vorrei essere così, bella anche nelle giornate nere, meno arrabbiata con il resto del mondo, più caparbia (anche se devo ammettere che sono già a livelli assurdi) e ancora non capisco perché il mare plachi ogni mio tormento nonostante sia più in tempesta di me.
Mi sento molto spenta, mi guardo la faccia ed è grigia, sono grigia io d’inverno, mi si spegne tutto, e sono come i bambini, voglio piangere, voglio sbattere i piedi, fare i capricci. Il mio io bambino non cederà mai il posto a un adulto coscienzioso, rassegnato; al massimo, a tratti, può far posto ad un vecchio sapiente. Ma io sarò sempre duale, il vecchio e il bambino sempre, con le molecole di litio nel sangue che dicono al bambino cresci! E al vecchio riposa! Ma il vecchio brontola e il bambino pesta sempre i piedi. Chi mi conosce sa che sono bambina sempre, non ci posso fare niente, ci provo, ci provo a crescere, ma sbatto ancora i piedi quando mi stufo, e sbuffo, e mi sbrodolo quando mangio. Eppure mi sento dentro una coscienza millenaria, una stanchezza delle ossa, un’esigenza fisica di immobilità. E io in te riconcilio il mio essere duale, con le tue molecole nel mio sangue non mi dici niente, non mi rimproveri, ma solamente dici al bambino guarda! Guarda come sono fatte le ciglia, hai mai visto davvero un battito di ciglia? Guarda l’iride, guarda il mare, chiudi gli occhi e senti come la luce ti si appoggia sulle palpebre.
Quando nacque Cecilia notai per prima cosa che quelle mani piccolissime erano come le mie e come quelle di mia zia. Allora capii che la morte e la primissima vita erano legate e questo bastava come senso. Questo è il senso che mi hai regalato a ogni tuo risveglio che mi hai lasciato osservare. Io volevo morire e tu mi hai detto guarda! Non ti ricordi che uno sguardo lo puoi pure ingoiare? Io sono vecchia non me lo ricordavo, mi faceva male tutto ma ora mi hai guarita
Devi far sedere la tua anima e farla concentrare sulla Vigna per più di trenta secondi, il tempo che ti ruba un Reel inutile su i cosiddetti “Social”. Questo perché la tua anima ha bisogno di far sedimentare quello che i sensi le fanno percepire. È un esercizio che certi monaci o esseri spirituali chiamano “meditazione” ma che è semplicemente dare valore al tuo tempo. Ecco, ad esempio, la Vigna, se tu la guardi semplicemente è un filare continuo e ripetuto di piante della vite. Questa constatazione però non è degna di te che sei, o dovresti essere, un essere vivente, un’anima pensante in un corpo recettivo.
Usa gli occhi.
Vedi l’azzurro del mare ed il crepuscolo che si avvicina, il cielo perdere forza e dare alle foglie delle viti un colore intenso ed intimo non quello splendente e forte che hanno durante il giorno. Vedi le nuvole, li ad occidente, arrossare ed illuminarsi sempre più intensamente, coperte dall’ondeggiare delle chiome ad ombrello degli antichi pini. Sono gli attimi che portano i ricordi ed in cui la memoria distilla il giorno preparando attori e sceneggiature per i prossimi sogni.
Ora ascoltiamo il mondo.
Il vento, instancabile maratoneta, sale dal mare o scende precipitoso verso di esso, facendo frusciare le foglie e portandoti la discussione paesana che le Ciaule hanno nel cielo, chiamandosi e rispondendosi fin quando il grido infinito di un Cacciavento, non le zittisce e le porta a nascondersi su rami o sui fili della luce. Aspettano composti che il rapace torni verso l’alto monte, tra gli aerei abissi da dove domina il mondo. Senti le voci della spiaggia, il vociare dei bambini, il metallico e ritmico correre di un treno, il suono della corriera, lo scoppiettio dei motorini. Il suono è parte dell’uomo, per questo le viti in silenzio, ascoltano curiose, scrivendo nei loro acini, le canzoni della gioia per quando sarà festa o per quando vi saranno dolori da combattere. La Vigna vive di santa eternità e prova ne è l’amore che dona agli uomini.
Ora i profumi.
