Tumgik
#scrittura su tumbir
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Se lentamente ti lasci scendere lungo le stradine del centro storico, sfilacciate da quel gomitolo di storia che pulsa senza sosta, dischiudendo a ogni battito una visione diversa della realtà, immutabile e propensa al futuro, insaporita di passato, senza precise indicazioni e spolverata dal pulviscolo della necessità, la perenne sostanza che alimenta il divenire, sì se ti lasci andare a quella pendenza favorendo il dislivello, ti senti riempito di un’essenza che non sai interpretare, ma senti che fluidifica i pensieri, e restituisce forza creativa al tuo vagabondare.
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il sogno
Il sogno si sviluppa in fotogrammi. Affiancati l’uno all’altro, in certi casi trasfusi l’uno nell’altro, sfumando la linea di demarcazione, ma senza animazione. Sono immagini immobili che si susseguono ordinatamente senza creare movimento. Un bosco umido, dove il sole frastaglia gemme di luce attraverso le foglie, il silenzio è infranto solo da pochi sussurri di sottofondo, sbattere di ali, frinire di foglie, rosicchiare di piccoli insetti. Quando la incontra lei è vestita con un abito colorato, sorridente, tanto vicina da percepirne l’allegria, ma non tanto da sfiorarla. Il bosco, il suo sorriso, la sua presenza, il sole, la vegetazione, sfilano e vanno via una immagine dopo l’altra. Svuotando lo spazio e generando la visione di una strada che man mano si riempie di palazzi, auto, persone in movimento. E il suono immaginario del sogno si stampa nei fotogrammi fino a creare il caos urbano di una metropoli. Lui percorre la strada a piedi, finché la sera non lo sorprende carica di pioggia e solitudine. Adesso è solo su quella strada notturna, poche luci ambientali, nessun transito umano, nessun rumore, di nuovo silenzio e una distanza dinanzi ai suoi passi che si perde nell’oscurità.
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Sei sicuro di star bene?
Il vento che senti, quel fischio che racchiude una folata ansiosa e disperata, è solo dentro di te. Il vento è lo sgomento di non appartenere alle azioni che compi. È una distanza incolmabile, anzi una separazione, non una distanza. Non sei lontano sei soltanto separato, scisso tra due visi che si sfiorano ma non si toccano. Due ambienti identici, divisi da una limitazione logica. E se anche desideri sapere cosa sia accaduto davvero, quel davvero ha un valore ambiguo. “Davvero” è un abuso, una superstizione. Niente è davvero per davvero. Se esistere vuol dire toccare, non tocchi nulla, se non oggetti impavidamente materiali, fissi in una delle due stanze contrapposte. E quei sensi che ti avvolgono, tra ciò che ascolti annusi vedi, quella patina di davverità che ti lascia credere che esistere sia qualcosa, è impalpabile e illusoria. Esiste una sintesi dei sensi? Riesci a farli confluire in una struttura unica dotata di tutte le caratteristiche che sei in grado di conferirgli, odori suono, gusto, esiste una qualunque cosa che tu possa stringere tra le mani sentendo che ha una oggettiva concretezza. Come cazzo potrei dire di star bene. E se mi poni questa insula domanda è evidente che sei tu a non esistere.
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Passaggio di percezione
Quale strada sembra ancora la stessa se a cambiare è lo sguardo incardinato dal tuo reflusso. E la luce colora proiezioni di immagini disattese dai luoghi, e i giorni s’aggravano di vita dispersa. Giorni scomparsi nel vapore soffiato della memoria, dal respiro perenne di un principio sussurrato dal pensiero instabile dell’indefinito.
