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#carlos paret
carloskaplan · 2 years
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Carlos III comendo ante a corte  (ca. 1775), de Luis Paret
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designmiss · 10 years
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Woodclock Horm https://www.design-miss.com/woodclock-horm/ #Woodclock è l’#orologio nato dall’#incastro perfetto di #sei #listelli in #legno #massello, disegnato da #CarloStefanut per l’azienda #Horm, un #incastro che metaforicamente rappresenta l’intreccio perfetto degli #impegni quotidiani.
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neropece · 2 months
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“yellow and shadow” photo by Fabrizio Pece (tumblr | 500px | instagram)
Quella mattina, il sole si stagliava nel cielo senza nuvole come un faro implacabile, illuminando ogni angolo della città con la sua luce accecante. Era una di quelle giornate in cui l'aria stessa sembrava pulsare di calore, avvolgendo la città in una morsa soffocante.
Tra le vie trafficate e i marciapiedi gremiti, c'era un ragazzo che avanzava con passo misurato. Indossava una felpa grigio chiaro e un piumino giallo che brillava al sole come un faro di luce in mezzo al caos della città. Il suo nome era Carlo, e in quel momento, il suo unico obiettivo era sfuggire al calore implacabile.
Costeggiando una parete del colore del suo piumino, Carlo avanzava senza uno scopo preciso, lasciando che i suoi pensieri vagassero liberamente come nuvole alla deriva. Non c'era fretta nei suoi passi, solo una calma apparente che celava un tumulto interiore.
Ad un certo punto, si fermò di fronte a un vecchio bar, le finestre appannate dalla condensa e la vernice sbiadita dal tempo. Mentre contemplava il panorama desolato, sentì qualcuno chiamare il suo nome. Si voltò e vide un vecchio amico, un fantasma del passato che tornava a tormentarlo con ricordi sepolti.
Senza scambiare una parola, i due si guardarono negli occhi per un istante, il peso del tempo e delle scelte sbagliate pesando sulle loro spalle. Poi, con un cenno impercettibile del capo, si separarono, ognuno tornando al proprio cammino solitario.
Carlo riprese il suo vagabondare tra le strade affollate, lasciandosi alle spalle il passato e abbracciando l'incertezza del futuro. In quel momento, non c'era spazio per rimpianti o rimorsi, solo la consapevolezza fugace di essere vivo e di camminare lungo il confine sottile tra il giallo e l'ombra.
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libriaco · 2 months
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Le Fosse Ardeatine
Dieci metri piú in là del Quo Vadis la strada si biforca: a sinistra prosegue l’Appia Antica; a destra inizia la via Ardeatina. Prendemmo a destra. Man mano che proseguivamo nel cammino, m’accorsi che s’era formata una fila indiana di persone che, da sole o a piccoli gruppi, sembravano andare nella stessa direzione. Dopo cinquecento metri la strada smette di salire: segue una brusca discesa, che piega sulla destra. Proprio lí, poco dopo la svolta, nel compatto muro di fogliame che ci aveva fin allora accompagnati, s’apriva un varco. Vi entrammo: c’era uno spiazzo, a ridosso di una di quelle creste rossastre di tufo, che cosí frequentemente segnalavano allora nei dintorni di Roma la presenza di cave di pozzolana. Sullo sfondo, lungo la parete, s’aprivano due-tre grandi cavità oscure: si vedeva che erano state aperte, o riaperte, di recente, perché cumuli di terriccio fresco le fronteggiavano. Da quelle cavità un fitto via vai di persone, in gran parte militari, – poliziotti, carabinieri, pompieri, – ma tutti con delle povere tutacce blu o marroni, e fazzoletti colorati qualsiasi stretti intorno al volto. Mio padre trovò un masso da una parte e mi ci fece sedere. «Aspettami qui, – mi disse, – non muoverti». Capii che non era il caso d’insistere. M’accoccolai lí e cominciai a guardarmi intorno, mentre mio padre s’avviava verso uno di quegli ingressi. Mescolati a quelli che erano o parevano militari c’erano anche molti civili: uomini e donne aggrondati, generalmente vestiti di nero, che entravano e uscivano guardando fisso di fronte a sé. A un certo punto passarono due uomini, sorreggendo una donna: era riversa in avanti, con il volto cereo e le gambe rigide; le punte delle scarpe, tenacemente congiunte, come per un’inconscia resistenza nervosa dovuta a qualche dolore, rigavano la polvere. Ma la cosa piú impressionante per me era che da quelle bocche d’inferno veniva un fetore di fronte al quale quello dei poveri morti accatastati nelle bare qualche mese prima nel cimitero del Campo Verano mi sarebbe sembrato insignificante: forse a causa di un forte sbalzo di temperatura tra quelle fredde viscere della terra e il calore esterno, partiva dalla parete, e percuoteva tutti coloro che si trovavano lí davanti, una corrente, un vento intenso, un flusso mortifero compatto e come oleoso, che ci avvolgeva e ci sovrastava, permeando ogni molecola dei nostri apparati sensori, non solo il naso e l’olfatto, ma la bocca e il gusto, e impastandosi con tutta la nostra percezione. Il puzzo della morte, quando è particolarmente forte, si materializza, si fa corposo, si può toccare, diventa esso stesso una creatura vivente, una forza della terra. Cominciavo ad avvertire un ormai noto fremito di disgusto nello stomaco, quando mio padre riemerse dall’oscurità, con gli occhi rossi e il fazzoletto piantato anche lui davanti alla bocca e al naso. Disse: «Andiamo», e non ci fu verso di farlo parlare, fin quando, nel bar di piazza Tuscolo, non sorbimmo insieme un bicchiere di limonata. Sobriamente mi raccontò che proprio lí erano stati trucidati quei prigionieri italiani, politici e militari, di cui aveva parlato il giornale il giorno prima della morte di mio nonno Carlo, e che perciò da quel momento, poiché non aveva avuto ancora un nome, la strage poté chiamarsi, – e da allora s’è chiamata, – delle Fosse Ardeatine. Solo nelle settimane successive, e solo a brandelli, interrotti da lunghi silenzi, mia madre e io sapemmo il resto. Mio padre raccontò di aver visto le file dei prigionieri in ginocchio, non ancora decomposti, addossati l’uno all’altro, qualcuno caduto in avanti, con le mani legate dietro la schiena e un foro immenso nel cranio; disse che, a eccezione forse del primo, tutti gli altri avevano dovuto sapere, con un anticipo da pochi a molti minuti, quello che stava per accadergli. Raccontò anche che frotte di topi grassi fuggivano in giro quando uno degli addetti alla riesumazione spostava in uno di quegli angoli bui la luce della sua lampada.
A. Asor Rosa, L'alba di un mondo nuovo [2002], Torino, Einaudi, 2005
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Luis Paret Y Alcázar (Spanish, 1746-1799) Royal Couples, 1770 Museo Nacional del Prado This canvas depicts an equestrian event that took place at the Palace of Aranjuez in 1770. It was attended by Charles III and Princess María Luisa, his daughter-in-law, who are to be seen in the second box adjoining the palace façade, and by a crowd of subtly individualised figures. On horseback at the forefront of the pairs of riders are Prince Carlos and the Infantes Gabriel and Luis Antonio de Borbón, as well as the Duke of Medina Sidonia.
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matyas-ss · 1 year
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Carlos III comiendo ante su corte [Charles III dining before the Court], Luis Paret Y Alcazár (c.1771) Museo del Prado in Madrid
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fotopadova · 3 months
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Fotografia italiana di 5 decenni fa, élite negletta: Geri Della Rocca de Candal
di Carlo Maccà
Dedico l’articolo a Gustavo Millozzi, grande amico e maestro da più di mezzo secolo. Lasciandomi come sempre piena libertà, ne ha seguito tutta la gestazione ed è scomparso proprio al momento della conclusione.
