Tumgik
#e c’è sempre qualcosa che svela che è a Roma
linguenuvolose · 1 year
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Any time I get a reel with some person cooking and speaking a regional language from Italy I’m like <33 thank you I love you let me hear your beautiful language and see your beautiful food
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cinquecolonnemagazine · 8 months
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Binocoli a gettoni di Antonio Laurino
Storie di vita Binocoli a gettoni di Antonio Laurino edito da Scatole Parlanti è una splendida raccolta di racconti in cui, in un modo o nell’altro, tutti i personaggi fanno i conti con la realtà. Il file rouge che accomuna tutte le esperienze personali dei protagonisti è la consapevolezza.  In queste bellissime storie di vita, l’autore ci svela le contraddizioni dell’animo umano, le difficoltà interpersonali, quelli generazionali, la consapevolezza della morte e tanti altri temi trattati con umanità e dolcezza attraverso un linguaggio semplice, diretto e ricco di pathos. Antonio Laurino è nato nel 1986 a Napoli, dove si è laureato in Scienze della comunicazione, prima di trasferirsi a Bologna e specializzarsi in Semiotica. È docente a contratto di scrittura funzionale all’Università di Bologna e all’Università di San Marino e tutor di digital marketing all’Università “Uninettuno” di Roma. Suoi scritti sono apparsi in antologie, riviste e blog letterari. Abbiamo avuto il piacere di scambiare alcune battute con Antonio Laurino a cui abbiamo fatto qualche domanda non solo su Binocoli a gettoni ma anche sul suo rapporto con la scrittura. Binocoli a gettoni di Antonio Laurino: intervista all’autore  Partiamo dall’inizio, “binocoli a gettoni”. E’ un titolo curioso, perché lo ha scelto? Cosa significa? Quella del titolo è stata una delle scelte più difficili che hanno riguardato il libro. Cercavo qualcosa che desse concretezza a ciò che accomuna i diversi racconti: un momento di consapevolezza, un istante definitivo in cui il personaggio chiave vede le cose per quello che sono. In particolare, volevo che fosse un oggetto, familiare ma non banale, esotico eppure non di nicchia. E dopo tante idee scartate, credo di averlo trovato. Lei nei suoi racconti affronta diverse tematiche, molto attuali, come gli omicidi stradali, l’incomunicabilità generazionale, la solitudine e tanto altro. Argomenti seri, molti dei quali ce li presenta con tanta ironia, fantasia e apparente leggerezza. Che posto ha l’umorismo nella sua scrittura? È di certo uno degli ingredienti di base delle mie storie. E riesce a bilanciare – spero – il gusto amaro di altre componenti altrettanto fondamentali: solitudine, dolore, malinconia, nostalgia. D'altra parte, è anche una via di accesso alle vite di alcuni dei protagonisti dei racconti, e una strada che provo a percorrere quotidianamente nella mia. C’è un racconto di Binocoli a gettoni a cui è affezionato di più? E se sì, perché? Ce ne sono diversi. Innanzitutto, Il rifiuto, che reputo forse il mio racconto più riuscito. Poi Freni e refrain, il primo a essere stato pubblicato (in un'antologia). Dopodiché ci sono Parole, colori e città e Desideri rurali, a cui sono particolarmente legato perché mi hanno permesso di trascorrere dei momenti molto belli con le persone che amo, in occasione delle cerimonie di premiazione dei concorsi letterari a cui li avevo presentati. Lei ha scritto tantissimo, lo fa ormai da anni, probabilmente non riuscirebbe neanche per un attimo ad immaginare il suo futuro senza la scrittura. Ci racconta qualche sua abitudine di scrittura? Non so, decide diligentemente ogni sera di impegnarsi a scrivere una storia, prende la penna solo quando ha l’ispirazione, scrive sempre e di tutto in qualsiasi momento? Da dieci anni la lettura e la scrittura occupano gran parte delle mie giornate, anche se i testi con cui ho a che fare sono di natura accademica e professionale. Da circa la metà, poi, ho iniziato ad affiancare letture e scritture di altro genere, riscoprendo e alimentando la mia naturale predilezione per la narrativa breve. Ho cominciato così ad appuntare spunti e osservazioni in modo sistematico. Dopodiché, ho individuato alcuni periodi dell'anno in cui gli impegni di lavoro si diradano e so di poter riprendere i miei appunti: le idee che a distanza di tempo sento ancora vive e interessanti, le sviluppo. Potrei dire dunque di non avere una routine giornaliera, ma di averne una annuale. Ha mai pensato di scrivere un romanzo? Le piacerebbe l’idea? Onestamente, no. Preferisco le storie brevi e brevissime e ho intenzione di continuare a esplorarne la forma. Penso infatti che la vita, lungi dall'essere un grande romanzo, sia un susseguirsi di episodi minimi, reali e immaginari, tra i quali provare a mettere ordine. Magari proprio attraverso la scrittura. Read the full article
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lamilanomagazine · 1 year
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Punkreas, il 31 marzo esce il nuovo album “Electric Déja-vu”.
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Punkreas, il 31 marzo esce il nuovo album “Electric Déja-vu”.   Con l’uscita del nuovo album “Electric Déjà-Vu” prevista per venerdì 31 marzo, i PUNKREAS si preparano a dare il via al tour di presentazione in programma ad aprile dove, in occasione delle date all’Alcatraz di Milano e a Largo Venue di Roma, saliranno sul palco due degli artisti che hanno collaborato con la band nel disco. Il primo aprile a Milano è atteso un doppio ospite: saranno presenti, infatti, Raphael, una tra le voci più note del reggae in Italia, featuring nell’album nel brano “Disagio”, e il cantautore Giancane, che ha duettato con i Punkreas nel brano “Dai Dai Dai (Die Die Die)”. Quest’ultimo salirà anche sul palco di Roma, impreziosendo la serata prevista a Largo Venue il 22 aprile. Ad arricchire ulteriormente l’evento milanese, oltre a Cippa, Paletta, Noise, Gagno ed Endriù, sul palco ci saranno anche la chitarra aggiunta di Roberto Rhobbo Bovolenta (tra i produttori del disco) su alcuni brani e la sezione fiati dei Fiatellas con Fabrizio Sferrazza (ex Meganoidi) e Diego Servetto. “Electric Déjà-Vu” sarà disponibile nei formati cd, vinile e su tutti gli store digitali. In apertura oggi il preorder e il presave digitale del disco al link: virginmusic - DejaVu A questo link sono inoltre disponibili in esclusiva i formati speciali Vinile giallo autografato e CD autografato: virginmusic DejaVuLimited La band svela anche la cover del disco, con lo speciale artwork firmato da Myoopia. Dopo aver celebrato i trent’anni di carriera nel 2022 con il tour “XXX e… Qualcosa” che ha registrato numerosi sold out nei principali club della penisola, i Punkreas tornano con un lavoro energico mostrando ancora una volta quell’attitudine e quell’impegno che li ha resi tra i principali esponenti del punk rock e ska punk in Italia. Il disco è stato anticipato a gennaio dal brano “Le mani in alto”, accompagnato da un lyric video: PunkreasLMIAvideo TRACKLIST “ELECTRIC DÉJÀ-VU” 01_LE MANI IN ALTO 02_DAI DAI DAI (DIE DIE DIE) feat. Giancane 03_NON C’È PIÙ TEMPO 04_BATTAGLIA PERSA 05_TEMPI DISTORTI 06_DÉJÀ-VU 07_I SIGNORI DELLA GUERRA 08_DISAGIO feat. Raphael 09_GIORNO PERFETTO 10_UOMO MEDIOEVO 11_IL PROSSIMO SHOW (electric version)   PUNKREAS BIOGRAFIA I Punkreas si formano nel 1989 a Parabiago dall’incontro fra Cippa (voce), Flaco (chitarra), Paletta (basso), Noyse (chitarra) e Mastino (batteria). La band ottiene un ottimo riscontro nella scena punk italiana sin dal primo EP autoprodotto “Isterico” (1990) a cui seguono i full-lenght “United rumors of Punkreas” (1992), “Paranoia e potere” (1995) e “Elettrodomestico” (1997). Nel 1998 partecipano al “Teste vuote ossa rotte Festival” e al “Vans Warped Tour 1998” condividendo il palco con Bad Religion, Lagwagon, NOFX e Rancid. La prima metà degli anni 2000 vede un cambio di formazione, con Gagno al posto di Mastino alla batteria, e una serie di lavori in cui il gruppo sperimenta nuovi generi ed influenze, a partire da “Pelle” (2000), passando per “Falso” (2002), dove spicca la collaborazione con il cantante degli Ska-P “El Pulpo” sul singolo “Toda la noche”, fino ad arrivare a “Quello che sei” (2005) e “Futuro imperfetto” (2008). Sempre nell’ottobre del 2005 i Punkreas concedono il brano “WTO” per la compilation “GE 2001” uscito per Manifesto CD, aderendo all’iniziativa per la raccolta fondi a favore della Segreteria Legale del Genoa Legal Forum, impegnata nei processi seguiti ai fatti del G8 di Genova del luglio 2001. Alla fine del 2012 la band pubblica l’ottavo album in studio “Noblesse Oblige”, l’ultimo prima dell’arrivo di Endriu al posto di Flaco alla chitarra, che vede la collaborazione con ‘O Zulù dei 99 Posse e un giovanissimo Fedez e al quale fa seguito nel 2014 “Radio Punkreas”, una serie di cover di hit italiane che vanta numerose collaborazioni tra cui Freak Antoni (Skiantos), Samuel (Subsonica) e Davide Toffolo (Tre allegri ragazzi morti). Tra il 2016 e il 2019 i Punkreas collaborano con alcune etichette indipendenti tra cui Garrincha Dischi per la pubblicazione degli album “Il lato ruvido” (2016) e “Inequilibrio instabile” (2019). Alla fine del 2019, per festeggiare i 30 anni di carriera, la band fa uscire con Universal Music Italia “XXX”, una compilation che raccoglie i singoli di maggior successo con l’aggiunta dell’inedito “Sono vivo”, mixato da Tommaso Colliva. La festa dei 30 anni di carriera si tiene il 25 gennaio 2020 all’Alcatraz di Milano, con un concerto sold out che avrebbe dovuto dare il via al tour celebrativo durante tutto il 2020 ma che viene invece sospeso a causa ridimensionamento delle location per l’emergenza covid-19. La band sceglie allora di portare dal vivo uno spettacolo diverso dal titolo “FUNNY: The Best Story of Punkreas”, uno show musicale che strizza l’occhio al cabaret alternando esilaranti racconti tratti dalla loro carriera con i grandi classici del repertorio rivisti in chiave acustica. Il successo ottenuto dai nuovi arrangiamenti spinge i Punkreas a pubblicare il disco “Funny goes acoustic” (2021), uscito sempre per Universal Music Italia. Nella primavera del 2022, con il graduale allentamento delle limitazioni, la band riparte con il “XXX e… Qualcosa” tour, con una doppia scaletta che include le migliori canzoni pre 2000 e i pezzi del nuovo millennio. Nei mesi estivi il gruppo fa tappa nei festival e nelle location open air per un tour che supera le venti date e che il 21 giugno li porta sul palco del Carroponte Sesto San Giovanni di Milano poco prima dei The Offspring e preceduti da Lagwagon e Anti Flag. Il 27 gennaio 2023 esce “Le mani in alto”, primo estratto dal nuovo album “Electric déjà-vu” in uscita il 31 marzo.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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jamariyanews · 6 years
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è stata la sinistra a VOLERE gli immigrati in italia, e non è una notizia nuova.
Il tema immigrazione è sempre al centro delle discussioni, tra le più sterili, inutili e da tifo da stadio, ma basta cercare in rete per capire chi ha chiesto che gli immigrati venissero in Italia, e sapete? non è una notizia nuova, la verità saltò fuori gia nel 2017.
Frontex ammette: c’è stato un accordo per portare gli immigrati in Italia
di Paolo Lami
mercoledì 12 luglio 2017 - Ora anche Frontex lo ammette: c’è stato un accordo, fra burocrati, per far sbarcare in Italia l’enorme massa di immigrati che la sta invadendo. E’ il Direttore esecutivo di Frontex, il francese Fabrice Leggeri, chiamato in audizione stamani davanti alla Commissione Libe del Parlamento Europeo, l’organismo Ue che si occupa di libertà civili, giustizia e affari interni, a confermare l’incredibile vicenda negata fino all’ultimo dall’esecutivo a trazione Pd. I grillini all’attacco: «Alto tradimento». E chiedono la sfiducia. «Una cosa è certa – punta il dito Luigi Di Maio, vicepresidente M5S della Camera dopo aver incontrato, nella sede del Parlamento Europeo, a Bruxelles, proprio il direttore esecutivo di Frontex – abbiamo scoperto oggi cose gravissime da Frontex e che vedono complice il governo del Partito Democratico: l’Italia era d’accordo a fare sbarcare tutti i migranti nei porti italiani. Quello che allora era il ministro degli Esteri e oggi è presidente del Consiglio italiano, quello che era il ministro degli Esteri di Renzi, che si chiama Paolo Gentiloni, venga in Parlamento a riferire su questo alto tradimento. Perché questo è alto tradimento, quello che hanno fatto all’Italia. Adesso o ci rispondono su questo alto tradimento che hanno compiuto nei confronti del popolo italiano, oppure noi siamo pronti a depositare una mozione di sfiducia». «Matteo Renzi ci ha venduti come nazione per 80 euro – rincara la dose Di Maio – Ha autorizzato l’utilizzo dei porti italiani per gli sbarchi dei migranti in cambio della flessibilità europea per dare i suoi bonus». «Ci hanno trasformati nel più grande porto d’Europa – continua Di Maio – per qualche soldo, per avere 80 euro per vincere le elezioni europee. Si è trattato di un accordo bilaterale tra Italia e Frontex. Leggeri ha detto che è stato firmato a livello di burocrati, non a livello politico, che è ancora peggio. Ma questo non significa che abbiamo i burocrati fuori controllo, inutile raccontarcela: ci hanno spiegato che un accordo così importante, celebrato come l’accordo del secolo, neanche i ministri sono andati a firmarlo». L’Europa ci sbatte la porta in faccia. Ma il Direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, conferma, anche, che l’Europa ci chiude la porta in faccia: niente porti, oltre a quelli italiani, per accogliere la marea di immigrati. Gli altri Paesi non si muovono da questo punto di vista. Per modificare i piani operativi di Triton serve l’ok dei Paesi partecipanti. Ma gli altri Stati partecipanti all’operazione Triton, nell’incontro tenutosi ieri a Varsavia, non hanno espresso la disponibilità a modificare i piani operativi in modo da consentire lo sbarco di migranti salvati nel Mediterraneo Centrale in porti diversi da quelli italiani, come chiesto da Roma. «Le autorità italiane hanno formulato questa richiesta», svela Leggeri, sottolineando però che «un piano operativo, per poter essere adottato, richiede l’accordo di tutti gli Stati membri partecipanti. Non è una questione tra l’Italia e Frontex». Ma qualcuno degli Stati partecipanti ha espresso disponibilità? «Non ho sentito disponibilità in questo senso – ammette Leggeri – Ho sentito una richiesta italiana, ma non ho sentito degli Stati membri disponibili. C’è un gruppo di lavoro, che dovrà lavorare con gli esperti di Frontex e le autorità italiane, per vedere come migliorare il mandato e i piani operativi di Triton. Questo gruppo di lavoro si riunirà immediatamente quest’estate». E i tempi? Non prima di settembre. Alla faccia dell’emergenza. «In settembre spero – auspica Leggieri – che avremo delle cose da presentare agli altri Stati membri dell’Ue e di Schengen, per vedere la loro reazione e vedere se sono d’accordo a partecipare a Triton, che avrà un nuovo piano operativo, o un piano operativo migliorato o emendato». Fabrice Leggieri ammette che quella della ridiscussione di Triton «è una questione complessa per tutta una serie di motivi politici, prima di tutto». E Frontex, se ne lava le mani Leggieri, «non deve risolvere questioni politiche. Ci sono anche ragioni operative e giuridiche delle quali bisogna tenere conto. Frontex terrà conto delle questione giuridiche e operative: l’agenzia non ha la missione di risolvere problemi e questioni politiche». In ogni caso, spegne ogni speranza il direttore esecutivo di Frontex, «un piano operativo deve essere condiviso tra lo Stato ospite, e attualmente l’Italia è lo Stato ospite, e Frontex, ma gli Stati che partecipano all’operazione devono essere d’accordo con il piano operativo». E già hanno fatto sapere di non essere intenzionati minimamente ad aprire i porti. Le gravi responsabilità dell’Ong, stessi interessi degli scafisti.  