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Gocce
Le gocce di doccia sulla pelle, violente e veloci, ma tiepide, mai bollenti, e neanche gelide come la pioggia che poco prima ci aveva sferzato con tanta intensità raschiando via quella simulazione di situazione paradossale che si stendeva sulla spiaggia. Gocce che passano, scivolano come la più ovvia delle immagini, e si perdono traversando le grate di un cancello circolare stampato sul pavimento della cabina, uno scolo che non filtra ma accompagna verso il nulla, tutto ciò che le gocce trascinano con sé, tutti quei pensieri che raccolgono, quelle ansie che aspirano, quei ricordi che nel vapore scongelano per poi condensare in umidità depositato sui vetri, che a sua volte si rinforza e sgocciola verso il basso, cancellando la traccia della propria precedente breve permanenza.
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Oggetti cari
Spesso le cose ti sopravvivono. Quasi sempre. Forse per questo tendevo a non legarmi mai a nessun oggetto. A non avere nulla che non fosse un bene strumentale, o un articolo, magari utile, bello, ma non indispensabile. Perché più tieni a qualcosa e più è arrogante e indelicato che questo qualcosa ti sopravviva. Guardavo tutti i volumi impilati sugli scaffali della libreria, statici e silenziosi. Immutabili e senza tolleranza nei confronti della caducità, del volgere di una vita in un arco di crescita e decrescita. Avevo avuto in mente un atto distruttivo. Un incendio dei miei libri che pure in tanti momenti e con tanta ostinazione avevo collezionato e amato. MA come separarmi da quelle reliquie preziose portatrici di una speranza di stabilità. Sì perché in fondo questi oggetti che sopravvivono danno un minimo di illusione che ci sia una stabilità, che ancorandosi alla loro pertinace volontà di immobilismo anche tu possa frenare la discesa, una boa per riposare fingendo che la corrente non trascini anche te.
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Il buio come ipotesi
Questa sera
più disperso che mai,
attendo qualcosa;
cosa sia non importa,
purché faccia rumore,
abbia un colore.
Questa sera
più incerto che mai,
il sapore di un giorno
disseccato di suoni,
prima di un ieri
dimenticato.
Questa sera
più sgomento che mai,
la notte è un’idea.
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Oltre la percezione
Stavo attraversando la barriera temporale. Se il tempo lo si può guadare con moto proprio e volontario, liberandosi dalle rapide perenni dei secondi che si gettano nel passato, io lo stavo percorrendo, senza freni né limiti, espulso dal suo flusso monocorde. Non so come lo compresi: ne possedevo una spontanea consapevolezza che non ammetteva dubbi. Il gorgo che roteava dentro di me era ripido, sottraeva il fiato, sbriciolava i pensieri. Poi la mareggiata di percezioni sensibili mi travolse. Rumori, odori, sapori, aderenze, colori. Tutti di un calibro inimmaginabile, incontenibile per i miei recettori finiti. La luce fluida, densa, fumosa, impermeabile, che non si lasciava attraversare dallo sguardo, mi avvolse. Era una luce che urlava, i suoi acuti erano opprimenti, le sue dita di acciaio ti stringevano l’anima. La luce era fredda, priva di calore, e le sue volute erano cangianti, in profondità i colori ristagnavano imprigionati tra le pieghe, come in camere dalle pareti sbarrate e imbottite. Colori estremi, tutti, senza ordine, fusi uno nell’altro, e poi di nuovo indipendenti, nitidi, senza sfumature, senza la razionalizzazione imposta dalla spettrografia, ribelli alla pacifica convivenza nella luce bianca. Colori estremi. Nessun artista avrebbe mai potuto riprodurli, nessuna suggestione paesaggistica, nessuna incarnazione della natura poteva avvicinarsi a quella disperata perfezione.