Ai tempi antichi, nel millennio passato, la fotografia era analogica. Ogni immagine fotografica era il risultato di un processo che oggi apparirebbe lentissimo. Il sensore era costituito da uno strato di gelatina contenente sali d’argento depositato su una pellicola. La luce liberata dallo scatto dell’otturatore produceva all’interno del materiale sensibile un embrione, che attraverso fasi fisico-chimiche successive (sviluppo e stampa) si concretizzava materialmente in una immagine partorita sulla superficie di un supporto solido, generalmente cartaceo. Solamente allora l’immagine entrava effettivamente nella vita reale, poteva ricevere un nome, vivere in una cornice appesa a una parete o dormire all’interno di un album, essere mostrata a parenti e amici, alla comunità fotografica, e, attraverso i media, alla società e al mondo intero. La speranza di vita dell’oggetto poteva facilmente superare quella dei suoi contemporanei umani, compreso il presente autore. [1]
Alla selezione della immagini che meritavano di essere conosciute e divulgate nell’internazionale fotografica provvedevano soprattutto alcuni Annuari di editori specializzati, per lo più Americani o Britannici. Anno per anno, professionisti e amatori evoluti, giovani o maturi, nuovi o affermati, inviavano agli editori stampe, sciolte o in portfolio, sperando che almeno una di queste selezionata e il proprio nome comparisse nell’indice degli autori accettati seguito dal numero della pagina in cui avrebbero ritrovato l’immagine o dal numero d’ordine di questa. Se di quei numeri ne compariva più di uno, l’autore poteva considerarsi - o vedersi confermato – “Autore” coll’A maiuscola.
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Figura 1. Geri Della Rocca deCandal -Sulla spiaggia. Ferrania XXI/7, luglio 1967, p.3.
Per Fotopadova immagini relative all'articolo
Per questa via, dalla metà degli anni ’60 cominciarono a farsi conoscere e apprezzare nel mondo fotografico internazionale alcuni dei nostri futuri Maestri, che già contribuivano ad animare e a svecchiare la fotografia italiana. Conservo con devozione alcuni di quegli annuari e ogni tanto li ripercorro con piacere (e qualche nostalgis). Per esempio, nel britannico Photography Year Book [2] del 1967 si rivedono Gianni Berengo Gardin con 4 fotografie (2 in doppia pagina), e Mario Giacomelli con 2 (fra cui l’iconico ritratto della madre colla vanga); con 2 immagini anche Cesco Ciapanna (futuro fondatore del mensile Fotografare, innovativo per l’ambiente fotografico italiano), e con una ciascuno Cesare Colombo e Michelangelo Giuliani. Via via negli anni si ritrovano anche altri autori italiani tuttora amati e apprezzati, assieme ad altri che hanno lasciato qualche memoria alla fotografia italiana. 
Fra fotografi italiani che nei pochi Photograpy Year Book dei primi anni ’70 a disposizione già a quel tempo avevano destato la mia attenzione per la qualità delle immagini e per i commenti che le presentano, soltanto uno, che portava un nome facilmente ricordabile : Geri Della Rocca deCandal, non sembra aver trovato ricordi permanenti nella nostra comunità fotografica. Nella pubblicista fotografica italiana di quegli anni parsimoniosamente tramandata fino ai nostri giorni sembra essersene occupata soltanto la rivista Ferrania [3], che nel numero di luglio 1967 presenta un ispirato articolo di Giuseppe Turroni [4] dal titolo La consolazione dell’occhio. L’autore, autorevole critico cinematografico e fotografico, scrittore e pubblicista notissimo in quegli anni, promuove alcuni giovani autori part-time che nella loro opera si distinguano per "chiarezza, onestà, purezza, spontaneità, e/o linearità di espressione". Doti che in uno di loro riconosce accompagnate da una spiccata sensibilità formale, che diremmo “classica”. Ecco come lo introduce.
 “Un giovane di Milano, studente in Fisica, Geri Della Rocca deCandal, ricerca un dilettantismo quasi prezioso, che può sembrare fuori moda e che anche per la scelta del soggetto non indulge alle convenzioni dei tempi. Ma in quanti siamo a stabilire l’esatta portata di un lavoro al di là degli aspetti formali o linguistici che ci suggestionano? Anche Geri Della Rocca de Candal ha spirito libero e introspettivo. Le sue foto ”artistiche” hanno un’impronta ovviamente diversa da quella che distingueva la produzione amatoriale italiana di lontana memoria. Sono centrate nel gusto formale del momento e nello stesso tempo riescono a tradurre un simbolo di realtà, per i nostri occhi abbacinati da tanta, da troppa cronaca che finisce per non dirci più niente, anzi per guastarci il sapore della realtà.” [4] Turroni accompagna questo testo con ben 5 immagini, certificando che il giovane, in Fisica ancora studente, in Fotografia ha già raggiunto un livello magistrale. 
Da qualche anno la Fondazione 3M offre, oltre alla collezione completa digitalizzata della rivista sopra citata, anche i files delle fotografie originali depositate presso il ricco Archivio Ferrania. Due immagini, una presumibilmente degli anni ’60, l’altra del 1974, presenti nel fondo Lanfranco Colombo sono evidenti tracce di una mostra del giovane Geri a Il Diaframma, la prima galleria in Europa dedicata esclusivamente all’arte fotografica [5], e fanno pensare a una attività espositiva importante. Soltanto le fonti finora  citate  possono suggerire all'ambiente italiano l’esistenza di un Autore da non trascurare.
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Figura 2. Lower Manhattan Skyline - New York City, 1968. APERTURE, SPRING 1972.
Infatti rimane insoddisfatto chi, come noi, cerca di approfondire quelle notizie per la via più agevole, la Rete, che al giorno d’oggi segnala qualsiasi evento grande o piccolo e ne preserva la memoria, e perciò è indotto a supporre che l’attività fotografica del Nostro si sia conclusa in patria prima dell’avvento di Internet. Che però non si trattasse di cosa trascurabile, e che si espandesse anche all’estero, lo si può dedurre da altre tracce che attraverso Internet si reperiscono in archivi digitali della stampa specializzata straniera: per esempio, negli elenchi nominativi dei fotografi con opere presenti in raccolte fotografiche museali, in mostre antologiche dedicate all’eccellenza dell’arte fotografica mondiale o, infine, negli archivi di riviste fotografiche straniere fra le più autorevoli. Tracce lasciate in tutto il mondo, dalla Norvegia all’Australia e dagli anni ’70 fino a tempi recenti. In qualche caso contengono anche riproduzioni di opere. La figura 2, per esempio, è tratta da un articolo dedicato al nostro Autore dalla rivista Aperture [6] nel 1972.
Dalle opere così identificate si poteva già dedurre che Della Rocca de Candal conducesse nel bianco e nero ricerche sulle forme nello spazio parallele a quelle che Franco Fontana e Luigi Ghirri portavano avanti nel colore. Ma nell’accostarsi ai due coloristi a lui contemporanei, Geri manifestvaa ancor più evidente l’eredità dall’arte italiana dei periodi più classici: dalle scansioni spaziali dei pittori del 400 come Piero Della Francesca e Paolo Uccello, alla profondità della prospettiva aerea di Leonardo, ed infine al perfetto equilibrio in cui sono quasi sospese le architetture più compiute di Andrea Palladio. Spazialità tutta di tradizione italiana, da secoli ammirata (e superficialmente imitata) nei paesi anglosassoni.
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Figura 3. The Brooklin Bridge, NYC. 1968. Amon Carter Museum, Fort Worth, Texas.
Il nostro interesse per Geri Della Rocca de Candal si è meglio focalizzato quando, reperito qualche altro numero di quegli anni del Photography Year Book sopra citato, abbiamo trovato ripetutamente il suo nome, a conferma d’una produzione significativa, che si è imposta all’estero più durevolmente che da noi, e che ci è apparsa meritevole di meglio rivisitata.
 
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Figura 4. Fellers, Swiss Alps. Photography Year Book 1972, Fig. 141.
Nello Year Book del 1972, nel quale si affermano ancora Berengo Gardin con due immagini da un servizio sulle celebrazioni della Pasqua a Siviglia, e Giorgio Lotti con quattro storiche fotografie per la rivista EPOCA [7] sugli effetti dell’inquinamento delle acque e dell’aria in alta Italia, Geri figura autorevolmente in doppia pagina coll’immagine di un villaggio delle Alpi Svizzere (Figura 4). Nel 1974, 3 pagine del Photography Year Book presentano un saggio d’un suo progetto pluriennale (BN e colore) dedicato alla tradizionale sfilata delle signore newyorkesi, con vistosi copricapi e accompagnate dai loro pets, nel giorno di Pasquetta lungo la 5th Avenue appositamente chiusa al traffico (Easter Parade, gia all’attenzione con diverso approccio del franco-ungherese Brassaï nel 1957 [8]).
