iconici, presenti in collezione.Ci sono i colori morbidi, luminosi e caldi come il senape e le varietà di marrone fino al cioccolato, ma ci sono anche i neutri delicatissimi fino al candore del bianco.
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C’è persino il cielo che si specchia nei suoi occhi e va a colorare i tessuti: è l’amato pervinca, sfumatura iconica del marchio, della memoria interiore della sua fondatrice, dell’armonia di stile dall’eleganza lieve e generosa che collezione dopo collezione compone la sinfonia della femminilità firmata da Caterina Moro. 
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Amotea: la couture semplice e italiana, romantica eppur attuale
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C’è un che di curioso, un pizzico divertente, ed anche profondamente gustoso quando l’esito si rivela fruttuoso, nel momento in cui s’incontrano le sperimentazioni che il lessico dello stile fa per tentare di definire le evoluzioni e sperimentazioni della moda dentro etichette che suggeriscano un ritratto preciso in cui specchiarsi: come nel caso di “easy couture”, la definizione che accompagna le creazioni, le intenzioni e le suggestioni del giovane brand italiano Amotea.
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“Easy couture”, ad assaporarne il gusto nel pronunciarla parrebbe quasi una contraddizione in termini, eppure contemplando con la giusta attenzione allacciata alla sensibilità i dettagli che raccontano la storia degli abiti e del desiderio della loro creatrice, Diletta Amodei, da cui han preso vita creativa e anima sofisticata, voilà, ogni apparenza di contrasto si concilia nell’armonia di un marchio che è un piccolo mondo in equilibrio agile tra il fascino per la bellezza classica che non conosce tempo, e la raffinatezza svelta ad essere praticata nelle occasioni buone e belle della vita contemporanea.
A ben vedere anche il nome del brand proviene dalla conciliazione di elementi differenti, o più esattamente è il frutto di una crasi: l’incipit del cognome di Diletta si unisce al nome femminile che avrebbe amato consegnare ad una figlia femmina. E giocando ad ampliare la metafora, anche la nascita del marchio accade in virtù di una conciliazione: tra la passione di Diletta da bambina per la moda, e la scelta adulta di riprendere in mano il sogno di crearla, la moda, realizzato nel 2018 con il suo progetto personale. Amotea, dunque, è la sublimazione della virtù della sintesi, una sorta di esaltazione consapevole del motto “poco ma buono” agganciato alla pratica gentile della bellezza eccellente, e dei sentimenti autentici che da dentro l’animo parlano attraverso gli abiti: come fosse un’armonia musicale il cui spartito è composto da poche note, ma pregiatissime.
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C’è l’esattezza della couture nei suoi aspetti esclusivi: il made in Italy dell’eccellenza che inizia dai materiali, come per i motivi floreali tailor made, dove la peonia, regina dell’essenza del brand e simbolo del suo immaginario di eleganza etera e sensuale al tempo stesso, è ideata in esclusiva in collaborazione con i disegnatori Ratti; e come per i bottoni che son preziosi come gioielli, realizzati con l’arte artigiana dall’azienda milanese Ascoli. 
C’è la semplicità delle linee che con pochi tratti e accorgimenti attenti, percorrono le linee della femminilità, si trattengono a valorizzare i punti dove essa si concentra, e poi si sciolgono ad accarezzarla con leggerezza.
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C’è il romanticismo contemporaneo, che dell’amore personalissimo di Diletta per la sua città, Roma, fa fonte d’ispirazione inestinguibile da cui trarre suggestioni di bellezza, geografie di stile che richiamano i raffinati giardini rigogliosi, volumi scolpiti con tocchi di classe a richiamare il gusto neoclassico, mescolato a guizzi estetici perfettamente contemporanei. Tradotto in creazioni, la collezione è abitata da una manciata ricercata di modelli: c’è l’abito Tea, nato dalla memoria dei giardini di Villa Borghese, che mentre svela una spalla ricopre l’altra con una corta manica a sbuffo, e mentre svela le gambe davanti si scioglie in lunghezza sul retro con una stratificazione di rouches dall’allure principesca, c’è Didi, il completo composto di top e pantaloni svasati sul fondo e proposto in doppia versione, ovvero in pizzo sottile e sensuale e in motivo stampato floreale; c’è Julia, il mini-dress che appaia il tulle nero ai pois rossi oppure illumina la figura nella versione platinum.
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E ancora, c’è Clotilde: che dalla versione lunga e fluida dal fascino lievemente retrò, si accorcia e si arricchisce di frange danzanti e di lievi bagliori come nelle notti stellate da vivere appieno lungo l’estate. Ed infine c’è Claire: con la gonna a palloncino, le maniche in tulle sbuffante e il corpetto che disegna il busto, stuzzica la voglia di festa. 
