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#Stefano Sordo
feraltwinkseb · 10 months
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September 11, 2011 - Monza, Italy Source: Mark Thompson/Getty Images
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lamilanomagazine · 8 months
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Bari: parte oggi il progetto “Scuola Popolare ImparoAimPARARE”, la scuola di formazione per formatori.
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Bari: parte oggi il progetto “Scuola Popolare ImparoAimPARARE”, la scuola di formazione per formatori. Parte oggi il progetto “Scuola Popolare ImparoAimPARARE”, la scuola di formazione per formatori, giunta al settimo anno di attività, ideata dalla Cooperativa sociale “I Bambini di Truffaut” con l’Istituto comprensivo Grimaldi-Lombardi e finanziata dall’assessorato alle Politiche educative e giovanili del Comune di Bari, che mette il cinema al centro di un percorso educativo e aggregativo rivolto soprattutto agli educatori (genitori, insegnanti, catechisti, ecc.) con l’obiettivo di renderli propagatori di un modo di educare, spendibile nelle scuole, nelle famiglie, nelle parrocchie, sul territorio. La “Scuola Popolare ImparoAimPARARE” prevede cinque momenti di approfondimento sul cinema sociale, nell’Istituto Grimaldi-Lombardi e in altri luoghi del Municipio 3 di Bari, con proiezioni di film che affrontano temi forti dell’educazione (famiglia, diversità, scelte, giustizia, social network, donne, genitori e figli e tanto altro), introdotte da educatori e professionisti del cinema e della didattica. Incontri gratuiti e aperti, in primis, agli studenti, ma anche (negli incontri pomeridiani) agli adulti che vorranno sperimentare un nuovo modo per confrontarsi sui temi che riguardano il futuro e le giovani generazioni. Il cinema è, infatti - ed è questo il senso dell’esperienza avviata ormai da dodici anni de “I Bambini di Truffaut” - un mezzo per costruire una comunità, un potente veicolo di aggregazione ed educazione che può contribuire alla crescita sana dei ragazzi in un contesto libero e democratico. Il primo dei cinque incontri incentrati sul cinema sociale si terrà oggi, martedì 24 ottobre alle 16 nell’auditorium dell’IC Grimaldi-Lombardi e sarà intitolato “Dei loro silenzi e delle nostre (troppe) parole”: al centro il film Dear Frankie di Shona Auerbach, dramma del 1994 con Emily Mortimer e Gerard Butler su una giovane mamma che per nascondere una triste verità sul padre, coltiva col figlio sordo una pericolosa menzogna per proteggerlo. Si prosegue con il secondo appuntamento intitolato “I modelli quando hanno un peso”, martedì 31 ottobre alle 10.30 nell’auditorium dell’Istituto Comprensivo "Falcone e Borsellino", con Dolcissime di Francesco Ghiaccio, tenera storia di bullismo e riscatto attraverso lo sport ambientata in una scuola italiana dei nostri giorni. Si torna nell’auditorium del “Grimaldi-Lombardi”, mercoledì 8 novembre alle 11, con “Gli altri, noi, il mondo”: protagonista un film molto amato dagli adolescenti di tutto il mondo, Noi siamo infinito di Stephen Chbosky, tratto dal romanzo epistolare Ragazzo da parete, scritto dallo stesso autore. Una pietra miliare del cinema indipendente americano degli anni Duemila, Little miss sunshine, diretto da Jonathan Dayton e Valerie Faris sarà al centro dell’incontro intitolato “Ognuno ha la famiglia che si merita”, nell’auditorium della Casa delle Culture, mercoledì 15 novembre alle 16. Il ciclo di proiezioni si concluderà mercoledì 29 novembre alle 11 nell’auditorium del IC Grimaldi-Lombardi con “Educarsi allo sbaglio”: appuntamento incentrato su Nevia di Nunzia De Stefano, storia di una adolescente della periferia di Napoli che prova a farsi rispettare in un mondo dove nascere donna non offre nessuna opportunità. Questa sinergia tra IC Lombardi, Cooperativa e Comune di Bari è il primo passo di una collaborazione più intensa che prenderà corpo nella gestione per 36 mesi da parte dell’Ats Cooperativa Sociale I Bambini di Truffaut e Fondazione Giovanni Paolo II Onlus (a valere sul progetto “Rete delle Biblioteche”) della Biblioteca Lombardi, situata all’interno dell’omonima scuola del quartiere San Paolo, con l’attivazione di un servizio stabile di consultazione, prestito di libri e riviste, animazione alla lettura, laboratori, eventi e manifestazioni culturali aperti al territorio e alla cittadinanza con un’attenzione particolare ai minori, alle famiglie e alle fasce deboli della popolazione. Info su ibambiniditruffaut.com.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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LUNEDÌ 31 OTTOBRE 2022 - ♦️ SANTA LUCILLA DI ROMA ♦️ Lucilla (Roma, ... – Roma, 257 circa) è stata una vergine e martire cristiana, vissuta nel III secolo. È venerata come santa dalla Chiesa cattolica. Secondo l'agiografia, Lucilla visse ai tempi della persecuzione di Valeriano intorno al 257. Cieca dalla nascita, recuperò la vista dopo che il padre, il tribuno Nemesio, ebbe richiesto e ottenuto dal papa, Stefano, il battesimo per sé e per la figlia. A battezzarla fu San Valentino di Roma (prete confuso spesso con l'omonimo vescovo di Terni patrono degli innamorati). La loro nuova fede cristiana e il miracolo appena ottenuto resero il padre "sordo" alle continue richieste dell'imperatore, tanto che furono condannati entrambi a morte e subirono il martirio: lei lungo la Via Appia nei pressi del tempio di Marte e lui tra la via Appia e la via Latina. Papa Stefano, che sarà martirizzato di lì a poco, seppellisce padre e figlia in un luogo segreto, da cui il successore, Sisto II, trasferirà i corpi in una sepoltura più dignitosa lungo la Via Appia, il 31 ottobre seguente. Da Il Santo del Giorno Tradizioni Barcellona Pozzo di Gotto - Sicilia Sicilia Terra di Tradizioni #Tradizioni_Barcellona_Pozzo_di_Gotto_Sicilia #Sicilia_Terra_di_Tradizioni Rubrica #Santo_del_Giorno (presso Roma) https://www.instagram.com/p/CkYZ-8Yowar/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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elmartillosinmetre · 3 years
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Gesualdo, el audaz conservador
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[Carlo Gesualdo (1566-1613)]
Mediatizada por el asesinato de su esposa, los estudiosos se esfuerzan en sacar la imagen del Príncipe da Venosa del terreno de la leyenda
Su figura se hizo legendaria ya en vida, y no por sus méritos artísticos. El poder seductor de la ficción hizo que con el tiempo la leyenda fuera creciendo, haciéndose cada vez más difícil de separar de la realidad. Cuando pretenden comunicar a un público amplio informaciones sobre su vida y su obra, musicólogos y profesores se encuentran continuamente con esta dificultad, la barrera del prejuicio.
Todo empezó con un matrimonio de conveniencia, un adulterio y un doble asesinato. En mayo de 1586, Don Carlo Gesualdo, que, por la imprevista muerte de su hermano Luigi el año anterior, se había convertido en el heredero del principado de Venosa y del condado de Conza, se casa, tras conseguir la preceptiva dispensa papal, con su prima carnal Maria D’Avalos, hija de una hermana de su padre y de Carlo d’Avalos, conde de Montesarchio y marqués de Pescara.
Mujer de belleza también legendaria, Maria había nacido en 1560 (por consiguiente, era seis años mayor que Carlo) y enviudado ya dos veces. De la unión nació pronto un varón, Emmanuele, lo que venía a cumplir el objetivo esencial del vínculo: garantizar un heredero a la dinastía. Pero pronto un rumor se convirtió en certeza; se hizo notorio que la bella Maria tenía un amante, también aristócrata, también apuesto como ella (de “Adonis” lo califica una crónica del tiempo), Fabrizio Carafa, conde de Rufo y Duque de Andria.
Los códigos de honor de la época no parecieron dejar alternativa a Don Carlo, pero el futuro príncipe tramó con frialdad su venganza. Fingió que salía por varios días de caza (junto a la música, su gran pasión) y la noche del 15 al 16 de octubre de 1590 irrumpió, acompañado por unos esbirros, en los aposentos de su esposa, a la que encontró en “flagrante delicto di flagrante peccato” con su amante, y mató a los dos. Sobre su directa participación en la ejecución del crimen las crónicas no se ponen de acuerdo, pero en el fondo da lo mismo. Resultaba evidente que se trataba de un crimen de honor que quedaba a resguardo de cualquier acción de la justicia, y de hecho el virrey español de Nápoles no emprendió acción alguna contra don Carlo, quien, en cualquier caso, se refugió prudentemente en su castillo de Gesualdo, por evitar la venganza de las familias de sus víctimas.
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[Carlo Gesualdo. Denis Morrier. Traducción de José Luis García del Busto. Prólogo de Stefano Russomanno. Antonio Machado Libros/Fundación Scherzo, 2021. 134 páginas. 14 euros.]
Aunque ese tipo de crímenes no era ni mucho menos excepcional en la época, el suceso hizo famoso en toda Italia al príncipe, que con el tiempo se convertiría en un personaje novelesco, sobre el que se escribieron cuentos, películas y óperas. La colección Musicalia Scherzo acaba de publicar en español un librito del musicólogo francés Denis Morrier que ayuda a deslindar los hechos de las fantasías, pero va más allá, ya que resuelve la aparente paradoja que ha gravitado siempre sobre el estilo musical de Gesualdo. Visto habitualmente como un revolucionario por el uso exacerbado del cromatismo y la disonancia en sus últimos libros de madrigales, Morrier lo coloca en su correcto espacio histórico: Gesualdo fue un conservador en materia musical, transgresor si se quiere, sí, pero conservador. Esto merece una explicación.
En 1593, regente ya de sus predios por la muerte de su padre dos años antes, Carlo Gesualdo se casa en segundas nupcias con Leonora d'Este, prima de Alfonso II, duque de Ferrara, uno de los centros de la vanguardia musical italiana. Los duques de Ferrara llevaban más de un siglo acogiendo a grandes talentos de las artes, con un especial interés por la innovación musical, de lo que daba cuenta su suntuosa capilla, famosa por el Concerto delle Dame y la musica reservata, y regida por entonces por el maestro de capilla Luzzasco Luzzaschi. El contacto con Ferrara fue crucial para la evolución de la música de Gesualdo.
En 1594 hace publicar en aquella ciudad sus dos primeros libros de madrigales, que se ajustan a la tradición más clásica de la escritura madrigalística a cinco voces. Cuando el compositor vuelve a Ferrara para publicar en 1595 y 1596 sus libros III y IV, el lenguaje es ya más avanzado, más innovador, aunque no será hasta los libros V y VI, editados en Nápoles en 1611, cuando el retorcimiento cromático de su música llegue al límite de sus posibilidades.