Tuttavia mancava ancora la possibilità di inquadrare compiutamente la figura di Geri Della Rocca de Candal e la sua attività fotografica. Questa opportunità si è avverata soltanto molto recentemente per una fortunosa coincidenza. Compare inaspettatamente in rete un omonimo, fresco di dottorato in discipline umanistiche presso l’Università di Oxford e collaboratore di un gruppo oxoniano di ricerca sul primo secolo di storia del libro a stampa. Il giovane studioso si rivela essere il figlio del nostro obiettivo, e ci dà la possibilità di contattare il padre. Questi accetta di metter mano per noi al proprio archivio fotografico, da decenni lasciato a dormire, e di rivisitarlo con affettuoso distacco.
L’autore stesso ci fornisce un buon numero di files ottenuti da stampe analogiche eseguite personalmente per mostre e pubblicazioni. Molti sono di immagini per noi nuove, altri sostituiscono vantaggiosamente parte di quelli ricavati dalle fonti a noi già note. Tutti insieme saranno di valido aiuto ad interpretare correttamente secondo la dell’Autore pe le immagini ricavate da atre fonti. 
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Figura 5. Easter Sunday Fashion Parade, NY. Photography Year Book 1974 fig.133 . 
Infine i suoi cenni autobiografici, seppure scarni, ci salveranno da induzioni ed esercizi di fantasia di precedenti commentatori [9] e ... nostri. E così possiamo raccontare che il giovane amatore (n. 1944), dopo un primo periodo di partecipazioni e successi in concorsi e mostre collettive, del quale rimase rara testimonianza l’articolo di Turroni sopra riportato, venne effettivamente "scoperto" da Lanfranco Colombo, che nel 1970 gli consentì la sua prima mostra personale presso la Galleria Il Diaframma [5]. Ben presto Geri interruppe gli studi universitari di Fisica per dedicarsi completamente alla professione di fotografo free-lance per la stampa internazionale. Fotografie realizzate nel corso dei suoi viaggi venivano pubblicate su quotidiani, settimanali riviste e libri negli Stati Uniti e in molti paesi europei (in Italia, per esempio, su Il Mondo). Contemporaneamente condusse un’intensa attività espositiva quasi esclusivamente all’estero, con mostre personali e partecipazioni a collettive in Europa e fino ai quattro angoli del mondo, dagli U.S.A. all’Australia e dal Brasile alla Cina. Considerato uno dei più rappresentativi fra i giovani fotografi Italiani del momento, sue opere vennero acquistate da musei stranieri. Ma all'inizio degli anni '80 Geri dovette occuparsi personalmente delle attività legate agli interessi di famiglia, tanto da abbandonare, prima gradualmente e poi del tutto, la fotografia. Le sue ultime apparizioni dirette non vanno oltre il 1984, ma sue opere continuano a comparire in ulteriori mostre dedicate alla più rappresentativa fotografia Italiana dei decenni in cui egli ha operato.
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Figura 6. Venezia, 1977 (bacino di S. Marco visto da S. Giorgio Maggiore)
Una fotografia dello scaffale in cui sono allineati gli annuari, i cataloghi e altri fascicoli occasionali in cui sono riprodotte le sue opere ci ha permesso di arricchire la documentazione figurativa, completando la serie di Photography Year Book degli anni fra il 1972 e il 1980, in ognuno dei quali compare almeno una sua opera. La loro successione ci ha aiutato a formulare una traccia sulla quale restituire l’evoluzione dell’Autore.
Sua caratteristica costante è la sapienza della composizione, distribuita nello spazio con equilibrio di stampo classico, anche quando la prospettiva geometrica è forzata coll’impiego di un grandangolo spinto (fino al 20 mm), e quando si combina con quella forma particolare di prospettiva aerea ottenuta coll’aiuto di foschie e nebbie (figura 6), che già si notava nelle foto dei primi anni (figure 1 e 2). A mano a mano si accentua la ricerca d’una geometria severa, rafforzata da forti contrasti con bianchi puri e neri intensi o addirittura chiusi. Tuttavia il facile rischio dell’aridità viene evitato dalla presenza della persona umana o da dettagli che la richiamano, spesso con una ironia garbata e benevola (figure 7 e 8).
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Figura 8. His, Hers (per Lui, per Lei). Photography Year Book 1980 fig.58.
Il bordino nero con cui l’autore costantemente racchiude l’immagine stampata (e nelle stampe da esposizione isola l’immagine entro un largo campo bianco) appare dettato, piuttosto che da una pretesa di eleganza, dall’intenzionale affermazione della compiutezza della composizione.
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Figura 8. Silhouettes. PHOTOGRAPHIE (Winthertur, CH) Juli 1977.
Nelle diapositive a colori l’impatto grafico è mediato da una forte saturazione del colore (Figura 9), che possiamo ritenere frutto d’una leggera sottoesposizione del Kodachrome in fase di ripresa.
 
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Figura 9. Storage closets. PHOTOGRAPHIE (CH) Juli 1978.
Varie mostre di successo e i frequenti portfolio ospitati da riviste fotografiche a grande diffusione portano la prova della sua popolarità. “Le sue frequenti permanenze negli Stati Uniti hanno dato alle immagini un’impronta, che per la fotografia europea risulta innovativa” (PHOTOGRAPHIE, Winthertur, Svizzera. Luglio 1978, editoriale). Reciprocamente, per i Nord-americani l’occhio con cui il loro paese è stato fotografato dall'ospite italiano era uno specchio insolito, rivelatore di aspetti da loro mai notati (o mai voluti prendere in considerazione, sebbene meno imbarazzanti di quelli bruscamente esibiti da altri stranieri come Robert Frank, Svizzero, o William Klein, Newyorkese ma culturalmente parigino e autodefinitosi straniero in patria).
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Figure 10 e 11. Dalla serie Bars (Sbarre) PHOTOGRAPHIE (Winthertur, CH) Juli 1978.
NOTE
 [1] Superfluo il confronto colla invadente, fugace, evanescente fotografia della nostra epoca digitale; ovvio e banale ogni commento. Sì, anche cumuli ben distribuiti di elettroni possono essere finalizzati a partorire immagini analogiche; ma ciò nella realtà avviene solo per frazioni fantastilionesimali di quelli partoriti dalle apposite strutture tecniologiche. Nonostante tutte le riviste di moda o di viaggi e gli album di matrimonio.
[2] In Italia fino agli anni ’60 quel poco che esisteva di editoria e pubblicistica fotografica  era orientato quasi esclusivamente alla divulgazione e all’aggiornamento in materie tecniche, e gli orizzonti artistici erano assolutamente provinciali. Chi voleva rimanere informato sulla fotografia nel resto del mondo poteva reperire soltanto in rare librerie più accorte (a Padova, la Libreria Internazionale Draghi) qualche periodico internazionale, come il mensile statunitense Popular Photography e il suo Annuario, o il britannico Photography Year Book. Coll’arrivo di Gustavo Millozzi, qui immigrato da Venezia e La Gondola, i frequentatori del Fotoclub Padova potevano prenotare il mensile svizzero Camera, principale punto di riferimento internazionale per la fotografia.
[3] La rivista Ferrania [ https://it.wikipedia.org/wiki/Ferrania_(periodico) ], fondata nel 1947 e cessata nel 1967, era sponsorizzata dalla storica industria italiana omonima, che fu per vari decenni la produttrice di apparecchiature e materiali fotografici e cinematografici dominante sul nostro mercato. Memorabile la sua pellicola P30, matrice del bianco e nero del Neorealismo cinematografico italiano. La storia dell’azienda, conclusa definitivamente e infelicemente in questo millennio, si può trovare riassunta in https://it.wikipedia.org/wiki/Ferrania_Technologies . I PDF di tutti i numeri della rivista sono liberamente consultabili in Rete sul sito https://www.fondazione3m.it/page_rivistaferrania.php . 
[4] Giuseppe Turroni, La consolazione dell’occhio,Ferrania XXI/7, luglio 1967 pagina 2.
[5] La Galleria Il Diaframma di Milano, fondata e diretta da Lanfranco Colombo, la prima in Europa dedicata esclusivamente all’arte fotografica, presentava molti maestri stranieri e giovani innovatori nostrani, esercitando così un’azione fondamentale per lo svecchiamento della fotografia italiana.