Festeggiare l’amore per la bellezza, innanzitutto e sempre.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Andrea Lambiase: gli abiti sono arte della sperimentazione indossabile
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Andrea Lambiase crea performing couture: lievi strutture d’architettura sartoriale che vestono il corpo, che nascono dalla seduzione dell’innovazione nei campi più inaspettati a chi si aspetta solo la moda, e dalle mani che dove non arrivano a costruire chiamano in sinergia la tecnologia. Quello che ci apprestiamo a fare dentro il suo giovane mondo creativo è dunque un viaggio immaginifico, a tratti visionario, ricco di suggestione, come quando ci si inoltra tra le pagine o nelle pellicole di racconti che imbrigliano la fantasia in scenari futuristici, abitati da personaggi che mantengono il vivo fascino carnale dentro gusci di creature macchinose e artificiali.
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Il tutto decantato dall’umiltà gentile e appassionata lo caratterizzano, mischiati alla caparbietà di tracciarsi una strada che col coraggio della coerenza rifiuta la tentazione al facile consumismo, per prediligere una visione che ad oggi può suonare tanto rischiosa quanto ribelle: credere profondamente nel valore dell’arte che allacciata alla moda si rivela uno strumento d’espressione sincero, una fonte di scoperte d’avanguardia, una via di rivoluzione della visione e fruizione della moda stessa.
Avanguardia da indossare, o da contemplare: non ci sono regole né intellettualismi nella sua moda, c’è solo l’invito a comprendere con rispetto il valore delle creazioni, e a godersele come e quando si vuole, senza diktat o restrizioni di stagionalità e styling. Andrea Lambiase è una bella mischia esplosiva nelle idee, che sublimano nelle creazioni. Sin dall’infanzia in un paesino in provincia di Avellino, in Irpinia, quando dentro la sartoria industriale dei genitori se la prendeva con le macchine da cucire e le smontava, per capire i meccanismi e indagare i funzionamenti, poi le rimontava. La sua è una curiosità sempre affamata di nuove lavorazioni, nuovi meccanismi, nuovi materiali, nuove costruzioni: per saziarla frequenta l’istituto per geometri, dove mentre salda la passione per l’architettura assorbe la formazione tecnica che lo supporta quando poi, all’Accademia Italiana di Roma, la mancanza di un background di tecniche di disegno e modellistica della moda lui la risolve con i teoremi delle costruzioni geometriche degli angoli e delle forme. E con la determinazione fortissima a migliorarsi: obiettivo che raggiunge appieno.
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A proposito, perché la moda? “Ho deciso di studiare moda perché mi piaceva l’idea che potevo partire da una visione astratta per farla indossare: mi piace intendere la moda come arte indossabile, quello che realizzo non è uno strumento commerciale privo di contenuto, ma quando vesti una mia creazione ti stai mettendo addosso una visione, un modo di pensare, un’idea”. Per effetto delle affinità elettive, la formazione prosegue con la realizzazione di un sogno, l’esperienza da Iris Van Herpen, che incarna e potenzia le sue ispirazioni e aspirazioni: “ero all’interno di un’atmosfera surreale, in atelier a lavorare con lei, e ho imparato tantissimo. Soprattutto a intendere la moda in un modo diverso, come ragionare per trovare nuove soluzioni e nuove tecniche e arrivare a realizzare una collezione: che non c’è sempre uno schema da seguire, cioè partendo dal disegno, facendo i cartamodelli e poi realizzando l’abito, ma si può iniziare anche da un punto intermedio. Io già lo facevo prima e lo faccio anche ora: l’ispirazione mi viene da una lavorazione, un tessuto o un materiale, ed è inutile cominciare dal disegno perché quello che ho in mente lo vedo soltanto facendo la creazione e mettendola sul manichino, solo così riesco a passare direttamente da un modo di pensare ad una cosa concreta e materiale”.
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Come farebbe un artista: “che non per forza fa prima il disegno, perché la cosa artistica non ha schemi, è d’impatto. Appena hai l’ispirazione trovi subito il canale più veloce e più preciso che può rendere meglio la tua idea.” Andrea Lambiase nel 2018 fonda il brand che porta il suo nome, perché è la realizzazione della sua natura nutrita dalla passione, agganciata ad un’ampia visione: “mi piace utilizzare la tecnologia nella moda, dove il braccio umano ha dei limiti e non riesce ad arrivare: amo applicare fisica, chimica, architettura, ingegneria meccanica, mixare campi scientifici da cui sono molto attratto per ottenere risultati interessanti. Per realizzare le mie collezioni studio e collaboro con ingegneri e professionisti: sono sempre alla ricerca di nuove forme e materiali” perciò, laddove già non esistono è lui stesso a crearseli, sperimentando con taglio laser, stampa e modellazione 3d, per ottenere texture inedite ed effetti sorprendenti.