Este empleo del cromatismo, unido al uso de poemas oscuros y morbosos, en los que son habituales las paradojas y el juego violento de contrarios (muerte que da la vida, dolor gozoso, pena placentera...), ha sido tradicionalmente invocado para vincular la obra de Gesualdo por un lado a su torturada biografía y por otro al sector más vanguardista de la música italiana del momento. Morrier matiza lo primero (sin duda la psicología y los remordimientos de Gesualdo tuvieron que ver con la elección de los temas, pero la pintura musical era tendencia estilística de su tiempo) y contradice lo segundo: el cromatismo en Gesualdo es meramente accidental y, aunque pueda resultar extravagante y transgresor, resulta perfectamente compatible con el contrapunto modal del Renacimiento. A Gesualdo nunca le interesaron las tendencias modernistas que encabezó Monteverdi: esto es, el bajo continuo, la monodia, la sustitución de la escritura horizontal por otra en acordes, que acabará derivando en la gran revolución barroca de la armonía tonal. Por eso en sus arremetidas contra la nueva música, Artusi se centra en atacar al cremonés, pero jamás cita a Gesualdo. El Príncipe era uno de los suyos, un músico acaso vestido con galas excéntricas y bizarras, pero dotado en el fondo de un refinadísimo y taimado espíritu conservador.
GESUALDO Y MONTEVERDI POR VANDALIA EN SPOTIFY
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Atrevida incursión de Vandalia en el madrigal
Sin alcanzar el papel de Monteverdi, Gesualdo está hoy bastante bien representado en el mundo fonográfico. Sus algo incomprendidas Sacrae cantiones son acaso lo más difícil de encontrar (aunque el VocalConsort Berlin ha dejado un álbum magnífico), pero de los Responsorios de tinieblas hay abundantes referencias y cada vez más de sus madrigales. Además de los grandes conjuntos italianos (Concerto Italiano, La Venexiana, La Compagnia del Madrigale) y de un joven quinteto holandés (Kassiopeia) que pareció fundado casi para eso, recientemente la sección madrigalística de Les Arts Florissants, dirigida por Paul Agnew, ha entrado fulgurante en este terreno y su integral está en marcha.
En ese contexto, este registro de Vandalia es extraordinario, ya que Gesualdo era por completo ajeno a las grabaciones de los conjuntos españoles. Presentado por primera vez en el Otoño Barroco de Sevilla de 2016, pulido luego en otros recitales y grabado finalmente en 2018, el conjunto sevillano (al cuarteto original, que forman Rocío de Frutos, Gabriel Díaz, Víctor Sordo y Javier Cuevas, se une el alto gaditano Jorge Enrique García) ofrece con este programa, autoeditado en CD, los dos grandes lamentos del Libro VI de Monteverdi (La Sestina y el Lamento de Ariadna) y una escogida selección de seis madrigales gesualdianos: Sospirava il mio core (Libro III), Itene, o miei sospiri (Libro V), Gia piansi nel dolore, Moro, lasso, al mio duolo, O dolce mio tesoro y Chiaro resplender suole (Libro VI). Orientada hasta ahora hacia el repertorio español (Juan Vázquez, tonos polifónicos del XVII), habrá que esperar para ver si esta sorprendente grabación supone un giro en la carrera discográfica de Vandalia.
[Diario de Sevilla. 26-07-21]
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ilpianistasultetto · 4 years
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Questa e' la mia ultima dichiarazione dei redditi. Anno 2018. Guardo i numeri e vedo ritenute fiscali pari ad oltre 12mila euro. Credo che una moltitudine di  persone, al mio posto, avrebbero subito detto: "Stato ladrone!! Si mangia buona parte del mio reddito. Io faccio il culo e loro si ingrassano sulle mie spalle"!   Io pero' non l'ho mai detto. Se penso a me stesso si, potrei pensarlo ma sono certo che e' un attimo. Lavoro nel privato, per mia fortuna non conosco nemmeno il nome del mio medico. Non ho mai chiesto nulla a questo Stato, l'unica cosa di cui ho beneficiato e' la scuola pubblica e l'universita' per una figlia. Niente favori, niente case di enti, niente posti pubblici, niente di niente. Allora perche' non l'ho mai pensato? Perche' mi guardo intorno e vedo mia madre ultraottantenne che ogni giorno telefona al suo medico, il quale le risponde, l'ascolta, la conforta e cerca di curarla al meglio senza chiederle nemmeno un cents. Perche' vedo mia zia Maria da sempre casalinga a cui lo Stato dà 520 euro di pensione al mese senza che nella vita abbia mai versato un soldo di contributi. Perche' vedo mio cugino Stefano, sordo dalla nascita a cui lo Stato dà una pensione di invalidita'. Come vedo il sig. Giuseppe, il mio dirimpettaio, che con un reddito di 1200 euro al mese sfama la sua famiglia di 5 persone, accompagna la moglie malata di cancro a fare chemioterapia in ospedale senza pagare nulla, come nulla paga per mandare i suoi 4 figli minori in una scuola pubblica mentre in una scuola privata di basso livello avrebbe speso 350 euro a figlio ogni mese. Credo che ognuno di voi, se ci pensa, conosce decine di queste situazioni tra i propri parenti, amici o conoscenti. Ecco, e' questo che non mi ha fatto venire mai il dubbio che questo Stato si fotte buona parte del frutto del mio lavoro. Potrei pretendere uno Stato piu'onesto, certo;  uno Stato che potrebbe fare molto meglio ma non ho mai pensato che io faccio il culo ed e' giusto tenermi tutto il malloppo, anzi, ringrazio questo Paese che non mi ha lasciato nella condizione di mio nonno contadino come succedeva fino a inizio ‘900, dove il censo era ereditiario senza possibilità di modificare niente.  @ilpianistasultetto
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corallorosso · 5 years
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Se questa è democrazia: trauma cranico, costole e dita fratturate: giornalista massacrato dalla polizia “Ho pensato di morire, non mi vergogno di dirlo. Non smettevano più di picchiarmi, vedo ancora quegli anfibi neri, che mi passavano davanti al volto e, nella testa, mi rimbomba ancora il rumore sordo delle manganellate”. Inizia così la drammatica testimonianza di Stefano Origone, giornalista di Repubblica, picchiato a colpi di manganellate dalla polizia a Genova, durante gli scontri tra CasaPound e un gruppo di antagonisti. Mi trovavo in piazza Corvetto, all’angolo con via Serra, l’unica via di uscita di una piazza completamente blindata dai mezzi della polizia e dagli agenti in tenuta antissommossa. Era una buona posizione, per osservare i contatti tra a polizia e i manifestanti, c’erano già state cariche, ma mi sentivo tranquillo, proprio perchè alle spalle avevo la via di fuga. E poco prima la polizia era anche arretrata. Poi non so cosa sia scattato, non ricordo l’innesco della follia. Mi hanno detto poi che i poliziotti hanno visto un ragazzo vestito di nero e hanno lanciato la carica. So che mi sono arrivati addosso, intorno a me non c’era quasi nessuno, ero in un punto defilato. Li ho visti arrivare, avevo il cellulare in mano perchè stavo facendo qualche foto, mi sono uteriormente spostato. Ma mi sono arrivati addosso. Ho cominciato a scappare, ma non ne ho avuto il tempo. Aggredito, Origone ha iniziato a gridare “sono un giornalista, sono un giornalista”. Ma la violenza degli agenti non si è fermata. Solo quando un Giampaolo Bove, un poliziotto, ha urlato “fermi, è un giornalista!”, le manganellate sono finite. A un certo punto è arrivato un poliziotto, Giampiero Bove, che conosco da molto tempo: si è buttato sul mio corpo, con il casco: “Fermatevi, fermatevi, cosa state facendo, è un giornalista, fermatevi”, ha gridato. Mi ha salvato. Gli sarò per sempre grato. E, come automi, gli agenti hanno smesso e se ne sono andati. Come se il loro furore fosse stato spento, con un clic. Il leader M5S, Luigi Di Maio, ospite di Agorà ha commentato: “Quello che è successo ieri in piazza a Genova ci deve far ricordare che non è il caso di far salire la tensione in questo Paese”. Un messaggio che sembra rivolto anche al responsabile del Viminale: “In questo Paese si cerca di soffiare sul fuoco di ultradestra contro centri sociali”. Il deputato del Pd Emanuele Fiano rincara la dose: “Si è superato il limite proprio in una città - Genova - che dovrebbe ricordare alle forze dell’ordine che quel limite non va superato”. La Repubblica + Globalist
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sounds-right · 2 years
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Marco Parente: "Una città di carta" dal 3/5
Da martedì 3 maggio sarà disponibile sulle piattaforme digitali "Una città di carta" (Blackcandy Produzioni), la colonna sonora originale di Marco Parente tratta dall'omonimo film di Guido Latino che sarà presentato al Trento Film Festival il 3 e il 4 maggio.
Il disco è la colonna sonora originale del docu-film "Una città di carta". 55 minuti di puro flusso interamente��strumentale in una forma acustica, eppure contemporanea. In perfetta simbiosi con le immagini e il racconto, le composizioni finisco per diventare parte indispensabile della sceneggiatura e paesaggio sonoro ideale del docufilm.
L'autore delle musiche è Marco Parente, tranne nel brano "Altopiano parlante" in cui ha collaborato con A. Stefana sia nell'arrangiamento che nella produzione. Sono tutte canzoni originali ed inedite, ad eccezione di "Altopiano parlante" che era la la b-side del singolo "Il posto delle fragole" di Marco Parente del 2005.
Spiega l'artista a proposito del progetto: "È la prima volta che realizzo la colonna sonora di un film-documentario, e anche che lo faccio senza cantare, dunque componendo musica solo strumentale. La cosa ha reso il mio lavoro totalmente leggero, libero e mai conflittuale proprio perché senza parole. Sono partito col selezionare un mio brano strumentale del 2005, pensando di dover aggiungere poco altro, ritrovandomi invece poi a coprire di musica originale quasi la totalità del film."