Il Direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, fa un’altra grave ammissione fra le righe confermando, in definitiva, che gli scafisti hanno modificato le loro strategie di business proprio in funzione degli aiuti logistici che finiscono per fornire loro le Ong. Mentre «due anni fa la maggior parte dei salvataggi avveniva a metà strada tra la Sicilia e le coste libiche» in conseguenza della decisione di spostare il limite delle operazioni al limitare sud dell’area di ricerca e soccorso maltese, «ora la maggioranza delle azioni di ricerca e soccorso avviene a 20-30 miglia nautiche dalla costa libica – spiega Leggeri davanti alla Commissione Libe del Parlamento Europeo – «ci sono diverse ragioni» per questo slittamento a sud, prima di tutto il fatto che i trafficanti «non danno più alcuna possibilità ai migranti di raggiungere le coste italiane: non hanno cibo, non hanno acqua, non hanno carburante. Escono dalle acque territoriali libiche e si fermano lì. I trafficanti semplicemente traghettano le barche o i gommoni con i migranti al limite delle acque territoriali libiche, rimuovono il motore e lasciano lì la barca». Proprio dove sono ad attenderli le navi delle Ong. Che, invece di portarli al porto più vicino, li portano in Italia. Renzi insiste con i suoi teoremi. In grave difficoltà ora che sono emerse le su responsabilità sull’invasione degli immigrati in Italia, Matteo Renzi cerca di trovare una via d’uscita politica: «La prima cosa da fare è bloccare il più possibile le partenze dalla Libia. Il ministro Minniti si sta impegnando molto su questo». Ed è subito subissato dai fischi. «Renzi è ridicolo – dice il senatore di Fi, Maurizio Gasparri – Come può dire oggi che bisogna agire sui porti libici per impedire le partenze quando il suo governo e quello Gentiloni hanno sempre dato ordini per accogliere tutti i barconi e far sbarcare sulle nostre coste migliaia e migliaia di clandestini al giorno? La verità è che non sanno come uscire da una situazione di disperazione che hanno auto prodotto, mentre prendiamo schiaffi ovunque». «Perfino il Parlamento inglese si è svegliato – ricorda Gasparri – rendendo noto un rapporto in cui definisce fallimentari i risultati dell’operazione Sophia perché non ha ridotto il flusso di clandestini ma solo aumentato le morti in mare. Per colpa di autentici irresponsabili ci troviamo davanti a uno scenario assurdo, mentre si continua con una politica di annunci e non di ordini drastici. Porti chiusi e blocco navale. Questa è l’unica strada. Il resto sono chiacchiere». «Perché i migranti che arrivano in Italia sono responsabilità dell’Italia? – insiste Renzi – Perché c’è un regolamento, quello di Dublino del 2003 – governo Berlusconi – che impone al primo paese in cui il migrante arriva di gestire il tutto. E dal 2003 che è così. Nel 2013 si modifica Dublino ma non questo punto. Nel 2015 l’Italia conferma questo principio perché non può cambiarlo – chiedemmo di cambiarlo ma ci fu detto di no – ma mette insieme il principio che gli altri paesi devono accettare una quota di relocation». Ma il “passo in avanti” di Triton rispetto a Mare Nostrum, ha lamentato l’ex-premier, «non è stato compiuto fino in fondo perché gli altri Paesi non hanno accolto il numero di migranti che si erano impegnati ad accogliere». Lo gela Laura Ravetto, deputata di Forza Italia e presidente del Comitato Schengen: «ma davvero Renzi insiste con Dublino? L’ha capito che se si potesse applicare davvero Dublino oggi le navi europee, sia militari sia mercantili, operanti in alto mare nel soccorso dei migranti renderebbero “Stato di primo approdo” la bandiera che portano e non le coste italiane? L’errore fu la scellerata deroga a Dublino che il governo Renzi negoziò nell’avvio dell’operazione Triton. Invece di tentare invano di scaricare responsabilità inesistenti su altri governi, Minniti si attivi affinché il protocollo Triton venga modificato». «Il governo dice ora che bisogna modificare Triton – osservano anche i grillini – Triton, tre anni fa, era il più grande accordo che l’Italia avesse ottenuto in sede europea per gestire la questione dei migranti. Adesso scopriamo che l’accordo prevedeva che tutti i migranti salvati nel Mediterraneo dovessero sbarcare solo nei porti italiani. E quando abbiamo chiesto a Frontex che cosa succede se l’Italia chiude i porti, lui ci ha risposto che la situazione è complessa, ma che l’Ue si limiterebbe a ridurre gli stanziamenti per Triton. Il problema dell’Ue è solo per gli stanziamenti, non gliene frega niente della gente da salvare in mare», dice caustico Di Maio. Sedia a rotelle e catetere sul barchino. «Altri 3.677 clandestini in arrivo in Italia. Ma ‘sto governo di incapaci, di complici, di servi – si chiede Matteo Salvini – fa qualcosa o vuole trasformare l’Italia in un enorme campo profughi? Si rendono conto che gli italiani sono incazzati neri? Fermare l’invasione, con ogni mezzo (lecito) possibile. Sono pronto!», dice Matteo Salvini, segretario della Lega.  Ieri sera, poi, intorno alle 20 un barchino con 8 uomini, di nazionalità algerina, sono arrivati a bordo di un barchino di 7 metri al porticciolo turistico di Teulada. Uno di loro, invalido, è arrivato con sedia a rotelle e catetere urinario. Qualche ora dopo sono sbarcati altri 4 algerini immigrati, che erano stati soccorsi nei giorni scorsi nel Canale di Sicilia, sono stati sbarcati al porto di Trapani dalla nave Phoenix della discussa Ong maltese, Moas. Gli immigrati del Banglades in aereo in Libia. Poi c’è la novità, sempre svelata dal Direttore esecutivo del Frontex, Fabrice Leggeri, del fatto che «sorprendentemente, ci sono molti cittadini del Bangladesh che arrivano per via aerea e raggiungono Tripoli». E, da lì, poi, grazie ai comodi traghettamenti delle Ong, arrivano in Italia. Preso da: http://www.secoloditalia.it/2017/07/frontex-ammette-ce-un-accordo-portare-gli-immigrati-italia/ https://ift.tt/2P19XMn
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debhornet-blog · 6 years
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Sabato 31 marzo ha preso il via Spritz con gli autori, una simpatica iniziativa ideata e promossa da Isabella Borghese presso la libreria Sinestetica, che sarà replicata sabato 14 aprile con Massimo Torre e Luca Ricci, rispettivamente autori di La dora dei miei sogni (Giulio Perrone Editore) e Gli autunnali (La nave di Teseo). 
Sorseggiando uno spritz, Isabella Borghese ha presentato Romana Petri e Nadia Terranova e ha chiacchierato con loro cercando di scoprire dettagli e particolari sulle loro modalità di scrittura e sui loro luoghi di ispirazione. Poi la parola è passata a Giulia Peci, del gruppo Leggo Letteratura Contemporanea, che ha presentato Il mio cane del Klondike, appena pubblicato da Neri Pozza. Nadia Terranova, di cui uscirà a ottobre il nuovo romanzo sempre per Einaudi, è stata, invece, raccontata da Simona Mangiapelo dell’Associazione Culturale Caffè Corretto che ha commentato Gli anni al contrario. 
È stata una mattinata frizzante e coinvolgente dove si è parlato di libri e di scrittura, dove si è riso  e sorriso in un’atmosfera rilassata, con Isabella Borghese che ha dettato i tempi e ha rotto gli indugi chiedendo a Romana e Nadia di raccontare il loro esordio letterario.
“Come ho cominciato?” Nadia Terranova ci pensa un attimo e poi inizia a raccontare: “Sono arrivata a Roma 15 anni fa per frequentare un corso di editoria dopo essermi laureata in filosofia. Volevo scrivere ma sapevo di dovermi fare le ossa e sentivo che mi avrebbe aiutato di più studiare editoria che non scrittura creativa. La mia palestra è stata scrivere le bandelle, le quarte di copertina, perché ho capito che il magma di un libro doveva essere narrabile e seducente. Mi sembrava come quando da piccola scrivevo le lettere a mio padre, che non viveva più con me essendosi separato da mia madre, e dovevo scegliere i fatti salienti della settimana per renderli divertenti e commoventi. Dopo aver imparato tantissimo, sono andata via, ho preso un dottorato, ho fatto altri lavori e mi sono presa un paio d’anni sabbatici per scrivere e pubblicare Gli anni al contrario. Essendo un esordiente, Einaudi mi ha parcheggiata per 5 anni e io, in attesa che venisse pubblicato, ho scritto dei libri per ragazzi perché dovevo sfogare la mia voce narrativa che ormai premeva per esprimersi. Ora scrivo indistintamente per adulti e per ragazzi, dipende dal destinatario che mi viene in mente quando immagino una storia”.
Gli inizi di Romana Petri sono invece molto diversi: “Avevo 22 anni e non sapevo a chi far leggere i miei scritti fino a quando mia madre mi consigliò di proporli al mio scrittore preferito e cosi feci. Contattai Giorgio Manganelli, dopo aver trovato il suo numero sull’elenco telefonico e dopo tre settimane mi chiamò: Signora Pezzetta (ancora non avevo un nome d’arte, chiarisce) lei ha scritto un gran bel libro e vorrei incontrarla. Mi prese un collasso a sentire che Manganelli in persona, il mio idolo letterario, si complimentava con me. Mi armai di coraggio e andai a casa sua. Lui era seduto su una specie di trono mentre io ero in basso, ma non mi sono scoraggiata e dopo aver superato a pieni voti un vero e proprio interrogatorio sulla letteratura inglese, mi disse che avrebbe proposto il libro alla Rizzoli. Poi passarono forse due anni di silenzi, fino a quando finalmente squillò il telefono, inizialmente non capii cosa diceva il tizio dall’altra parte del telefono, poi lentamente realizzai che quello che parlava era un agente letterario e mi stava proponendo un contratto. È iniziata cosi. Poi purtroppo Manganelli scrisse una recensione meravigliosa che segnò il mio destino. Fece il mio nome insieme a quello di Michele Mari definendoci le due promesse della letteratura italiana e mi ha fregato… perché mi sono sposata proprio con Mari”.
Isabella Borghese incalza e chiede a Nadia e a Romana se quando scrivono hanno delle abitudini particolari, magari come Balzac che non poteva fare a meno di bere 50 tazze di caffè al giorno o Schiller che doveva avere un cesto di mele marce sotto la scrivania o come Hugo che scriveva nudo con i vestiti chiusi a chiave nell’armadio per non avere la tentazione di uscire. Ridendo, Romana Petri ci assicura che lei scrive assolutamente vestita perché ha sempre freddo e anche con 40 gradi deve avere lo stomaco coperto. Ma svela di avere un’abitudine particolare: “Quando finisco di scrivere un libro segno il giorno, il mese, l’anno, l’ora e i minuti della prima stesura. Se il numero che esce non mi piace resto inquieta perché ho una certa ossessione per i numeri. Per il resto, giuro, di essere una persona molto normale. Mi dedico alla scrittura creativa quando non lavoro e io lavoro come una pazza, perché questo non è uno sport da signorine”. 
Nadia ribatte e confessa di vivere da anni su una poltrona viola e spera di concludere i suoi libri in posti suggestivi. “Sono con la stessa persona da 15 anni e la relazione non finisce perché lui mi fa scrivere e non mi disturba mai. La mia casa è molto piccola, ho provato a scrivere a letto, alla scrivania, mentre cucino, ma solo quando mi sono costruita il mio angolo con la poltrona viola, ho capito di aver trovato il mio posto. La mia scrivania è il computer sulle ginocchia; il mio studio è la libreria che mi fa angolo e mi circonda. Quando non sono a casa, scrivo in albergo e in treno. Ho finito la prima stesura del prossimo romanzo, che uscirà a ottobre per Einaudi, in treno, mio malgrado, perché  speravo di finirlo sulla mia poltrona o davanti al Partenone dove sono stata per il mio compleanno, ma purtroppo non è andata cosi: l’ho finito sulle rotaie, entrando in stazione”. 
Romana racconta invece di come ha perso il suo studio a casa, piccolo e umido ma pur sempre suo. Il fattaccio è accaduto quel giorno in cui “mio figlio è tornato a casa con due piccioni senza piume, in fin di vita, che non solo sono sopravvissuti, ma hanno preso possesso dello studio. Cosí mi sono trasferita in camera da letto, anzi proprio nel letto, circondata da cuscini. Ora i piccioni sono volati via ma non so se tornerò nel mio studio, forse quando casa sarà ripulita, ma non ne sono sicura. Mi trovo bene a letto tra i cuscini, mi auto-coccolo e ho la mia routine di scrittura: la mattina mi alzo, bevo il caffè, faccio colazione e poi mi rimetto a letto e inizio a scrivere. Vivo con pezzi di carta ovunque, dove fermo le idee che mi vengono e spesso scrivo al buio durante la notte, mentre cerco di dormire, e poi la mattina decifro con molta fatica quello che ho scritto con una scrittura da medium. Quando scrivo un romanzo ho invece un metodo collaudato: scrivo, lo rileggo e poi lo abbandono per almeno un anno. Quando lo riprendo, deve essere ormai lontano da me, tanto da averlo quasi dimenticato, cosí da non ricordarmi alcuni passi e poter iniziare a fare l’editing, indispensabile ma per niente piacevole”.
Nadia scrive anche in biblioteca, dove va “quando sento che al libro manca aria, lo porto a fare una passeggiata come fosse il mio cagnolino. Quando vado a Messina mi porto il computer ma non scrivo neanche una riga. Poi torno a Roma e inizio a scrivere romanzi che sono sempre ambientati a Messina. È come se tornassi a casa per saccheggiare i ricordi, e una volta a Roma apro il bottino e inizio a scrivere”.
Ma scrivere per voi è un mestiere, chiede Isabella Borghese?
Con la consueta e affascinante impulsività Romana non fa finire la domanda che subito risponde: “Un mestiere c’è quando sei pagata a fine mese. Sarebbe molto bello poter vivere di scrittura e in parte ci vivo perché scrivo anche articoli, faccio delle traduzioni, insegno letteratura, ma sarebbe un’altra cosa potersi dedicare esclusivamente alla lettura e alla scrittura. Oggi siamo inondati di libri, ma pochi sono quelli validi. Siamo di fronte a un ossimoro pazzesco: tutti vogliono scrivere, ma nessuno vuole leggere e quindi inevitabilmente i risultati sono mediocri. Bisognerebbe frequentare più corsi di lettura che di scrittura. Come si può prescindere da alcune letture, come Don Chisciotte, Oblomov, come puoi scrivere se non ami leggere? Ecco perché spesso si leggono cose banali che con la letteratura non hanno nulla in comune. La letteratura è altro dalla vita reale, deve essere qualcosa che quando la leggi vai da un’altra parte, perché se rimani qui è inutile quel libro”. 
Nadia Terranova interviene con la sua dolcezza siciliana, perché tra le altre cose tiene anche corsi di scrittura e si dice d’accordo con Romana: “anche io vivo di scrittura ma non esclusivamente di romanzi. Mi occupo anche di cose collaterali come le collaborazioni con i giornali e i corsi di scrittura a proposito dei quali, come giustamente dice Romana, spingo molto sull’importanza del leggere che non prescinde dallo scrivere. Bombardo gli aspiranti scrittori di consigli di lettura, assegno compiti e dissemino libri, perché è impossibile scrivere se non si ha un orizzonte in cui anche solo idealmente collocarsi. Quando scrivo sento l’obbligo di sapere che sto compiendo un gesto che prima di me ha compiuto Dostojevski, Steinbeck… io devo pormi l’obiettivo di essere alla loro altezza, poi non ci riuscirò, scriverò magari dei libri mediocri, ma l’importante è tenere alta l’asticella. Non posso scrivere la prima cosa che mi viene in mente, quella non è letteratura, gli scivoloni non sono ammessi, come le frasi scontate e banali…Lo scrittore deve fermarsi  e pensare che magari c’è un altro modo di dire una cosa senza essere scontati e che è proprio quell’altro modo di dirla che rende un testo letterario, senza arrivare al virtuosismo. Per esempio la poesia italiana del ‘900 è per lo più scritta con parole di uso comune ma poste in un contesto altro che quando le leggi capisci di non aver pensato a quel verbo o a quella parola in quei termini. Non deve essere la ricerca dell’originalità a tutti i costi, ma neanche la fiera della banalità”.
E la Petri rincara il concetto: “Tabucchi per esempio aveva il dono del togliere, del non detto, usava parole semplici che creavano la magia, che procuravano quello strappo nelle viscere che fa la grande narrativa.
E quindi come scegliete i libri contemporanei da leggere, considerando che ogni giorno gli scaffali delle librerie si riempiono di testi?
Nadia confessa di aver escogitato un trucco: “cerco di non farmi influenzare dalle conoscenze, perché spesso ai festival si incontrano gli scrittori e non sono sempre incontri piacevoli. Allora cerco di scindere perché molti mi sono antipatici e quindi finirei per non leggerli preferendo solo libri di persone gentili e carine, ma spesso le due cose non coincidono. Se si scrive per rivelare un segreto nascosto, per raccontare una parte di noi intima, allora quella voce non coincide sempre con quella persona e smontando questo pregiudizio ho avuto delle belle sorprese, ho letto libri molto belli scritti da persone che nella vita non frequenterei mai. Inoltre mi sforzo di trattare i contemporanei come classici e viceversa, con un classico mi piace capire cosa ci sta dando ancora oggi e faccio lo stesso con un contemporaneo.
Romana Petri invece non ci rivela alcun criterio di scelta ma come un simpatico ciclone passa direttamente e senza indugi a consigliare L’estate del ’78 di Roberto Alajmo e David Machado (autore tra l’altro di Indice medio di felicità) di cui sta leggendo, in portoghese, il suo ultimo romanzo Sottopelle, sperando di riuscire a farlo pubblicare in Italia.