I colori. I colori vibravano svincolati da ogni contenuto, isolati nel fattore cromatico, divinità primordiali prigioniere nei recessi di un culto estinto, non più figli obbedienti della luce, i colori come uno spasmo verso la vita, un lamento di esistenza mancata. Fui immerso nei colori. E assieme ai colori i suoni, gli odori, i sapori, le aderenze, l’idea stessa di sensibilità, l’anima priva del corpo, rumori, note musicali scappate disordinatamente da un pianoforte, staccate dal pentagramma, dall’ordine musicale, dall’armonia dell’universo, rumori e note vibravano assoluti, né mano umana avrebbe potuto trascriverli su carta e ripeterne le melodie antiespressive, né orecchio aveva mai udito il loro forsennato infuriare. Il suono selvaggio, il richiamo brado di animali indomabili, le percussioni ottuse dei pensieri dell’uomo contro la paratia della stiva, contro l’insufficienza del cosmo, l’esplosione di stelle traboccanti miliardi di anni e materia fibrillante.
E il tatto, l’aderenza completa del corpo, l’appartenenza, la fusione con la luce densa, era dentro di me, mi attraversava, una compenetrazione tra le membra, come disgregarsi in infinite particelle infinitesimali e ognuna di esse abbracciava una particella di luce, si avvinghiava a lei e poi tornava a ricollocarsi al suo posto per dare vita al mio corpo ricostruito, intatto, invaso dalla luce densa, cangiante che pulsava dentro di me con i suoi colori, i suoni, gli odori, i sapori.
Furono istanti intensi, ma non provavo ancora orrore. Assistevo a uno spettacolo inenarrabile, come mai avrei immaginato possibile, un trionfo di elementi incontaminati, puri, che si avvolgevano, si contorcevano, stridevano l’uno con l’altro in una contrazione disperata verso la vita, la creazione, l’incarnazione nell’essere, la codificazione della materia. Ne percepivo la sofferenza diffusa, più che sofferenza era un fremito: quegli elementi primari erano intrappolati nell’assenza della vita, ma non ne soffrivano coscientemente, come animali nati in gabbia, che non conoscendo la libertà non comprendono la propria prigionia e fremono nello spazio angusto che hanno a disposizione. Conobbi l’esaltazione dei sensi, il loro pulsare fino all’ultimo stadio, oltre i vincoli della vita e della morte, del tempo, della distanza. Il vortice iniziale nel quale sentivo di precipitare si attenuò, ora galleggiavo sospeso in un alone di fumo scuro, come se fossi stato avvolto da un anticorpo prodotto dall’immenso organismo all’interno del quale ero un estraneo. La mancanza di direzioni, non un suolo su cui poggiare i piedi, un soffitto da sentire sopra la testa, rettilinei d’aria in cui infilare le braccia, mi rendeva impossibile definire la posizione del mio corpo. Ero ancora in piedi o ero svenuto, sdraiato a terra esanime, mentre il mio spirito si dissociava in una emulsione onirica; sarei mai tornato alla realtà. Ma esisteva una realtà che potesse definirsi tale in contrapposizione alla quale potevo riconoscere l’irrealtà o il sogno, l’incubo o le allucinazioni, l’assurdo o il metafisico.
Il flusso costante di particelle che mi attraversava non era spiacevole, la paura si attenuava prevaricata da una curiosità inappagata da una lenta assuefazione a stimolazioni nuove. Poi all’improvviso, quando già cominciavo a ritenere un’esperienza piacevole l’immersione nel primordio, divenne morbo contagioso, ferita infetta e maleodorante. Non mutarono i colori nel loro aggrovigliarsi confuso, non mutarono le cascate di suoni e note che rutilavano nella densa foschia violacea, ma cambiò improvviso il mio modo di sentirli, la compressione del mio spirito nel ricevere quelle sollecitazioni.
Muffa, fuliggini, putrefazione, rigagnoli di sangue scuro, il suono cupo del distacco, il sapore della malattia. Le grida dei colori, disperate, la luce che urlava i suoi acuti opprimenti di orrore. La luce era gelida, priva di calore, le sue volute erano cangianti, in profondità i colori erano imprigionati tra le pieghe, come in camere dalle pareti sbarrate e imbottite contro cui scagliavano esasperati la propria impotenza. L’immersione in un fluido di non vita, nella brodaglia indifferente divenne soffocante, mi rivoltai, cercai di nuotare per sottrarmi, per tornare alla vita, lontano dalle tenebre del pensiero, dove era sottratto anche il riparo dell’oscurità.