Track-list:
Altopiano parlante feat. Alessandro 'Asso' Stefana
Tema di carta
Sole di carta 
Tema di carta (Reprise)
Daziaro
Acqua di carta
Balalaika orchestra 
Città in tre temi di carta 
Neve di carta 
Sul fiume di carta 
Balalaika in città 
Letti bianchi 
Altopiano parlante (Reprise) feat. Alessandro 'Asso' Stefana
Pace di carta
Svidrigajlov
Tre paesaggi di carta
Altopiano parlante (Finale) feat. Alessandro 'Asso' Stefana
Carta canta (Titoli di coda) feat. Tatiana Sordo
Biografia
Marco Parente nasce il 28 Luglio del '69, lo stesso giorno di Duchamp. Da allora ogni pretesto è buono per tradursi in musica: 8 dischi, uno dal vivo, un doppio Dvd, 2 dischi sotto altro nome (Betti Barsantini e Proiettili Buoni). 3 moderne operine messe in scena (Inferno Paradiso Piano Terra, Il Rumore Dei Libri e Il Diavolaccio), L'esperimento "Disco Pubblico", il discometraggio American Buffet, il "soundwalking" su Dino Campana e il recentissimo LIFE a chiudere la trilogia POE3 IS NOT DEAD. Negli anni s'incontra, confronta e collabora con Carmen Consoli, Cristina Donà, Patti Pravo, Manuel Agnelli, Paolo Benvegnù, La Cruz, Stefano Bollani, Enrico Gabrielli, ecc. Sul filo della poesia invece: L. Ferlinghetti, Jodorowsky, J. Giorno, Anne Waldman.
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chez-mimich · 4 years
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FABIO MINA, “THE SHIV”
Dobbiamo ancora abituarci, ma di sicuro esisterà, forse già esiste, una “letteratura dell’era Covid” e una “musica del/dal lockdown”. Di quest’ultima fa certamente parte, per stessa ammissione del suo autore, l’interessantissimo lavoro di Fabio Mina, flautista, sassofonista, compositore e molto altro, dal titolo, “The Shiv”, che nel gergo delle galere americane, allude ad un coltello auto-costruito dai detenuti. Nella grammatica musicale e semantica del giovane musicista, il riferimento chiaro è alla capacità della musica di essere tagliente, cruda, anche spietata, ma sempre autentica e nello stesso tempo, a questa convinzione, soggiace il desiderio di portare l’attenzione su una questione esiziale del comportamento umano: la perenne voglia di rinchiudere, di incarcerare, e, perché no, di punire (come ricordava Michel Foucault, se mi si passa la citazione “da vecchio”). Incomincerei dal pezzo che dà il titolo all’album, “The Shiv” appunto, aperto da un suono sordo e ossessivo di meccanismi, probabilmente lucchetti o serrature, e condotto da una voce lamentosa supportata dal flauto di Fabio Mina, un lamento che trasmigra e si fa suono. Il “recitativo” è parte delle registrazioni che Alan Lomax etnomusicologo, antropologo, nonché produttore discografico statunitense, raccolse nei penitenziari della Louisiana e del Mississippi, tracce sonore che rimandano alla detenzione, all’isolamento, a claustrofobiche gabbie non solo reali, ma anche mentali. Mi sia concessa una riflessione parallela: tutti (o quasi tutti) abbiamo compreso che la punizione più feroce che possa essere inflitta all’uomo, è la privazione della libertà e, a farcelo comprendere anche in maniera non teorica, ha contribuito proprio il lockdown a cui tutti siamo stati sottoposti. Anche “The Cut” che apre l’album, ha una rabbrividente introduzione vocale, mescolata abilmente ad una disarmonia elettronica di grande profondità ed equilibrio, magnificata, sul finire del pezzo, dal tonificante sax di Fabio Mina che sa di sapienza musicale e di libertà. Cupo e profondamente spirituale “Sameness”, ossessivo urlo senza fine dal cuore nero della prigione, con un originale e brusco finale. Il racconto tortuoso dell’esperienza carceraria sembra esplicitarsi nel tortuoso e frammentato “In And Out”, con sempre in bella evidenza i flauti e il sax che paiono essere le voci recitanti, e allo stesso tempo gli elementi di equilibrio dell’intero lavoro e che dialetticamente si contrappongono ad una sezione elettronica pervasiva e di grande effetto come quella del fratello di Fabio, Luca Mina, complice il mixaggio di Aniki; album ben cucinato in famiglia con una copertina di Stefano Mina. Un altro disco “impegnato”, come si sarebbe detto una volta, di una consapevolezza che lascia traccia e che si riscontra sempre più spesso nei giovani jazzisti; messaggio importantissimo per questi tempi in cui “il sonno della ragione”, ha già generato troppi mostri.
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tarditardi · 2 years
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Marco Parente, "Una città di carta" disponibile dal 3 maggio 2022
Da martedì 3 maggio sarà disponibile sulle piattaforme digitali "Una città di carta" (Blackcandy Produzioni), la colonna sonora originale di Marco Parente tratta dall'omonimo film di Guido Latino che sarà presentato al Trento Film Festival il 3 e il 4 maggio.
Il disco è la colonna sonora originale del docu-film "Una città di carta". 55 minuti di puro flusso interamente strumentale in una forma acustica, eppure contemporanea. In perfetta simbiosi con le immagini e il racconto, le composizioni finisco per diventare parte indispensabile della sceneggiatura e paesaggio sonoro ideale del docufilm.
L'autore delle musiche è Marco Parente, tranne nel brano "Altopiano parlante" in cui ha collaborato con A. Stefana sia nell'arrangiamento che nella produzione. Sono tutte canzoni originali ed inedite, ad eccezione di "Altopiano parlante" che era la la b-side del singolo "Il posto delle fragole" di Marco Parente del 2005.
Spiega l'artista a proposito del progetto: "È la prima volta che realizzo la colonna sonora di un film-documentario, e anche che lo faccio senza cantare, dunque componendo musica solo strumentale. La cosa ha reso il mio lavoro totalmente leggero, libero e mai conflittuale proprio perché senza parole. Sono partito col selezionare un mio brano strumentale del 2005, pensando di dover aggiungere poco altro, ritrovandomi invece poi a coprire di musica originale quasi la totalità del film."
Track-list:
Altopiano parlante feat. Alessandro 'Asso' Stefana
Tema di carta
Sole di carta 
Tema di carta (Reprise)
Daziaro
Acqua di carta
Balalaika orchestra 
Città in tre temi di carta 
Neve di carta 
Sul fiume di carta 
Balalaika in città 
Letti bianchi 
Altopiano parlante (Reprise) feat. Alessandro 'Asso' Stefana
Pace di carta
Svidrigajlov
Tre paesaggi di carta
Altopiano parlante (Finale) feat. Alessandro 'Asso' Stefana
Carta canta (Titoli di coda) feat. Tatiana Sordo
Biografia
Marco Parente nasce il 28 Luglio del '69, lo stesso giorno di Duchamp. Da allora ogni pretesto è buono per tradursi in musica: 8 dischi, uno dal vivo, un doppio Dvd, 2 dischi sotto altro nome (Betti Barsantini e Proiettili Buoni). 3 moderne operine messe in scena (Inferno Paradiso Piano Terra, Il Rumore Dei Libri e Il Diavolaccio), L'esperimento "Disco Pubblico", il discometraggio American Buffet, il "soundwalking" su Dino Campana e il recentissimo LIFE a chiudere la trilogia POE3 IS NOT DEAD. Negli anni s'incontra, confronta e collabora con Carmen Consoli, Cristina Donà, Patti Pravo, Manuel Agnelli, Paolo Benvegnù, La Cruz, Stefano Bollani, Enrico Gabrielli, ecc. Sul filo della poesia invece: L. Ferlinghetti, Jodorowsky, J. Giorno, Anne Waldman.
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pangeanews · 4 years
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“Forse c’è un male segreto nella natura che ha permesso l’origine di questo uomo…”. Andrea Zanzotto, oltre il paesaggio
Ci sono figure della letteratura talmente poliedriche e universali, che è impensabile poterne tracciare in breve un profilo, umano ed artistico insieme, perché risulterebbe sommario, come sommario sarebbe ogni, seppur necessario, intendimento di celebrazione. È il caso del poeta Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 – 18 ottobre 2011), l’eco della cui scomparsa non si è ancora spenta, a dimostrazione non solo del suo immenso lascito poetico (tra l’altro, è tra i poeti italiani novecenteschi più tradotti e studiati all’estero), ma anche del suo incommensurabile lascito intellettuale e umano, che chiunque abbia avuto modo di conoscere il poeta ha potuto toccare con mano. Rimangono scolpite nella memoria quelle poche essenziali parole in risposta a un giornalista, che gli chiedeva, nel giorno del suo novantesimo compleanno, che cosa avesse capito della vita: “Niente. Ci vorrebbero non 90 anni, ma 900 anni, per poter forse sperare di capire qualcosa”. Viene qui adombrata una sorta di cronologia biologica e per certi versi al di là dell’uomo, dunque, tendente forse alle ere geologiche, o certamente appartenente ai quei ritmi naturali dai quali l’uomo, suggeriva Zanzotto, si era fatalmente sconnesso, proprio devastando il paesaggio, e solo dentro i quali l’uomo potrebbe oggi riprendere coscienza della sua dimensione fatalmente minima.
*
Tale richiamo alla geologia, come storia al di sopra di tutte le storie possibili, si ritrova peraltro in un formidabile e antico pezzo critico su Montale (L’inno nel fango, 1953, in Fantasie di avvicinamento, Mondadori 1991), laddove viene esplicitata una visione dell’uomo “dannato per un’accidia cui si trova costretto”, e che “continua a gorgogliare nella belletta il suo ‘inno’, e il suo inferno è il ritrovarsi tra gusci, fanghiglie e frammenti di terra e di pietra, in cui viene a risolversi la sua umanità, il sentire che ogni storia finisce col coincidere con quella dei detriti fisici, con la geologia” – saggio esemplare quanto precursore della vastissima attività critico-riflessiva di Zanzotto (che Pier Vincenzo Mengaldo definirà, per originalità, come non apparentata con nessuna altra tendenza della critica in Italia; e per la quale Stefano Agosti non tarderà a fare paragoni con autori come Proust, Eliot e Valery; e del cui acume Stefano Dal Bianco dirà essere il prodotto di una “mente inglobante e totale”, che si avvicina all’autore analizzato con una “serie di circoli ermeneutici”), attività che trasversalmente ha accompagnato tutta la produzione poetica di Zanzotto (e senza la quale è impossibile comprenderla appieno), poi raccolta ed edita in tre differenti tempi: gli scritti sugli autori dell’Ottocento e del Novecento, sentiti come padri (Fantasie di avvicinamento, cit.); gli scritti sugli autori del Novecento, sentiti come fratelli, minori o maggiori, oppure come “altri” (Aure e disincanti del Novecento letterario, Mondadori 1994); gli scritti caratterizzati da una maggiore teoresi sulla poesia, in generale e sulla propria (Prospezioni e consuntivi, in Le poesie e prose scelte, Meridiano Mondadori 1999).