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La sua moda è frutto di un approccio da inventore e di una pratica da alchimista, esercitata con l’aspirazione alla perfezione fin nel minuscolo dettaglio, per arrivare a smuovere non solo la mente ma anche le emozioni: “per le prossime presentazioni mi piacerebbe fare qualcosa che non dovrà essere chiamata sfilata, ma vorrei che il pubblico si trovasse all’interno di uno spettacolo e interagisse con gli abiti, con le modelle, con delle installazioni fatte in collaborazione con artisti. Vorrei creare connessioni: una performance di moda, un’esplosione di emozioni. Potrebbe essere in un museo, in una galleria d’arte, in un contesto dove le interazioni possano accadere”. Non a caso nel suo immaginario convivono Iris Van Herpen e Alexander McQueen, Marina Abramović maestra del far interagire le persone con il corpo e con l’opera d’arte, il Duchamp dei Ready Made.
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La collezione “Parametric Power” è dimostrazione tangibile ed emozionante della couture performante di Andrea Lambiase: vere sculture di femminilità e tecnologia nate da un’ispirazione assai originale, ça va sans dire: “ho immaginato di trovarmi in un mondo con assenza di gravità dove tutti i materiali avessero perso le proprietà, rigidità, flessibilità, elasticità, e sarei stato io a ridistribuirle ma non in modo naturale, bensì secondo una mia visione, in modo calcolato”. Nasce così l’abito plasmato da un lurex su una base di organza che è un finto plissé, un materiale a cui Andrea ha ricreato il movimento a pieghe rimpiazzando il movimento naturale con degli angoli calcolati da lui con appositi strumenti di misurazione. Allo stesso modo, l’abito che sembra cosparso di squame bianche nasce da un tessuto mesh a cui Andrea ha dato le proprietà del plissé costruendo il movimento in un modo da lui calcolato, grazie ad un software di modellazione 3d, il taglio laser e la pressa industriale, montando poi le tessere di vinile così da dare una graduale rigidità al materiale.
Non c’è palette colorata. Ci sono solo il bianco assoluto che è luce, il nero che è il pozzo profondo in cui si raccolgono gli altri colori: “ricordano anche il mio carattere, che quando ho in mente una cosa deve essere o al 100% o niente, o bianco o nero”. Però c’è anche la loro unione, la conciliazione degli opposti, come quando la sua precisione si scontra col caos: “ma credo anche che il caos, a volte, scontrandosi con la precisione crei qualcosa di molto interessante: un risultato a sorpresa che non immaginavi di ottenere”. E noi, di certo, continueremo a sorprenderci con le sue sperimentazioni indossabili!
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Zerobarracento: solo capispalla no gender, tutta sostenibilità made in Italy
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A pronunciare la parola “sostenibilità” nella moda ci vuole giusto il tempo di un afflato veloce di voce: a sbandierarla nei canali fashion per raccogliere consensi facili ci vuol solo una rapida dose d’incoscienza. A prendere la parola sostenibilità, ripulirla dalla superficialità della conversazione trendy per arrivare al nocciolo concreto della questione pratica, farla diventare prima materia di studio accurato e lungimirante, poi una realtà imprenditoriale che insieme ai capi d’abbigliamento allaccia una visione per costruire soluzioni virtuose ai problemi del settore tessile, all’ecosistema globale e alla filiera produttiva nazionale: ecco, per questo ci vogliono il giusto tempo per maturare competenze consapevoli, sperimentare le esperienze pratiche e allestire una rete di collaborazioni fondamentali.
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Insieme alla passione che sprona a proseguire su un percorso che si sta costruendo con la fatica e il coraggio propositivo della giovinezza, e alla fiducia nella solidità dei risultati. Questo, infatti, è il percorso che sta costruendo, con determinazione forte e generosa voglia di condivisione, il giovane brand italiano Zerobarracento: o meglio, le persone che innanzitutto il marchio lo vivono e lo muovono, ovvero la fondatrice e designer Camilla Carrara, insieme al suo team.
Prima di conoscere la storia di Zerobarracento, breve perché giovane ma densa di sostanza, è giusto conoscere il significato del nome, che a decodificarlo rivela già gli ingredienti della dichiarazione d’intenti sostenibili: “zero” sono gli sprechi, ridotti all’osso sin dalla produzione fino alla percezione, quindi dai metodi di lavorazione dei materiali alle scelte legate al prodotto e al cliente finale; “cento” è la totalità, quella della sostenibilità che guida l’intera filosofia, quella dell’italianità della filiera produttiva, quella della circolarità del ciclo di vita dei capi che orienta ogni dettaglio delle scelte di progettazione e promozione.
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La storia di Zerobarracento inizia da zero, letteralmente, da quando Camilla Carrara durante la tesi in fashion design al Politecnico di Milano inizia ad esplorare la sostenibilità come conseguenza del suo brillante spirito d’osservazione: “perché mi è sempre piaciuto visitare le aziende tessili, e mi ero resa conto che effettivamente anche le aziende più avanzate, quelle premium, avevano una grande quantità di scarti nella produzione, quindi mi è venuta l’idea di ottimizzare tutto il processo di produzione, sia a livello tessile che di abbigliamento”.