[6] APERTURE magazine è un periodico con cadenza trimestrale nato a New York nel 1952 per opera d’un gruppo di fotografi (Ansel Adams, Minor White, Dorothea Lange e altri) al fine di promuovere la fotografia d’arte. Si è presto affermato come il più importante interprete della cultura fotografica mondiale assieme al più antico Camera. Nelle sue pagine hanno trovato slancio o conferma molti dei più apprezzati fotografi delle successive generazioni, come Diane Arbus, Robert Frank e tanti altri. La rivista è ancora attiva, disponibile anche in formato digitale assieme all’archivio di tutti i numeri dalla nascita; soluzione particolarmente conveniente in Italia dove recentemente sono state “perdute” per le strade postali la metà delle copie cartacee d’un costoso abbonamento biennale.
[7] Il settimanale Epoca della Arnoldo Mondadori Editore, nato nel 1950 sul modello dell’americano LIFE, faceva ampio uso di servizi fotografici, molti dei quali sono rimasti nella storia.
[8] Brassaï, 100 photos pour la liberté de presse. Reporters Sans Frontieres, 2022.
[9] Vatti a fidare delle informazioni reperibili in rete. Esempio:Amazon presenta così Incontri con fotografi illustri, Ferdinando Scianna, 2023: “Scianna ha realizzato migliaia di ritratti: i contadini duri e dignitosi di Bagheria, le donne estasiate durante le processioni siciliane, l’amico e coinquilino (sic) Leonardo Sciascia”. In evidenza la massima, ma non unica, baggianata contenuta in quella frase, nel suo insieme atta a disorientare l’ignaro compratore sul reale contenuto del libro.
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arthistoryanimalia · 1 year
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More for #InternationalZebraDay:
Luis Paret Y Alcazar (Spanish, 1746-1799) Zebra, 1774 oil on canvas Museo del Prado
From the menagerie of Infante Luis of Spain; identifiable as a Plains Zebra (Equus quagga).
“Infante Luis Antonio Jaime de Borbón, younger brother of Carlos III, was a great fan of the natural sciences, and created a cabinet [of curiosities] in which various animals were preserved. In addition…he possessed a live zebra, an exceptional animal in Europe at the time, which was later stuffed…that this animal was liked by the Infante is confirmed by Paret's commission for this illustration, rendered halfway between portrait and scientific drawing typical of the second half of the 18th century."
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La stanza vuota
Era uno dei tuoi giochi preferiti.
Cosa c’è in una stanza vuota?
domandavi. Noi restavamo in silenzio.
Cosa c’è in una stanza vuota?
Quelli che non conoscevano il gioco
dicevano magari: Niente, e tu dicevi: No.
Niente è niente, ho chiesto cosa.
Finché qualcuno diceva, ad esempio: Silenzio.
E tu dicevi: Sì.
E un altro diceva: Polvere.
E il gioco cominciava a decollare.
Orme di passi sopra il pavimento.
Un fantasma. Una presa. Il foro
d’un chiodo. La penombra.
Il quadrato che lascia sul muro
l’assenza di un quadro. Un filo.
Una lettera per terra.
L’impronta di una mano sulla parete.
Un raggio di sole che entra dalla finestra.
Una ragnatela. Un pezzetto
di carta. Un’unghia. Una formica smarrita.
La musica che arriva dalla strada
(c’è musica senza nessuno che la ascolti?).
Una macchia d’umidità o di fumo.
Scarabocchi o uccelli o nomi
o un disegno di Laura sulla parete.
E tu dicevi sì o no.
Tu lo sapevi. Eri l’inventore del gioco.
Tu già sapevi, Carlos, cosa c’è
nella stanza vuota dove sei appena entrato.
Era uno dei tuoi giochi preferiti.
– Cosa c’è in una stanza vuota?
– Un fantasma.
– L’hanno già detto.
– Sì, ma quello che dico io è un altro.
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Juan Vicente Piqueras
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co-arch · 1 year
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RFZ / Madonna di Campiglio
Progetto di ristrutturazione di un appartamento in un edificio degli anni ’70 vicino a Campo Carlo Magno a Madonna di Campiglio. Il progetto parte dalla ridefinizione degli spazi interni ricollocando i servizi e dando una nuova configurazione agli spazi della zona giorno. Dove prima si trovava la cucina a vista, l’idea è stata quella di creare un nuovo volume nella zona giorno, che contenesse i servizi, il nuovo bagno e un angolo cottura separato dal soggiorno ma che contemporaneamente desse ordine e ridefinisse la zona giorno. Il nuovo volume è rivestito in legno lamellare di larice con finitura naturale per rendere visibili le venature calde del legno, scandito da listelli verticali della stessa essenza. La sfida è stata quella di ripensare le classiche “perline” da montagna mantenendo il materiale ma rivedendone la tecnologia e la finitura. La zona giorno è ora delimitata dal nuovo cubo di legno servizi e dalla parete vetrata con vista sulle dolomiti del Brenta. L’uso di materiali naturali sia per il pavimento che per gli arredi su misura riscalda l’ambiente e lo rende accogliente e montano allo stesso tempo. La zona pranzo è caratterizzata dal disegno lineare di una nuova panca su misura che si accosta al tavolo e alle sedie esistenti, in stile tirolese. Sono stati ridisegnati anche i copricaloriferi in larice con fori rotondi CNC. Il corridoio è scandito dagli stessi listelli verticali, presenti sulle pareti della zona giorno, posizionati equidistanti, per dare ritmo alle pareti intonacate bianche e sono intervallati da piccoli appendini in legno di larice. Le pareti intonacate hanno una finitura materica in intonaco d’argilla per contribuire col legno al ritmo di luci e ombre. I faretti e le placche sono nere opache per enfatizzare il nuovo intervento e per creare un contrasto col legno di larice. Le maniglie IKI sono un prodotte DND anche loro scelte in nero opaco. Il corridoio porta alla zona notte: due camere doppie e un bagno, la nuova divisione dello spazio permette di avere una camera con bagno all’interno. Un’apertura quadrata con vetro flutes multirighe verso dalla camera dà luce naturale al bagno esistente, prima cieco. Per i rivestimenti dei bagni è stato usato Cosmo di 41zero42 un brand nuovo che fa ricerca sui materiali coinvolgendo i designer, uscito quest’anno nel 2021, nei colori cotto e grigio verde, dato che col suo puntinato ricorda i fiocchi di neve. Per i pavimenti di tutta la casa abbiamo scelto il larice di Fiemme 3000, materiale certificato bio a tutti gli effetti, l’azienda descrive così l’effetto benefico del materiale all’interno dello spazio: Per garantire in casa lo stesso habitat del bosco, le emissioni rilasciate dai pavimenti, sono le stesse che si ritrovano in una foresta incontaminata e, proprio come queste, agiscono in maniera benefica sulla salute delle persone. Basti pensare che si trovano l’olio essenziale di cirmolo e di abete rosso che da soli emettono nell’aria l’Alfa-Pinene, sostanza terapeutica per eccellenza, tipica dell’aria di montagna. Arredi / Furnishing CUCINA SU MISURA in LEGNO DI CIRMOLO Boiserie, armadi e pareti in legno su disegno di co.arch studio Maniglie IKI di DND design by Alessandro Stabile e Mario Scairato Luci / Lights Wall lamp TEN by FARO Barcellona Faretto da soffitto nero opaco Flos Kap80 Paralume cilindro Alpi Ganzaie by La Corallina Paralume ventola a parete Alpi Lagoria by La Corallina Paralume ventola a parete Alpi Misurina by La Corallina Architetti co.arch studio / Giulia Urciuoli e Andrea Pezzoli https://www.coarchstudio.it/ https://www.instagram.com/co.arch.studio/ Photos by Riccardo Giancola https://www.instagram.com/riccardo_giancola/ Molto felici di essere sulla homepage gi DnD Hangles https://www.dndhandles.it/projects/rio-falze-campiglio/
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lamilanomagazine · 2 months
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Verona ospita gli intarsiatori lignei di tutta Italia