*
Tuttavia, alle ere geologiche da sempre la poesia di Zanzotto ha controbilanciato, pascalianamente, la salvezza della poesia, emblematicamente rappresentata dalla “cameretta” di Petrarca: laddove Zanzotto si chiede quale posto ha Il Canzoniere “entro il ritmo, il timbro inafferrabilmente complesso dell’esistenza del poeta”, ne ricava un’intuizione che è facilmente ascrivibile alla sua, di vita: nel crogiuolo di ossimori, prima di tutto esistenziali, e poi stilistici e contenutistici, la cameretta di Petrarca – da leggere infine come una metaforizzazione di Pieve di Soligo –, è ben lungi dall’essere evasione, ma “è indizio della sempre rinnovata postulazione di un senso che chiama da altrove, e appare dunque connaturata alla poesia […]: sia verso l’edificazione delle forme, sia verso lo spazio di un’altra storia” (Petrarca tra il palazzo e la cameretta, 1976, in Fantasie di avvicinamento, cit.). Dal suo osservatorio sul mondo – Pieve di Soligo –, al pari di Leopardi, Zanzotto ha fatto della sua poesia il centro del mondo, avendolo ricondotto a sé, come nessun altro nel Novecento italiano – perché è ormai indubbio che Zanzotto sia il più grande poeta del nostro Novecento, per la qualità della poesia e la portata del pensiero.
*
E quale “altra storia” si nasconda dunque Dietro il paesaggio (Mondadori 1951), dietro la rassicurante parvenza della “piccola patria” di sapore holderliniano, lo rivelano molti degli interventi di poetica di Zanzotto, raccolti nelle Prose scelte del Meridiano, nonché la memorabile raccolta di racconto Sull’Altopiano (Neri Pozza 1964), quest’ultima emblematica non solo del rapporto tra poeta e paesaggio, ma anche del futuro rapporto tra scrittore e testo (Bandini), e carica delle microstorie locali che alla fine come in un mosaico compongono la Storia, anzi l’unica storia plausibile, fino alla detonazione esposta in 1944: FAIER, alla bestemmia cioè di un paesaggio che non può ridare la vita a un giovane partigiano, e fare giustizia per il suo sangue innocente versato (e questo non è che un esempio minimo del sempre intenso impegno civile di Zanzotto): “E, anche se non ha più forza di chiamare aiuto, Gino sta in agonia, perdendosi fiotto a fiotto dentro la terra, dalle due ore senza termine di quel tramonto. Egli è assorto nel verde profondissimo del prato della sua infanzia, non può ancora veramente credere che tutto quanto gli era caro e gli sta intorno sia così sordo e duro e inerte, che la sua terra gli stia suggendo, stia riprendendogli tutte le forze”. D’altro canto, sembra suggerire il poeta, la sola storia di cui si può scrivere è alla fine quella di cui si esperisce in qualche modo, direttamente o indirettamente, ed è poi quella che scrive la poesia: in una famosa video-intervista con Carlo Mazzacurati e Marco Paolini (Ritratti. Andrea Zanzotto, Biblioteca dell’Immagine 2001), Zanzotto afferma chiaramente di avere perso la fiducia nella Storia da bambino, quando una zia gli fece notare che era inutile che raccontasse le vicende dei Romani o dei Greci, se non sapeva cosa stesse accadendo in quel preciso istante in un palazzo di Pieve di Soligo. Ed è quello che egli riafferma in una delle prose di poetica, facenti parte di Prospezioni e consuntivi (Prose scelte, cit.): “Da quale prospettiva ci si dovrà collocare per avere una visione panoramica attendibile? Quella di ‘Sirio’ non basterebbe più… oggi del resto si dubita se per caso tutto il processo che noi finora abbiamo sentito come ascendente non sia invece discendente. E non meno giustificata è quella prospettiva per cui sembra che la storia, ipertesa, tra arciarmi e arciproduzione, si avvicini a un punto X, a un momento deflagrante […]. A questo punto l’intervento della poesia, o di un certo modo di intendere la poesia, con relativi risultati, si affaccia umilmente per favorire dei tentativi di diagnosi e prognosi…”  (Il mestiere di poeta, 1965).
*
La poesia si pone dunque come vera e unica storiografia possibile. Ma è pur anche il filo rosso della Storia (e della sua violenza) quello che percorre tutta l’opera poetica zanzottiana, dai primi rarefatti emblemi bellici in Dietro il Paesaggio (cit.), alle poesie elegiache dei compagni partigiani morti di Vocativo (Mondadori 1957), e che per strade sotterranee giunge fino al monolite de Il Galateo in Bosco (Mondadori 1978) – primo capitolo della cosiddetta “trilogia”, a cui seguono Fosfeni e Idioma (il primo, un viaggio verso il siderale; il secondo, un viaggio verso il locale, anche linguisticamente parlando) –, laddove “le pendici del Montello […] sono contemporaneamente luogo naturale (il paesaggio primario dell’autore), luogo storico, segnato dagli ossari dei caduti della Prima guerra mondiale, e luogo letterario (lì Giovanni della Casa scrisse il Galateo e in elogio della selva del Montello compose nel 1683 un’ode rusticale Nicolò Zotti)” (Enrico Testa). In questo spazio, dove appunto si stratificano relitti di diversa natura, “ne risulta […] un precipitare dell’io e delle sue personae verso il basso e l’indifferenziato” (Testa), dove residui umani e residui linguistici diventano tutt’uno nel rifondare un senso minimo, dato dalla memoria, e in ultima analisi, dalla poesia: “Sempre più con essi, dolcissimamente, nella brughiera / io mi avvicendo a me, tra pezzi di guerra sporgenti da terra, / si avvicenda un fiore a un cielo / dentro le primavere delle ossa in sfacelo, / si avvicenda un sì a un no, ma di poco / differenziati, nel fioco / negli steli esili di questa pioggia, da circo, da gioco” (Rivolgersi agli ossari…). E anche agli innocenti rubri papaveri di Meteo (Donzelli 1996), scritto in parte nel pieno delle guerre della ex-Jugoslavia, sono emblemi del sangue, e del guastato rapporto tra uomo a natura: “Papaveri ovunque, ossessivamente essudati, / sudori di sangui di ogni / assolutamente / eroinizzato    slombato
paesaggio / sudore spia / di chissà quale irrotta malattia”.
*
Allo stesso tempo, dunque, la poesia è testimone dal rapporto tra cultura e natura, tra uomo e paesaggio; rapporto che Zanzotto fu certamente tra i primi, se non il primo, a denunciare nei suoi irreparabili guasti, già ne La Beltà (1968), recensita da Montale, che ne comprese immediatamente la portata epocale, con il suo “rumore della storia, spesso degradata a ‘storiella’, e i perfidi sibili del presente con la sua onnivora mercificazione e dissesti, anche ecologici, del paesaggio” (Enrico Testa). E infatti, in un intervento del 1972 (all’inizio della devastante deflagrazione industriale nel Nord-Est), Zanzotto scrive: “Nel rapporto natura-cultura ho costantemente sentito sia la bipolarità sia la continuità. Così, oggi, di fronte al sadico scempio che si sta facendo della natura, non so se esso sia da imputare del tutto a un tipo di cultura (che pure è aberrante in piena evidenza) o a un male segreto della natura stessa, tale da aver permesso che da lei avesse origine ‘questo’ uomo” (Uno sguardo dalla periferia, in Prospezioni e consuntivi, cit.). Riconosciuto universalmente come il “poeta del paesaggio”, tale definizione dunque rischia tuttavia di essere riduttiva, se diventa una gabbia stereotipica. È pur vero che nella citata intervista con Paolini, Zanzotto afferma la centralità del paesaggio, inteso come luogo, ma sempre in relazione all’esperienza psichica: “Per me il paesaggio è, prima di tutto, trovarmi davanti a una grande offerta, a un immenso donativo, che corrisponde proprio all’ampiezza dell’orizzonte.  È come il respiro stesso della presenza della psiche, che imploderebbe in sé stessa se non avesse questo riscontro. […] Noi in un primo tempo, siamo una specie di centro mobile, che si sposta, con noi stessi, ricentrando gli orizzonti e i limiti. Poi, mano a mano che si accumula una nostra storia psichica, ci accorgiamo di trovarci perpetuamente nascosti dietro il paesaggio – e io ho scritto appunto Dietro il paesaggio – oppure davanti, o immersi in un continuo gioco di ‘trapungere’. Un paesaggio ideato come qualcosa che punge e trapunge e di cui noi siamo una specie di spoletta, che si aggira in mezzo, che cuce… oppure qualcosa che taglia. Quindi, mano a mano che si accumula una nostra storia psichica, noi la depositiamo in questo paesaggio, che all’origine aveva già una sua autorità e che accoglie, poi, le ferite che noi gli infettiamo”. Si direbbe che in Zanzotto il linguaggio sia dunque espressione del rapporto tra questo io-psichico e il paesaggio-realtà. Nel momento della rottura del rapporto con il paesaggio, nasce allora il trauma della rottura con il linguaggio tradizionale poetico, che da La Beltà in poi diventerà “il linguaggio nella sua totalità, come luogo dell’autentico e dell’inautentico” (Stefano Agosti), nella sua irreparabile scissione tra significante e significato, tra vita psichica e mondo.
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L’ultimo Zanzotto registra nelle sue opere poetiche questa irreparabile frattura, forse la prima nella storia, e così profonda, tra uomo e paesaggio, come già avvenuta, e prospettando alla fine una salvezza nella sussunzione biologica/geologica nella Natura: in Sovrimpressioni (Mondadori 2001), infatti, “paesaggio e soggetto sono ora entrambi nella stessa barca: ci sono e non ci sono. Il personaggio in scena è un anziano signore, la cui mente è data per difettosa, mentre il fronte della natura, annichilito dai non-luoghi, è come se si sublimasse in un oggetto di percezione pura, e i messaggi che ci manda sono non-messaggi che provengono da un altrove tanto temporale quanto spaziale” (Stefano Dal Bianco). Memorabile in questo senso l’incipit della seconda parte poemetto Ligonàs: “No, tu non mi hai tradito, [paesaggio] / su te ho / riversato tutto ciò che tu / infinito assente, infinito accoglimento / non puoi avere: il nero fato/nuvola / avversa o della colpa, del gorgo implosivo”. Queste stesse “istanze costruttive e organiche del cosmo” (Dal Bianco), si ritrovano anche nel libro-testamento Conglomerati (Mondadori 2009), rappresentate sotto la veste dell’altrettanto eterno disordine; ma il libro è anche la rappresentazione di un viaggio ultramondano di matrice dantesca, che non a caso finisce però con una parola montaliana, “assenzio”, e una poeticamente universale, “silenzio”.