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Perciò prosegue la formazione a Berlino, con un master annuale dedicato alla sostenibilità della moda, ed è qui che scopre il metodo che diventerà il pilastro di Zerobarracento: ovvero, lo Zero Waste, una tecnica di confezione poco usata ma molto virtuosa, che permette di creare una sorta di puzzle con i pezzi che vanno a comporre il capo posizionandoli sul cartamodello in un incastro che copre tutta l’altezza del tessuto, così da non avere sprechi, e risparmiare dal 15% di materia in su. Berlino è la città dove nasce il brand con la prima collezione, supportata proprio da una grande azienda tedesca che opera nell’abbigliamento sostenibile con la tecnica dello zero waste: gli ottimi risultati motivano Camilla a proseguire con le sue forze, e con le forze della filiera italiana, quindi in sinergia con le aziende dei distretti dell’eccellenza tessile, dove la grande qualità e la trasparenza sono valori fondamentali e solidi. E dove grazie a lei oggi entra, spesso per la prima volta, l’innovazione sostenibile del metodo “Zero Waste”: con tutto l’impegno necessario a farne attecchire la portata rivoluzionaria, che mentre aggiorna la tradizione storica fornisce un ampio ventaglio di benefici per il presente e il futuro.
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La nascita di Zerobarracento accadeva nel 2016: oggi nella collezione a/i 2020 c’è condensato tutto il bello e il buono che Camilla ha continuato a costruire e a progettare con la sostenibilità, crescendo con le sinergie, conoscendo con la sperimentazione, approfondendo con la ricerca. Ovvero, concretizzando sempre più nel dettaglio la filosofia dello zero e del cento. Zero sprechi di intenzioni, è per questo che il core business di Zerobarracento è incentrato solo sui capispalla, perché così nel tempo è stato confermato dall’approvazione entusiasta dei clienti, gli stessi che hanno ispirato anche la scelta di non avere gender, inaugurata con questa collezione, dal momento che giacche e cappotti già nati lineari e oversize per donne sono amati e voluti anche dagli uomini, e l’assenza di qualsiasi accessorio -bottoni, cerniere, ganci- fa sì che basti qualche piccola modifica strategica alle chiusure per rendere ogni capo ideale per chiunque.
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Cento per cento italianità, sostenibilità e circolarità: come sempre, anche in questa collezione i capi sono mono-materiali, perché evitare le mischie permette un riciclo più semplice alla fine del ciclo di vita, i tessuti provengono dalla filiera nazionale e sfoggiano tutte le certificazioni necessarie.
Nel dettaglio, due sono i materiali per l’esterno: uno è la lana Re.Verso che viene dal distretto di Prato, dove cinque aziende concorrono a svilupparla, dalla raccolta dei ritagli pre-consumo della sala taglio al sorting ancora effettuato a mano, al processo meccanico che trasforma il tutto in nuova fibra, con la certificazione l.c.a. che riporta nel dettaglio le quantità in termini di risparmio di risorse; l’altro è una lana organica, certificata g.o.t.s., del Lanificio Zignone, del distretto di Biella; infine c’è la fodera, sempre dello stesso punto di blu per essere riconoscibile, sempre realizzata in cupro, fibra proveniente dai linter di cotone, ovvero la peluria che circonda il seme del cotone, delicata come la seta, ma vegana e naturalmente certificata.
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Infine c’è l’ispirazione artistica, che s’incastona dentro tanta virtuosa razionalità a portare la suggestione di nomi come Burri e Fontana, maestri dell’alchimia tra la profondità del pensiero e la ricerca vigorosa degli effetti sorprendenti che la manipolazione della materia può riservare al tatto, e da lì all’occhio e al desiderio: sono loro a supportare la ricerca costante ed essenziale dei tessuti. La materia prima: da cui tutto inizia e a cui tutto torna, mentre nel mezzo si trasforma, e, si spera, trasformi anche il pensiero dei produttori e dei consumatori che oggi più che mai sono invitati a riflettere sulle proprie scelte, e su quelle che si riveleranno le migliori da compiere. Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Bona Calvi: l’orafa che narra il fascino del quotidiano in miniature
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Accarezzano il sentimento della meraviglia con dolcezza e giocosità i gioielli nati dalle mani felicemente operose e dall’innamoramento per l’arte orafa di Bona Calvi: già solo a guardarli regalano il sorriso desideroso di indossarli. Ma regalano anche la conferma rassicurante che riporre la fiducia nell’artigianato come maestro di tecniche antiche e come mestiere da modellare a misura della vita contemporanea, è ancora e sempre una scelta buona e giusta.
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Ecco, Bona Calvi racchiude nella bellezza speciale dei suoi piccoli capolavori preziosi proprio queste virtù: il talento sorprendente di saper lavorare la materia metallica con finezza certosina, e con il desiderio di dare vita a creazioni che compongono un racconto semplice, popolato da forme ordinarie, animali, piante, fiori e oggetti, che abitano il nostro mondo quotidiano. Ma che Bona Calvi tramuta in miniature straordinarie che affascinano il nostro gusto in un baleno!