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Verona ospita gli intarsiatori lignei di tutta Italia L'evento, organizzato dall'Associazione Culturale Quinta Parete in collaborazione della 1^ Circoscrizione di Verona – Centro Storico è curato da Federico Martinelli. Diciannove gli intarsiatori (Carlo Alfarano, Arturo Biasato, Alberto Bernardi, Marcello Buccolieri, Carletto Cantoni, Sereno Cordani, Carlo Favini, Bruno De Pellegrin, Nino Gambino, Lino Giussani, Francesco Lazzar, Giuseppe Mazo, Massimo Milli, Duilio Negroni, Carlo Nicoletti, Daniele Parasecolo, Fabio Tamburi, Aldo Tomelleri, Pino Valenti) che prendono parte a questa edizione consolidando sempre più l'idea di far diventare questa fucina culturale ed espositiva un progetto continuativo con la necessità di consolidare quest'arte nella sua proiezione moderna e contemporanea. La mostra, presentata oggi dal consigliere della Circoscrizione 1^ Andrea Trombini e dal presidente di Quinta Parete Federico Martinelli- nasce dal desiderio di recuperare l'edizione 2020 interrotta a causa dell'emergenza sanitaria. Nel frattempo, giunta alla decima edizione, la Rassegna ha allargato l'interesse espositivo anche ad artisti emergenti e allievi incrementando il valore divulgativo che essa si prefigge. Una mostra che vuole altresì sdoganare l'accostamento di quest'arte al solo artigianato: le opere esposte sono pezzi unici dall'alto valore artistico. "Accanto alle forme e alle immagini più classiche – spiega Martinelli-, ricordiamo i celebri lavori di fra Giovanni da Verona che hanno ispirato alcuni degli artisti presenti. Nel corso dei secoli, e in particolare nel Novecento, si è assistito a un vero e proprio avvicinamento di quest'arte alla raffigurazione e alla rappresentazione iconografica delle Avanguardie. L'intarsio è anche questo: è racconto libero, energico, vitale. Troviamo, accanto a vedute classiche di solidi, paesaggi, soggetti sacri e nature morte, immagini e linee oblique, diagonali e ossimori prospettici. Troviamo, eccellente, il desiderio di raccontare tanto l'esperienza del passato quanto lo slancio del futuro". La necessità di dare un segnale ha mosso l'entusiasmo dei partecipanti che, riuniti in questa grande esposizione, intendono mostrare come l'arte dell'intarsio sia in grado di rinnovarsi sia nella tecnica che nella raffigurazione dei soggetti allo stesso modo di come accade in pittura, scultura, incisione e fotografia. In occasione dell'inaugurazione, il 23 marzo alle 17, saranno presenti, oltre al curatore Federico Martinelli, gli esponenti della 1^ Circoscrizione e alcuni dei maestri intarsiatori. Alle 18 seguirà la conferenza dal titolo 'Dall' intarsio rinascimentale a quello moderno' tenuta dal prof. Francesco Lazzar e da Federico Martinelli. L'esposizione, a ingresso gratuito, è aperta tutti i giorni dal lunedì al venerdì dalle 16 alle 19, il sabato e domenica dalle 10 alle 19. La domenica di Pasqua dalle 16 alle 19. Durante le giornate di mostra si terranno laboratori gratuiti di intarsio la cui partecipazione è vincolata alla prenotazione: [email protected]... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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designmiss · 10 years
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tastatast · 3 months
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Ristoriante Del Cambio - Sala del Risorgimento
LA LOCALITZACIÓ
Situat a la Piazza Carignano del centre de Torino (Piamonte), Del Cambio és un restaurant històric en un palazzo del 1757, un restaurant pel que hi han passat personatges com el polític italià Cavour, Puccini, Balzac, Nietzsche, Verdi o Audrey Hepburn, entre moltes altres personalitats.
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Reobert l’abril de 2014 per l’empresari Michele Denegri i el cuiner Matteo Baronetto, el menjador està dividit en dues sales. Per una banda, la del Risorgimento, la més cèlebre i representativa, restaurada respectant la integritat del lloc. I, per altra banda, la sala Pistoletto, que porta el nom de l’arquitecte i artista italià Michelangelo Pistoletto encarregat de la decoració d’aquesta sala que, com que no es va mantenir en bon estat, van decorar de manera més moderna, amb la sèrie “Evento”, 8 quadres-mirall amb persones “normals, de la vida” i taules i cadires del dissenyador italià Martino Gamper, unes taules rodones parades de manera exquisida, sense estovalles per deixar veure les precioses taules amb talls de diferents fustes, i unes cadires de vellut vermell, sent, a la vegada, un espai modern però mantenint una continuïtat estilística amb la sala del Risorgimento.
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Encara que totes dues sales siguin bellíssimes i de gran impacte visual, per ser la primera vegada que hi anàvem, em feia especial il·lusió menjar a la sala del Risorgimento que, de fet, és on hi havia tots els clients. Tant és així que vaig fer la reserva concretament en aquesta sala amb una decoració vuitcentista molt ben reformada i posada al dia, mantenint en molt bon estat els miralls; els bancs, cadires i cortines de vellut vermell; el terra de fusta; els artesonats i els daurats del sostre, les columnes i les parets; uns frescos bucòlics; i unes fastuoses aranyes amb penjolls de vidre i espelmes. El parament en aquesta estança també és exquisit. En aquest cas, 11 taules amb estovalles blanques de fil i uns plats de porcellana de Sèvres dissenyats per Izhar Parkin, qui ha pintat a mà amb el nom del restaurant i motius daurats, seguint tècniques tradicionals del segle XVIII. En definitiva, un espai magnífic que convida a la celebració, ideal per a passar una vetllada inoblidable.
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El celler també és de menció especial. Ben bé 2 o 3 pisos sota terra, un seguit de passadissos i petites sales de pedra fosca i humida, algun racó amb tauletes i llibres, alguns apartats tancats amb reixa de ferro, pany i clau i una sala amb sostre convex amb una taula de fusta per a més d’una dotzena de persones per la que segur que hi han passat grans ampolles i grans personalitats. Un celler de 300 m2 del s. XVII, més antic que el local i tot, en el que hi guarden unes 20.000 ampolles de 3.000 referències diferents.
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A l’edifici també s’hi troben altres locals com la Farmacia Del Cambio (la cafeteria-pastisseria-bistrot) i el Bar Cavour, on vam prendre uns còctels abans de sopar. Tot i així, encara que sigui una autèntica marca, és a dir, una casa capaç de donar al client experiències diferents i en tots els moments del dia, des de l’esmorzar fins a l’última copa de la nit, en cap moment sents que estàs en un restaurant d’un empresari que ha col·locat un cuiner al seu negoci. 
EL CUINER, MATTEO BARONETTO
Nascut el 1977 a Torino i fill de treballadors de la fàbrica Fiat, la vocació per la cuina no li venia de família, sinó de la seva pròpia determinació quan va abandonar els estudis de comptabilitat iniciats per a satisfer el seu pare pels de cuina.
Començant a treballar en una pizzeria per a pagar-se la moto i després d’estudiar a l’Alberghiero di Pinerolo (a uns 50 km de Torino), el seu bagatge com a cuiner professional passa per cuines com la tradicional piemontesa de La Betulla (a San Bernardino di Trana, Torino) del cuiner Franco Giacomino, la de Gualtiero Marchesi a l’Alberetta d’Erbusco (Lombardia) i passant 13 anys (del 2001 al 2013) al costat de Carlo Cracco a Le Clivie (Piobesi d’Alba, Piamonte) i sobretot al Cracco-Peck de Milano.
Un cuiner que, tot i ser d’abast cada vegada més internacional, sembla estar una mica fora del circuit més mediàtic, em pregunto si de manera deliberada. Tot i que tant sols sis mesos després de navegar en solitari a Del Cambio, aconseguís la primera estrella Michelin (que encara manté), no apareix als The World’s 50 Best i surt al número 116 de la OAD d’Europa del 2023.
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Baronetto és un cuiner que escriu i qui ha publicat llibres molt interessants com Cuccina piemontese contemporanea (2021) amb prefaci de Fulvio Pierangelini; Iconiche similitudini (2022), un petit llibre molt ben editat, un recull de 32 plats dels menús “Similitudini” i il·lustrats per ell mateix, en el que explica el plaer d’observar i percebre ingredients, aromes i sabors que, tant a la natura com a la cuina, s’assemblen però dels que no estem habituats a menjar conjuntament; Pensieri e vapori (2023), un encara més petit llibret editat amb molta sensibilitat per Archivo Tipografico en el que, a través de 3 receptes sorprenents, exposa pensaments i alterna reflexions sobre cuina i el que representa treballar de cuiner.