A questo punto Isabella Borghese si vede costretta a interrompere la chiacchierata per motivi di tempo, ma il dispiacere viene subito compensato dall’intervento di Giulia Peci del gruppo Leggo Letteratura Contemporanea.
“Sono felice di aver letto Il mio cane del Klondike di Romana Petri. Non mi sono voluta far influenzare dalla rete e condizionare dalle recensioni e ho deciso di non leggere niente che ne parlasse . Quindi quando ho aperto il libro non avevo idea di cosa avrei trovato. Ammetto che mi ha emozionata tantissimo, l’ho sentito molto vicino, perché è un libro carico di emozioni. La storia racconta il salvataggio di un cane e di un riconoscimento tra un cane e una donna: lei lo incontra per caso davanti alla scuola dove insegna, lui è in fin di vita e lei decide di salvarlo. In un momento storico in cui soccorrere viene considerato un crimine, questo elemento rende questo libro estremamente attuale, perché il cane del romanzo è in un certo senso un immigrato con problemi d’integrazione. È lui il vero protagonista, è l’unico non a caso che ha un nome, Osac, e un cognome e ha una voce tutta sua. Osac è l’anagramma di caos e di caso e questo dice tanto sul personaggio. Tra Osac e la donna nasce un fortissimo rapporto d’amore, esclusivo, totalizzante e travolgente, forse anche esagerato, e l’evolversi di questa storia permette alla salvatrice di fare una serie di riflessioni sui sentimenti, sulla vita e su quello che accadrà. È un libro sull’abbandono, ma anche sulla maternità e su come questa cambia il rapporto tra i due.
“I cani sanno amare, lo sanno fare in modo coraggioso, buono e disinteressato ed è per questo che non si trasformeranno mai, come è successo a Pinocchio, in esseri umani veri.”(Il mo cane del Klondike, ed. Neri Pozza)
È anche un libro di ricordi, e di affetti che perdurano nel tempo, a dispetto della perdita di una persona che rimane talmente presente nel nostro cuore da essere a tutti gli effetti viva.
Talvolta ci si innamora degli uomini sbagliati, tutti ci avvisano che ci farà del male, che sarebbe meglio lasciarlo perdere ma spesso noi donne abbiamo la sindrome da crocerossina e ci immoliamo. È quello che accade alla protagonista umana del libro, capisce subito che sarà un cane difficile, inizialmente vuole salvarlo per poi darlo a qualcun altro, anche il veterinario la mette in guardia, ma sarà travolta da un amore travolgente per un cane travolgente che le sconvolgerà la vita e per il quale sarà pronta a rinunciare anche alle relazioni sociali. È un cane difficile da gestire, un bipolare, un malato psichico. 
“Allora ci guardavamo, e insieme recitavamo la miracolosa frase: io sono le mie paure, e dunque non posso avere paura di me. Continuo a usarla ancora, e ogni volta mi ricordo di lui, deluso temperamento d’assalto che nascondeva pero delle paure antiche, contro le quali gli tocco combattere per la vita intera. Cose sue profonde, dell’anima, ferite che, per quanto mi abbia raccontato nel suo lapidario linguaggio in cui le y venivano usate al posto di tutte e cinque le vocali, rimasero per mucosa mai sapute per intero. intuite, certo, a volte addirittura sentite mie, per quanto mi turbavano tutti suoi tormenti”.  
Questo libro è un potente concentrato di emozioni e sentimenti diversi: dalla paura dell’abbandono a ciò che prova una donna scoprendo per la prima volta sulla propria pelle la maternità, per arrivare a tutti quegli affetti profondi che spesso ci legano a dei nostri cari scomparsi da anni, siano costoro esseri umani o “disumani”. C’è un’immagine a tal proposito che ho molto amato, ed è quella di “rimestare con un cucchiaio nel proprio cuore per far spazio a tutti i propri affetti … dividendoli e moltiplicandoli”. Inoltre ha una prosa coinvolgente, attenta alle parole e alle lingue in generale, persino a quella del cane, cui alla fine è dedicato addirittura un omaggio .. particolare. Mi ha molto colpito la riflessione che fai sul linguaggio, che è diverso per ognuno di noi, anzi per ogni creatura vivente e che bisogna solo saperlo interpretare per imparare a relazionarsi, usandone uno che sia comprensibile a entrambi.  È cosi Romana?
Si, ho inventato un linguaggio gutturale per dare voce a Osac, perché a lui non manca la parola, bisogna solo aver voglia di capirla e non a caso Osac arriva dopo il ciclone (Le serenate del ciclone, Neri Pozza), perché sono stati due i cicloni della mia vita. Ho scritto questo romanzo perché Osac è fascino puro. Quando ci portiamo a casa un animale ci portiamo dentro la natura, basta pensare a un gatto che salta senza fare rumore sulla spalliera e sta con una zampa ciondoloni, lo guardi e vedi la savana. Osac mi è entrato dentro casa e mi ha portato mezzo Klondike e in questo romanzo, che è un esplicito omaggio a Il richiamo della foresta (di Jack London – ndr) io mi sono identificata con Osac, non con la donna che lo salva. Alcuni hanno criticato la fine, ma io credo che i libri che consolano siano spesso da buttare, mentre i libri che danno inquietudine sono da conservare. È un libro che parla di inquietudine, ma c’è anche tanto amore e alla fine tutto si ricompone. Come nella vita, che se ci fermiamo alla baionetta che abbiamo davanti agli occhi, non comprendiamo la battaglia, per parafrasare Stendhal.
È ora il turno di Simona Mangiapelo (autrice del romanzo Di nessuno, Alter Ego edizioni) dell’Associazione culturale caffè corretto che introduce Gli anni al contrario al pubblico in sala per poi porre alla scrittrice alcune domande sul testo. 
Questo libro arriva al cuore, chiarisce subito Simona Mangiapelo, anche se in alcuni punti fa male, e la scelta narrativa è puntuale, sai trovare la parola giusta per imprimerti nel cuore e nel ricordi di chi ti legge e proprio per questo ho avuto difficoltà a scegliere solo pochi brani per oggi. I protagonisti sono due ragazzi, Aurora e Giovanni, così determinati a prendere le distanze dai loro genitori al punto da non capire cosa davvero vogliono per loro stessi. S’incontrano e s’innamorano. Nel giorno del ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro e di quello di Peppino Impastato nasce la figlia di Aurora e Giovanni. Si avvicinano lentamente e grazie alla struttura delle pagine lentamente e inesorabilmente si allontanano. Giovanni è tormentato, si sente parte dell’importante movimento storico che vive, ha un’ansia cieca di rivoluzione che si rivela distruttiva e lo porta fino a far uso di eroina. In questo romanzo c’e la lotta armata degli anni settanta, la piaga dell’eroina e il dramma di due persone che vivono insieme, ma che possono essere lontane e profondamente sole. 
“Nessuno dei due aveva il coraggio di ammettere la solitudine. La casa, per quanto in miniatura, certi giorni sembrava fin troppo grande e vuota. Si specializzarono in silenzi opportuni, divennero complici e conniventi. Una sera si sedette accanto al marito con una siringa in mano: Non abbiamo mai fatto niente insieme…” (Gli anni al contrario, Einaudi) 
Simona Mangiapelo chiede a Nadia Terranova da quale desiderio narrativo è nata questa storia?
“È sempre difficile parlare di questo libro senza parlare del finale, non lo farò neanche oggi, ma è nell’ultima pagina che è depositata la mia necessità di scrivere questa storia. Non è un romanzo autobiografico o biografico, anche se i due protagonisti raccontano i miei genitori e io sono Mara che, per una distorsione narrativa, nasce il 9 maggio. Dopo aver compiuto un lungo percorso personale, per accettare la storia tormentata di Giovanni che si interrompe nel 1989, quando io ero una bambina, ho sentito il bisogno di raccontare la storia di quest’uomo, per liberarla dal tabù di silenzio assoluto che vigeva a casa mia. Mi interessava portare in salvo il destino di Giovanni e capire cosa aveva portato nella mia vita e con chi si confondeva, con quante storie comuni in quel decennio cosi particolare. Mi sono documentata su quegli anni, ma non avevo intenzione di scrivere un romanzo storico, e non volevo dare una parola decisiva. Volevo solo raccontare la storia di una persona che era uno tra tanti, uno come tanti, uno di quelli che, se fosse sopravvissuto, a distanza di anni avrebbe detto, con forte senso di appartenenza, quella è la mia generazione. Un desiderio di appartenenza che noi non abbiamo, ma che per lui rappresentava quell’immaginario che aveva condizionato profondamente le sue scelte private. Se fosse vissuto a Roma avrebbe fatto politica, ma invece viveva a Messina e quello che accadeva in Italia lo viveva in modo sconvolgente per la sua vita privata. Era un’epoca in cui la messa in gioco era personale, fisica direi, anche se Aurora e Giovanni non fanno nulla di eroico. Questa è la cifra dell’anti-eroismo di Giovanni, il contrario di quello che accade ne La Meglio gioventù (film di Marco Tullio Giordana – ndr) dove i protagonisti sono persone comuni, ma sempre in prima linea. I protagonisti de Gli anni al contrario agiscono invece per sottrazione, per quello che non riescono a fare, ma a cui sentono di appartenere. Nelle domande che mi sono fatta scrivendo, mi sono chiesta quando far iniziare la storia di Giovanni. Con la tossicodipendenza, con la malattia, con la decisione di fare politica? Ho deciso di far cominciare la storia con il concepimento di Giovanni, perché tutto nasceva da quel momento. Nato dieci anni dopo gli altri fratelli, ha fin da subito un marchio addosso di differenza e di costante ritardo, per cui Giovanni sa di essere nato per sbaglio, di essere l’ultimo e proprio per questo ha l’esigenza di afferrare qualcosa, ma di non riuscirci.
Cara Aurora… non abbiamo mai usato lo stesso dizionario, parole uguali, significati diversi. Dicevamo famiglia, io pensavo a costruire e tu a circoscrivere. Dicevamo politica, io ero entusiasta e tu diffidente. Io combattevo, tu ti rifugiavi. Se non ci fosse stata Mara ci saremmo persi subito…(Gli anni al contrario, Einaudi)
Una volta hai detto: I grandi non sono che bambini sopravvissuti, e ho pensato a Mara che sembra dirci che malgrado un passato ingombrante e tormentato, nonostante due genitori senza gli strumenti per crescerla, Mara sopravvive malgrado tutto ciò. È questo il messaggio che volevi dare?
“Sì, mi accorgo che sono ossessionata dai sopravvissuti e dal sopravvivere. Infatti il prossimo romanzo è dedicato proprio a loro, perché credo che ognuno di noi lo sia, non c’è nessuno che possa ritenersi immune da questa definizione. Nello scrivere il nuovo libro avevo la tentazione di dedicarlo a qualcuno che non c’è più ma poi ho realizzato che quello che facciamo è sempre dedicato a qualcuno che non è più con noi. La letteratura serve anche a tenere in piedi i fantasmi, a chiamarli vicino, a farli vivere intorno alla poltrona viola, ma poi la storia è letta da chi vive e da chi cerca continuamente un senso per esserci. Io ho vissuto la prima parte della mia vita segnata dal non avere più un padre, dall’averlo visto andare via molto presto, quando è morto era più giovane di me adesso e quindi ogni anno della mia vita, ancora di più dopo aver compiuto 37 anni, è un anno da sopravvissuta. Nella prima parte della vita viviamo in una dimensione mitica, soprattutto noi che siamo cresciuti senza Internet e il mio collegamento con il mondo erano i libri, Diventavo di volta in volta Il richiamo della foresta, Delitto e castigo e tutto quello che leggevo. Ero felice di questa immersione in altri mondi. Non a caso il mio scrittore preferito è Bruno Schulz perché racconta un’infanzia mitica ma non mitizzata e neanche non idealizzata perché l’infanzia è anche un luogo terribile, dove tutto succede in modo atroce, anche perché tutto quello che ci succede, accade per la prima volta: la perdita, la morte di qualcuno, l’abbandono, la paura dell’abbandono, l’amore, il perdersi. Per un bambino è molto importante la prima volta in cui si perde, è quasi una tappa di passaggio della crescita, sia per il figlio che per la madre. Quindi si, credo proprio che tutta la letteratura sia di chi sopravvive, tanto che alla fine di ogni libro potrebbe esserci la frase “sono sopravvissuto per raccontarlo”. 
E noi siamo sopravvissuti per leggerlo sottolinea Giulia Peci, un attimo prima che questa splendida iniziativa termini. 
Il prossimo appuntamento è per il 14 aprile alle 10 presso la libreria Sintetica con Isabella Borghese, Massimo Torre e Luca Ricci. A presto
  Spritz con gli autori: Romana Petri e Nadia Terranova si raccontano e ci raccontano Sabato 31 marzo ha preso il via Spritz con gli autori, una simpatica iniziativa ideata e promossa da Isabella Borghese presso la libreria Sinestetica, che sarà replicata sabato 14 aprile con Massimo Torre e Luca Ricci, rispettivamente autori di La dora dei miei sogni (Giulio Perrone Editore) e Gli autunnali (La nave di Teseo). 
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paoloxl · 6 years
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La vicenda dei profughi migranti in fuga dal campo-carcere sociale di Cona ci impone una riflessione profonda, ad ampio respiro, che incide sulla nostra stessa soggettività e visione del mondo, svelando fino in fondo i dispositivi del comando imperiale da una parte, le forme delle resistenze bio-politichedall’altra. Nel nostro immaginario la rivolta è associata ai tumulti, alle insurrezioni, al conflitto radicale contro il potere; che rivendichiamo come diritto, in ogni tempo ed in ogni luogo, contro l’ingiustizia, lo sfruttamento, l’oppressione. Ma oggi siamo di fronte a qualcosa di nuovo, nuove narrazioni della resistenza, che da materialisti dobbiamo comprendere e da cui dobbiamo trarre insegnamenti per l’azione politica. Qui si tratta di una rivolta sotto forma di esodo, la fuga da tutti i luoghi dell’oppressione  attraverso i confini e dentro i confini di Stati, nazioni, territori sotto la spinta più potente ed irriducibile che la natura umana conosca: il desiderio di libertà. Proprio per questo si tratta di una rivolta dei corpi di estrema radicalità, che supera ogni limite legislativo e norma di comando, ogni decreto o gabbia burocratica ed esprime una contraddizione insanabile nel cuore  dell’Impero.    «Voi  non immaginate cosa può un corpo», così Spinoza. Quale potenza esprime una moltitudine di corpi accumunati nella resistenza collettiva per la libertà, trasformando l’assoggettamento più totale nella costruzione della propria soggettività indipendente nell’esodo, il massimo di indeterminatezza sul proprio destino nel massimo di determinazione nel continuare il proprio cammino nel deserto. È in questo passaggio che la conquista della propria dignità - di uomini e donne - assume potenza inedita, al di là  dello stesso  concetto  di  cittadinanza  formale,  di ogni gabbia burocratica o dispositivi del controllo. Senza patria, senza nazionalità, senza diritti, queste comunità nomadi ed apolidi private di tutto, ma proprio per questo aperte alla potenza del divenire, si mettono in moto per divenire tutto ciò che si può, cittadini in quanto uomini, non uomini in quanto cittadini. Come si può intuire, si tratta di qualcosa di diverso dalla classica lotta economica rivendicativa o dall’azione politica che si pone obiettivi programmatici: qui si tratta  dell’affermazione della propria umanità e la liberazione da tutte le prigioni in cui essa è ingabbiata, soffocata, ridotta anuda vita, su cui si esercita il potere sovrano. Le lotte di classe nell’occidente capitalistico avvengono comunque in un quadro di diritti di cittadinanza, formale quanto si vuole, come da sempre svelato dalla critica marxista rivoluzionaria al diritto borghese, ma ciononostante esistente. Questa cittadinanza è una conquista delle lotte nel quadro della formazione degli Stati-nazione e delle identità nazionali: nel declino della sovranità degli Stati-nazione e nel simultaneo processo di costituzione non ancora compiuta del comando imperiale, anche questo quadro formale si sta progressivamente disgregando. Il nuovo proletariato sociale, precario e totalmente assoggettato, assume sempre più la fisionomia di quella «classe universale» di cui parlava Marx. Tuttavia, è necessario precisare che, esattamente in virtù di questa dimensione universale, la rivoluzione a venire non è, e non sarà, una semplice rivoluzione politica.  «Nella formazione di una classe con catene radicali, una classe della società civile che non sia una classe della società civile, una classe che sia la dissoluzione di tutte le classi, una sfera che, per la sua sofferenza universale, possieda un carattere universale (…) che non possa più appellarsi a un titolo storico, bensì al titolo umano (…), una sfera, infine, che non possa emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, emancipandole di conseguenza tutte, e che sia, in una parola, la perdita completa dell’uomo e possa quindi conquistare nuovamente se stessa soltanto riconquistando completamente l’uomo. Questa decomposizione della società, in quanto classe particolare, è il proletariato»[1]. Parole profetiche: la dissoluzione delle identità nazionali, la rottura dei confini della cittadinanza, la crisi del rapporto tra i diritti dell’uomo e del cittadino e del quadro in cui si sono storicamente costituiti. Le continue de-territorializzazioni e ri –territorializzazioni , distruzioni di confini e creazione di sempre nuovi in funzione di controllo globale, forgiano una nuova cartografia del potere e delle resistenze. Non c’è in questo processo un dentro ed un fuori: è tutto interno al nuovo ordine imperiale ed accumuna nuovi bisogni e desideri di una classe potenzialmente universale, che può tutto proprio perché è spogliata di tutto. La rivolta di Cona non è un fatto da cogliere dall’esterno, solo con la giusta solidarietà materiale, ma ci appartiene fino in fondo proprio per la radicalità con cui mette in luce e svela la portata dei conflitti nel cuore dell’Impero, le tendenze, la loro portata epocale. I confini dell’umanità e della cittadinanza possono prendere corpo anche in uno sperduto paesino, lungo un argine, nella più vuota e desolata campagna. Proprio per questo è possibile ovunque la loro rottura per la liberazione e la dignità. [1] K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in La questione ebraica ed altri scritti giovanili, traduzione di Raniero Panzieri, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 105-110
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jucks72 · 7 years
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Carciofi alla giudia: la ricetta perfetta
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Carciofi alla giudia: la ricetta perfetta
Sora Lella, Ada Boni, l’autrice del Talismano della felicità, e il poeta Gioacchino Belli: che cosa possono avere in comune se non i carciofi alla giudia?