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Per concludere, in una lettera-saggio a Berardinelli del 1998, intitolata in origine Tra passato prossimo e presente remoto (in Prospezioni e consuntivi, cit.) – titolo poi modificato non a caso in Dai campi di stermino allo sterminio dei campi (Liberal libri 1999) –, rimangono di Zanzotto queste parole, che hanno ora valore definitivo di consuntivo: “Ho continuato sopraffatto ed esaltato ad un tempo, in questo mio atteggiamento verso l’ambiente e, se mi è capitato ben presto di sottolineare una pari minaccia sovrastante il luogo e la lingua, devo però precisare che solo con il procedere degli anni Settanta e particolarmente dopo la metà degli anni Ottanta questa minaccia si è trasformata in reale devastazione. […] La catastrofe dei luoghi e appunto dei ‘sogni’ […] è anche catastrofe dei campi, cioè della memoria, nella quale i tempi si dispongono secondo un ordine: se si fosse conservata la memoria che il progresso scientifico e tecnico era frutto della civiltà umanistica […], non si sarebbe perso di vista del tutto il nucleo utopico, […] tale […] da rendere necessario il progetto di un qualche ‘senso di realtà’. […] Se pensiamo però che la scienza-tecnica ad alta efficacia ha solo poco più di tre o quattro secoli, vediamo che sicuramente c’è ancora una lunghissima strada da fare prima di riarmonizzare le dissonanze che necessariamente in questo periodo essa ha provocato, avendo in vista nuovi assetti del mondo. Per esempio, armonizzare il tempo storico e il tempo biologico o, ancor meglio, geologico e cosmologico: noi constatiamo con quanta difficoltà le teste umane recepiscano la nostra vera condizione, specie quelle dei ‘potenti’. Se questi pensassero che dominano un pianetino, un bruscolo periferico in un’estrema galassia e che dopo tutto hanno solo quello, il loro atteggiamento sarebbe più sanamente depresso (direbbe Hillman)”. Buona eternità, dunque, ad Andrea Zanzotto, poeta di Pieve di Soligo e del mondo: infine anche il Novecento ha avuto la sua Recanati, qui e ora.
Giovanna Frene
*Opere principali di Andrea Zanzotto (poesia, saggistica, interviste)
Dietro il paesaggio (Mondadori 1951)
Elegia e altri versi (Edizioni della Meridiana1954)
Vocativo (Mondadori 1957)
IX Ecloghe (Mondadori 1962)
Sull’altopiano (Neri Pozza 1964)
La Beltà (Mondadori 1968)
Gli Sguardi i Fatti e Senhal (Mondadori 1969)
A che valse? (versi 1938-1942) (Scheiwiller 1970)
Pasque (Mondadori 1973)
Filò. Per il Casanova di Fellini (Edizioni del Ruzante 1976)
Il Galateo in Bosco (Mondadori 1978)
Fosfeni (Mondadori 1983)
Idioma (Mondadori 1986)
Fantasie di avvicinamento (Mondadori 1991)
Aure e disincanti nel Novecento letterario (Mondadori 1994)
Meteo (Donzelli 1996)
Le poesie e prose scelte (Mondadori “I Meridiani” 1999)
Sovrimpressioni (Mondadori 2001)
Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura (Nottetempo 2007)
Viaggio musicale (Marsilio 2008)
Conglomerati (Mondadori 2009)
In questo progresso scorsoio (Garzanti 2009)
Tutte le poesie (Mondadori 2011)
Ascoltando dal prato. Divagazioni e ricordi (Interlinea 2011)
Haiku for a season / Haiku per una stagione (Chicago-Londra 2012)
_________________________
[Il saggio è stato pubblicato nel “Notiziario bibliografico”, Periodico della Giunta regionale del Veneto, n. 67, giugno 2013, pp. 49-52]
*La fotografia in copertina di Andrea Zanzotto è tratta da qui
L'articolo “Forse c’è un male segreto nella natura che ha permesso l’origine di questo uomo…”. Andrea Zanzotto, oltre il paesaggio proviene da Pangea.
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notiregional · 4 years
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Reclaman que se cumplan las obras en la Ruta 9 entre Tortugas y Roldán
Reclaman que se cumplan las obras en la Ruta 9 entre Tortugas y Roldán
El pedido lo realizó este jueves la diputada Silvana Di Stefano. Los vecinos lo vienen pidiendo hace años, pero hasta ahora no han obtenido respuestas.
  El problema involucra a varias localidades y al menos a 3 departamentos, Belgrano, Iriondo y San Lorenzo. Se han realizado numerosos reclamos y protestas para lograr que Vialidad Nacional cumpla con las obras; pero hacen oídos sordos.” Expresó…
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giancarlonicoli · 6 years
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19 ott 2018 09:35
“NON È IL CLIMA GIUSTO PER FESTEGGIARE IL GATTOPARDO” – IL ROMANZO DI TOMASI DI LAMPEDUSA COMPIE 60 ANNI MA IN ITALIA NON VIENE FESTEGGIATO. IL FIGLIO ADOTTIVO DEL PRINCIPE: "UN'OCCASIONE SPRECATA. FELTRINELLI NON LO CELEBRA PER UNA SORTA DI RESISTENZA PRATICA. CREDONO CHE FUNZIONI SOLTANTO LA LETTERATURA PEDAGOGICA DI SINISTRA" – CON LE SUE METAFORE VOLEVA FARE I CONTI CON LE INAPPLICABILI PROMESSE RIVOLUZIONARIE DEL '56 - VIDEO
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Andrea Velardi per il Messaggero
Hanno risuonato in tutte le librerie d' Italia le musiche tratte dal film di Luchino Visconti il 21 settembre, all' indomani della scomparsa di Inge Feltrinelli, che si era trasferita a Milano per amore di Giangiacomo Feltrinelli proprio nel 1958, l' anno della pubblicazione de Il Gattopardo, romanzo molto amato dalla regina dell' editoria. Presso la Feltrinelli di piazza del Duomo i lettori hanno perfino ballato sulle soffici note del Valzer brillante, riorchestrazione verdiana di Nino Rota, fatta apposta per il gran ballo tra Claudia Cardinale e Burt Lancaster. Anche Roberto Andò, uscendo dalle prove per la prima milanese di Bella figura di Yasmina Reza, ricorda che Inge Feltrinelli lo volle conoscere dopo aver visto «Il manoscritto del Principe» e che era «entusiasta del Gattopardo, romanzo affatto reazionario, che è un classico di cui nessuno può limitare la portata».
LA NOTA Nel ricordo di Inge, l' editore Feltrinelli ha risposto con una nota ufficiale all' indomani dell' intervista polemica al Messaggero in cui Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, lamentava il disinteresse per il 60esimo anniversario dell' uscita de Il Gattopardo. L' editore si dice dispiaciuto per le parole di Lanza Tomasi, che preferisce considerare «frutto di una polemica estemporanea piuttosto che considerazioni di natura editoriale» e precisa «quanto sia intenso, oltre che ampiamente noto, il legame strettissimo e continuo tra Feltrinelli e il Gattopardo», valorizzato «in ogni forma come uno dei capolavori della letteratura internazionale» e i cui diritti sono gestiti con «passione e cura» dall' editore che ne permise la pubblicazione dopo il rifiuto einaudiano di Vittorini, con 13 diverse edizioni del libro - maggiori, filologiche, audiolibri e tascabili- dal 1958 a oggi.
Un romanzo affatto dimenticato con «innumerevoli occasioni di promozione e celebrazione organizzate dalla casa editrice e dal Gruppo Feltrinelli, in Italia e nel mondo. Ricordiamo qui solo le letture di Stefano Benni organizzate lo scorso anno nella nuova sede della Fondazione Feltrinelli e aperte alla città e alle scuole».L' editore non risponde nel merito del 60esimo, perché «sarebbe scontato sostenere che il nostro modo di celebrare il Gattopardo è quello di cercare quotidianamente le novità che si rifanno a quello stile e a quella matrice letteraria, in realtà lo facciamo anche direttamente»
LA PARABOLA Gioacchino Lanza Tomasi sottolinea che «tutto quanto detto nel comunicato corrisponde a verità, ma è evidente che il 60esimo si tradurrà in un' occasione mancata». Al figlio adottivo di Tomasi di Lampedusa chiediamo di precisare meglio i motivi del rifiuto dell' editore e del richiamo fatto nell' intervista a Mario Ajello della «resistenza pratica» dovuta alla fede in «una letteratura pedagogica di sinistra». «Il Gattopardo in Italia è stato sempre considerato un libro politico - spiega Lanza Tomasi - mentre nel mondo della cultura mondiale è solo il grande libro amato da grandi scrittori che sarebbero venuti a celebrarlo in un convegno come Mario Vargas Llosa, Javier Marías, AbrahamYehoshua. Quello che «ci ha fatti uscire dal romanzo ottocentesco, è un romanzo storico anomalo perché rilegge i fatti dalla prospettiva della psiche, alla Virginia Woolf, una storia di trauma interiori e non di eventi esterni.
La questione ideologica non c' entra, va bene, ma Il Gattopardo rimane un romanzo scomodo, dirompente, micidiale perché si innesta nella mancata metabolizzazione del Risorgimento, la cui parabola conduce al fascismo perché, diciamolo francamente, i Savoia non erano affatto per la democrazia. Il Risorgimento ha spaccato l' Italia e la frattura tra Nord e Sud è stata imperante anche nelle ultime elezioni politiche. Il successo del libro viene da questo: sono cadute le scaglie dagli occhi della gente distrutta che ha pensato: ci avevano detto che questo era il progresso, ma invece siamo stati fregati».
Quindi non sarebbe affatto, come sottolineava Asor Rosa criticando l' interpretazione di Francesco Orlando, che Il Gattopardo è il romanzo del fatalismo meridionale? Lanza Tomasi si accende: «Said nel saggio sull' orientalismo ha fatto capire che la frase sul trasformismo in realtà vuol dire Se tu non cambi, la storia ti seppellisce, muovendo ad un dinamismo e a una consapevolezza dell' azione che lega Lampedusa a Vico e Gramsci. Gli aspetti reazionari ci sono, ma appartengono semmai al distacco aristocratico di Tomasi di Lampedusa.
Perfino un tassista palermitano mi ha citato l' episodio della visita del senatore Tassoni nell' ultimo capitolo dove si svelano le finzioni reciproche dei personaggi e «un' altra pala di terra fu messa sul tumulo della verità. Peccato che l' editore mostri una tale disattenzione per questo scrittore capace di profezia».
2. QUEL PREGIUDIZIO ITALIANO MAI SCOMPARSO
Matteo Collura per il Messaggero
Letta l' intervista di Mario Ajello a Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo del principe di Lampedusa, pubblicata ieri su questo giornale, se ne ricava una semplicissima deduzione: passano gli anni, ma la pregiudiziale contrapposizione tra sinistra e destra (comunisti e non comunisti), riguardo i temi culturali rimane. Siamo rimasti fermi a Calvino, Guttuso, Moravia, Vittorini. E per quanto riguarda la critica più orientata a sinistra, a Mario Alicata, influente membro del Comitato centrale del Partito comunista.