Poi mentre l’esasperazione iniziò a bruciarmi nella testa, dal fondo limaccioso di quella palude di sensazioni perverse, emersero due mani ruvide, rinsecchite ad artiglio che si diressero verso di me…
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Formiche
Provate a chiedere alla formica in cerca di molliche sul pavimento di casa vostra di aiutarvi a far quadrare i conti; forse vi consiglierà di berci su qualcosa di forte e di lasciarla stare ai suoi minuscoli problemi di sopravvivenza…  Ed è quello che intendiamo fare noi, lasciare la formichina alla sua infaticabile ricerca e assieme a lei tutte le altre, e milioni di altre ancora, quante mai sono apparse su questo pianeta brulicante di minuscoli esseri, capaci di creare invidiabili aggregazioni sociali e agglomerati urbani. A voi piccolissime creature dedico il futuro, a voi resterà il compito di traghettare il cosmo, questo antico e stanco viandante verso la sua prossima rinascita, a voi che inconsapevoli partecipate alla grande corsa, a voi che potreste precipitarvi a ricoprirmi, a consumarmi, se non fosse ancora presto per questo…  Così mi imbarcai su di una zattera costruita dalle mie amiche formiche e salpai, un millimetro da terra, solcando i più insicuri e sconosciuti pavimenti del mio appartamento; e ogni mattonella era un mondo da scoprire, un’isola misteriosa su cui approdare o al limite naufragare, per liberare quell’innato anelito all’avventura che ognuno di noi porta costretto dentro, come una vescica in una scarpa nuova.  E percorrendo quel bagnasciuga di marmo, mentre la zattera barcollava sulle onde dell’oceano, mi veniva incontro un paesaggio esotico, un intero metro quadro di ignoto proprio nel centro del salone di casa. Il pappagallo dalla coda variopinta ristagnava sulla mia spalla, sfiorandomi la schiena con le sue piume colorate; io forse ero un pirata, forse un bucaniere naufragato, forse un avventuriero, o uno della ciurma su un vascello dell’esercito regolare, o soltanto uno stronzo che perdeva il contatto con la realtà. E le formiche divennero mare, e poi alberi, e sabbia sottile e bianca, e onde schiumose, e una capanna di legno… Quando vennero a salvarmi non avevo molta voglia di abbandonare quel paradiso di serenità. Vennero a bordo di una telefonata che squarciò il cielo come un fulmine rosso e mi trascinarono incatenato per costringermi a risalire a prua della realtà e a riaffiorare al centro del mio appartamento in una serata afosa di agosto, con fuori un silenzio irreale e dentro chissà quanti anni ancora di vita.
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Percezioni palindrome
Smarrirsi in echi tangibili di momenti da sempre vissuti, mentre osservi il silenzio che intorno si sbianca cadendo. Un pomeriggio ingrigito di noia, annega suoni e ricordi di un futuro incessante.
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Favole.