Sora Lella, celebre attrice e cuoca romana, la fa facile. Mark Zuckerberg se li concede quando capita a Roma. E Umberto Pavoncello viene immancabilmente associato a loro, col placet di Nonna Betta, il ristorante, di cui è titolare.
Non mancano le foodblogger che, alla ricerca della ricetta perfetta, dichiarano spavalde di ispirarsi a quella che Ada Boni riporta nel 1930 ne La Cucina Romana. The Oxford Companion to Italian Food afferma che Ada Boni svela con “meticolosa autorità” come fare i carciofi alla giudia.
Ma cosa succede nella cucina quando giunge una mammola?
In nome dei carciofi
« Nun c’è principe o re, cristiano che sia, che nun magni carciofi alla giudia »
Ai principi o re di Gioacchino Belli servono dei carciofi mammola o cimarolo, questo è importante. Eppure non ti devi fermare davanti a nessun carciofo. La perfezione d’oggi vuole questo tipo di carciofo romanesco, ma affinando le abilità di “capatura” non c’è varietà di carciofo che non possa essere preparato alla giudia.
Questa affermazione, pure quasi sfacciata, la sostengo a spada tratta.
I carciofi alla giudia sono un piatto storico, nato in epoche in cui il carciofo non era addomesticato. Nel Cinquecento il carciofo era selvatico, Mendel, il precursore della genetica moderna, doveva ancora arrivare. Gli esperti affermano che quello che al mercato si trovava era un carciofo simile al moretto di Brisighella, quindi spinoso.
Senza vagare nella storia o nella geografia odierna dei carciofi (dato che con il risotto agli asparagi abbiamo già dato), concentriamoci sull’IGP perfetto per i carciofi alla giudia degli Anni Duemila.
Cimarolo e mammola non sono in realtà sinonimi.
Il nome cimarolo deriva dal fatto che è (o dovrebbe essere) il carciofo che cresce al centro della pianta. Per questo è il più ricercato. Perché, sai, essendo in cima, è più tenero. Ma la grossa mammola si difende, perché non richiede di essere troppo capata.
Per non fare distinzione, l’IGP (Indicazione Geografica Protetta) difende il carciofo romanesco, mammola o cimarolo che sia.
Sferico, compatto, leggermente schiacciato, l’apice è arrotondato e presenta un foro. Niente peluria interna. Le foglie esterne hanno sfumature violette. Niente spine.
La grossezza del gambo è un indice di vigore della pianta e tenerezza delle foglie, afferma Lazio Gourmand. Hamos Guetta, ebreo tripolino e cuoco, insegna come un gambo più grosso lo abbiano i primi fiori della pianta.
Attenzione! Non esiste un solo carciofo romanesco. Esistono due cultivar. Uno precoce che si trova a inizio gennaio, detto Castellamare, e uno tardivo, tal Campagnano, che compare a marzo. Ma a chi appartiene il Castellamare?
Non è un domanda peregrina. Infatti, un competitor che molto assomiglia al romanesco non cresce nel Lazio. Eppure non va scartato per i carciofi alla giudia. Si tratta del carciofo Paestum, sempre IGP. Puoi intuire che è campano e puoi intuire quanto i romani potrebbero aversene per questa affermazione.
Eppure si tratta del Tondo Paestum che appartiene allo stesso gruppo genetico del carciofo romanesco. Sarà, anche, che la coltivazione nella Piana del Sele gli garantisce una precocità che il cimarolo non ha. Ribadisco, tutto sta nel chiarire a chi appartiene, in origine, il carciofo di Castellammare: al Pasteum o al romanesco?
Quel che è certo è che i carciofi romaneschi si possono trovare in vendita da gennaio a maggio dopo che sono stati raccolti manualmente.
Le zone di produzione sono ben delimitate e comprendono (un bel respiro) le province di Viterbo, Roma e Latina, con i comuni di Montalto di Castro, Canino, Tarquinia, Allumiere, Tolfa, Civitavecchia, Santa Marinella, Campagnano, Cerveteri, Ladispoli, Fiumicino, Lariano, Sezze, Priverno, Sermoneta, Pontinia.
Nelle fotografie vedi diverse categorie commerciali di carciofo romanesco acquistate ad aprile. C’è anche qualche carciofo di prima categoria per la quale sono ammesse lievi alterazioni da gelo e lievissime lesioni. Mentre la categoria extra è riconosciuta a carciofi di qualità superiore.
L’importanza del capare
In giudaico-romanesco “capare” sta per pulire. Ci sono ricette e varietà di carciofo più esigenti di altre. Con i carciofi alla giudia lo scarto è risicato, merito del carciofo e di una tecnica elaborata nei secoli.
L’obiettivo è ottenere una rosa che sboccia col calore dell’olio. Questo non accade per magia. Non è neppure una questione di trigonometria. E’ questione di tecnica.
Sì, nelle foto l’effetto rosa è esagerato per convincerti di quanto un carciofo sia un fiore. Mentre il video ti propone la capatura di chi ha teme la capatura foglia per foglia. Su, su, prova con la capatura a rosa (o a crisantemo, secondo alcuni) almeno una volta.
Conoscenza e non tecnica, invece ci vuole, per distinguere tra carciofi alla romana e carciofi alla giudia. A saperlo si evitano zuffe come quella che avvenne nel 1604 all’Osteria del Moro. Le cronache la riportano, perché coinvolse Caravaggio.
L’artista non sapeva distinguere quali degli otto carciofi che gli furono serviti erano cotti nell’olio e quali nel burro. Non seppe neppure reggere l’ironia del cameriere che si azzardò a dire “Annusali e li riconoscerai”. Sì, Michelangelo Merisi si era fermato davanti ai carciofi alla romana con mentuccia.
Quel che giudia dice
La storia non è una bazzecola e giudia vorrà dire pur qualcosa. Spesso si associano i carciofi alla giudia con la festa dell’espiazione, almeno leggendo Internet. Ahimè è un errore che il calendario gregoriano subito svela.
L’associare i carciofi alla giudia con la festa dello Yom Kippur, alias festa dell’espiazione, sembra nasca per l’abitudine di mangiare carciofi dopo l’Havdal, al termine del digiuno.
Peccato che tale festa cada tra settembre ed ottobre, corrispondendo al decimo giorno del mese ebraico di Tishri. Quindi, niente mammole e cimaroli in vista. Neanche a Roma. La quadratura del carciofo si crea non appena si nota come i carciofi alla giudia sono contorno diffuso anche per il Pesach, la pasqua ebraica.
Dopotutto già in un manoscritto del Cinquecento si scrive che “i carciofani sono boni pigliandoli nella loro stagione, la qual comincia a Roma a mezzo febraro e dura per tutto giugno. Per farli alla giudea se devono mondare e poi tagliare le cime delle foglie pungenti e dure in foggia de spirale ….E poi frigendole in oglio bogliente ….”.
E occhio, quel oglio bogliente è meglio se sia d’oliva, data la sua diffusione nella cucina ebraica.
Abbinamenti azzardati?
Qui oso perché mi fido di chi mi fa osare. E se nel calice accanto al carciofo alla giudia ci finisse un sauvignon blanc come Jacaranda di Antonella Cassarà? O meglio osare con un Lugana DOC?
La ricetta perfetta
4 carciofi romaneschi (mammola o cimarolo) 1 limone acqua 1,5 litri di olio extra vergine d’oliva sale pepe nero macinato sul momento facoltativo: acqua o vino bianco
Predisporre un’ampia ciotola e riempirla con il succo di limone e abbondante acqua tiepida. Nell’acqua può essere lasciato anche ciò che resta del limone una volta schiacciato.
Capatura dei carciofi Munirsi di un coltello affilato e non seghettato. C’è chi individua nello spilucchino il coltello perfetto. Può essere con lama dritta o a “becco di gallo”.
Prendere un carciofo alla volta. Togliere le foglie esterne verdi e più dure. Fermarsi quando le foglie si schiariscono e si comincia a vedere la parte bianca. Non serve arrivare ad avere foglie così chiare come quelle della fotografia qui sopra. Ci si può fermare anche prima.
Tenendo il carciofo nella mano sinistra, cominciare ad incidere foglia per foglia sopra la parte chiara. Infatti, la parte morbida deve salvarsi. Fare questa operazione in senso anti-orario, ruotando il carciofo. Pian piano si giunge fino alla cima del carciofo, dove basterà eliminare la punta delle ultime foglie più interne. Se il carciofo è mammola, non avrà neppure la peluria interna. Alla fine il carciofo capato deve sembrare quasi una rosa, grazie a questa capatura a spirale.
Poi procedere a togliere la corteccia (la parte verde) del gambo. Il gambo può essere in parte tagliato, ma almeno 5 cm. vanno salvati.
Il carciofo è ricco di ferro e tende ad ossidarsi, quindi immergere il carciofo nell’acqua limonata. Per essere ancora più sicuri, prima di immergerlo, si può passare il limone sulla parte esterna del carciofo.
Cottura dei carciofi Fase 1 Togliere i carciofi dall’acqua acidulata. Scolarli ed asciugarli. Battere due carciofi alla volta l’uno contro l’altro. Poi battere delicatamente ciascun carciofo sul piano di lavoro. Queste operazioni sono necessarie per togliere l’acqua e per favorire, poi, l’apertura a fiore durante la cottura. Infatti, così si allargano le brattee (le foglie del carciofo).
Scaldare l’olio extra vergine d’oliva in un capiente tegame. L’olio deve raggiungere la temperatura di circa 130-150°C. In sostanza, l’olio deve essere caldo, ma non bollente. Porre i carciofi nell’olio caldo e farli cuocere tutti (gambo incluso) per 10-15 minuti. I carciofi possono essere messi in piedi nel tegame e ricoperti completamente d’olio o possono essere poggiati distesi e poi sarà cura del cuoco girarli durante la cottura. I gambi si cuoceranno più rapidamente.
I carciofi sono cotti quando sarà agevole infilzare la base con i rebbi di una forchetta. In questa fase i carciofi saranno già esternamente ben fritti e si saranno scuriti.
Fase 2 Togliere i carciofi dal fuoco e poggiarli sulla carta assorbente. Devono perdere l’olio di cottura e raffreddarsi. 15 minuti sono più che sufficienti.
Poi, aprire le foglie interne del carciofo delicatamente con una forchetta. Si deve aprirlo come fosse una rosa che sboccia. Ci sono capatrici esperte che questa fase di apertura la saltano addirittura, avendo fiducia del lavoro di pulitura fatto all’inizio. Di sicuro, il carciofo va condito all’interno con un po’ di sale e pepe.
Conditi tutti i carciofi, c’è chi li spruzza con un po’ di acqua fredda o vino bianco per creare una sorta di shock termico. Ma c’è anche chi salta questa fase, perché ritenuta o inutile o pericolosa.
Porre nuovamente i carciofi nell’olio caldo, che ora può raggiungere i 180°C. Di sicuro vanno cotti ad una temperatura superiore a quella della prima frittura. Cuocerli pochi minuti. Non devono bruciarsi.
Toglierli dall’olio e farli sgocciolare sulla carta assorbente.
Servirli caldi e mangiarli. Sì, interi. Dei carciofi alla giudia non si butta via nulla, neppure il gambo tagliato o le foglie che si perdono durante la frittura. Tutto, una volta fritto, si mangia.
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redazionecultura · 7 years
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sede: Tibaldi Arte Contemporanea (Roma); a cura di: Maurizio Chelucci.
Confini è una rassegna sulla fotografia contemporanea di ricerca. Un network nazionale di associazioni, gallerie e curatori nel settore della fotografia, ogni anno seleziona progetti di fotografia contemporanea attraverso un bando pubblico sul portale photographers. it, prediligendo il lavoro di artisti che utilizzano il linguaggio fotografico per indagare i confini tra la fotografia e le altre forme di espressione artistica.
Gli artisti scelti per questa edizione di Confini14, e che potranno essere ammirati per un periodo di 12 mesi in una delle tante tappe che copriranno per intero l’Italia, sono: Me Nè con “Luoghi mentali”, Franco Monari con “E poi verrà la nebbia”, Carmen Decembrino con “il velo di Maya”, Silvia Zanasi con “Ombre e menzogne” e Studio Pace10 con “album – ricordi in conserva”.
Carmen Decembrino: “il velo di Maya” C’è qualcosa di non visibile agli occhi, che l’errore porta alla luce. Il velo si dissolve grazie al glitch dato da un comportamento anomalo, che permette al fotografo di ottenere dei vantaggi non previsti. Ciò che è celato, ciò che è nascosto torna in superficie, rivelando un mondo sommerso. Lo schermo tra noi e la vera realtà, che ce la fa vedere distorta e non come essa è veramente, si dipana sino a svelarci una nuova
Silvia Zanasi: “Ombre e menzogne” Il progetto si incentra sul tema dell’identità evidenziando il confronto tra tante sagome umane apparentemente diverse tra loro. Il volto e ogni dettaglio scompaiono dietro alla superficie bianca che, come una maschera, annulla la personalità di ogni individuo e ogni possibilità di rivelazione estetica, mostrando così la diversità di ogni profilo. “L’identità costruita svanisce nel momento in cui si osserva dietro le quinte: il ritratto svela ogni genere di dubbio mostrando la costruzione del personaggio e la finzione della mia prima persona.” Ombre e Menzogne è il titolo del progetto, poichè, come nel mito della caverna di Platone l’uomo scambia per realtà quella che ne è soltanto una proiezione, in questo progetto chi apparentemente è diverso, è in realtà uguale.
Me-Nè: “Luoghi mentali” Costrizioni, trasformazioni, equilibrii. Il progetto artistico di Me-nè si sviluppa verso una vera e propria riduzione dell’essere umano a ciò che intimamente è, e si avvicina all’arte antica sarda in una sorta di primitivismo astratto. L’uomo viene raffigurato nella sua semplicità, nella sua sintesi, nella visualizzazione di quei tratti essenziali che lo definiscono. L’autore propone una semplificazione di ogni aspetto dell’essere umano, fino a disegnare e scolpire non più corpi, ma linee che interagiscono con lo spazio quadrato e cubico che le circonda, le contiene, le costringe e le inghiotte.
Studio Pace10: “album – ricordi in conserva” Non si tratta di tradizionali fotografie, ma di conserve di ricordi. Conservare significa mantenere un soggetto nell’essere suo, custodirlo, salvaguardarlo da tutto ciò che potrebbe alterarlo o distruggerlo. E’ possibile “conservare” un ricordo per sempre? Esistono “date di scadenza” anche per i nostri ricordi? Riflettendo sui due ambiti della fotografia e della conservazione alimentare, il progetto interroga l’archetipo che si nasconde dietro il gesto di conservare. Vengono tirate fuori dai cassetti e dagli archivi immagini nascoste, ormai dimenticate, dando loro nuova vita in una sorta di “archivio trasparente”, invitando allo stesso tempo a riflettere sull’importanza del ricordo fotografico nell’era digitale.”
Franco Monari: “e poi verrà la nebbia” “Questa serie di fotografie nasce da una mia esigenza di ritagliarmi dei momenti nei quali uscire ed in solitudine esplorare il paesaggio per qualche ora. Senza un itinerario programmato e neppure una meta precisa, ma con la sola esigenza di isolamento e di fotografare, torno sempre negli stessi luoghi più e più volte instaurando ormai con essi un legame particolare, un microcosmo personale. L’esplorazione ed il rapporto tra luogo e memoria diventano quindi elementi fondamentali nella formazione di un propria identità.”
Dopo la mostra a Roma, gli altri appuntamenti di Confini14 saranno: VisionQuest Genova febbraio 2017; Sala Fenice Trieste aprile 2017; L’Impronta Cosenza giugno 2017; Biblioteca Minnicelli Rossano luglio 2017; Festival Confluenze Nibbiano agosto 2017; PhotoGallery Firenze agosto 2017; CivicoCinque Venezia settembre 2017; Galleria Sikanie Catania ottobre 2017.