Questo è quanto ci dice l' intervista, nonostante siano trascorsi sessant' anni dalla pubblicazione del Gattopardo. Sessant' anni dice Gioacchino Lanza Tomasi sarebbero una buona occasione per festeggiare il romanzo, che (questo lo diciamo noi) ha dato agli italiani il gusto della lettura, inaugurando, con Il dottor Zivago, l' epoca dei best seller in Italia.
Senonché dice sempre il figlio adottivo dello scrittore alla Feltrinelli hanno preferito far passare sotto silenzio l' anniversario. Nessuna celebrazione. «Credono che può ancora esistere una letteratura pedagogica di sinistra, e che funzioni soltanto quella», ne deduce Gioacchino Lanza Tomasi. Credono proprio così alla Feltrinelli? Possibile, dopo ventinove anni dalla caduta del muro di Berlino? Può ancora Il Gattopardo dividere gli italiani? Può continuare ad essere, questo meraviglioso romanzo, un inno reazionario, per la sua filosofia del tutto cambi perché nulla cambi?
C' è da restare basiti. E dare ragione al principe, quando il 2 luglio 1957, ventiquattro giorni prima della morte, letta la lettera di rifiuto che gli aveva fatto avere Elio Vittorini, disse: «Come recensione non c' è male, ma pubblicazione niente». È vero: il direttore della collana I Gettoni (Einaudi) era stato più recensore che lettore editoriale, avendo espresso riserve che attengono più alla critica che alla valutazione di chi i libri li pubblica per venderli: per più di una buona metà, il romanzo rasenta la prolissità nel descrivere la giornata del giovin signore' siciliano (la recita quotidiana del rosario, la passeggiata in giardino col cane Bendicò, la cena a Villa Salina, il salto' a Palermo dall' amante). Tutti difetti, questi, che sarebbero risultati la vera ragione del successo del libro. Ne è prova il film che nel 1963 ne ricavò Luchino Visconti.
Moravia, che del romanzo non fu entusiasta (come del resto, inizialmente, Leonardo Sciascia), nel recensire la versione cinematografica così si espresse: «Solo Visconti, comunista aristocratico, poteva con tanta sottigliezza dosare il grado di scetticismo e di poetica nostalgia del principe di fronte alle questioni sociali e politiche dell' epoca». Scetticismo, poetica nostalgia. Parole sante.
Era il 1956 quando il principe di Lampedusa scriveva il suo unico romanzo; l' anno della rivolta d' Ungheria e di tanti, conseguenti, chiusi settarismi.
Quando Il Gattopardo giunse nelle librerie sembrò che in esso non ve ne fosse traccia. E forse si trattò di un clamoroso errore, perché nella sua prorompente, quanto pittoresca metafora politico-sociale, non è escluso che il romanzo di Lampedusa intendesse fare i conti anche con le promesse rivoluzionarie (quelle nate dalla Resistenza comprese) che già mostravano la loro inapplicabilità. Non era cieco né sordo né del tutto tenuto al riparo dalla realtà, il privilegiato scrittore, e le due guerre che aveva vissuto, la prima come prigioniero degli austriaci, stavano a dimostrarlo. Quando, libri come Il Gattopardo, saranno letti per quello che sono: meravigliosi romanzi, sfoghi della fantasia, poetiche narrazioni del mistero che è la storia di noi esseri umani?
IL GATTOPARDO
Mario Ajello per “il Messaggero”
«C' è sempre acqua dal cielo e mai dal rubinetto». Lo diceva il principe di Lampedusa di questa casa, che ora è un gioiello sui bastioni di Carlo V in difesa di Palermo dallo sbarco dei turchi ma quando la abitava l' autore del Gattopardo, aristocratico ma non ricco, era quasi un tugurio. «Guardi, questa è l' edizione del Gattopardo in giapponese, e si capiscono soltanto i numeri. Questa è quella in lettone. Quest' altra è quella in ebraico. Lo sa che il Gattopardo in Israele vende moltissimo?».
Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo del principe di Lampedusa, vive in questo splendido posto affacciato sul mare. Lì c' è il salone delle feste, nell' angolo c' è il manoscritto del Gattopardo con tanto di dubbi e correzioni del principe...
Non sarebbe questo il luogo perfetto dove festeggiare i 60 anni di uno dei più importanti romanzi italiani di tutti i tempi?
«Andrebbe bene anche il Quirinale. Ma Feltrinelli non vuole celebrazioni. Non le ha fatte e non si faranno. È un peccato. Non è proprio il clima giusto, purtroppo».
Ma è il romanzo che, insieme al Dottor Zivago, ha fatto la fortuna della Feltrinelli. È un libro troppo di destra, come sosteneva Moravia, per essere celebrato nel mainstream progressista che ancora domina in molte case editrici?
«Elio Vittorini, che lo rifiutò due volte, prima per la Mondadori e poi per Einaudi, lo considerò un libro vecchiotto'. Palmiro Togliatti lo stroncò ma poi, dopo l' elogio di Louis Aragon, secondo cui il Gattopardo dimostrava che il capitalismo sarebbe andato a finire male, ne parlò benissimo».
Ma queste sono vecchie storie...
«No. Sono portato a pensare che Feltrinelli non celebri i 60 di questo libro, celebrato in tutto il mondo, per una sorta di resistenza pratica. Perché loro credono che può ancora esistere una letteratura pedagogica di sinistra, e che funzioni soltanto quella. Il Gattopardo, che alla Feltrinelli ha dato successo e denaro, non rientra in questo schema. E del resto, è un libro terribile. È l' opera di uno scettico, non di un progressista mainstream».
Se uscisse oggi, non venderebbe?
«Poco. Direbbero: ma guarda questo aristocratico stronzo!».
Era contro il popolo il principe di Lampedusa?
«Era contro le plebi. Avrebbe voluto mettere nelle mani della povera gente, per emanciparla dall' ignoranza e dalla sudditanza, l' Encyclopédie di Diderot e D' Alembert. C' è poi un altro aspetto per cui la cultura d' oggi ritiene scomodo Tomasi di Lampedusa. Perché, da visionario, seppe vedere qualsiasi degenerazione razionale del presente: dalla demagogia al pressappochismo, a una certa ansia di stupire con nulla inflazionando le parole e svalutandole».
Feltrinelli insomma perde una grande occasione?
«Sì. Io ho detto loro: facciamo venire in Italia tutti i grandi letterati che adorano il Gattopardo, da Vargas Llosa a Xavier Marías, per non dire di Yehoshua, a spiegare perché questo romanzo è così importante nel mondo. Mi hanno risposto dalla Feltrinelli: ma con la nostra fondazione qualcosa la faremo.... Poi non si è fatto e non si farà niente».
Torno a chiederle: perché?
«Il libro è uscito il 28 ottobre del 58. E secondo me c' è ancora, in un certo mondo culturale, quell' impostazione che allora fu data da due personaggi del calibro di Contini ed Eco. Che dicevano: il Gattopardo è una volgarizzazione di Proust. E in Carlo Feltrinelli, figlio di Giangiacomo e Inge, credo pesi ancora il pregiudizio di Vittorini sulla presunta non modernità di questo libro.
La questione del pregiudizio sul Gattopardo non è mai stata superata. Anche se un grande intellettuale, Edward Said, il celebre autore di Orientalismo, ha fatto un saggio in cui sostiene che gli italiani sono stati il popolo dello spirito laico. Prima Lucrezio con il De rerum natura, poi Vico, poi Gramsci, poi Lampedusa. L' illuminismo di Lampedusa, aggiungo io, andrebbe celebrato in Italia come lo celebrano all' estero».
Dunque, non è più aria?
«Siamo ormai un Paese che ha fatto la civiltà europea ma della cultura non s' interessa più. Vendiamo vino e olio, e non facciamo auditorium».
Qual è il nocciolo del Gattopardo?
«Più lo studio e più mi accorgo che è un romanzo freudiano. Si fonda sul sogno di desiderio. Tomasi tra i suoi libri di culto aveva il Trattato di psicoanalisi di Cesare Musatti. Non lo definirei semplicemente un romanzo storico. Ma un libro che insegna come raccontare la storia dell' uomo, che è fatta di traumi, di fatti psicologici, di gioie, di contraddizioni».
Perché comunque lo pubblicò Feltrinelli, e non Mondadori e Einaudi che erano meno di sinistra rispetto alla casa editrice fondata dal miliardario tupamaro?
«Guardi, è stato Giorgio Bassani, che non era di sinistra, a farlo pubblicare. Era consulente della Feltrinelli, il suo parere contava moltissimo».
Perché Tomasi scelse la figura del Gattopardo?
«Si tratta di un errore linguistico. In siciliano leopardo si dice attopardo. Lui voleva dire leopardo come fanno i contadini. Ma le racconto questo. Mia madre, che era una grande signora, ebbe in regalo da un maharaja un ghepardo. Smilzo, brevilineo, velocissimo. Lo tenevano in casa a Roma, in via Cornelio Celso, vicino a villa Torlonia. Si chiamava Cita, quel ghepardo.
Cita, così lo avevamo chiamato, lo vedevi sdraiato su un tappeto, e dopo mezzo secondo con un salto di tre metri stava sulla cima di una libreria o a cavallo di uno specchio. Oppure usciva e mangiava le galline nei campi che allora c' erano lì intorno. A casa nostra era una processione di gente che arrivava con le galline morte tra le mani e volevano soldi. Dovemmo rinchiudere Cita allo zoo».
Insomma lei conobbe una forma di gattopardo, o almeno di gattaccio, prima ancora di conoscere il principe di Lampedusa?
«Sì, lo avrei conosciuto più tardi e ne restai affascinato».
In che cosa credeva Lampedusa?
«Nello stato di diritto. Se a Palazzo Chigi, al posto di Di Maio e di Salvini, ci fossero Montesquieu e Einaudi, lui applaudirebbe dall' aldilà. Ma non perché antico, o vecchiotto, ma perché moderno».
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enricocassi · 6 years
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La parola «sbarbatello» traduce da sempre una certa supponenza e spavalderia tipica dei ragazzi adolescenti che ancora devono imparare molto — attraverso l’esperienza — ma che vogliono emanciparsi dagli adulti, specie dai genitori.
C’è chi ha rivoluzionato il termine e complice il fatto che «barbatella» sia anche la piantina della vite gli ha dato un nuovo significato.
Si tratta delle «Sbarbatelle», giovani ragazze «dei vitigni» e clan di produttrici di vino – che oggi conta 31 iscritte – che una volta all’anno si riunisce in un evento – tutto al femminile – organizzato dall’Associazione Italiana Sommelier (AIS) delegazione di Asti.