Favole che ascoltavo da bambino, quando i mesi erano indefinite praterie di colori, e il tempo ancora un fanciullo compagno di giochi. Passato, presente e futuro erano tre giorni consecutivi, tre pagine di un diario scolastico, tre palline che rotolavano nel tubo cavo di una settimana, e già un intero anno assumeva le dimensioni del mito, di una distanza lontana, lontana tanto da non riuscire a vedere dalla sponda di un Natale a quella del successivo, mentre troppo distratti si era per voltarsi indietro e scoprire quanto vicina fosse l’immagine del precedente. Lontana, lontana era la distanza di un anno, e lontane erano le favole, e lontana l’età altissima degli adulti, lontana e irraggiungibile. Che misura hanno oggi per me i giorni. Manca la scuola a rimarcare con il gesso bianco i bordi delle stagioni, e i colori dell’estate che è evaporata su una camicia chiazzata di sudore, nella penombra di una casa desolata nel silenzio e nella solitudine di una strada deserta, e il crepitio dell’autunno che procede su un manto di foglie secche e rami spezzati stenta a far sentire la sua presenza oltre i vetri chiusi, appannati da mille pensieri e mille rimpianti che vi si infrangono contro. Favole. Favole era la scappatoia privilegiata della fantasia, la strada maestra per recuperare il sonno, mai invocato e troppo spesso giunto improvviso a troncare ogni seduzione della sera, a spegnere le luci misteriose della notte, mentre un’altra pallina scivolava nel suo tubo cavo. Favole vorrei raccontare a me stesso, al gatto quando rinuncia alla sua postazione di guardia per seguire i miei irrazionali spostamenti da una camera all’altra, favole dove tutto ha un lieto fine, dove ogni principe vivrà felice e contento con la sua amata e non dovrà più preoccuparsi di nulla, né di invecchiare, né di morire, poiché resterà al riparo dorato di un “sempre”. Invece io, ancorato alla trascrizione delle mie memorie, affondo lentamente nella palude di un malessere senza rimedio, nelle sabbie mobili di un futuro che appare improbabile, oscuro e terrificante adesso che le immagini multiformi e incorporee della fantasia prendono la forma stabile dei ricordi, adesso che sono convinto di non aver patito incubi o allucinazioni frutto di una mente adulterata dal dolore o dal rimorso, non aver assistito impotente ai conati di vomito di un cervello sovraccarico, ma aver vissuto, certo vissuto, così come vissuti erano stati tutti i giorni precedenti l’incidente, e avrebbero dovuto essere i successivi se un taglio e una ricucitura fosse stato possibile apporre alla mia vita, ed è inutile tornare a vagabondare tra le memorie, frugare in ogni tasca le frasi, i volti, i momenti diversi che hanno sopraffatto il mio silenzio, le ossessioni rampicanti che intrecciavano i viticci alle mie membra immobilizzandomi per giorni su di un letto, quando neanche il cibo era un richiamo per i vivi, vivo che non ero più io quando strabuzzavo gli occhi nelle orbite, ricacciando lo sguardo all’interno della mia anima opaca, e subivo il vento incessante che mi scuoteva, mi inchiodava al suolo vibrando sulla pelle, rivoltando le lenzuola dove macerava l’assenza di Vic, e il bianco si fondeva con la penombra e poi era ingoiato dal buio delle ore notturne, e infine l’alba che si insinuava attraverso le tapparelle abbassate per metà, e tornava a informare la camera dell’esistenza della luce, della vita che comunque faceva capolino ogni giorno dietro la porta della camera da letto invitandomi a riprendere le monotonie del mio stato di abulia, ad affrontare il presente. Il presente, un attimo indefinito, non più un intero giorno seduto in mezzo tra passato e futuro, tra ieri e domani come nell’era delle favole. Un istante che trascorreva prima che ne avessi coscienza, e correva a riempire la piazza plumbea del mio passato, già sovraffollata mentre il cielo nero di nubi temporalesche era una minaccia costante, e sotto i portici che tutt’intorno ne coprivano i quattro lati, solo i bambini trovavano riparo, una miriade di bambini sconosciuti l’uno all’altro.
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Alba della ragione
Oltre il mio sguardo c’è un fiore, come un’eco irrorato di tramonto. Oltre l’orizzonte pensieri disciolti in un fuoco infreddolito. Oltre il silenzio il tepore strappato a un giorno sdrucito, mentre sembra già tardi e dilaga l’aurora.