La rassegna Confini è ideata e organizzata da PhotoGallery di Firenze e MassenzioArte di Roma.
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Confini 14 – Fotografia Contemporanea sede: Tibaldi Arte Contemporanea (Roma); a cura di: Maurizio Chelucci. Confini è una rassegna sulla fotografia contemporanea di ricerca.
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pangeanews · 4 years
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Alma Mahler, la musa che ha tenuto sotto scacco il secolo (ma la figlia Anna è ancora più affascinante). Intorno a una nuova biografia
Si può leggere il secolo attraverso la storia di Alma Mahler Schindler. Pare lei l’ago che fila l’arte, la musica, il processo creativo del Novecento: ha stimolato l’estro di Gustav Klimt, gareggiava in esibizione retorica con Thomas Mann, fu la moglie di Mahler e la musa di moltissimi altri. Aveva una bellezza scaltra, sfrontata, virile. Ha fatto della propria vita – costellata di adoratori e di detrattori – leggenda. Nel mondo inglese, per Bloomsbury, Cate Haste ha firmato una poderosa biografia, Passionate Spirit. The Life of Alma Mahler (son quasi 500 pagine), tratta, giurano, da “diari e lettere finora inediti”.
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Del libro s’è parlato largamente: la recensione più ampia e utile – che sfiora il saggio – l’ha scritta Cathleen Schine, scrittrice (forse ricordate La lettera d’amore, Adelphi, 1999; Mondadori sta per pubblicare Io sono l’altra), sulla “New York Review of Books”. Il titolo dell’articolo è It Had to Be Her. “Ha adorato l’altare del genio, ha trovato il proprio genio non nel creare ma nell’incarnare l’arte. Fu un maestro frustrato, felice di essere la fonte d’ispirazione per alcune delle più importanti personalità della cultura del secolo. La vera creazione di Alma fu la sua leggenda, un evento operistico fatto di grandezza e squallore. Da un’opera d’arte non trai una storia precisa, fattiva: guardi, ascolti, ammiri. Ciò che Alma, in effetti, ha sempre desiderato”.
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Incipit del pezzo della Schine. “Come le storie delle donne più note e notevoli, anche quella di Alma Mahler riguarda sesso e potere. In effetti, amava e desiderava entrambi. Tracciando una trama di allusioni, aneddoti, dettagli segreti, ogni biografo, per quanto serio, ci precipita in una vita divertente e lasciva, fitta dei pettegolezzi che aureolano l’esistenza di ogni celebrità. Alma si è sposata e ha avuto relazioni con così tante figure decisive del primo modernismo che è diventata lei stessa una figura fondamentale della musica del XX secolo (attraverso il suo legame con Gustav Mahler), dell’arte (Oskar Kokoschka), dell’architettura (Walter Gropius), della letteratura (Franz Werfel). Nata a Vienna nel 1879, sulla soglia dell’ultimo vagito dell’Impero Austroungarico, morì a New York negli anni Sessanta. Era ambiziosa, desiderava diventare una grande musicista; divenne la musa ispiratrice di grandi uomini. Alcuni la vedono come l’ennesima vittima femminile dell’oppressione culturale. Altri, poiché era narcisista, orgogliosa, antisemita e mentitrice, non la sopportano. D’altronde, anche in vita è stata adorata e insultata”.
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Amante, amazzone, vampira. Alma Mahler è stata la moglie di Mahler, di Walter Gropius, di Franz Werfel. Una infinità di relazioni le sono attribuite. Un dettaglio, tuttavia, la svela. Ha visto la morte di tre dei suoi quattro figli. María Mahler morì di difterite, a cinque anni; Manon Gropius morì a 18 anni, per poliomelite (a lei Alban Berg dedica il Violin Concerto); Martin Gropius morì a dieci mesi. Le resiste Anna, la seconda figlia, avuta da Mahler. Anna fu scultrice di talento. Superò la madre nell’arte e nell’album coniugale. Moglie del musicista Rupert Koller a 16 anni, visse in Italia – allieva di Giorgio De Chirico, morirà a Roma, nel 1988 –, si sposò cinque volte. Il matrimonio più rapido fu con il musicista Ernst Krenek: durò una manciata di mesi. Il più duraturo, l’ultimo, andò per 18 anni, con il regista tedesco Albrecht Joseph.
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Elias Canetti odiava deliziosamente Alma. Adorava la figlia, Anna, a cui dedica il romanzo autobiografico, meraviglioso, Il gioco degli occhi (in Italia, stampa Adelphi). “La vidi prima che lei mi vedesse. Più esattamente, vidi le sue dita, occupate a modellare nell’argilla una figura di grandezza superiore al naturale. Il viso restava nascosto… Avevo appena messo piede nella serra che serviva da atelier quando Anna si voltò con uno scatto improvviso e mi guardò in faccia. Ormai ero a pochi passi da lei e mi sentii scosso dal suo sguardo. Da quel momento i suoi occhi non mi lasciarono più… Anna era fatta solo di occhi, tutto il resto che si vedeva di lei era illusione. Era una sensazione folgorante, ma nessuno avrebbe avuto la forza e l’acume per confessarla a se stesso. È impossibile ammettere qualcosa di così mostruoso: occhi più vasti della persona cui appartengono. Nella loro profondità trova posto tutto quello che puoi aver pensato, e adesso che c’è spazio per accoglierlo dovresti trovare le parole per esprimerlo. Vi sono occhi che fanno paura perché mirano solo a sbranare. Servono a rintracciare la preda che, una volta scoperta, è condannata a essere preda: anche se riesce a sottrarsi resta bollata come tale. È tremenda la fissità di uno sguardo inesorabile. Non cambia mai, è prefigurata per sempre, non c’è vittima che possa modificarla. Chi entra nel suo campo visivo è già vittima, non può opporre alcuna difesa, potrebbe salvarsi solo attraverso una metamorfosi totale… La profondità di questi occhi non ha limiti. Ciò che vi precipita non tocca mai il fondo, e nulla ritorna più a galla. Il mare di quest’occhio non ha memoria, è un mare che esige e riceve”.
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Da Alma ad Anna c’è come una consanguineità nel carisma, qualcosa che viene raffinato fino all’omicida. (d.b.)
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pangeanews · 5 years
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“Io non accetto il sistema della musica italiana, gli intrallazzi discografici”. Su Lucio Battisti, il cantautore anarchico che piaceva a David Bowie ed era odiato da tutti, il più grande
“Io non accetto il ‘sistema’ che regola la musica italiana, non ne accetto le pastette, gli intrallazzi discografici, la pubblicità, gli scandali e scandaletti studiati a tavolino. Mi sono bastate quelle poche manifestazioni a cui presi parte anni fa, per capire in che razza di fossa dei serpenti rischiavo di finire. Quindi, ho chiuso”.
Chi l’ha conosciuto, frequentato, per lavoro, o in privato, e ancora oggi dice, petulante, che non si sa perché a un certo punto Lucio Battisti abbia smesso di apparire, di esserci, se non attraverso la sua musica, sappi che costui o è un tonto, o un insensibile, o un irrecuperabile ottuso. Infatti: se c’era un uomo che parlava senza fronzoli, giri di parole, ambiguità, era Lucio Battisti. Fin troppe, ne ha dette, specie contro i giornalisti della carta stampata, i quali, armati di penna e taccuino, a parere di Lucio scrivevano quel che cavolo pareva a loro e che, per vendere copie, cercavano lo scandalo ovunque, o inventandoselo. Battisti ammetteva di essere caduto nella loro trappola più volte, e però la sua chiusura totale con il mondo dei media avviene nel 1979, prima è parziale, Battisti si fida ancora delle dirette radio, ma parla pure ai giornali, poche e selezionate interviste in cui si svela per quello che è, un uomo il più possibile estraneo ai canoni di pensiero dominanti, dalla personalità prorompente, ma anche pensoso, divoratore di libri di scienza e di fumetti, fumettista egli stesso, non attento alle mode ma di esse anticipatore e nello stile musicale e di comportamento e di vestiario, e soprattutto, ma soprattutto: un antistar che vuole vivere per i fatti suoi.
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Se cerchi un esempio di persona anarchica nel senso più positivo che esista, è in Lucio Battisti che lo puoi trovare: a volte penso non sia ben chiaro che Lucio Battisti è stato il più grande perché da solo si è (e ci ha) innalzato dalla canzone italiana fatta di piagnisteo e melodramma, scrollandosi dai Villa, dai Modugno, e dalle loro lagne. È grazie a Battisti che abbiamo un modello di canzone autoctono e moderno che non è lo scimmiottamento di quello anglosassone, o la pallida, burina imitazione del rock. Se sto sbagliando, dimmi per quale ragione artisti dal calibro di Paul McCartney, David Bowie, Pete Townshend, riconoscono in Battisti se non la perfezione, qualcosa che gli va molto vicino.
E poi: se un altro vero motivo c’è per cui Lucio Battisti si negava ai media, è perché i media lo hanno sempre maltrattato. Tutti, nessuno escluso, a cominciare dalla tv, che non lo voleva, avendo ipocritamente da ridire sul ‘messaggio’ delle sue canzoni non magnificanti l’amore coniugale ma il sesso esplicito, istintivo, e questo alla DC rodeva come rodeva il plateale assenso di Battisti al divorzio e il fatto che lui convivesse con la donna madre di suo figlio senza sposarsi. Se ai vertici in tanti storcevano il naso su come Battisti si vestiva, (non) si pettinava, la verità è che non potevano sopportare l’irrimediabile diniego di Battisti a leccare il c*lo al potere. E infatti: lui faceva uscire i suoi dischi senza battage pubblicitario, e quei dischi stavano anche 40 settimane in classifica, ai primi posti, seguiti dai brani di Battisti cantati da altri. Di fronte all’evidenza e all’enormità del fenomeno, la stampa non poteva non parlarne. Però leggi come ne parlava: Lucio Battisti “è un antipatico, tirchio, superbo, presuntuoso, più o meno odioso a seconda dell’ora in cui lo incontri”. E ancora: “un tipo aggressivo, e complessato, una voce monotona, fastidiosa; è privo di originalità, sgraziato, ovvio, e mediocre”. Su Intrepido, Gianni Boncompagni gli fa poco gentilmente i conti in tasca: 200 milioni di lire a canzone (!) e, per i concerti, pretende cifre esose.
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Tutti questi articoli, con relativi giudizi, li trovi sui giornali i più venduti del periodo, a cui, per invidia, e quasi sicuramente per diktat politico, rodeva il successo del non personaggio Battisti. Il quale se ne andava per mesi negli Stati Uniti, in Sudamerica, a Londra, a studiare musica, a sentire, vivere la musica, per poi infonderla plasmata nei suoi dischi, perché, come diceva, “guai a fossilizzarsi, bisogna uscire dai soliti e limitati schemi”. È per questi viaggi, e relativa apertura mentale, che sono nati Anima Latina, e La batteria, il contrabbasso, eccetera…, album di sesso sporco, sinistro, sfacciatamente puberale, canzoni che infrangono tabù ancestrali provocando emozionali macerie, ma anche album di dotte sperimentazioni musicali. Le femministe si inca*zarono a morte con Battisti per il brano Un uomo che ti ama, bollandolo quale maschilista e paternalistico, quando è invece ora di dirlo, che qui era punto sul vivo il loro obiettivo impossibile!
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E ancora, un’accusa a Battisti che sopravvive tutt’oggi: il Battisti fascista. Questo insulto è stato inventato per denigrarlo (forse per vendicarsi di un no rifilato a Battisti a un capetto PCI che lo voleva sul palco della festa dell’Unità) istigando falso credito fascista al verso ‘boschi di braccia tese’ presente nel brano La collina dei ciliegi. Ecco, un’accusa così cretina, così infamante, per uno che nella vita non si è mai venduto, e ha lottato come un matto per mantenersi libero, ma vogliamo parlare di quando lo prendevano in giro per il suo legame con Mogol, insozzandolo di sottintesi gay? Di quando dicevano – sui giornali – che stavano troppo insieme, e chissà a far che, e su un Tv Sorrisi e Canzoni del 1971, trovo che “quei due, si plagiano, li diresti fidanzatini di primo pelo”, e il loro famoso viaggio a cavallo, da Milano a Roma, “è il loro viaggio di nozze”. Se questo lo sommi ai tentativi di rapimento del figlio, ai critici che lo tacciavano di qualunquismo (ma Il mio canto libero e Il nostro caro angelo son album zeppi di temi politici seri, difficili, mica chiacchiere: l’ambiente, la presa di coscienza identitaria, la violenza, in ogni sua forma, anche mentale data la pressione della pubblicità che induce al consumo senza criterio. Vi è più politica qui, o a menarsi in corteo per Guevara, Mao, le destre le più abiette?). Se infine ci aggiungi le ignobili accuse di essere un finanziatore di Ordine Nuovo, non credi che Lucio Battisti ne abbia avuto più che abbastanza per mandare tutti al diavolo?
Barbara Costa
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pangeanews · 5 years
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“Gli esorcisti vogliono eliminare Harry Potter dalle scuole? Sciocchezze. Per capire il maghetto bisogna leggere il Vangelo di Giovanni”. Intervista a Marina Lenti, la biografa della Rowling
La notizia ha sentore di rogo. Il “Guardian” titola così: “Harry Potter book removed from Catholic school ‘on exorcists’ advice’”. Pare che alcuni esorcisti, titillati da eccessiva prudenza, abbiano scovato il demonio tra i libri del ‘maghetto’, ragion per cui i tomi del ciclo ideato da J.K. Rowling sono interdetti agli studenti di una scuola cattolica. La scuola è la St. Edward Catholic School di Nashville, Tennessee, la città della musica, la sede della Gibson, quella del film di Robert Altman. La notizia è stata divulgata in origine dal “Nashville Tennessean”, che ha registrato lo zelo del Rev. Dan Reehil, il quale, leggendo Harry Potter – l’ha letto davvero? – si è accorto che “maledizioni e incantesimi adottati nel libro sono maledizioni e incantesimi reali… rischiano di evocare gli spiriti maligni in chi legge”. Il ciclo fantasy è giudicato “un inganno riuscito”. Stando a quanto riporta la giornalista del quotidiano di Nashville, “Reehil ha consultato diversi esorcisti, negli Stati Uniti e a Roma, che gli hanno consigliato di rimuovere i libri”. A Roma, insomma, qualcuno ha paura di Harry Potter. Ogni commento è tautologico: a questo punto anche il Faust di Goethe, il Macbeth di Shakespeare, le Baccanti di Euripide, Il Signore degli Anelli, i libri di Lovecraft, di Philip K. Dick, di Ursula Le Guin, e sostanzialmente l’intera letteratura fantasy, rischiano il rogo del fanatismo. Una religione che ha paura, in effetti, fa paura. La notizia, va da sé, ha fatto il giro del globo, inondando anche le pagine della stampa nostra. Per dare profondità alla polemica, abbiamo interpellato Marina Lenti, esperta di letteratura fantasy, ma soprattutto del ciclo di “Harry Potter”, a cui ha dedicato svariati saggi. Tra l’altro, è l’autrice della prima, ragionata biografia di J.K. Rowling in Italia, “L’incantatrice di 450 milioni di lettori”, pubblicata da Ares. Un editore cattolico.
Harry Potter censurato dai tradizionalisti cattolici. Come mai? Davvero le storie del ‘maghetto’ implicano una solidarietà con il demonio?