La storia di Bona Calvi è breve ma intensa, perché giovane ma densa di concretezza determinata e rivelazioni che hanno il sapore della fiaba: a Milano, Bona nasce nel 1989 e resta, in una sorta di fedeltà che le dà piena ragione. Perché è all’Accademia delle Belle Arti di Brera che studia scenografia per poi accorgersi, grazie al lavoro in un laboratorio specializzato in conservazione e restauro di antichi strumenti scientifici, che la dimensione vera che la anima di soddisfazione ha a che fare con le mani che lavorano i metalli e con l’intenzione di vivere del suo saper fare.
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Ed è quindi alla scuola orafa ambrosiana che salda, letteralmente, questa predilezione e vive una seconda, fondamentale illuminazione: è la tecnica antica della cera persa lo strumento ideale che le consente di modellare le sue ispirazioni in forme plastiche sospese tra sogno e realtà. Ed è nel cuore di Milano che Bona Calvi stabilisce il cuore della sua attività: nel laboratorio di di via Stampa 8, dove accade ogni fase del percorso di creazione, dal disegno del bozzetto alla modellazione paziente di ogni dettaglio anche il più sottile e minuscolo, che dalla cera si trasferisce su oro, argento e bronzo e s’impreziosisce di pietre e perle. 
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Perché quelle di Bona Calvi son autentiche micro-sculture delle realtà: o meglio, son miniature fedeli all’apparenza oggettiva, e al contempo leali all’immaginazione di Bona stessa e alla sua sensibilità generosa a soddisfare i desideri della sua clientela.
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La sua è dunque una collezione che pian piano si popola di nuovi protagonisti: che dal mare esotico, dalla lontana savana o dal parco vicino a casa diventano anelli, orecchini e ciondoli, come accade per le alici dagli occhi di pietre brillanti, la balena, il polpo e il granchio, la giraffa e l’elefante, il serpente che può abbracciare le dita o cingere il polso, il bradipo e l’orso, la rana che stringe tra le zampe una perla, il coccodrillo che la rincorre lungo la catena, le coccinelle dal corpicino di pietra colorata, i pesciolini appesi ai cerchietti degli orecchini.
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Ci sono anche gli inseparabili, come i pappagallini che si guardano vis-à-vis nell’anello aperto, o come gli oggetti che nel quotidiano funzionano a coppia: teiera e tazzina, e la bottiglia di vino col suo calice. Quelli di Bona Calvi son micro-mondi pregiati: sono gioielli che come un lessico familiare raccontano storie, quelle dell’orafa che a loro da vita, e quelle personali di coloro che li scelgono per affinità elettiva.
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Loredana Roccasalva p/e 20: tutte le donne son “Santuzze” da celebrare
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C’è qualcosa che brilla immediato nelle creazioni di Loredana Roccasalva: e tal bagliore arriva prima del suo talento sartoriale custodito sin dalla giovane età, nutrito dalla formazione eccellente, e maturato nel tempo con la cura profonda della costanza artigiana e della passione sempre vigorosa verso la manualità sartoriale allacciata alla ricerca del nuovo. Arriva ancor prima anche della sua abilità di conciliare gli amati contrasti con la stessa leggiadria sapiente di un gesto di giocoleria: come quando fa decantare l’amore sconfinato per la sua terra siciliana per distillarlo nel gusto della contemporaneità, o ancora come quando sa far risplendere tesori di tradizioni e decori dal passato incastonandoli perfettamente nel nostro presente più minimale.
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Ecco, quel che più brilla immediato dai suoi abiti è il dono di Loredana Roccasalva per la sensibilità. Ogni nuova collezione, infatti, è una nuova occasione felice di ricevere una storia tra cultura antica e attualità narrata in ogni dettaglio delle creazioni, ma non solo: perché intessuto nelle trame aggraziate della stoffa, Loredana aggiunge sempre un messaggio di grande forza rivolto a migliorare con grinta realista la nostra quotidianità.
Quella di Loredana Roccasalva è un’ispirazione creativa che diventa l’intenzione concreta di restituire bellezza autentica laddove rischia di venir deturpata.
La p/e 2020 rinnova quest’attitudine nobile, non in senso d’opulenza naturalmente, bensì di nobiltà di cuore, proprio come fosse un rito: e a ben vedere tale definizione rituale si rivelerebbe ideale, dato che il tema fondamentale della collezione aggancia le radici nelle figure iconiche delle tre “Santuzze” siciliane, e da lì sboccia e fiorisce in una dedica alle donne tutte.