Una seconda edizione ancora più ricca per l’evento dedicato alla produzione vitivinicola al femminile, con 31 giovani produttrici da tutta italia e una nuova location, la Tenuta dei Marchesi Alfieri, a San Martino Alfieri (At).
Programma
Dalle 11.00 alle 18.00
Banchi d’assaggio, showcooking, laboratori di approfondimento e musica nel parco.
Le produttrici di Sbarbatelle 2018
Michela Adriano, Adriano Marco e Vittorio, Alba (CN)
Giulia Alleva, Tenuta Santa Caterina, Graziano Badoglio (AT)
Silvia Barbaglia, Az. Vitivinicola Barbaglia, Cavallirio (NO)
Francesca Bava, Bava/Cocchi/Chazalettes, Cocconato (AT)
Giada Brochiero Castella, Bricco Maiolica, Diano d’Alba (CN)
Federica Camerani, Corte Sant’Alda, Mezzane di Sotto (VR)
Lucrezia Carrega Malabaila, Azienda Agricola Malabaila di Canale, Canale (CN)
Chiara Condello, Conde’, Predappio (FC)
Lisa Dal Maso, Fior di Lisa, Lonigo, (VI)
Marta dell’Adami, Le Fraghe, Cavaion Veronese (VR)
Claudia e Cristina Deltetto, Az. Vitivinicola Deltetto, Canale (CN)
Elisa Dilavanzo e Benedetta Marchetti, Maeli, Luvignano di Torreglia (PD)
Margherita Forno, Tenuta il Falchetto, Santo Stefano Belbo (CN)
Angela Fronti, Istine, Radda in Chianti (SI)
Claudia e Valeria Gaidano, Tenuta Tamburnin, Castelnuovo Don Bosco (AT)
Beatrice Gaudio, Bricco Mondalino, Vignale M.to (AL)
Elena Gillardi, Gillardi, Farigliano (CN)
Giulia Gonella, Gonella Vini, San Martino Alfieri (AT)
Valentina e Federica Grasso, Ca’ del Baio, Treviso (CN)
Ilaria Grimaldi, Ca’ du Sindic, Santo Stefano Belbo (CN)
Alessandra Marcoz, Tanteun e Marietta, AOSTA (AO)
Beatrice Mondo, Franco Mondo, San Marzano Oliveto (AT)
Monica Monticone, Cascina Rey, Asti (AT)
Alessandra Moretti, Poderi Moretti, Monteu Roero (CN)
Giulia Negri, Giulia Negri, La Morra (CN)
Erica Perrino, Testalonga, Dolceacqua (IM)
Noemi Pizzighella, Le Guaite di Noemi, Mezzane di Sotto (VR)
Marika Socci, Azienda Agricola Socci, Castelplanio (AN)
Cristina Sola, Forteto della Luja, Loazzolo (AT)
Paolo Sordo, Sordo, Castiglione Falletto (CN)
Daniela e Monica Tibaldi, Cantina Tibaldi, Pocapaglia (CN)
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tmnotizie · 7 years
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SAN BENEDETTO – Seconda sconfitta consecutiva, due punti nelle ultime cinque partite. Il 3-2 rimediato contro il modesto Santarcangelo ha fatto scattare la contestazione nei confronti del tecnico Sanderra e dei rossoblù. Ora la Samb è ottava in classifica, raggiunta dalla Feralpi Salò che ha pareggiato 4-4 con la Reggiana. Con l’undicesima in classifica, la Maceratese, a cinque lunghezze a due giornate dal termine, in attesa della gara del Bassano a Forlì in programma alle 20.30.
Insomma i play off non sono poi così sicuri, soprattutto se Pezzotti e compagni continuano a giocare in questo modo. E cioè senza nerbo, senza carattere e soprattutto senza un criterio tecnico-tattico. E sul banco degli imputati sale Stefano Sanderra. Come dice un vecchio adagio non c’è peggior sordo di chi non ci vuole sentire. Il tecnico romano ripropone il tandem centrale Mattia-Di Pasquale, lasciando di nuovo Radi in panchina. L’ex Ancona, così come Lulli e Di Filippo sembra pagare il fatto di essere stato portato alla Samb dall’ex diesse Federico e di essere titolare fisso con Palladini. Se il centrocampista ex Teramo ha avuto alcune chances nelle ultime giornate, Radi e Di Filippo sono praticamente scomparsi dai radar dell’ undici di partenza.
Anche con il Santarcangelo il giovane tandem difensivo nei ha combinate una più del diavolo. In ritardo su ogni chiusura, in difficoltà fisica con Cori, l’ariete del Santarcangelo, praticamente in barca  dopo pochi minuti. E le reti romagnole sono venute proprio da leggerezze della coppia centrale. La prima dopo cinque minuti con Gatto che dopo un imperfetto intervento di Di Pasquale su Cori, dal limite batte Aridità. La Samb, però, perviene al pareggio al 12’ pt. Mancuso viene messo giù in area da Danza e per De Tullio di Bari è rigore. Il bomber rossoblù spiazza Nardi e realizza il suo ventunesimo centro stagionale.
Il Santarcangelo gioca semplice, servendo sempre Cori che fa valere il suo fisico su Mattia e Di Pasquale servendo palloni d’oro ai suoi centrocampisti che si infilano nella retroguardia rossoblù come un coltello nel burro. E così arriva prima il 2-1 di Merini e poi alla mezzora il tris firmato Valentini. La Samb prova a reagire ma senza costrutto. E già nel corso del primo tempo scatta la contestazione verso Sanderra. Al 5’ Sabatino colpisce Capitanio a gioco fermo e De Tullio lo espelle senza pensarci due volte. Samb in dieci con Sanderra che al 10’ st inserisce Agodirin e Latorre per Mattia e Di Massimo, passando così al 3-4-2. Mancuso spara addosso a Nardi in uscita disperata, con il Santarcangelo che spreca almeno tre ripartenze. Sulla prima di Cesaretti è Aridità a metterci una pezza. Sulle altre due fondamentale il recupero in extremis di Rapisarda. Al 39’ altro rosso, questa volta nei confronti di Damonte reo di essere saltato con i gomiti alti. Al 43’ st la Samb accorcia le distanze con Bacinovic. Ed al fischio finale scatta la contestazione dei tifosi con Sanderra e i calciatori nell’ occhio del ciclone. Mentre in curva sud i dieci tifosi del Santarcangelo festeggiano con una birra fresca.
Gli unici applausi sono per Mancuso che, nonostante il triennale firmato col Pescara, non si è tirato mai indietro lottando e correndo su ogni pallone. E domenica ecco il derby di Ancona e poi al Riviera arriva il Pordenone. Se la Samb dovesse continuare a giocare come nelle ultime partite c’è il serio rischio che ci lasci le penne anche nelle prossime domeniche, pregiudicando così irrimediabilmente una stagione che l’aveva vista protagonista. Ma, forse, il reale valore della squadra è questo, mascherato bene dalla partenza sprint di Palladini e dalle ventuno reti di Mancuso.
Fotoservizio Alberto Cicchini
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pangeanews · 4 years
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“È stato un grande sogno vivere e vero sempre, doloroso e di gioia”: in memoria di Mario Benedetti
Muore il poeta, a sancire l’etimo del virus. Mario Benedetti, “uno dei poeti più intensi e originali della nostra letteratura”, lo diceva, senza troppi ornamenti, in direzione dell’unica cosa, Antonio Riccardi, nell’introduzione del volume che ne raccoglie Tutte le poesie (Garzanti, 2017). Quel libro si reggeva sulla cura, cristallina, delicatissima, di Stefano Dal Bianco, che tra l’altro scriveva: “Stare vicini a Mario era sentire una energia che veniva da chissà dove, fredda e compressa e mista di intransigenza, di autentica cattiveria e totale apertura a qualunque possibilità di vita, a qualunque possibilità di pensiero, a qualunque tenerezza e in sostanza del tutto indifesa nel suo puntare all’eccesso di sé. Capivi subito che bastava grattare la superficie di quella corazza per trovare un mare di sofferenza vissuta, niente di coltivato a forza, niente di autocommiserante. Il ghiaccio era il risultato di una lotta che durava dai primi anni di vita. Una madre slovena fuori luogo, un padre mancato dopo anni di sedia a rotelle, la miseria in famiglia e quella umana del contesto paesano, una malattia autoimmune, e poi le voragini spalancate per strada dal terremoto del 1976, i morti, la devastazione delle case: tutto esperito attraverso il ladino di Nimis, una lingua aliena, impossibile da condividere altrove”. Costellata da plaquette – Benedetti è poeta che va cercato, come le scaglie di luce nella notte, come il vero del fiume, sotto le pietre – la bibliografia di Benedetti è costituita da alcune pietre miliari come Umana gloria (2004), Pitture nere su carta (2008), Tersa morte (2013). Il poeta scende nell’indicibile, e ne ricava il quotidiano, un pane. Tra tutte, mi appare questa poesia:
È stato un grande sogno vivere e vero sempre, doloroso e di gioia. Sono venuti per il nostro riso, per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo. Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia: quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.
Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido, il ginocchio che premeva sull’erba nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno, il babbo morto, liscio e chiaro come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.
Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo con le storie dei poveri che venivano sulle panche, e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi con addossi i muri strappati delle case che non ci sono.
Essendo gettate nelle fauci del futuro, le poesie sembrano sempre profezia, una attualità che si misura in aghi, in testimonianza di sangue.
Come testimoniare i morti, vivere come lo fossimo, morire come lo siamo. Per la vita è la scoperta della morte e della vita.
Di Mario Benedetti calco alcune poesie, che fungano da amuleto e da lama, che vadano cioè mutilando. In calce, un saggio di Marco Merlin, raccolto in Poeti nel limbo (Interlinea). L’assenza del poeta rende indelebile la sua opera, già garantita dalla vita, autentica: in questo modo, vita e morte si compenetrano. “Fuoco bianco su fuoco nero”, direbbero i mistici ebrei. (d.b.)
*
Venerdì Santo
Il cielo sta su nel pensiero di piangere.
Sulla strada gli uomini sono andai metà muro, metà fiume. Sto qui molto lontano dai templi, dalle processioni tra i lumini, molto lontano dai romanzi dove c’era la luce dei visi.
Sto con gli ultimi anni di un uomo a cui voglio bene, vorrei perdonargli di morire, cosa fare. A sapere bene forse potrei dire: anche per noi una visione intera con uno specchio sopra, con un cielo. Mi tengo al suo sguardo perduto così particolare, così solo, senza romanzi, con il campo che non è un mondo.
Non so andare avanti.