Certo che no, sono sciocchezze che possono sostenere solo coloro che non hanno letto i libri e/o che prestano fede al ‘sentito dire’. Purtroppo a questi ultimi appartengono anche alcuni vertici della Chiesa. Ad esempio, nel 2003, l’allora cardinale Joseph Ratzinger, sollecitato a esprimersi in merito dalla saggista Gabriele Kuby, autrice di un volume intitolato Harry Potter – Gut oder Bose (“Harry Potter — Buono o Cattivo”) le rispose: “È una buona cosa che lei abbia spiegato i fatti di ‘Harry Potter’, perché si tratta di una seduzione sottile, che ha profondi effetti, diretti e non evidenti, nel minare l’anima della cristianità prima che essa possa crescere adeguatamente”. Ora, Ratzinger sarà anche un pozzo di cultura, nessuno ne dubita, ma in questo caso ha preso uno svarione clamoroso basandosi probabilmente su come la Kuby aveva prospettato la questione nel suo saggio, ma senza conoscere direttamente i romanzi. Fortunatamente, suggerì alla Kuby di scrivere anche a monsignor Peter Fleetwood, del Pontificio Consiglio per la Cultura, il quale le spiegò i punti dove, a suo avviso, ella aveva frainteso i romanzi o dove vi aveva letto troppi significati. Fleetwood peraltro si era già espresso in passato in favore della Rowling, dichiarando che “Il modo più appropriato per giudicare ‘Harry Potter’ non e su base teologica, ma secondo i criteri della letteratura d’infanzia”. In seguito, il Vaticano si è di nuovo occupato del maghetto nel 2008, attraverso l’Osservatore Romano, consultando due saggisti, entrambi esperti di letteratura britannica, ma di opposto avviso: Paolo Gulisano, già noto al pubblico fantasy principalmente per le sue pubblicazioni sugli scritti di J.R.R. Tolkien ed estimatore della Rowling, ed Edoardo Rialti, professore universitario che ha mosso le solite, trite critiche incentrate sul fatto che propugnare l’idea di un apprendistato stregonesco, anche solo in un ambito fantastico e a prescindere dal fine benevolo, è in ogni caso contro la Bibbia poiché questa condanna la stregoneria. Per fortuna poi Rialti è tornato in seguito parzialmente sulle proprie posizioni, mostrando un’apprezzabile onestà intellettuale. Del resto, se fossero fondate le accuse di collusione con il ‘Lato Oscuro’, per usare un termine da un’altra famosa saga del Fantastico, come avrebbero potuto essere scritti ben due saggi dal titolo Il Vangelo secondo Harry Potter, il primo dall’americana Connie Neal, esperta in materia di relazione fra Cristianesimo e cultura popolare, e il secondo dall’italiano Peter Ciaccio, pastore metodista laureato alla Facoltà Valdese di Teologia? A queste critiche ridicole la Rowling ha sempre risposto senza peli sulla lingua affermando “Non credo assolutamente nell’occulto, non lo pratico… Ho incontrato letteralmente migliaia di bambini ormai. Nessuno di loro mi ha detto ‘Mi hai davvero introdotto all’occulto’, non uno di loro”. È il caso di sottolineare poi che non è solo l’osservazione sul campo a dare ragione alla scrittrice, ma anche la teoria: gli studi degli esperti (ad esempio le psicologhe Rebekah Richert ed Erin Smith) hanno dimostrato che persino bambini dell’età di 4 anni sono in grado di distinguere personaggi reali da quelli di fantasia e di comprendere come fingere che qualcosa esista non rende comunque reale quel qualcosa. Gli adulti sottovalutano sempre i più piccoli!
L’unica ‘vera’ magia che la Rowling ha utilizzato è quella messa in luce da studi antropologici come ad esempio Il Ramo d’Oro. È innegabile che abbia usato alcune credenze primitive, come quella che considera il sangue un simbolo dell’anima o che sia possibile nascondere quest’ultima in un oggetto per scampare alla morte, ma questo va solo a suo credito: dare una veste coerente alla magia del proprio mondo letterario utilizzando concetti antropologici, piuttosto che limitarla a due casuali scintille e a uno svolazzare di bacchette da cartone animato, dimostra uno scrittore che ha fatto molto bene i compiti casa. Anche altri ottimi autori lo hanno fatto: ad esempio Ursula Le Guin (non a caso figlia di un antropologo) ha usto per la saga di Terramare il concetto di magia del nome, secondo cui per i primitivi conoscere il vero nome di una persona significa ottenerne il controllo.  E nessuno le ha mai rotto le scatole per questo! Ma usare questi punti di riferimento è ben diverso dal sostenere di crederci e di voler fare proseliti. Sarebbe come sostenere che un giallista che si informi minuziosamente sui rituali di un serial killer e li utilizzi in un romanzo sia egli stesso un serial killer o desideri diffonderne i rituali psicotici.
In profondità: qual è (se c’è) il sottofondo ‘religioso’ della saga?
Il sottofondo c’è ma si svela solo nel settimo volume, dove tutte le trame e sottotrame si riannodano (anche se non sempre in modo convincente). Anzitutto c’è un parallelismo evangelico, espressamente dichiarato dalla stessa Rowling, nel senso che anche Harry si sacrifica per il bene della comunità (poiché morire è l’unico modo per distruggere l’ultimo pezzo di anima di Voldemort che alberga in lui e che gli garantisce l’immortalità), mettendo quindi in pratica il più grande amore concepibile secondo il Nuovo Testamento (“nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”, Gv 15,13). Dall’altro lato abbiamo invece un mago oscuro che, oltre ad aver ucciso innumerevoli vite, ha avuto l’arroganza estrema di voler dominare la Morte con metodi che sovvertono le leggi di Dio e degli uomini. Così, si compie ciò che è affermato nel Vangelo (Gv 12,25): “Chi ama la sua vita la distrugge, ma chi odia la sua vita in questo mondo, la salvaguarderà per la vita eterna”. Pertanto Harry, che non ha subìto il richiamo ammaliante dei Doni della Morte (come invece ha fatto in gioventù Silente, l’altro grande mago della saga) e che ha offerto altruisticamente la propria vita per il bene altrui, diventa suo malgrado il Signore della Morte, mentre Silente ha perso gli affetti più cari e Voldemort – che ha cercato con ogni mezzo di violare le leggi naturali a spese altrui, cercando di rubare la Pietra Filosofale per distillare l’Elisir di Lunga Vita senza aver compiuto la purificazione alchemica dell’anima e creando gli horcrux – subisce una dipartita repentina e ingloriosa.
A che professione di fede appartiene la Rowling? Mi pare abbia accennato, anni fa, alla sua fede cristiana…
Sì, la Rowling si professa credente, anche se ha dichiarato di vivere i confitti che questo può comportare. Del resto non è facile conciliare gli insegnamenti cristiani con ciò che accade nel mondo.
Perché a suo avviso continua a esserci un dissidio tra il genere fantasy e una certa cristianità?
Per ignoranza su cosa sia il fantasy. Come dice sempre provocatoriamente la nostra migliore scrittrice di questo genere, Silvana De Mari, per la maggior parte delle persone “il fantasy è una cosa per bambini o per adulti semi-deficienti”. E fa l’esempio della gag di Aldo, Giovanni e Giacomo dove Aldo e Giacomo sono padre e figlio, barbari in un’antichità imprecisata, che si recano sul monte a incontrare la divinità (impersonata da Giovanni): questi si presenta loro come “Pdorr, figlio di Kmerr della tribù di Istarr… Colui che è sceso nelle sacre acque del lago Ffnirr, tra le ninfe Pfgnugherals…”. Ecco, nell’immaginario di chi non conosce il genere, il fantasy è questo, una parodia della cosmogonia di Esiodo o di altri antichi poemi mitologici. L’idea poi che un adulto non possa leggere libri considerati per ragazzi, a meno di essere un po’ ritardato (o, nella migliore delle ipotesi, afflitto dalla sindrome di Peter Pan), è un altro pernicioso fraintendimento nei confronti della letteratura rivolta a questo pubblico. Come ha affermato lo scrittore Philip Pullman “Ci sono degli argomenti, troppo grandi per la narrativa adulta. Possono essere trattati adeguatamente solo nei libri per l’infanzia. Il motivo è che nella narrativa per adulti le storie sono in sofferenza. Altre cose sono avvertite come più importanti: tecnica, stile, conoscenza letteraria”. E come dichiarava C. S. Lewis, “A 10 anni non vale la pena di leggere nessun libro per cui non valga egualmente la pena di leggerlo a 50 e oltre”. Quest’ultima frase fotografa perfettamente lo spartiacque fra libro per ragazzi che diventerà un classico e quello che non lo diventerà. La verità è che sotto le metafore scintillanti di incantesimi e creature fantastiche è possibile sviscerare il dualismo dei grandi temi della vita che ciascuno di noi prima o poi affronta in quel viaggio di formazione che è la vita: l’amore e l’odio, il coraggio e la codardia, la pietà e la crudeltà, il guadagno e la perdita, spesso definitiva col sopraggiungere della morte. E naturalmente la lotta del Bene contro il Male. Esattamente tutto ciò che J.K. Rowling ha messo nella saga di Harry Potter. Spesso poi si aggiunge l’idea che il fantasy, poiché ricorre spesso al soprannaturale (una declinazione di quel ‘senso del meraviglioso’ che caratterizza un buon libro di questo tipo), sia veicolo per concetti ‘new age’. Una definizione che però non vuol dire alcunché, perché è usata indistintamente per racchiudere sia concetti metafisici e trascendenti serissimi, che trucchi da ciarlatani con la pretesa di prevedere i numeri del lotto. Il paradosso è che i cattolici che danno contro alla Rowling sono poi gli stessi che portano in palmo di mano J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis, paradossalmente punte di diamante del genere fantastico. Una contraddizione evidentissima che non può avere altra ragione che un preconcetto: mentre è arcinoto che Tolkien e Lewis fossero credenti e quindi si dà per scontato che i loro scritti siano approvabili, non è altrettanto noto per la Rowling. Bisognerebbe invece vedere sempre i reali contenuti, leggendoli veramente e non, come troppo spesso è accaduto per Harry Potter, fidandosi di ciò che hanno affermato altri. L’esempio più eclatante è quello di Laura Mallory, una casalinga della provincia di Atlanta, madre di quattro figli, che conduce da anni un’instancabile attività antipotteriana dopo aver visto un documentario dal titolo Harry Potter: witchcraft repackaged. Making Evil look innocent’ (“Harry Potter: stregoneria riconfezionata. Far apparire innocente il Male”) e che non ha alcuna reticenza a confessare di non aver mai neanche letto i romanzi. Disonestà intellettuale e chiusura mentale allo stato puro che scioccamente priva i suoi di una delle serie più godibili e intelligenti mai scritte.
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pangeanews · 5 years
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John Keats rubava i cadaveri dalle tombe (dice la BBC). Macché: non arretrava davanti alla morte!
Nel 1819 Giacomo Leopardi scrive L’infinto e John Keats l’Ode su un’urna greca. Pochi sono i grandi poeti, rarissime sono le poesie memorabili: queste lo sono. Entrambe, con radiosa semplicità, con una fatata leggerezza, dicono una poetica. C’è una sintonia tra “il pensier mio” del poeta che “tra questa immensità s’annega” e la cruna dell’ode di Keats, “bellezza è verità, verità bellezza”.
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Ognuno ha il suo poeta: John Keats è l’icona della poesia inglese, così precoce, pasto così rapace alla morte. Come Rimbaud lo è per quella francese, Leopardi per noi, Hölderlin per i tedeschi. In ogni caso, una cesura, le cesoie dell’incomprensione, il rebus di una scelta radicale, il radioso della follia ‘autenticano’ l’opera di tali poeti.
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La ‘fortuna’ di Keats in Italia è testimoniata, primariamente, dal ‘Meridiano’ Mondadori che ne raduna le Opere – comprese le lettere; son quasi 1700 pagine – per la cura di Nadia Fusini e la traduzione di Roberto Deidier, Fusini e Viola Papetti. Uscito, con sonorità, quest’anno, perché il 1819 è l’anno ‘mirabile’ di Keats, in cui scrive le poesie maggiori. Una specie di deliziosa ‘appendice’ a questo lavoro è il pamphlet di Edoardo Zuccato che commenta dieci versioni di All’autunno di Keats (Mucchi editore, 2019). “John Keats è uno dei poeti inglesi più amati dagli italiani”, esordisce Zuccato: eppure, pur sepolto nel cimitero acattolico di Roma, dove muore, “l’acquisizione delle sue opere da parte della nostra cultura è una vicenda interamente novecentesca”. Zuccato, appunto, usa To Autumn, “capolavoro di equilibrio e concisione”, per raccontare, attraverso il genio del poeta inglese, le peripezie della nostra lingua – il confronto con l’altro linguaggio affila il proprio. Dalla traduzione di Ettore Allodoli del 1910 a quella di Deidier incapsulata nel ‘Meridiano’, passando per l’archeologia di Mario Praz, la ferma delicatezza di Franco Buffoni e la proposta, in lombardo, di Zuccato medesimo, capiamo che i colori verbali di una poesia sono pressoché infiniti.
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“John Keats è un poeta da tasca, dove si mettono le cose che contano, le mani, i soldi, il fazzoletto; gli scaffali si lasciano a Coleridge e a T.S. Eliot, poeti-fari. Una tasca è la casa essenziale che l’uomo porta sempre con sé; occorre scegliere ciò che è imprescindibile, e solo un poeta vi può entrare”, scrive Julio Cortázar nelle sue peregrinazioni nel poeta inglese, A passeggio con John Keats (Fazi, 2014). Capisco cosa intenda. Ci sono poeti che mutano il tuo sguardo sul mondo, altri che ti mostrano lo scintillio del giorno. A volte, l’unica rivoluzione che desideri è sapere che nostalgia ha condotto le nuvole a quella forma.
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“Era una creatura solare, di quelle che non hanno bisogno di una morale per regolare la loro condotta. La sua corrispondenza, che non ha analoghi in tutta la storia della poesia, lo mostra addirittura inquieto (di un’inquietudine artificiale che gli passava subito) per questa naturalezza del suo essere. Sembrava destinato al perfetto ozio creativo, che è compito apollineo, zenitale” (Julio Cortázar)
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Kelly Grovier, poeta, storico, firma del TLS, studioso dei lirici ‘romantici’, ha pubblicato per BBC Culture un articolo che suona un poco sensazionalista. Was the poet John Keats a graverobber? L’autunnale poeta riprodotto al cinema, dieci anni fa, in Bright Star (griffa Jane Campion; non è il suo film maggiore), faceva il tombarolo, razziava cadaveri freschi dai cimiteri per offrirli al bisturi dei chirurghi universitari? Il testo, che ho fatto tradurre, mostra, piuttosto, l’altro lato del poeta, capace allievo di un farmacista, studente di medicina al Guy’s Hospital, per altro abile e ben avviato alla carriera (che rifiuterà, per dare aria alla poesia). Leggo dalla densa Cronologia del ‘Meridiano’ Mondadori: “Ma oltre alla teoria c’era la pratica: Keats doveva accompagnare il primario nella routine delle visite, seguire le esercitazioni di anatomia nel laboratorio – una specie di anfiteatro dove soprattutto d’estate il tanfo era tremendo, toglieva il respiro. In quella stessa sala in cui il venerdì si tenevano le lezioni di chirurgia, durante la settimana si accumulavano i cadaveri che i «resurrection men» – ovvero, gli impiegati della riesumazione – trasportavano dal cimitero. La sala era piccola e la ressa per prendere posto nella cavea non differente da quella per accaparrarsi un posto a teatro; e una volta entrati, la folla premeva, si rischiava di finire schiacciati. Addirittura capitava a volte che il chirurgo non potesse operare perché non riusciva a muoversi, tanta era la gente. E non era solo il sangue a fare impressione: in età pre-anestesia si può facilmente immaginare quali fossero le urla dei pazienti, specie se bambini… tra chi seguiva le lezioni c’era chi sveniva, chi scappava via inorridito. Keats no, aveva i nervi saldi, e difatti il 3 marzo 1816 è promosso assistente”.
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Piuttosto, accucciarsi qui, tra alberate ali d’usignolo (più che all’ombra del passero o dell’ilare upupa, facendo birdwatching tra i boschi della lirica):
Fa male il cuore, e il sonno offusca i sensi come avessi bevuto la cicuta, o vuotato da poco fino al fondo un narcotico, e fossi sceso al Lete: non invidio la tua sorte felice, felice della tua felicità, perché tu, come una driade leggera, per macchie melodiose di faggi verdi, nell’ombra infinita vai cantando l’estate a piena gola.
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Il poeta non arretra davanti alla morte. Gli anglofoni hanno la tendenza a rimestare nel gossip, a trovare nell’opera tracce di vita e viceversa: soffrono d’agorafobia agiografica. A noi non importa la verità sostanziale, ma quella laterale: Keats non arretra davanti alla morte. Al posto di usare il bisturi sui corpi, lo usa per dissezionare il corpo della poesia. Anche l’urna greca – che avvicino agli ori di Bisanzio di Yeats, poeta disincarnato che parlava con i morti – è cornucopia carnale. Sa cos’è il corpo e la sua maceria, il poeta, per cantare, prodigo di prodigi. (d.b.)
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John Keats profanatore di tombe?
È vero che il poeta romantico John Keats rubasse cadaveri dalle tombe? Uno sguardo più attento ad alcune delle opere più illustri dello scrittore del XIX secolo, incluse le famose odi scritte 200 anni fa nella primavera ed estate del 1819, svela una preoccupazione particolare per i cimiteri e la fusione del sé con i resti cremati. Un’ossessione pratica che va oltre una consapevolezza angosciante della propria mortalità. È quasi come se il poeta si confessasse consapevolmente a qualcosa di oscuro, pericoloso e profondamente inquietante.
Non è un segreto che Keats fosse intensamente affascinato dalla morte e che per lui la morte fosse uno stato d’anima a cui il suo spirito tendeva. Nella sua poesia la morte è invocata come un oggetto di infatuazione. Nella Ode all’usignolo ammette memorabilmente di essere stato “a lungo mezzo innamorato della facile morte”, a cui egli dolcemente sussurra “nomi soavi nei versi meditati”. “Ora più che mai” conclude Keats “mi sembra bello morire, / spegnersi a mezzanotte senza dolore”.
I rifermenti alla materialità della sepoltura umana ricorrenti nella sua poesia – tombe, appezzamenti di terra e vasi funerari compaiono spesso nei suoi scritti – sono inoltre generalmente apprezzati come acute preveggenze della scomparsa prematura del poeta all’età di 25 anni. Com’è comprensibile, ai lettori risulterà difficile separare il ritmato liricismo di poesie come Ode su un’urna greca, che descrive scene immaginarie che ritraggono lo spazio scultoreo destinato alla cenere dei morti, dalla conoscenza del fatto che l’autore fosse presumibilmente malato di tubercolosi quando la scrisse a soli 23 anni e che sarebbe morto in seguito a dolorose complicazioni della malattia due anni dopo, nel febbraio 1821.