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S’intitola proprio così, “Santuzze”, prendendo in prestito l’appellativo affettuoso con cui il popolo siciliano onora da secoli le sue tre icone protettrici: Sant’Agata, patrona di Catania, Santa Lucia patrona di Siracusa, e Santa Rosalia patrona di Palermo. Ma attenzione, please, perché è qui che il rischio di un’appiattita celebrazione folkloristica si scioglie, invece, nell’intuizione accogliente: oltre la santità gloriosa che le ammanta, le tre icone custodiscono anche l’identità umana di tre giovanissime donne che hanno subìto e affrontato le asperità di un terra storicamente non propensa ad esaltare la figura femminile, una terra verso la quale hanno comunque riversato la loro bontà miracolosa.
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Ebbene, la femminilità tutta è fatta di quella stessa sostanza delle “Santuzze”: donne che quotidianamente affrontano la matassa di difficoltà e sacrifici per compiere il miracolo di essere se stesse, nella veste sociale di professioniste, di figlie, di madri e di sorelle, ma anche e soprattutto nella veste personale della propria unicità. Ecco, dunque, che la celebrazione di Loredana Roccasalva inizia proprio dalle Santuzze: delle quali riporta l’effigie sulle magliette, ma a modo squisitamente suo, naturalmente! Ovvero, grazie alla collaborazione pregiata con Rosa Cerruto, illustratrice e architetto, che le ha ritratte nel suo stile distintivo deliziosamente pop: nella loro nuova versione, i ritratti delle Santuzze son stati riportati sulle  T-shirt in cotone biologico.
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La celebrazione, naturalmente, prosegue e abbraccia tutte le donne, vestendole di capi che son una versione rinnovata dei capisaldi classici prét à couture firmati Loredana Roccasalva: le gonne ampie che racchiudono la figura come fosse raccolta in una corolla; i giochi di volumi che se nel minidress e nei pantaloni son asciutti e netti, nelle spalle si compongono in strutture geometriche e poetiche come origami; l’abito fluente e fiorito fatto di un tessuto innovativo realizzato in tulle e fiori sagomati con taglio laser e cuciti a mano; le stolkap, l’ibrido di stola e cappa, che sono un capolavoro di combinazione tra la geometria giapponese, l’indossabilità multipla e la ricchezza materica, i colletti che son veri gioielli, i guanti senza dita ricamati e i cerchietti arricchiti dai bottoni antichi.
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Il racconto della storia siciliana scorre anche attraverso i materiali splendidi: il cotone biologico, genuino come l’artigianalità isolana, le tele di cotone corposo, la seta pregiata, il tulle ricamato che sembra provenire dalle velette di donne le cui storie di vita ed eleganza quotidiana son state racchiuse per lungo tempo dentro ad un baule, finché la loro bellezza non è stata nuovamente indossata. Anche la palette colori partecipa al racconto: pochi cenni vividi di giallo lime, dell’arancio caldo del sole al tramonto e del turchese delle acque brillano sulla coppia del bianco e nero, fatta del bianco delle spiagge assolate, e del nero grafico delle tappezzerie di antichi divani decadenti, delle geometrie dei pavimenti in pietra pece, della materia lavica.
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Ad onor di cronaca, la sensibilità di Loredana Roccasalva non si chiude nella poesia della collezione, ma in questo momento storico di grave difficoltà sociale collettiva, ha confermato la sua forza solidale: e quelle mani, assieme alle macchine, che han realizzato abiti e accessori, hanno subito convertito la produzione per sopperire alla mancanza di mascherine d’uso quotidiano, e per supportare la lotta al coronavirus dell’Ospedale Centrale di Modica, città d’appartenenza dell’atelier e della sua amorevole titolare.
Voilà: il bello e il buono della creatività!
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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Caterina Gatta p/e 2020: nell’archivio c’è la fonte della bellezza futura
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“Di una cosa ero sicura, non volevo fare la fashion designer”: suona curiosamente paradossale pronunciato da Caterina Gatta, che con la sua moda di giovane e talentuosa stilista, è sempre felicemente riconoscibile perché non  è mai stata imitatrice né debitrice di estetiche standardizzate e massificate, vero? Difatti, l’unicità è una dote che accade raramente: ovvero, quando le creazioni sono una combinazione non solo di grande passione e bravura sartoriale, ma anche di una dedizione profonda per la ricerca agganciata ad un senso del tutto personale della bellezza, e di un istinto rispettoso che va oltre il mero fascino dell’estetica, per andare a conquistare e condividere il valore prezioso della cultura che tramite l’estetica si esprime.
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Ecco, Caterina Gatta nel mondo del suo brand, che con lei condivide anche il nome e cognome come fosse uno specchio che ne riflette tutto il ventaglio di bellezza, esercita proprio questa combinazione pregiata. L’ha fatto sin dall’inizio del suo percorso di giovane promessa del fashion italiano, e lo riconferma tutt’ora nella collezione s/s 2020, che del suo percorso è anche una  rinfrescante sublimazione.