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Consapevolezza
Siate la meraviglia del mio sguardo interiore, siate la serenità del mio fuoco profano, purché non graffiate con le unghie troppo lunghe quello schermo luminoso…
È qui, è qui, venite a prenderlo, voi, infermieri del divenire, raggiungete questo angolo di acuta ossessione.
È qui.
A volte fai fatica a vederlo, come se non esistesse, ancora pronto a stupirvi con la sua presenza, e se vi capitasse di averne pietà non doletevene come di una debolezza d’animo, e se non vi è di troppo fastidio, andate pure a farvi fottere voi e la vostra lurida camicia per sigillare i malati di mente.
Sapete, per anni ho resistito all’assalto biotico di una colonia di antiesistenzialitici trapanati nel mio organismo fin dall’età della ragione, la prima ragione, a cui mai corrispondeva un torto; e non avevano il polveroso candore dei farmaci, né l’avanguardia appuntita di un’iniezione, ma soltanto la subdola rigidità di un consiglio, di un comando, di un rimpianto, di un precetto, di una legge, di una norma morale, di una qualità astratta, di un esempio, di una preghiera, di una speranza, di un ideale… dio che palle tutto questo, lo so sragiono, saranno le droghe con cui mi anestetizzano la volontà, ma se voi poteste anche solo per un istante cadere dalla mia parte, considerare la realtà così come la vedo io, anzi come la attraverso io, nella sua sottile barriera di trasparenza, se solo per un attimo vi capitasse di comprendere di avere i giorni contati, nonostante rigogliosa la vita vi saltelli accanto colma di possibilità, se poteste avere anche solo per un istante una percezione piena, totale, empia se volete ma assoluta della vostra fine futura, se riusciste a percepire l’istante perenne della vostra morte, non solo come verità estranea a voi stessi, ma con la medesima cristallina e disarmante evidenza con cui, poco prima di addormentarvi avvertite, anzi già vivete in anticipo, il mattino agganciato alla scia del riposo notturno, allora vedreste anche voi quanto sa essere sottile eppure impenetrabile quella barriera di reale che vi imprigiona alle vostra scarpe di cemento e delusioni; so di essere ripetitivo, ma vedrete sarà questo l’unico punto di partenza per qualsiasi riflessione futura…
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Provo disgusto per gli intellettuali da versione ufficiale dei fatti, e ancor di più per gli intellettuali da rivoluzione occasionale, da rifiuto dei dogmi in nome di una giustizia indotta, esaminata e approvata; i rivoluzionari di una rivoluzione parlata nei salotti televisivi, gli anticonformisti conformi a un conformismo confermato nella sua antitesi inoffensiva e pantofolata; mi danno il vomito gli opinionisti a gettone, gli influencer da marchio di fabbrica, gli affabulatori senza contenuti. Tutti insignificanti e parassitari file di sistema innervati per la propagazione capillare dei software ideologici della memora centrale; odio coloro che credono e anche coloro che non credono e in entrambi i casi non sono sfiorati dal dubbio; disprezzo la mancanza di idee e la mancanza di libertà, assopirsi nella convinzione che non esista una alternativa, uno schema di vita diverso, una forma elevata d’esistenza liberata dai dettami delle consuetudini sociali e delle regole politiche, dalle ambizioni sterili e fini a se stesse e dalla indispensabile e corrosiva esigenza di un guadagno sempre maggiore; addormentarsi nella volontaria inconsapevolezza che la maggior parte dei soldi che faticosamente cerchiamo di ottenere, vengono spesi solo per produrre altri soldi, e poi ancora e ancora, in una vacua sequenza dissennata di giorni senza valore e senza significato, calpestando chiunque ci attraversi il cammino. Forse c'è più dignità a scatenare una guerra, a combattere, a uccidere, a delinquere, che a proclamare la pace sulla acquiescete serenità dei propri privilegi economici; vogliamo la pace nel mondo, purché resti cristallizzata in una utopia irrealizzabile e che non ci venga tolta neanche una briciola dal nostro sovrabbondante piatto di benefici esistenziali.