Desconec quina era la seva actitud quan era més jove però, actualment, em sembla una persona tranquil·la, reflexiva, amb sensibilitat plàstica, amb un bagatge gastronòmic envejable al costat de dos grans cuiners italians com Marchesi i Cracco i amb moltes coses a dir. Un cuiner transversal, amb interès per altres arts més enllà de la cuina. Un cuiner orgullós de ser torinès, que respecta la cuina tradicional piemontesa i amb un gran potencial a nivell creatiu.
L’OFERTA CULINÀRIA
Per una banda, ofereix tant l’opció de menjar a la carta (amb plats d’entre 50 i 65€ i postres de 25-30€) com dos menús, tots dos de 175€ i amb un maridatge de 130€. El menú Ri-velare, a base de 5 plats i 1 postres, mostra la seva cuina més amable i coneguda, amb receptari tradicional torinès i piemontès. El menú S-velare, en canvi, a base de 6 plats i 1 postres, mostra la cuina més arriscada i personal d’en Matteo.
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Desconec la diferència a nivell de significat entre Ri-velare i S-velare, entenc les dues paraules com el fet de donar a conèixer coses desconegudes, revelar secrets i misteris; també, com a fer evident i fer palesa la pròpia essència, demostrar les característiques personals de manera sorprenent, mostrant-se tal com s’és i manifestant la pròpia personalitat.
A més a més, per altra banda, des de l’obertura de Del Cambio l’any 2014, també ofereix Il tavolo dello chef, un espai a la cuina del restaurant, per a 4 comensals i amb la possibilitat de menjar un menú especial de 285€. Una habitació annexa a la cuina i en la que només hi entra algun cuiner i els cambrers. Un espai íntim que no només és especial perquè es puguin veure els cuiners treballant, no és un simple voyeurisme, sinó que és un espai exclusiu gestionat directament per en Matteo i en el que ell configura un menú d’entre 8 i 12 plats que dissenya mitjançant un diàleg amb el comensal. És el menú on més es pot veure l’essència de la cuina d’en Matteo i on es fa més palès tant el seu estil com el seu discurs.
A en Baronetto li agrada definir les dues experiències com anar al cinema o anar al teatre.
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Tenint en compte les ganes que tenia de conèixer la seva cuina, que feia el viatge a Torino expressament per a conèixer-lo a ell i la quantitat i varietat d’ofertes culinàries de Del Cambio, vaig voler fer-hi dos àpats: un sopar a la sala del Risorgimento (a les 19:30h) i un dinar a Il tavolo dello chef (a les 12:30h). En aquesta primera crònica, explicaré el primer àpat, en el que en Matteo ens va fer un menú de 6 plats i 1 postres (més els aperitius, la gran varietat de pans i els petits fours) barrejant el menú S-velare i el Ri-velare i, fins i tot, servint-nos algun plat de la carta, una gran deferència que ens va fer, mostrant cortesia i complaent els meus desitjos, i que li agraeixo de tot cor. 
L’ÀPAT
Vam seure a la taula del costat de la d’en Cavour, una de les taules amb més visibilitat a tot el local, permetent-nos veure el Palazzao Carignano (un palau barroc, antic Govern i actual Museo Nazionale del Risorgimento Italiano), tota la sala del Risorgimento i, també, la sala Pistoletto. 
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SNACKS DI BENVENUTO
Consomé.
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En una copeta Pompadour petita, una reducció d’un brou clarificat de vedella i verdures servit ben calentó, deliciós.
Macedonia condita di verdura e frutta.
Tot i que potser associem més la paraula macedònia a les postres i únicament a les fruites, es tractava d’un petit bol amb 7 petits tastets que s’havien de menjar en el sentit de les agulles del rellotge: 
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Physalis alkekengi o alquequengi: un fruit ataronjat, de la mida d’una tomaqueta cherri, una mena de mini-mandarina o mini-cumquat esfèric, agredolç.
Aranja (pomelo o toronja).
Mig mini-xampinyó: ben cítric.
Mig raïm blanc.
Un segon bolet petit i també de cultiu (cyclocybe cylindrace,en italià Pioppino o Chiodini, un pollancró o cama-sec de soca).
Mitja tàpera.
Una oliva Taggiasca pansida amb una melmelada de peperoncino (bitxo, xili) per sobre.
Diversos gustos i consistències. Acidesa, dolçor, salabror, tocs cítrics i agredolços. No em va entusiasmar.
A la vegada, serveixen els famosos cruixents d’arròs que deixen durant tot l’àpat.
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Una generosa quantitat d’unes xips que semblaven fregides amb oli de gira-sol, un pèl massa salades i olioses però estèticament, per la varietat de colors i la seva fragilitat, translúcides, ben maques. Per a trencar o trossejar i menjar amb les mans. N’hi havia ben bé una dotzena de diferents: 
El blanc era de safrà? Tenia gust de crispeta, de blat de moro fregit.
El pla era de grosella? Molt bast, gust d’oli de gira-sol fregit. Molt salat.
Blanc amb punts verds: bastant insípid.
Vermell: bastant insípid.
Verd dur: d’oliva Taggiasca? Oliós.
Verd tou: d’enciam?
Tres “crispells” triangulars, d’una altra massa més densa i gruixuda: blanc de parmesà suau, vermell i triangle de romaní?
Negre prim: tinta de sépia o de calamar. 
Negre gruixut: tinta de sépia o de calamar. 
EL MENÚ
Lenticchie e caviale. 2015
Un joc basat en la similitud que hi ha entre les llenties negres i el caviar. Unes llenties de la varietat beluga (o caviar) de Sicília, cuites a foc baix (confitades) amb mantega clarificada, barrejades amb caviar beluga del nord d’Europa. A la base, una línia que era una reducció de canyella.
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Se suposa que les confiten amb mantega per estovar-les però eren unes llenties petites, ben crocants, gens farinoses, cruetes, duretes, al dente, senceres, gens despellofades. El plat feia olor de canyella. Hi havia mossegades que tenien més gust de canyella (i dolçor) que d’altres. Hagués preferit més salabror de caviar, només hi havia quatre grans de caviar. Això sí, el gust de mantega no es notava. Servit tebi, molt amable. Un joc de textures singular i sense la pretensió de sorprendre epatant.
ELS PANS
Grissini torinese.
Fets amb farina 00, és a dir, de sèmola (farina en la que el gra està mòlt més gruixut), i amb llevat, oli, sal i aigua. Eren del tipus stirato (no els més tradicionals rubatà, que són enrotllats i tenen forma de nus). Especialment bons, més fràgils i lleugers que altres grissini. Cruixents i saladets.
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Pane in burro con sal Maldon e finocchieto.
Un pa de pasta de full, fet amb mantega i ou i amb sal Maldon i llavors de fonoll per sobre. No estava calent.
Pagnotta.
Una fogassa o pa de pagès, un pa rodó de massa mare, amb llevat natural, fet amb 3 tipus de farina (blat, arròs deshidratat i ordi germinat durant la fermentació) i amb lli i pipes de carbassa per fora. Tenint la Farmacia Del Cambio, entenc que deu ser fet per ells. Per dins estava calent. Un pa bastant dens, gairebé tant pesat com un pa alemany. Gustativament, es notava l’ordi. 
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Insalata Piemontese di Matteo Baronetto.
Presentada com “amanida piemontesa”, ens diuen que té més de quaranta ingredients amb diferents tipus de cocció i textures diverses. No hi ha un ordre a seguir, ni un inici ni un final, sinó que la idea és de generar una confusió endreçada.