A ben vedere, forse il segreto di Caterina Gatta e della sua moda potrebbe essere raccolto proprio nell’essenza di  quell’affermazione: che, badate bene, non ha nulla di perentorio né altezzoso, tutt’altro! Anzi, è per l’appunto l’incipit spontaneo del suo itinerario poliedrico e generosamente curioso nella moda: che al fashion design approda come fosse il contenitore professionale perfetto dove raccogliere e esprimere le illuminazioni scoperte durante il percorso. Che inizia  con lo studio in Scienze della moda e del costume, mescolato ad esperienze lavorative assai eterogenee, cioè l’esperienza in un negozio vintage, lo studio dei diamanti presso un azienda import export, lo stage in America come associate new business per un agenzia di PR, l’assistente di una giornalista durante le fashion week di Milano e Parigi. Esperienze diversissime, ma che già custodivano il fil-rouge che da lei, e del suo brand, è tanto amato: l’amore scoccato per i tessuti vintage appartenuti alle grandi griffe che del made in Italy son state pietre miliari per eccellenza di qualità manifatturiera e per meraviglia di creazione estetica. 
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Una scintilla scoccata con l’incontro casuale di un tessuto vintage firmato Irene Galitzine, da cui Caterina Gatta aveva avviato una collezione personale: oltre un centinaio di stoffe splendide, provenienti principalmente dai favolosi anni Ottanta e Novanta appartenute, tra gli altri, a Gianni Versace, Mila Schön, Valentino, Ungaro, Yves Saint Laurent , Givenchy, Fausto Sarli, Lancetti e molti altri. Una collezione presto divenuta ispirazione per il suo progetto di moda.
È il 2011 quando il progetto di Caterina Gatta riceve la benedizione di Franca Sozzani e Sara Maino per la partecipazione al ‘Vogue Talents corner’: aveva ragione Caterina, a voler creare abiti dall’appeal contemporaneo a partire da quelle stoffe testimoni di una bellezza unica e irripetibile, profondamente italiana e straordinariamente creativa.
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Da quel momento il brand è cresciuto e maturato, naturalmente: si è anche ampliato a collezioni dove i tessuti sono ideati e progettati da lei, con un’evoluzione naturale della ricercatezza divertita dei motivi stampati a dar forma a silhouette squisitamente attuali.
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Ora, per la p/e 2020, Caterina Gatta torna alle origini con consapevolezza entusiasta: torna al suo archivio prezioso di tessuti vintage, materia prima il cui valore è anche nel gesto, a suo modo ribelle e salvifico, di riportarli nel nostro presente e plasmarli in creazioni sartoriali perfettamente contemporanee, perfettamente coerenti con il gusto di Caterina Gatta, fatto principalmente di appiombi netti e linee asciutte come base solida su cui costruire volant plastici, gonne a corolla che sbocciano con brio pop, tagli fendenti che aprono geometrie affacciate sulla pelle, silhouette anch’esse felicemente caratteristiche del brand come la tuta pantalone con i volant appoggiati sulla vita e gli abiti imbottiti con la tundra di seta e organza tripla, dove per fare un mini abito servono più di dodici metri di seta pura.
Restano intatti i giochi di accostamenti e sovrapposizioni di colori vividi e stampe che sembrano sottratte a opere d’arte: resta intatta la creatività libera, assieme alla passione per l’arte in connubio con la moda. 
Forse Caterina Gatta ha ragione: se avesse voluto fare la fashion designer, non avrebbe tracciato un viaggio così personale e intenso! 
Silvia Scorcella
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silviascorcella · 5 months
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A Company a/i 2020: creare nuove forme con i brandelli dei classici
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“Ogni nuova moda è rifiuto di ereditare, è sovvertimento control’oppressione della vecchia moda: la moda si vive come un diritto, il diritto naturale del presente sul passato” così scriveva Roland Barthes nelle sue sempiterne pagine di riflessioni critiche sulla moda: quest’intro dal gusto intellettuale non vuole essere affatto un vezzo, bensì è un invito a spalancare la mente, a riscaldare le connessioni, a spolverare il piacere di andare oltre la superficie fashion delle cose per immergerci nelle profondità della caccia ai significati concettuali che la moda porta intessuta nelle sue forme. E posa sui nostri corpi che di quelle forme si vestono.
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Roland Barthes è il pensatore favorito di Sara Lopez, che di A--Company è la giovane fondatrice: tanto ci basti a farci da guida in questo che non è solo un’approfondimento dell’aggiornamento sull’ultima collezione, ma è anche un itinerario sorprendente alla scoperta della sua dimensione affascinante di pensatrice che guida la sua attività di creatrice di moda.
In breve, ripercorrendo le parole di Roland Barthes: Sara Lopez impugna il diritto naturale di vivere la moda del presente creandola da quella del passato, trasformando l’oppressione in riflessione concettuale e il sovvertimento in smantellamento sartoriale dei pezzi essenziali che compongono l’eredità del guardaroba classico. Suona complesso, in realtà è assai intrigante, perfettamente contemporaneo … e felicemente sostenibile!