Ma disprezzo più di tutto me stesso e la mia vita; la mia ignavia, il mio girare la testa a margine della marea crescente di letame che opprime l'umanità; la mia pigrizia mentale che mi induce a smettere di combattere, la mia insopportabile tolleranza dei soprusi e di ogni abominio che infesta la storia; l'illusione di essere liberi dentro se stessi mentre fuori ci si stringe la catena ai polsi. Odio la mia insignificante presenza, colpevole e complice di questo disagio senza evoluzione. Perché la consapevolezza rende ancora più complici.
Ma almeno, se la verità rende liberi. nella mia infingarda miseria biologica, nel fondo buio della mia prigione gretta e senza luce, respirerò un fugace alito di libertà.
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Sempre più in alto
Lei era appollaiata su quel muretto. Proprio sul margine di una primavera appena accennata, gialla di sole e di parole sparpagliate. Si guardava intorno combattuta tra l’esitazione di spiccare il volo verso l’incerto, e la paura di restare immobile e attendere. Ferma su quel muretto consapevole che l’attesa non era la scelta migliore, ma l’alternativa… poi si accorse che lui si stava avvicinando.
Lo aveva notato subito, mentre gironzolava attorno a lei con una indifferenza sintetica e sfrontata. Lo aveva visto avvicinarsi da lontano, quando era una sagoma appena accennata, eppure come se avesse già una sua presenza percepibile e concreta.
Era carino.
Non fu un pensiero esplicitò che si manifestò dentro di lei, e certo non voleva subito ammetterlo a se stessa, ma lo comprese nel momento stesso in cui capì di aver scelto l’alternativa di restare, di restare ferma su quel muretto aspettando che la vita seguisse il suo corso anche oltre la sua volontà di scegliere. Lui effettuò un altro giro, sempre più concentricamente vicino a lei, poi superò ogni titubanza e si fermò sul muretto accanto a lei.
Illuminata dai raggi del sole lei era bellissima.
Eccolo, è qui accanto a me. Ma lei girò il capo in direzione opposta fissando il vuoto sempre più denso di emozioni e ansie. Non si mossero. Esistono degli attimi che sono solidi tanto è possibile scandirli in tutta la loro prolungata istantaneità. Quelli furono tali. Prolungati, lenti e delicatamente dolci.
Lei però era voltata verso il niente e fissava l’inesistente. Quasi lui non ci fosse. Ma ormai era risoluto. Concentrò tutte le sue energie vitali in un punto della mente trasmutandole in intraprendenza, circumnavigò il suo corpo e si pose accanto a lei dal lato dello sguardo.
Se lei avesse di nuovo girato lo sguardo sarebbe stato un rifiuto definitivo. Non poteva farlo. Non voleva farlo e non lo fece. SI guardarono finalmente negli occhi. Avresti giurato che si sorridevano.
Lei batteva le palpebre nervosamente. Lui avrebbe voluto parlarle, ma non poteva. Avrebbe voluto prenderle la mano ma non aveva mani per farlo. SI limitò a emettere un cinguettio garrulo rimodulato in armonia con l’essenza dell’universo. Lei rispose con un cinguettio sincopato e irresistibile.
Si sollevarono in volo insieme, muovendosi in una nuvola profumata di suoni primaverili. Sotto di loro il mondo era sempre più distante. Le parole sparpagliate si affievolivano, e quelle sagome brulicanti erano sempre più piccole, minuscoli batteri voraci e corrosivi troppo impegnati a divorarsi reciprocamente per avere il tempo di alzare la testa e osservare il loro volo.
Sempre più distanti, sempre più inutili, sempre più inesistenti,
E loro volavano sempre più in alto.
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Miraggio
Vorrei dissetarmi
nel limbo poroso,
sedimentato
in un attimo
di congiunzione
tra umano
e trascendente.
Placando quella sete
che ha sapore d’infinito.
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