E se l’ossessione di Keats per la macabra fisicità della morte e per i luoghi della decomposizione corporea non fosse anticipatoria del suo imminente trapasso, ma frutto di una esperienza diretta per aver scavato nel terreno dei cimiteri? E se Keats si fosse sporcato le mani nell’illecito affare notturno di procurare corpi “freschi” per le scuole di medicina, come il Guy’s Hospital a Londra, dove si era iscritto come studente nell’ottobre 1815? Come cambierebbe la percezione che abbiamo di lui, della sua vita e della sua straordinaria eredità letteraria?
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Abilità chirurgica
John Keats è nato a Moorgate, Londra, il giorno di Holloween nel 1795 il più grande di tre maschi e una femmina. Conclusi gli studi in una scuola progressista a Londra, dove il futuro poeta mostrò presto interesse per il verso rinascimentale, nel 1810 Keats fu mandato come apprendista da Thomas Hammond, chirurgo e speziale, precursore dell’attuale farmacista. Nello stesso anno la madre di Keats morì di “consumazione”, come veniva allora chiamata la tubercolosi. La TBC, “malattia di famiglia”, avrebbe poi preso le vite di entrambi i fratelli di Keats, Tom e George, rispettivamente nel 1818 e 1841. Dopo cinque anni di formazione con Hammond, Keats si iscrisse al Guy’s Hospital come studente di medicina, dove fu velocemente promosso nella posizione di “mendicatore” (simile all’assistente medico nel Servizio Nazionale di Salute del Regno Unito), un ruolo che gli avrebbe avuto una posizione privilegiata nelle sale operatorie, in cui faceva pratica a fianco di chirurghi esperti.
A detta di tutti, un’illustre carriera medica sarebbe stata a sua disposizione. In questo periodo Keats è entrato in contatto con una cerchia di persone poco rispettate che si nascondevano nelle tenebre della professione medica, letteralmente e metaforicamente: i ladri di tombe. Avendo costantemente bisogno di cadaveri freschi allo scopo di fare pratica e sperimentare, gli insegnanti che gestivano le scuole di medicina come quella del Guy’s Hospital si sono trovati a dipendere dal raccapricciante lavoro manuale degli ‘uomini della risurrezione’, com’erano vividamente chiamati, che estraevano violentemente i corpi dalle tombe poche ore dopo la sepoltura e li vendevano ai chirurghi con il favore del buio.
Il coinvolgimento degli studenti di medicina nell’assistere ladri di cadaveri più esperti è un fenomeno che risale alle primissime testimonianze di profanazioni di tombe, come dimostra la persecuzione nella Bologna del 1319 di quattro giovani dottori, sorpresi nell’atto di riesumare e dissezionare un criminale giustiziato. Il rinomato chirurgo e medico-scrittore John Flint South, contemporaneo del poeta durante gli anni di apprendistato, avrebbe più avanti scritto nelle proprie memorie che se gli uomini della resurrezione “si trovavano nei guai” con la legge, ovvero colti sul fatto con un cadavere, “i professori avrebbero fatto tutto quello che potevano per far scagionare gli uomini dalle indagini della polizia” e, se necessario, “farli rilasciare su cauzione”.
Nel periodo di tempo in cui Keats stava studiando ci fu una richiesta maggiore di cadaveri per le aule di studio del Guy’s Hospital e della vicina St. Thomas’s Hospital School, dove Keats assisteva a interventi nella maggior parte dei suoi pomeriggi. Nel 1816, anno in cui Keats fu promosso nel ruolo di “mendicatore”, un gruppo minaccioso conosciuto col nome di “The Borough Gang” (la banda del distretto), una delle associazioni di ladri di cadaveri più malfamata e fondata da Ben Crouch, ex portinaio del Guy Hospital, decise di bloccare il trasporto dei cadaveri al St. Thomas’s finché i professori non accettarono di pagare due ghinee in più per cadavere.
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Rimedio erboristico?
Suggerire che i chirurghi e gli studenti di istituti vicini, Keats incluso, abbiano deciso di procurarsi i corpi da sé è nel migliore dei casi speculazione. Tuttavia, è incontestabile la svolta raccapricciante e coraggiosa che accade nell’immaginazione di Keats quando, l’anno successivo, descrive una tomba nel poema Isabella, o il vaso di Basilico adattamento di un racconto dal Decamerone di Boccaccio.
Isabella racconta la storia di una giovane donna che, contro il desiderio della famiglia, si innamora di Lorenzo, uno dei ragazzi al servizio del fratello. Arrabbiato per la sua decisione, il fratello di Isabella uccide e seppellisce Lorenzo, il cui corpo viene scoperto e riesumato dalla donna. Sconvolta dal dolore Isabella pianta la testa di Lorenzo in un vaso di basilico, per il quale sviluppa un’ossessione. Nel descrivere la ricerca di Isabella del pezzo di terra dove il corpo di Lorenzo era stato gettato Keats si sofferma in modo piuttosto disinteressato sul luogo, preferendo immergersi con la fantasia nel suolo profanato e inquietante:
“Chi non ha gironzolato in un cimitero verde, E lasciato che il suo spirito si addentrasse come un demone-talpa Nella terra argillosa e nella ghiaia dura, per vedere un cranio, delle ossa sepolte, e la stola funeraria…?”
Ponendo la bizzarra domanda ‘chi non ha’, la voce narrante del poema cerca di rendere normale un impulso e un’azione che sicuramente non lo sono. Chi sta cercando di convincere? Solo nella strofa successiva Isabella comincia a scavare (“con un coltello…con più fervore delle persone avare”), ma fino a quel punto Keats ci ha già guidati “nella terra argillosa e nella ghiaia dura” della tomba di Lorenzo.
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Lo stesso anno in cui la Borough Gang ha minacciato a mano armata la Scuola St. Thomas, gli studenti e il personale, Keats superava straordinariamente un esame di abilitazione che molti suoi contemporanei, inclusi i suoi coinquilini, non riuscivano a passare. A luglio dello stesso anno ricevette il permesso di praticare come speziale. Considerando l’avanzamento professionale, sembra particolarmente insolito e inaspettato che a dicembre Keats abbia deciso di abbandonare completamente la medicina a favore della poesia.
La decisione di Keats è sembrata a molte persone intorno a lui un atto inspiegabile di follia, visti i debiti accumulati da studente e filantropo nei confronti dei suoi numerosi amici. Se è romantico accettare che la sola attrazione della poesia abbia influenzato la decisione di Keats, non si può non chiedersi se qualcosa abbia sviato il poeta dal percorso che aveva seguito a lungo – forse qualcosa che aveva visto, dissotterrato o toccato.
Due anni e mezzo dopo aver cambiato rotta da medicina a scrivere poesie, Keats cominciò a lavorare ad un poema epico intitolato La Caduta di Iperione che si apre con uno strano indizio rivolto ai lettori che l’opera che stanno per leggere è o la visione di un poeta capace oppure lo sproloquio di un pazzo. Promette che la verità sarà svelata solo dopo la sua morte. Ma è il linguaggio che il poeta usa per asserire questa curiosa affermazione ad essere così impressionante e memorabile:
“Se il sogno si prefigge di provare Di essere poeta o fanatico si saprà Quando la mano del caldo scriba sarà nella tomba.”
La sintesi di tutto il suo essere in un’estremità che scarabocchia attira l’attenzione, ma evocare l’immagine di quella parte del corpo ancora agitata dalla vita (“calda”) in un luogo di morte (“nella tomba”) è particolarmente inquietante e ricorda un furtivo tentativo degli uomini della resurrezione. Ad intensificare l’effetto è l’intromissione della parola “provare” che aleggia ossessivamente sulla superficie della pagina poco sopra la parola “tomba”. “Hearse”, carro funebre, è il mezzo che trasporta un corpo alla tomba. “Rehearse”, provare, è quello che i ladri di cadaveri fanno con le mani calde nelle fredde tombe. I versi sembrano dire molto più di ciò che appare in superficie, come se qualcosa si rimescolasse nervosamente sotto il livello dell’espressione letterale: come un segreto che aspetta di essere trascinato nella luce.
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Nello stesso periodo Keats cominciò a comporre, per poi abbandonare La Caduta di Iperione, intraprese ancora un’altra poesia il cui argomento si rifà in modo significante all’immaginaria infiltrazione di una persona in vita in un luogo di morte. La poesia è Ode sull’Indolenza, parte della raccolta di odi che Keats compose nella primavera ed estate del 1819.
L’ode si basa sugli arrivi e sulle partenze di tre figure che si succedono davanti alla voce narrante della poesia: “ombre” che Keats paragona a “figure su un’urna di marmo/ girata per vedere l’altro lato”. Particolarmente intrigante nella descrizione di Keats del modo in cui viene avvicinato dalle figure è la sua meraviglia nel vederle arrivare di volta in volta. Insiste che al loro arrivo “non le riconoscevo”, come se non le vedesse arrivare. Ma se si fosse trovato veramente di fronte ad un’urna rotante, avrebbe certamente visto le figure avvicinarsi di lato, diventando più ampie man mano che la superficie convessa ruotava verso di lui. L’unico modo in cui le figure potrebbero coglierlo di sorpresa è se lui si trovasse all’interno dell’urna, guardando al contrario una superficie concava. Solo allora le figure potrebbero a ogni rotazione avvicinarsi di soppiatto da dietro.
Ad aprile 1819 proprio quando sta lavorando all’ode, Keats visita a Leicester Square, Londra, un interessante spettacolo visivo di un onnicomprensivo quadro cilindrico raffigurante una costa ghiacciata nell’arcipelago norvegese, installato da Henry Aston Barker nel popolare congegno conosciuto come Panorama. Originariamente aperto nel 1793 da Robert, padre di Barker che aveva coniato la parola “panorama”, il congegno permetteva ai visitatori di stare in mezzo al quadro rotante, precisamente nella dinamica suggerita dalla descrizione di Keats del movimento delle figure in Ode all’Indolenza. Tuttavia, nell’ode di Keats l’allusione non è che la voce narrante sia circondata da una tela, ma piuttosto che si trovi all’interno del vaso funerario e quindi che si mescoli ai resti di cenere della persona cremata. Solo quando il lettore ha completamente colto le implicazioni della posizione sensoriale in cui la voce narrante è posizionata all’interno dell’urna può capire la gravità della descrizione di Keats del suo desiderio di inseguire le tre figure:
“Passarono una terza volta, e passando girarono A turno per un momento la faccia verso di me; Poi svanirono, e per seguirli io arsi…”
Ancora una volta Keats ha rintracciato i morti in un posto di presunto eterno riposo e ha immaginato il suo essere lì mescolato con il loro, andando così lontano, in questo caso, fino ad immaginare una sorta di auto-immolazione in conformità con il calore della cremazione che polverizza: “per seguirli io arsi”.
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Predatore di tombe
Il 23 febbraio 1821 John Keats morì a Roma, dove si era spostato per il clima più caldo che avrebbe potuto giovare contro l’agonia della sua condizione in rapido peggioramento. Non si conosce la data esatta della composizione o per quale progetto, ma si ritiene che tra i suoi ultimi schizzi poetici ci sia un frammento agghiacciante, che suggerisce quanto la sua immaginazione fosse fino all’ultimo momento inquieta di immagini di vivi e morti in competizione per lo stesso spazio:
“Questa mano viva, che ora è calda e capace di stringere forte, potrebbe, se fosse fredda nel gelido silenzio della tomba, ossessionare i tuoi giorni e raggelare le tue notti piene di sogni così che tu vorresti prosciugare del sangue il tuo cuore per far scorrere nuovamente nelle mie vene la vita scarlatta, e avere finalmente coscienza tranquilla: ecco, prendila – io la porgo a te.”
Questi versi sembrano provare un’inquietante resurrezione dell’io del poeta in trapasso, amalgamato incredibilmente da “una mano viva… nel gelido silenzio della tromba”. È impossibile dire se la visione sia o no quella di una mente perseguitata da un’esperienza personale in lotta con la morte per il sopravvento, disperata di avere “finalmente coscienza tranquilla”. Il meglio che si può fare in qualità di ammiratori grati della sua straordinaria opera, è continuare a scavare.
Kelly Grovier
*Traduzione italiana di Spangel Kristine Bianca
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pangeanews · 5 years
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“Ho la sensazione che la realtà non mi basti”: dialogo con Giorgio Biferali, quasi un Flaubert
Giorgio Biferali me lo immagino come un Balzac, litri di caffè e produzione tesissima di libri rigurgitanti caratteri, un romanziere europeo insomma, di quelli che rifuggono dalla costipazione letteraria che fa scrivere in carriera sì e no tre libri. Quasi che lo scrittore sia un gentiluomo col suo bizzarro passatempo, sempre impegnato a sferruzzare la solita trama di adulterio discreto per lettrici difficili e felici.
L’ultimo lavoro di Biferali esce dalla cristalleria della Nave di Teseo e ha per titolo Il romanzo dell’anno (un estratto lo leggete qui). È giusto rilevare che Biferali, appena sui trenta, ha già dato mostra di libri notevoli dove la fantasia si intreccia alla ricostruzione accurata. Di lui bisognerebbe leggere Italo Calvino. Scoiattolo della penna e Giorgio Manganelli. Amore controfigura del nulla. Opere notevoli dove la perizia dello studioso si oblia nella ricostruzione del carattere – insomma un esempio singolare e lieto nel panorama italiano, poco incline alla biografia che non si attenga al motto parlamentare ‘dei morti si parli solo bene’. Biferali ci svela un Manganelli diverso, passionale e privato, e l’amore è nelle corde del nostro: quello che mi affascina di Biferali non è tanto l’ultimo romanzo quanto il precedente L’amore a vent’anni, libretto ustionante dove ognuno potrà rilevare questo o quel carattere ma che in ogni caso lascia intravedere la figura desueta del pavesiano risentito e fuori dai giochi. Come a dire: parliamo d’amore ma raccontiamo quello che gli gira intorno, le possibili sfumature, addirittura le figure sfortunate inabili a far compromessi.
Andrea Bianchi 
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Giorgio, partiamo con una domanda impegnativa per scivolare verso la fine come su un piano inclinato. Da dove scatta la molla della scrittura? Sei semplicemente un lettore ossessionato dai grandi, da Calvino e Manganelli, o c’è altro? Dimmi.
C’è anche altro, direi, sì. La scrittura viene sempre dalla lettura, dalla scoperta di chi ha provato a capire e a raccontare il mondo prima di te. Si leggono tanti libri e piano piano, con il tempo, trovi gli autori che ti somigliano di più, che possono aiutarti davvero a trovare la tua voce. Ma prima di tutto questo, per me, c’è stato un sentimento particolare, la sensazione che la realtà non mi bastasse, che avessi bisogno di aggiungere qualcosa di mio.
A proposito di Manganelli, in che misura la sua lettera a Viola, questo documento poco noto (“la dirò quella parola amara e squisita, quella parola diffidente e fantastica, ti accoglierò con amore”) ti è stato sufficiente per ricostruire il personaggio? Certo non ti sei limitato a fare il cronista o lo storico. 
Perché non sono né un cronista, né uno storico, infatti. Le lettere, e in generale le testimonianze sulla sua biografia, mi hanno aiutato a ricostruire l’uomo, l’essere umano, che mi sembrava un po’ messo da parte, prima dello scrittore.
Pochi mesi fa è uscita la raccolta di lettere di Calvino ragazzo alla De Giorgi (Ho preso il treno per te, Feltrinelli). Anche qui si è rotto l’equilibrio burocratico di un Calvino scrittore compassato e ironico anche quando parla di passioni. Ricordi Gli amori difficili? Quelle lettere ti hanno spiazzato molto dopo che avevi ritratto Calvino giovane?
Me l’hanno regalato, quel libro, ma non ho voluto leggerlo. Forse per una strana forma di rispetto nei confronti di Calvino e della sua vita insieme a Esther.
Nel tuo libro su Calvino siamo tutto sommato su una superficie più liscia rispetto a Manganelli, se pensi a questa bella immagine di lui come scoiattolo arrampicato sulla penna, come dice Pavese. Spiegami perché hai voluto avvicinare di più questo scrittore. 
Sono due libri molto diversi, quello su Manganelli non è altro che la mia tesi di laurea un po’ ‘rivisitata’, quello su Calvino, invece, è un libro immaginato, pensato, costruito, scritto per un progetto, quello de La Nuova Frontiera, di raccontare i grandi scrittori del Novecento ai ragazzi. Ecco perché risulta più leggero, in fondo è un racconto illustrato dove c’è anche molta fiction. E poi Calvino, come sguardo, come forma, lo sento molto vicino a me.
A proposito di richiami. Col tuo ultimo Il romanzo dell’anno per me ti avvicini al sogno sospeso di Dostoevskij, a Povera gente. Sei d’accordo? 
Grazie dell’accostamento, davvero. In realtà mi sono ispirato a romanzi più vicini a noi, come quelli di Grossman e di Palahniuk, in cui ho ritrovato una forma, quella epistolare, che mi sembrava giusto riportare alla luce.