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Ofereixen un recordatori plegable com un sobre, d’un paper verjurat preciós, en el que hi ha una pintura abstracta feta per en Matteo mateix i amb l’ajuda d’un dissenyador gràfic. Es tracta d’un dibuix o una pintura de l’amanida, fugint de les típiques fotografies dels plats que apareixen als llibres de cuina. Una mena d’esquema pictòric de l’amanida a base de diferents figures geomètriques simples, línies pures i colors diferents. Em fa pensar en alguns quadres del constructivisme rus de Malévich o del neoplasticisme d’en Mondrian o en Ben Nicholson. Segons en Matteo, els colors i les geometries representen bé la sensibilitat del que vol transmetre. També incorpora una petita explicació, gairebé com si fos una poesia visual, mencionant alguns dels ingredients. I, finalment, també hi diu el següent: “L’excepció que confirma la regla, un himne a la recerca i a l’experimentació. No conservar a la nevera, pots emmarcar-lo i penjar-lo a la paret com un quadre”. M’agraden aquests tipus de suports o complements informatius i amb tocs artístics que, cada vegada menys, ofereixen els restaurants. Tot i així, vaig preferir estar per l’amanida i mirar-me aquesta làmina a posterior.
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A continuació, intento reproduir cronològicament el que vaig anar menjant.
Radicchio amb ginebró.
Carbassa amb canyella: consistència raríssima.
Api-rave o nap dolcet amb llet o algun làctic líquid.
Carxofa (bullida?): deliciosa.
Enciam amb maionesa i furikake (alga nori, sèsam…). Potència i salabror però finesa, sense tenir aquell gust de glutamat bast.
Tirabec (amb bergamota?).
Rodanxa de pebrot vermell: picant de vinagre.
Fonoll (el bulb).
Romanesco altra vegada.
Parmesà: oh, no és parmesà, és algo tou, mig liofilitzat, amb un gust que em recorda les neules i els melindros. Deu ser el biscuit savoiardi, per cert, ingredient principal del torinès tiramisú.
Espinac amb avellana.
Datterino deshidratat: molt de gust de concentrat de tomaca.
Radicchio (o col lombarda?) amb ginebra: un pèl massa alcohòlic aquest tall.
Pebrot verd allargat o cogombre sense gust de cogombre: molt amarg.
Bolet (cep blanc?): té un punt de gust de cianur.
Fulla de coliflor verda amb aigua d’olives o més aviat colatura d’anxova.
Ara la ginebra de la col lila és molt més amarga i desagradable.
Ara el datterino sembla dolç i salat.
Escarola per relaxar el paladar.
Ceba petita/escalunya: vinagre molt suau.
Bròcoli amb colatura.
Pastanaga amb parmesà per sobre.
Les tres floretes dolcetes: semblen un pastisset! Són de massapà!
Cirera amarga maraschino: és dolça.
Un trosset de parmesà.
Pebrot vermell però tallat diferent.
Castanya fumada partida per la meitat.
Pebrot groc.
Julivert.
Tirabec.
3 avellanes crues boníssimes, cada una amb rovell d’ou curat a la base.
Rave.
Nap amb?: un d’aquests naps francesos o un salsafí o una xirivia. No m’agrada gaire el punt amarg i fins i tot metàl·lic. 
Col llombarda més tova, gens crocant, menys gustosa, boníssima.
Nap allargat amb gust del perfum del Mandarin Oriental.
Kale bastant neutra.
Un salsafí.
Remolatxa gens terrosa, amb algun bitter.
Salsafí amb gust d’alga nori perquè està a prop de l’enciam.
Un nap.
Més escarola amb julivert.
Com que molts dels ingredients estaven duplicats o, fins i tot, triplicats, a partir d’aquí, els vaig barrejar.
Uau! Aquí hi ha més textures, crocants i consistències que al Disfrutar! Ja s’entén que és un dir. Ara queden unes barreges inverosímils que, tot i ser aleatòries, totes queden bé, és màgia. Acidesa, dolçor, salabror, amargor, làctics, especiats, envinagrats, cítrics, sapiditat, tocs metàl·lics, un punt fumat a la castanya, cremosos, crocants, cruixents, picants suaus, astringències amables, frescor vegetal i pesadesa dolça per la maraschino o la floreta de massapà… Tocs de terra (espinacs, remolatxa,) i tocs de mar (nori i salsa tonnata). Castanya fumada amb pastanaga. Maraschino amb espinacs. Tirabec amb massapà. Xampinyó tou, sucós i esponjós amb avellana crua i dura. Datterino amb nori. Wasabi amb salsa tonnata.
La qualitat de les verdures era molt bona. Totes mantenien el seu gust i, a la vegada, el del condiment. Eren de l’hort de Moncalvo (a la província d’Asti) i de pagesos del voltant de Torino. 
M’agrada el fet que es mengi aleatòriament, de manera anàrquica (de fet, visualment pot recordar l’”Anarkia” d’en Jordi Roca) i m'agrada que ni tant sols indiquin ni un inici ni un final. Fa anys que estic cansada que em diguin com m’he de menjar els plats (sobretot perquè la majoria de vegades, la recomanació no té cap lògica). En algun moment, alguns ingredients els vaig menjar amb les mans. També em va agradar el fet que tingués molts dels productes per duplicat o triplicat, permetent tastar-los primer per separat i després combinats entre ells.
Un plat (o una composició) que em sembla que resumeix molt bé la cuina d’en Matteo, hi ha tradició i innovació i hi ha bellesa visual i gustativa. Creativitat ben entesa, estètica, tècnica, gust, paisatge, refinament, harmonia, volum, estructura i explosió de gustos i textures. Un plat efímer per l’escassetat d’alguns dels ingredients i per la seva curta disponibilitat, per temporada. Un gran plat que em sembla atemporal (difícil que passi de moda) i transversal. Un plat d’una riquesa gastronòmica que demostra el recorregut i la maduresa gustativa i culinària d’en Matteo. Demostra el seu domini tècnic amb les diferents coccions, els diferents olis i vinagres i la varietat de condiments i amaniments. Per una banda, d’una complexitat extrema pel que fa a l’elaboració; i, per l’altra, tant fàcil de menjar i disfrutar. 
Un plat que vaig tardar 45 minuts a menjar, detall que trobo importantíssim! Penso en lo ràpid que es mengen els plats de l’alta cuina actual i en l’estona que es dedicava abans a menjar-los; és clar que la mida de les racions també ha canviat. Penso en plats històrics com la pularda de Bresse en vessie d’en Paul Bocuse, el turbot a la brasa de l’Elkano … us imagineu menjar-los en una d’aquestes versions finger food o bite-size?
També m’agradaria destacar positivament que és un plat que només ofereix a la carta, no està a cap menú, m’agrada perquè això vol dir que només es pot menjar en ració “gran” o ració “a la carta” i m’agrada perquè, d’aquesta manera, està dient que és un restaurant per tornar-hi, per menjar, per anar-hi sovint, per gaudir-hi menjant i no només de manera intel·lectual.
Un plat que t’absorbeix en el descobriment de sabors, de textures, de consistències, de combinacions. Vaig quedar immersa en aquest mar o, més ben dit, oceà, o encara més ben dit, jardí de les delícies. Un plat del que se’n pot estar parlant i divagant durant hores, que es presta a filosofar sobre cuina. Un d’aquests plats-obra o plats-icona. Un plat per viure, per ser menjat i gaudit. Un referent. Estèticament preciós, amb una gran varietat de colors ben vistosos. Els vegetals no estaven ni freds ni calents, sinó atemperats, a molt bona temperatura. Un plat lleuger però amb la mateixa intensitat de gust que podria tenir una tradicional finanziera piemontese.
Una amanida que en Matteo va adaptant estacionalment als productes de temporada, amb la dificultat i complexitat que això comporta. Jo hi vaig trobar ben bé una cinquantena d’ingredients vegetals (i rovell d’ou curat amb sal, parmesà i salsa tonnata): fulles, herbes, fruits, fruits secs, llavors, brots, tiges, bulbs, espècies, tubercles, arrels, rizomes, algues, bolets… Diferents coccions: crues, macerades, escaldades, confitades, bullides, al vapor, infusionades, envinagrades, enfornades… amb les seus respectius punts de maduració, talls, grossors, torsions, rigideses… Diferents vinagres (sobretot d’arròs i de vi blanc, diria que no n’hi havia de poma) que, a més, moltes vegades enriqueix aromatitzant-los de manera natural amb altres ingredients. I, també: diferents olis (també, molts vegades, aromatitzats), amaretto, vi negre, aigua d’olives, colatura d’anxova, salmorra, etc.