Ogni tanto i contadini di Anna Karenina falciano Masckin Verch. Ogni tanto sogno bambini bellissimi nell’acqua effervescente di una strada. E io li vedo di schiena, qualcuno ci vede, io sono di schiena nei colori.
*
Le iscrizioni neolitiche sono state sulla mia mano. Mi hanno visto gli uomini di una volta e piangevo perché non era impossibile. Apparivo continuamente nell’andare delle linee, tra gli occhi e il non vedere più.
*
Sacrifici 1
Pietà. La tremenda distanza.
Perché non piove perché ci sia il cibo.
Mi salverò ancora, assassinandoti.
Per bere il tuo sangue, per bere il mio sangue.
Che tutto sia per la fine.
*
Galleggiano sull’asfalto quelli che devono morire. Solo lo sguardo a metà via questo mio senza mente ormai. Che affare è il loro? Una musica è fortissima per ogni passo, e ho dolore sordo dallo sguardo non so dove.
Figure amate.
*
Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia. Le parole hanno fatto il loro corso. Gli ospedali non hanno corsie. Dal cimitero dei cani vicino alla discarica di Limbiate escono i morti al guinzaglio. Non si addensa nulla, si disperde al telefono il mio petto. Le parole hanno fatto il loro corso. Sei solo stanco, ripete una voce qualunque.
Mario Benedetti
***
Sono prose slavate le poesie che compongono Umana gloria, in parte anticipate in alcune plaquettes (ma spesso troviamo poesie mantenute di libro in libro, guardando alle opere precedenti). La loro potenza poetica è tutta in questa povertà di cose che sembrano provenire da una terra lontana (e Una terra che non sembra vera è il titolo sintomatico di un’operetta precedente). Qui le parole sono corrose nella loro pretesa lirica, che viene addirittura umiliata nei versi che introducono la sezione In città, con i quali l’autore, interrogandosi sulla solitudine (ma tale interrogazione è stata così a lungo ripresa da aver perso il punto interrogativo, trasformandosi già in altro), domanda clemenza per il gesto di chiedere ascolto, riportando all’improvviso, e senza commenti, una notizia di cronaca: «La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare, si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto, / un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande. // L’ho letto in un foglio di giornale. // Scusatemi tutti».
Il verso lungo non è indice della ricerca di un’orchestrazione grandiosa, ma il gualcirsi di un tessuto linguistico lavorato dall’esperienza, dunque in perfetta corrispondenza con i molti spazi bianchi che interrompono il testo (docili e suadenti depressioni, non dirupi vertiginosi sull’assoluto), mentre quelle che sembrano pesanti concessioni alla prosa, se non addirittura inerti didascalie, descrizioni, brevissimi incisi nominali, annotazioni di cronaca («L’ho letto in un foglio di giornale»), resistono a questa usura proprio per il fatto di costituire l’agente chimico primario che sottrae l’immagine a ogni astrazione metaforica, spezzando il nesso ellittico che aveva permesso l’introduzione di quella particolare figura femminile entro la laconica, ma affabile riflessione del poeta, per diffondere il sapore asprigno dell’esperienza.
Una simile povertà di sguardo, talvolta al limite di un vago pietismo nell’atto di delineare una minima epica personale, anzi, un’epopea di povera gente, come suggerisce il titolo del libro, ha comunque il merito, pur dovendosi piegare spesso a tonalità piuttosto spente, di non trasformarsi in poetica, di non eleggere cioè le cose e le figure più care in qualità di referenti sovraccaricati a priori di una pregnanza umana e letteraria che prende corpo nella presunta oggettività lasciata emergere dalla depressione lirica, dal ritrarsi dell’io in una zona d’ombra mai affrontata in modo diretto. La passività dello sguardo poetico di Benedetti diventa garanzia di aderenza all’ordinarietà della vita e, di conseguenza, dell’impossibilità di trasformare questa povertà in motivo di scrittura (poesia che narra, in definitiva, di sé stessa). Parlare di sguardo, anzi, pare già troppo, implicando un criterio di selezione all’interno del nostro cono ottico: «Ho pensato ogni giorno a questo solo stare senza sguardo / – cose dette dalle giacche, dalle scarpe, dai calzoni – / contro la terra e i sassi, senza poter finire», anche se il poeta è consapevole di tutto ciò: «Servirebbe guardare da lontano, pensare che si guarda».
Se uno dei parametri solitamente sottintesi nel passaggio dalla prosa alla poesia è la densità, qui il testo trova la propria concentrazione non su un terreno linguistico, con il condensarsi dei significati e l’emergere di parole tematiche che non siano generiche, ma su un terreno psicologico. La monotonia è pure un valore e sa bene insinuarsi nella lettura, al tempo giusto, con la forza morale che trapela da un dolore come attutito, sordo, piegato senza compiacimenti a un destino di morte lenta e quotidiana. Resta da capire che la semplicità di questi testi nasce da uno spavento, quasi da un orrore ancestrale rimosso fino a diventare tratto esistenziale indelebile. Ha scritto, a proposito, Umberto Fiori: «Il poeta è come un bambino traumatizzato che impara di nuovo a parlare; il suo smarrimento ricorda quello di un paziente riemerso da una lunga anestesia. La semplicità del dettato è una semplicità inquieta, impacciata, malata. Benedetti è come stranito di fronte alla lingua e alla realtà, alla possibilità di conoscere e nominare le cose […]: ripete a se stesso le parole e le frasi più comuni, i più elementari nessi logici, come nella speranza di ritrovare la chiave del mondo, la sua formula dimenticata».
Evidentemente, dei punti di maggiore intensità potranno essere rilevati, ma la luce che da essi si sprigiona si fa presto soffusa e dolente, stemperandosi in un’insolita e preziosa capacità di dar voce davvero a storie e a paesaggi offerti dall’esperienza, dalla prosa del mondo, si direbbe. Queste improvvise intensificazioni, come braci che si ravvivano al soffio di lievi scombinamenti sintattici, magari a prezzo di qualche cacofonia («il letto ha detto la zia») a dimostrazione del fatto che tali fenomeni non nascono da un’esigenza di eufonia ma da un moto del pensiero – queste improvvise intensificazioni, si diceva, aggiungono un tocco a volte allucinato e surreale («Il terremoto improvviso / come il morto che viene alla spalla per farci sentire / improvvisa la luna, la luna, la luna») a un grado appena percepibile, spesso ben mimetizzato…
«Servirebbe guardare da lontano», affermava l’autore. La lontananza che garantisce il punto focale migliore per Umana gloria è il filtro della memoria, che presiede ai trapassi di immagini, che attutisce il dolore espresso come se leopardianamente diventasse fonte di consolazione, che conferisce al passo spiccatamente descrittivo dei versi l’aura di una povertà di condizione, di una sincerità radicale, che deriva dal confronto costante con la morte. Il rapporto con i defunti, anzi, è il tema centrale della raccolta, del resto annunciato dalla poesia introduttiva, forse la più intensa del volume. «Le poesie di Umana gloria», ha detto ancora bene Umberto Fiori, «sono viaggi a ritroso, strenue risalite verso il punto remoto in cui cose e parole furono perfettamente familiari, colme di senso». Da qui nasce la nostalgia che è il tono qualificante di questo poeta, che si calcifica nei suoi versi e che si deposita, infine, come sottile velo sulla mente del lettore.
Marco Merlin
*In copertina: Mario Benedetti in un ritratto fotografico di Dino Ignani
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tmnotizie · 7 years
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FERMO – Nella bellissima cornice di Force, sabato 18 marzo alle ore 9, presso la sala multimediale della scuola primaria, si terrà l’incontro sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) rivolto ai genitori, agli insegnanti e alla popolazione. All’iniziativa interverranno le autorità politiche regionali, provinciali e comunali, i membri dell’Osservatorio Permanente sui DSA di Fermo, i Direttori e i dottori dell’ASUR delle Aree Vaste n. 4 e n. 5, l’Ufficio Scolastico Regionale, l’Unione Montana dei Sibillini, l’ISC dei Sibillini e l’Associazione Italiana Dislessia; largo spazio verrà dato, inoltre, al dibattito per rispondere alle necessità dei tanti presenti.
“L’Osservatorio Permanente dei DSA – ricorda la Presidente della Provincia di Fermo, Moira Canigola – ha sede presso l’Ufficio Pubblica Istruzione della Provincia di Fermo e si prefigge di informare sulle caratteristiche dei disturbi dell’apprendimento e supportare le scuole, gli studenti e le loro famiglie  attraverso le competenze degli Enti che ne fanno parte. I Comuni dell’area montana dei Sibillini pur facendo capo a due diverse Province e a due diverse Aree Vaste dell’ASUR hanno servizi in comune come quelli riguardanti la scuola, per questo, con il Presidente della Provincia di Ascoli Piceno, Paolo d’Erasmo, abbiamo condiviso la necessità di un tale incontro”.
“L’Amministrazione comunale, da sempre vicina ai bisogni delle famiglie e degli studenti –aggiunge il sindaco di Force, Augusto Curti – ha sentito la esigenza di organizzare un incontro che potesse fare chiarezza sulle tante inesattezze riguardanti i disturbi specifici dell’apprendimento e rispondere alla carenza di informazioni sul tema. Ringrazio le Province di Ascoli Piceno e Fermo, l’ASUR Marche, l’Ufficio Scolastico – Ufficio IV, gli Ambiti Territoriali Sociali nn. 19, 20 e 24, l’ISC dei Sibillini (Centro Territoriale per l’Integrazione), l’Unione Montana dei Sibillini, l’Associazione Italiana Dislessia sez. di Fermo e il Centro Territoriale per l’Integrazione di Fermo per aver accettato la mia richiesta”.
“L’incontro a Force – sottolinea il Consigliere della Provincia di Fermo Stefano Pompozzi– nasce dalla richiesta dell’Unione Montana dei Sibillini, dell’Ufficio Scolastico – Ambito Territoriale delle Province di Ascoli Piceno e Fermo, dell’Istituto Comprensivo dei Sibillini (membri dell’Osservatorio Permanente) e del Comune di Force di dare una corretta informazione sui DSA e far conoscere il progetto sui DSA che da diversi anni portiamo avanti. I disturbi specifici dell’apprendimento – prosegue il Consigliere – riguardano alcune tipologie di difficoltà nell’acquisizione e nell’utilizzazione della lettura, della scrittura e del calcolo; la principale caratteristica di questa categoria è proprio la “specificità”, ovvero il disturbo interessa uno specifico e circoscritto dominio di abilità indispensabile per l’apprendimento, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. L’impatto che un DSA ha sulla vita dello studente e della sua famiglia, anche in relazione alle difficoltà psicologiche – conclude Pompozzi – richiede appropriati interventi di supporto a cui un Ente Pubblico non può rimanere sordo”.
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