Profumo di resina dei pini, intenso, liberatorio, quasi una medicina miracolosa. L’odore del vento, odore umido del mare, odore secco del monte, fatto di cardi arsi e di ulivi eterni. Odori caldi d’estate ed odori secchi e taglienti d’inverno che la vigna percepisce e di cui nutre i suoi grappoli, custodendo il sapore della terra nel loro sangue e trasformandolo con il sole in zucchero ed ebrezza perché la Vigna è la magia della natura, il cantastorie delle stagioni. I suoi filari si allungano a vivere nel sole, le sue radici raccolgono l’anima della terra. Per questo la Vigna è come una donna che dona ebrezza, che ci rivela la bellezza e l’essenza della natura: il mutare, il divenire, l’essere. Perché la vigna è una bambina a cui devi dare attenzione, cura, la protezione di un padre, l’amore di una madre. Ogni giorno chiede la tua presenza, ogni notte sogna le tue carezze. Il tuo passo tra quelle zolle grosse e secche, è quello che aveva tuo padre, e tutti padri che ci sono stati prima di lui. Sono i passi del tempo, che va e torna, che viene a potare, ad aggiustare tralci e pali, a raccogliere per creare.
Ecco, ora puoi andare a rincorrere Reel e relazionarti con le frasi di un bambino non più lunghe di uno sguardo. Non ti ho fatto perdere tempo, ti mostrato quello che la tua anima non sa dirti.
You have to make your soul sit and focus on the Vineyard for more than thirty seconds, the time that a useless Reel on so-called "Social Media" steals from you. This is because your soul needs to settle what its senses perceive. It is an exercise that certain monks or spiritual beings call "meditation" but which is simply giving value to your time. Here, for example, is the Vineyard, if you look at it simply it is a continuous and repeated row of vine plants. However, this observation is not worthy of you who are, or should be, a living being, a thinking soul in a receptive body.
Use your eyes.
You see the blue of the sea and the approaching twilight, the sky lose strength and give the leaves of the vines an intense and intimate color, not the bright and strong one they have during the day. You see the clouds, there in the west, reddening and lighting up more and more intensely, covered by the swaying umbrella-shaped crowns of the ancient pine trees. They are the moments that bring memories and in which memory distills the day, preparing actors and scripts for future dreams.
Now let's listen to the world.
The wind, a tireless marathon runner, rises from the sea or descends hastily towards it, rustling the leaves and bringing you the village discussion that the Ciaule have in the sky, calling and answering each other until the infinite cry of a Cacciavento silences them and brings them to hide on branches or on electricity wires. They wait calmly for the bird of prey to return to the high mountains, among the airy abysses from where it dominates the world. You hear the voices of the beach, the shouting of children, the metallic and rhythmic running of a train, the sound of the bus, the crackling of motorbikes. Sound is part of man, for this reason the vines listen curiously in silence, writing in their grapes the songs of joy for when there will be a celebration or for when there will be pain to fight. The Vineyard lives in holy eternity and proof of this is the love that it gives to men.
Now the perfumes.
Scent of pine resin, intense, liberating, almost a miracle medicine. The smell of the wind, the humid smell of the sea, the dry smell of the mountain, made of burnt thistles and eternal olive trees. Warm smells in summer and dry, sharp smells in winter that the vineyard perceives and nourishes its bunches of, keeping the flavor of the earth in their blood and transforming it with the sun into sugar and exhilaration because the Vineyard is the magic of nature , the storyteller of the seasons. Its rows stretch out to live in the sun, its roots collect the soul of the earth. For this reason the Vineyard is like a woman who gives exhilaration, who reveals to us the beauty and essence of nature: changing, becoming, being. Because the vineyard is a little girl to whom you must give attention, care, the protection of a father, the love of a mother. Every day she asks for your presence, every night she dreams of your caresses. Your step among those large, dry clods is the one your father had, and all the fathers who were there before him. They are the steps of time, which comes and goes, which comes to prune, to adjust branches and poles, to collect to create.
Here, now you can go chasing Reel and relate to a child's sentences no longer than a glance. I didn't waste your time, I showed you what your soul can't tell you.
In 31 anni di lavoro, sono stata rispettata, applaudita, premiata.
E in 31 anni di lavoro, sono stata umiliata, portata al punto di rottura, discriminata, molestata.
Ho viaggiato in auto con l’autista, ho avuto responsabilità, gratifiche.
E ho lavato le scale dei condomini, i pavimenti dei capannoni, lavorato alle stagioni di pomodori e cipolle, come cameriera, lavapiatti, operaia stagionale e su turni, in call center. Ho pedalato chilometri nelle sere d’inverno per portare pizze a domicilio. Ho avuto spesso paura.
Dopo aver perso chi conoscevo sotto un erpice, dopo essermi sentita dire di firmare dimissioni in bianco, dopo essere andata via in lacrime e senza essere pagata perché non accettavo le mani addosso del primo porco che si sentiva in diritto di farlo perché mi aveva firmato un contrattino di merda, la demagogia non la tollero più.