Or dunque, andiam per tappe e sistemiamo i dettagli, perché è lì che si conserva il valore rivelatore. A—Company, sì con il trattino, ché anche i segni grafici hanno la responsabilità del messaggio, nasce ufficialmente nel 2018, ma la sua origine vera ha inizio ben prima, ovvero nella matassa di pensieri e quesiti concettuali che la sua giovane fondatrice, Sara Lopez per l’appunto, stratifica nel suo rapporto con la moda: a lei non basta la coolness, l’appeal fashion, Sara è attratta dalla dimensione fluida dello spazio surreale in cui accadono le relazioni tra il corpo e l’abito che indossa.
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Come fosse una danza post-moderna, altra sua passione, Sara indugia con piacere ad osservare, studiare, immaginare i modi in cui sono gli abiti ad accompagnarci nelle esperienze della vita, e ne trae la conclusione che è anche il punto di partenza per il suo brand. Ovvero: gli abiti sono innanzitutto oggetti che mediano il nostro modo di stare e agire nel mondo, ci mettono in relazione con la vita vissuta, e con chi questi abiti li crea per noi, sono lo strumento delle nostre performance sul palcoscenico dell’esistenza e per questo meritano di essere sottoposti ad indagine critica per essere esplorati in ogni minimo meandro estetico e funzionale. Come? Partendo dagli archetipi: cioè dai pezzi essenziali del guardaroba, smantellandoli, e usando quei brandelli per costruire nuove forme da indossare e nuovi pensieri da percepire.
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Ecco, A—Company è una sorta di pensatoio, oltre ad essere un giovane brand di successo: qui non esistono barriere di gender, perché anche se l’intenzione è femminile l’attuazione è senza sesso in quanto i capi son approcciabili da tutti; qui non ci sono diktat di tendenza, bensì suggerimenti da completare con l’esperienza personale di chi li indossa.
Qui non c’è produzione massificata: ma c’è la consapevolezza verso la sostenibilità, che inizia dalla scelta di materiali eccellenti e di fornitori che garantiscono tanto la tracciabilità quanto l’ecologia delle prassi di realizzazione. E sublima nella produzione limitata di pezzi: 144 per ogni modello, numero che racchiude la cifra favorita di Sara, il 4, ma che è soprattutto un’invito al consumo coscienzioso dei vestiti, che non vanno accumulati e poi buttati, bensì vanno scelti e mantenuti con desiderio intatto nel tempo. Infine, non ci sono le collezioni, bensì le stagioni: distinte nel nome col numero romano progressivo, e nella sostanza dal singolo capo d’abbigliamento che ne è il punto di partenza intellettuale e materiale.
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Quella di nostro interesse, che per gli addetti ai lavori è la collezione a/ 2020, in realtà si chiama Season IV: e ha al suo cuore l’archetipo per eccellenza dei vestiti e del rapporto che tramite il vestito avviene tra noi e la femminilità, ovvero il tubino. È questa la forma elementare, e tutto il bagaglio storico e sociologico della sua valenza da guardaroba, che Sara prende: e la smantella negli elementi che lo costituiscono, lo decostruisce e con i pezzi che trae compone l’arsenale di forme e significati con cui assembla i pezzi in collezione, che del tubino classico sono una profonda revisione.
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Et voilà: il tubino smette di essere un abito e diventa una gonna, il design alla base della sua modellistica diventa l’ispirazione per pattern grafici, o anche per cut-out texturizzati su altri pezzi. Dal concetto di tubino smontato nascono nuovi tubini asimmetrici, derivano completi pantalone e persino i soprabiti variegati, con la parte superiore d’alta sartoria e le variazioni libere delle tasche applicate e gli orli a vivo, che del brand sono i pezzi forti: lì, dove la cultura sartoriale di Sara Lopez conferma la sua preparazione couture sviluppata con la guida delle maestranze provenienti da maison come Mme. Grès, Yves Saint Laurent e Nina Ricci, ai tempi deigli studi a Parigi.
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La pratica concettuale s’esprime anche tramite i materiali: ci sono quelli che la tradizione affibbia alla femminilità, come i pizzi, la seta e i broccati, che Sara compone insieme a quelli tipicamente maschili come il popeline, la lana, il denim, i tessuti da completo e da cappotto. Anche la presentazione non è affatto tradizionale, ça va sans dire! Niente sfilata o installazione, bensì una video performance con la famosa regista Eva Evans: il titolo è “A Failed Attempt at Understanding Time”, la sostanza è un video di 30 minuti che indaga la nostra esperienza del tempo attraverso la ripetizione di tre azioni quotidiane. Una lente d’ingrandimento che tramite l’arte performativa prosegue la ricerca felice ed infaticabile di A—Company del senso che allaccia il corpo, lo spazio e gli abiti nel mezzo.
Silvia Scorcella
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