Hai scelto comunque di scrivere su autori che gravitavano su Roma. Forse perché è lei il tuo lessico di base? In fondo con L’amore a vent’anni parli tanto di sentimenti che della tua città. Quasi a identificare le due cose, se vedo bene.
Sì, ci vedi benissimo. Roma è un po’ una condanna per me, è un po’ una condanna per chi ci nasce e per chi poi ci rimane, è una città ingombrante, piena di storia, di vite, di piani, è forse la città più raccontata del mondo. Una città umorale, capricciosa, pigra, iperattiva, dolce, spietata, quindi profondamente contraddittoria, simile a un amore adolescenziale o post-adolescenziale. Ecco perché è diventata uno dei personaggi principali de L’amore a vent’anni.
Dicci dove punta il tuo occhio letterario quando vuoi intendere Roma. Guardi di più agli autoctoni, a Moravia, o agli appassionati che vengono da fuori, a Stendhal? O magari a nessuno di questi due…
Guardo la Roma di Pasolini, dal basso, quella di Calvino, dall’alto, quella di Moravia, quella di Leopardi, quella di Nanni Moretti. Guardo e ho guardato tutte le Rome possibili, e la cosa bella è che non si lascia mai catturare davvero, è troppo grande, irregolare, ribelle, per essere definita una volta per tutte.
Ancora una parola sulla tua scrittura. Dopo il tuo ultimo lavoro, Il romanzo dell’anno, sei stato appaiato al realismo di Flaubert e di Franzen. La cosa ti va a genio? La trovi una forzatura perché sotto sotto hai altre preferenze? 
La cosa mi va a genio, anche perché l’ha detta uno dei miei scrittori preferiti, Tiziano Scarpa. Ma l’ha detta dopo aver letto L’amore a vent’anni, chissà cosa penserà di questo. Comunque essere accostati a scrittori così grandi fa sempre piacere.
A questo punto ci puoi confidare qual è, tra i romanzi di Flaubert, il tuo favorito. 
L’educazione sentimentale. 
Non trovi che dopo Flaubert si sia parlato sempre meno di amore nei romanzi di spessore? Secondo te la cosa si spiega col fatto che ormai si sa di cosa si sta parlando (basso ventre) oppure è un argomento che non dà felicità letteraria e il pubblico vuole oggi solo storie facili?
Non saprei, penso a romanzi recenti come Il senso di una fine, Molto forte, incredibilmente vicino, Leggenda privata, e in ogni caso mi sembra che si parli sempre d’amore, da prospettive molto diverse, magari, che però non fanno altro che arricchire quello che, a detta di tutti, è l’argomento più trattato di sempre.
L’amore a vent’anni mi è piaciuto non solo per la storia dei due protagonisti ma per chi gira loro intorno. Di solito un intervistatore non scende nel dettaglio ma io ti chiedo lo stesso se per il carattere del ragazzo scorbutico perché trattato male dalle donne (scrivi così) c’è in filigrana la figura di Pavese, oggi un po’ desueto. Dico bene?
No, il personaggio viene da Antoine Doinel di Truffaut (cui si allude nel titolo), e soprattutto da quello che avevo capito sull’amore fino a quel momento.
Di solito chi scrive di passioni come fai tu ne Il romanzo dell’anno preferisce leggere romanzi rosa rispetto ai gialli per nutrire l’immaginazione. Almeno per Vargas Llosa le cose stanno così: ci puoi dare una smentita? Sotto sotto sei un lettore di Simenon, di Sciascia o magari di le Carré?
Direi di no per i romanzi rosa, e anche per i gialli. Simenon mi piace, ma lui è un caso a parte. Amo leggere delle storie, chi sa come raccontarle, ecco, e che magari mi sorprende, mi fa pensare cose cui non avevo mai pensato prima, da un punto di vista lontanissimo dal mio.
Andrea Bianchi
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pangeanews · 5 years
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“Al novantesimo parallelo della scrittura”: dialogo con Filippo Tuena
A un certo punto – in ogni punto, in fondo, ad ogni istante, nella rabbiosa estasi del fiato – l’estremo si scrive, l’inequivocabile bianco di Antartide è una lettera, è alfabetico, la vita pura letteratura. “Scott è l’ultimo ad abbandonare la scrittura come attività quotidiana… vi si legge un profondo senso di riposo, come se scrivesse già dall’oltretomba, già separato dal consesso e privo di qualunque senso di angoscia”. Chi ha amato Ultimo parallelo deve andare lì, pagina 384 – questo romanzo, in effetti, va ‘giocato’, è una specie di Rayuela delle vite altrui, carnali o museali, del fittizio e dell’artistico, del dettaglio, dell’estetico e dell’esotico – per rientrare nella vicenda di Robert Falcon Scott, ennesima – anomala, tragica – variante dell’epica del ritorno. Lì mi fisso, certo che il demone della scrittura è il terribile bianco – ti fa scrivere per sottrarti ogni parola, per ipnotizzarle tutte e tu boccheggi a Nord – e che lo scrittore vada dissipandosi, attratto dall’incontenibile più che dall’inconsueto. Torno a me. Anzi, a Filippo Tuena. Nel suo polimorfico romanzo, di marmo e di azzurro, c’è Micene e Marsilio Ficino, l’estremo Sud e la Grecia arcaica, l’Odissea e Ovidio, la più bella schiena della storia dell’arte – Velázquez, adoratissimo, una malia che t’imprigiona fino a sbriciolare il desiderio in ipnosi – il patriota Luciano Manara e lo scrittore W.G. Sebald, Stendhal e Sofonisba Anguissola e Ludovico Ariosto e una avventurosa bibliografia, e tantissimo altro, il tutto sigillato, che impertinenza, dalla parola “il segreto”, quella che chiude il libro. Finalmente un libro!, esulto – e stop – leggendo Le galanti (sottotitolo: “Quasi un’autobiografia”) di Tuena (il Saggiatore, 2019), un libro – non più romanzo, ma universo – incontenibile, bulimico di sapienza, che non ha paura della cultura, che non narra ma svela, che denuda il gioco romanzesco facendone esperienza mutisensibile, dove lo scrittore – Tuena – è ragno e ruggito, è drappo di luce e canone di tenebra. Un godimento dell’intelletto. E il rischio – supremo – di morire, attraverso gli impossibili. Perizia nell’imprevisto, natura bianca della scrittura, morsi nel bagliore. Non facciamo più l’ode alla bravura degli scrittori oltreoceanici – il genio lo abbiamo qui. (d.b.)
Denunciamo fonti, padri, padrini. Ipotizzo che la ‘Bibliografia sommaria’ che hai compilato a fine volume sia anche la tua – ricalco Milo De Angelis – ‘Biografia sommaria’. È così? Qual è il libro e l’opera d’arte (dacché di quello parli) che ti hanno dato la scossa, che ti hanno imposto una conversione dello sguardo?
Per chi scrive, le bibliografie assomigliano davvero alle biografie; quelle sommarie assomigliano piuttosto ai frammenti di una biografia tutt’altro che sommaria, aggettivo che assume sempre un connotato riduttivo, corsivo, compendiario. Si tratta al contrario di testi fondamentali che delineano e circoscrivono momenti fondamentali nella vita di chi scrive e nel suo lavoro. Non è un caso che gli ultimi tre pezzi – o le ultime tre galanterie – che ciascuno li chiami o le chiami come preferisce – raccontano di libri, anzi di speciali e insostituibili singole copie di quei titoli, testi che hanno avuto la ventura d’incrociare la mia esistenza, non solo per quel che dicono ma per la semplice circostanza d’essere stati tra le mie mani in alcuni momenti importanti e che sono preziosi per quello e non per la veste tipografica o rarità d’edizione. Sono preziosi perché racchiudono brani di esistenza e li irradiano ogni volta che li prendo in mano. Per come si è andato strutturando il libro, l’autore e l’opera che più lo connotano sono Ovidio e le sue ‘Metamorfosi’. Si narra di amori a volte risolti, a volte impossibili, ma che producono mutazioni irresistibili e che non consentono un ritorno. Una volta che la ninfa si tramuta, per sfuggire all’impeto degli dèi, il cambiamento è definitivo. Rimane qualcosa nella memoria, impalpabile, qualche gesto che può tradire un’origine ormai lontana. La stessa cosa accade a noi quando ci innamoriamo. La passione può essere transitoria ma il cambiamento è definitivo. Anche se l’amore svanisce non si torna più come prima.
Fonti letterarie. Nel libro ne appaiono due, d’evidenza elettrica: Sebald e Stendhal. Unisco le fonti a un concetto formale che percepisco leggendoti: tu rompi le forme narrative. Non ti va di scrivere un romanzo ‘dalla A alla Z’: divaghi, rompi, erompi, scassi, fracassi. C’è la leggerezza del flâneur e l’arguzia dell’astronomo. Insomma: cosa è per te la letteratura?
Di Stendhal m’interessa l’ingarbugliamento, la ‘sconclusionaggine’, il trasformare una biografia in qualcosa di totalmente immaginario dove però al lettore sono concesse alcune boe di orientamento. Se è attento, riesce a separare il grano dalla crusca. Il gioco delle date dei suoi soggiorni fiorentini è emblematico. Ci ho perso tempo per ricostruirlo ma n’è valsa la pena, credo. Più che nei romanzi è in questi testi ‘pseudo-autobiografici’ che il gioco letterario dello scrittore francese si fa sottile e affascinante. Sebald è il mio autore di riferimento, ma non tanto per l’uso che fa delle immagini – io vengo dalla storia dell’arte e per me è naturale ragionare per immagini e sulle immagini – ma per l’imprevedibilità del tessuto della narrazione. Questo libro, le prime volte che ne ho parlato in casa editrice, doveva svilupparsi in due passeggiate, una romana e una milanese – le città dove ho vissuto. Poi è prevalsa l’idea di una sorta di museo immaginario dove le opere d’arte producessero innamoramento. O che documentassero passioni trascorse e non recuperabili. Ma in entrambi i casi – passeggiate o museo immaginario – era l’imprevedibilità a governare la narrazione.  L’aspetto più sebaldiano del libro è quello del girovagare. Inizialmente mi ero fatto uno schema delle opere d’arte che avrei voluto analizzare ma non sapevo che cosa avrei trovato scavando in profondità. Dunque anche i circa trenta pezzi in cui è diviso le ‘Galanti’ sono stati determinati da quel che ho trovato e non da quel che avrei voluto trovare. A volte ho sacrificato dipinti o sculture che ho amato ma di cui non sono riuscito a trovare l’appiglio per farle mie. Altre volte è accaduto il contrario, oggetti poco amati si son fatti strada e hanno conquistato il loro posto. Accade così anche con gli amori di una vita. Alcuni non sappiamo risolverli, altri ci invadono completamente. Certo che non mi va di scrivere un romanzo ‘dalla A alla Z’. Ne ho fatti – i primi tre che ho pubblicato lo sono in gran parte – ma non mi diverte più. Il cambiamento è avvenuto nel 1999 quando ho pubblicato ‘Tutti i sognatori’, su Roma in tempo di guerra. Mi sono accorto che il semplice elenco di fatti di sangue avvenuti allora aveva una valenza assai superiore alla ‘drammatizzazione’ di quel periodo, ovvero al mettere in commedia quei fatti. Quello è stato il libro di svolta. Non mi dispiace che le Galanti festeggi il ventennale di Tutti i sognatori, che tra l’altro cito esplicitamente in queste pagine, paragonandolo – vado a memoria – a una lettera d’amore.
Dalla scrittura autografa di Tuena possiamo risalire al suo talento di scrittore?
Quanto alla letteratura, la questione può riassumersi così: è il conflitto tra la storia e l’individuo, tra gli eventi e il loro essere narrati. Sia che si tratti di vicende storiche che questioni personali. È l’impatto di queste immagini innescate attraverso la memoria, storica o individuale, a produrre l’esplosione. Le cose vanno in frantumi ed è solo andando in frantumi che riesco a scoprire che cosa nascondevano.
…piuttosto, cos’è per te la scrittura? Azzardo. Nel libro torna l’ossessione antartica. Ti concentri sugli scritti di Scott, di Wilson, di Bowers, quasi che in quell’enigmatico bianco dove gli uomini stessi si muovono come ideogrammi la scrittura avesse un valore perentorio, simbolico. In quel bianco dove galleggia la scrittura, però, non c’è Dio. “Scott l’agnostico ha percorso il deserto, è stato l’anacoreta dei ghiacci, ma non ha incontrato la divinità che domina quei territori”, scrivi. Estremo Sud, scrittura, bianco, Dio assente. La tua idea di scrittura ha a che vedere con l’assurdo antartico?
Scrittura e Antartide: tutto si riduce alle poche parole pronunciate da Scott quando raggiunse il novantesimo parallelo. It’s an awful place. È un luogo orribile. Privo di coordinate, tutto si riduce a un punto geografico. È un luogo inospitale, privo di ripari. In effetti quando arrivi al novantesimo parallelo della scrittura la sensazione non è piacevole. Lo percorri ma cerchi subito di tornare a luoghi più confortevoli, a situazioni dominabili e non alla devastante sensazione di essere senza protezione. Non si può barare. Non si possono abbellire le situazioni con una scrittura garbata. Una scrittura educata tradirebbe la natura del luogo che si percorre. Come forse si evince, il libro si struttura in due grandi parti, una legata alla seduzione femminile, erotica, l’altra al desiderio di annientarsi, di scomparire; alla dannazione di essere gettati in questo mondo e di non poterlo evitare o dimenticare. La vicenda di Scott è quella di una lenta, meditata e inflessibile autodistruzione. Ne siamo tutti attratti e vittime.
Rewind. Come nasce questo libro ‘per figura’, perché è una ‘quasi’ autobiografia?
Nonostante io abbia studiato da storico dell’arte non ho mai esercitato né la professione accademica né quella museale. Per molto tempo sono stato antiquario e dunque attratto dall’aspetto estetico e dalla vicenda che le opere d’arte raccontavano. Quando ne acquistavo una e la portavo in galleria valutavo la pertinenza di quell’oggetto in quel luogo, se apparteneva alla componente commerciale del mestiere o se rimandava a qualcosa di più intimo, che poteva raccontare a me qualcosa di me che ignoravo. Sempre recuperando la devastante malinconia ovidiana, quel che emerge da quelle opere è nascosto in pieghe profondissime. A volte ricompare in maniera imprevedibile e viene a giustificare la passione che mi preme. Salvo una, nessuna delle opere d’arte che commento in questo libro m’è appartenuta e dunque emerge abbastanza evidente l’impossibilità di possedere alcunché. Tutto è lontano e quel che è vicino, come il dipinto nel mio salotto, è inconoscibile.
Il libro comincia con l’arcaico greco e si chiude con l’Odissea della Calzecchi Onesti. Ancora è lì, nel ritorno all’alveo, nell’alveare soleggiato della grecità, il viaggio?
Il ritorno a casa è paradigmatico. È il viaggio quintessenziale, che sia quello storico dell’Anabasi o mitico di Ulisse o che sia quello abortito di Scott. Ma anche quest’ultimo giunge a compimento. Ci tengo a ricordare che i corpi di Scott e dei suoi sono oggi, molto probabilmente, all’interno di iceberg che si allontana dall’Antartide e che a va a sciogliersi e li libererà da qualche parte nell’Oceano Pacifico. Ma anche il viaggio dello scrittore è un nostos, un ritorno. Compiuto il libro – ma il libro non si compie mai, la sua forma è flessibile e inafferrabile legato com’è non ai fatti, ma alla memoria dei fatti – il ritorno a casa è l’ambientazione di ogni capitolo finale, infausto come quello di Agamennone, fausto come quello di Ulisse.
Più che altro, sorprende l’uso che fai dei materiali storici, che siano lettere, frammenti statuari, ritratti, ipotesi fotografiche. Sembra non esserci distanza tra la Storia e la tua storia, tra i dettagli di vite lontanissime nel tempo e i lacerti della tua vita. Perché questa necessità di penetrare in certi istanti della Storia? Mi sembra, tra l’altro, un gesto del tutto ‘anti’ in un’era dove la cronaca è sostituita da instagram e la memoria da un tweet, dove non c’è profondità ma la cecità del presente totale, continuo. 
Anche le moltissime citazioni, anche lunghe, che compaiono nel libro, hanno il medesimo scopo delle immagini. Si tratta di dati storici ‘verbali’ coi quali si deve entrare in rapporto; manifestano una verità altrettanto efficace di quella visiva. La componente autobiografica è il punto di vista da cui osservo l’arte antica. Che cosa le opere che descrivo hanno in comune con la mia vita. Come mi hanno cambiato. Che cosa in maniera inaspettata fa ritornare alla memoria, siano battaglie risorgimentali o dipinti galanti, scene di seduzione o di passione che ho vissuto. Scrivendolo, il libro ha svelato cose che non sapevo, che non rammentavo, che non mi aspettavo ritornassero prepotentemente in primo piano. Ne do conto. È anche un suggerimento al lettore: fai come me, scoprirai qualcosa d’importante. Quanto al senso della storia, mi guardo indietro perché ogni scrittore lavora sulla base della memoria e dell’esperienza e perché, invecchiando, è quella la direzione dove si più spazio e libertà di agire.
L'articolo “Al novantesimo parallelo della scrittura”: dialogo con Filippo Tuena proviene da Pangea.
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