Cominciamo però per primi a non lasciare il tavolo del ristorante come una discarica, che c’è qualcuno che per questo dovrà subire risultati di cose che a casa nostra non faremmo mai.
Rassicuriamo che va tutto bene chi ci consegna la pizza in ritardo, che forse ha fatto semplicemente ciò che poteva.
Chiudiamo bene i sacchi di rifiuti, che chi li viene a portar via alle cinque del mattino non debba pure sporcarsi delle nostre schifezze.
Ringraziamo i commessi, i corrieri che ci lasciano pacchi, chi in ospedale ha cura di farci i prelievi cercando di non farci male, gli insegnanti dei nostri figli che affrontano difficoltà che conosce davvero solo chi sa cos’è stare a scuola tutti i giorni.
E scostiamoci per far passare chi spinge la lavapavimenti nel supermercato, notiamo quanto spesso tiene gli occhi bassi e domandiamoci perché una persona che sta facendo il suo mestiere deve sentirsi in modo tale da non sollevare lo sguardo sul prossimo.
Ricordiamoci che per ogni cartaccia che ci scivola e non raccogliamo, ci sarà un altro essere umano che si dovrà chinare al posto nostro.
Nel mare di ingiustizia, almeno non facciamo mancare il nostro rispetto e il nostro “grazie e buona giornata” a ogni fratello e sorella che ogni giorno tenta come noi di sopravvivere con dignità
Tu portami via dai giudizi cattivi, da questo abbrutirsi dentro a riti banali. Insegnami come si fa a non sentirsi di troppo e a non avere sempre dentro il mare d’inverno.
Odio il modo in cui mi parli ma non, il tuo taglio di capelli. Odio i tuoi anfibi, ma non come leggi e sai tutto quello che penso. Forse ti odio così tanto, che allora, si spiega il mio stare male dallo stare bene e da scrivere stupide poesie o pensieri in forma di fiori, fiori di parole colorate e piene di linfa vitale, con radici affondate nella terra e nel mare, come piante vere.
Odio le parole che non ti dico e che poi trovo scritte, piovute sparse, sui fogli sui quali disegno.
Mi impegno a non darti spazio e tu mi invadi. Mi occupi ogni cellula, con ricordi antichi presi dal nostro comune futuro.
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Mi odio quando non posso che darti ragione e scrivere al posto tuo, molti pensieri che ti galleggiano dentro, da un sacco di tempo. O quelli che ancora non hai avuto modo, di mettere a fuoco.
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Sono flash quelli che mi accendi in testa. Talvolta sento bruciare frasi e fiamme sotto i capelli e dietro la fronte e mi brucia la gola per ogni silenzio che vi si impiglia, quanto rimango soprapensiero a contemplare il tramonto.
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Odio davvero quando mi fai sorridere o commuovere per un qualcosa che tu chiami difetto e che io guardando meglio, scopro essere un frammento di gentilezza di cui Tu, nemmeno ti rendi più conto.
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Odio che non ci sei e che occupi tutta la mia giornata.
Odio quando ricordi da dove vieni, perché poi lì, mi ci perdo e vorrei guardare il mondo da ogni finestra, dietro cui ti sei fermata quel giorno, a fissare gli alberi e i rami quasi stilizzati d’inverno. Quelli che spiccano scuri, contro il grigio scabro del cielo che promette neve. E più oltre, si sente la vibrazione dei fiumi. Quelli che ancora oggi, scorrono continuamente dentro i cassetti della tua stanza.
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Ecco, sto imparando tutte le finestre e le stanze e la pioggia che è scesa nei luoghi che hai frequentato. Odio la cascata ininterotta di attimi, che ti hanno visto diventare quella che io conosco soltanto oggi. Odio il tempo che ti ha allevata perché ha dimenticato di occuparsi di me, perché quasi sicuramente, io pure c’ero, nascosto in qualche piccola tasca. Dei jeans o dello zaino. E poi tu che camminavi e correvi su un tappeto di foglie cadute e croccanti dai colori ancora sgargianti.
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Ma la cosa che odio di più in assoluto, è che io non riesca ad odiarti forte, come si deve o come si dovrebbe.
No. Quello proprio no, ci provo e niente, non mi riesce e allora vorrei dirtelo, gridarlo forte, riempire il tramonto con parole sussurrate sotto l’arancio tenue del sole, che va sotto l'orizzonte tracciato sul mare. E forse, sono proprio quelle le parole che pronunciano i colori, nella sera che avanza, mentre il sole s'immerge.
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Poi mi sveglio e trovo che è un peccato che non mi chiami, perché potrei scrivere al telefono, un libro di parole sorridenti, quanto gli occhi che avresti ad ascoltarle.