Destaco especialment la varietat de fulles, enciams, endívies, cols i naps perquè són vegetals que no tinc al meu entorn (i molt menys amb el seu punt de frescor) i que allà semblen més habituals. Només cal visitar el Mercato di Porta Palazzo i el Mercato Centrale di Torino i contemplar la riquesa de verdures de fulla verda que tenen: una parada amb 3 tipus de cards (bianco, verde i gabbo), cima di rapa (una mena de grelos o espigalls), un munt de varietats de radicchio (rosso di Treviso, di Verona, di Chioggia, di Castelfranco, tardivo, variegato, puntarelle o cicoria Catalogna…), etc.
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També és de menció especial la dificultat i el nivell de detall i meticulositat de l’emplatat. De fet, el dia següent, des d’il tavolo dello chef vam poder veure que tenen una foto del plat penjada a la cuina, l’únic plat que tenen fotografiat i penjat, i com els cuiners encarregats d’aquesta tasca la consulten vàries vegades. Em pregunto si, com en el cas de la Gargouillou d'en Bras, només alguns cuiners tenen l’honor de poder emplatar aquesta elaboració.
En Matteo ens explica que la idea va sorgir quan alguns clients que anaven a Del Cambio demanaven una amanida i ell va dir: doncs vaig a pensar una amanida que sigui excepcional; no la millor, recalca, però sí que recordis i que sigui ben bona. Un plat del 2016 i que, en la primera versió, tan sols tenia 7 elements. Tot i així, de seguida va veure que podia convertir aquell plat en un “pensiero profondo” i va anar-li afegint cada vegada més ingredients i més dificultat. Diu que és un treball d’introspecció, un mirall del que porta a dins, un reflex de com se sent, una porta oberta al seu estat d’ànim. Ja l’entenc, de fet és el que busco, plats amb ànima, amb l’ànima del cuiner, busco cuiners en els que la seva cuina sigui l’expressió de la seva persona, que posin en el plat qui són i com son. Però quan ens posem tant reflexius, vist des de fora em pot arribar a semblar un relat excessiu o una explicació innecessària, més per vendre que una altra cosa. No sé per què, quan ho sento dir als cuiners, no m’acaba d’agradar. Potser el que no m’agrada és posar-ho en paraules, però sí trobar-ho en els plats.
El cas és que és un plat inoblidable, de les millors amanides que he menjat mai, en el sentit més estricte de la recepta, tenint en compte el concepte tant ampli del que entenem per amanida. Un plat vegetal que situo a l’alçada de la històrica Gargouillou d’en Michel Bras i de la famosa Insalata 21, 31, 41, 51… de l’Enrico Crippa. El millor plat de l’àpat? M’atreviria a dir, fins i tot, un dels millors plats d’en Matteo. De ben segur, un dels seus plats insígnia. També és curiós que una de les millors amanides de la meva vida l’hagi menjat a l’hivern i, a més, sigui d’un cuiner que no fa bandera precisament d’oferir una cuina exclusivament vegetal ni vegana ni naturalista.
Mozzarella e olio di oliva.
La idea és servir una mozzarella amb oli d’oliva. Han recreat una mozzarella utilitzant, per la part de dins, una amanida (entenc, enciam) cuita al buit amb crema de llet; i, per la part externa, han fet servir una oblea, una hòstia banyada amb crema de llet. Per sobre, a taula, hi serveixen unes gotes d’oli Frantoio de Franci (de la província de Grosseto, a la Toscana), el Villa Magra Grand Cru.
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Un plat increïblement deliciós. Tallar la “mozzarella” ja és un plaer: sentir el cruixent (un cruixir excepcional) i veure com rebenta la part blanca externa i es desprèn la llet és... A nivell visual em sembla preciós, simple, despullat i auster. Una manera d’emplatar sense acompanyaments ni floritures que trobo ben arriscada perquè, si el poc que presentes, no dóna la talla, encara es nota més. Predominava l’olor d’oli. A nivell de textures, tornava a aparèixer el cruixent (també auditiu) i ara també la cremositat de la mozzarella i el punt de crema de llet líquida que desprèn. Verdor vegetal i el punt lleuger de greix de la mozzarella més un trosset d’anxova a dins que li aportava salabror. També hi havia menta, quina frescor! Un toc fresc que venia molt de gust després de l’amanida piemontesa. Un plat servit més fred que l’amanida. Insisteixo en la part acústica del plat, en el soroll cruixent, la part del sentit de l’oïda d’un plat, un aspecte que obviem moltes vegades. Vaig llepar el plat i l’oli era un punt picantet.
Encara em sembla increïble que la part externa no fos una mozzarella, negaria rotundament que allò era una oblea, que sempre són secants i es queden enganxades al paladar. Una manera ben diferent (i tant millorada!) de treballar aquesta massa.
Un altre plat inoblidable i un dels millors de l’àpat.
Carne cruda.
La interpretació d’en Matteo de la carne cruda alla piemontese, una versió molt més delicada que la de la recepta tradicional, que s’acostumava a fer amb carn de cavall crua. 
Una mena de versió oriental: 3 nigiris o rotlles d’escuma de clara d’ou cuita al vapor i embolcallats per albese di fassona, és a dir, un carpaccio de filet de vedella de la raça piamontesa fassona i tallat a mà amb ganivet, all'albese, en dialecte albèisa, a la manera d'Alba.
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La clara d’ou cuita al vapor quedava com una mena d’escuma densa i ferma, no ben bé com una merenga. El tall de carn era molt fi, sense arribar a ser transparent, i amb un gust molt subtil. Un tall magre, amb una textura molt tendra, gens fibrosa, no necessitava pràcticament ni mastegar-se. Bravo pel domini tècnic del tall! D’acompanyament, uns espinacs “arrebossats” amb una beurre noisette i parmesà que tenien gust de croissantet.
Es tractava de banyar els rotlles a la salsa citronette que servien en un platet a part i, a continuació, “arrebossar-ho” amb el parmesà ratllat que teníem en un tercer platet. La salsa citronette (a base d’oli d’oliva i suc de llimona) era molt àcida i cítrica. Un plat ben diferent, una manera molt Baronetto de renovar (més que desconstruir) una tradicional carne cruda all'albese.
Raviolis d’arròs, 5 musclos i espinacs. I una mica de safrà.
Servit calent, feia olor de safrà i de mar amb cítrics. Els espinacs tenien gust de salicòrnia, potser tenien l’aigua de cocció dels musclos barrejada amb l’emulsió de safrà.
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5 raviolis d’una massa d’arròs centrifugada com si fos una crema d’arròs i farcits de líquid de safrà. 5 mossegades meravelloses d’uns raviolis amb una massa finíssima i delicada que rebentava generant una explosió d’una càlida emulsió de safrà deliciosa.
5 musclos que van passar sense pena ni glòria, ni gaire grossos ni gaire gustosos, i que no vaig trobar integrats en el plat. Tampoc em va venir de gust barrejar en una mateixa mossegada un ravioli amb un musclo. Semblaven cuits al vapor. Potser els hagués tirat per sobre unes gotes d’algun oli o emulsió de safrà com a fil conductor del plat i perquè estiguessin calents com els raviolis.
La part cítrica dels espinacs allargava el gust, potenciant, sobretot, el safrà.
Un plat que no vaig acabar d’entendre, potser la idea sorgia d’un plat de musclos al safrà? 
Piccione e parmesano. Scarola e carciofa.
Un pit de colomí rostit i, posteriorment, enfornat amb una cobertura de parmesà d’1 mm que li aportava un aspecte de roca, que feia poca olor de parmesà i que no era precisament cruixent, sinó que estava molt integrat a la pell de la carn i li aportava un punt de salabror. Un pit de colomí molt bo, molt ben cuit, gairebé cru, tou, morbido i ben vermell per dins. Una combinació ben diferent. La cobertura de parmesà embolcallant el colomí em va fer pensar en la pell que es fonia sobre el colomí del Reale.
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D’acompanyament, una amanida d’escarola condimentada amb un suc de carxofa. Semblava que mengessis carxofa i no pas escarola. Dues amargors i dues astringències, totes dues suaus i amables, molt agradables, gens metàl·liques.
El ganivet també era de la Scarperia Saladini com els que ens van servir al Reale, també pel colomí.
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Ens van oferir formatges però no ens venien de gust, com de costum en aquest moment de l'àpat.
POSTRES.
Cretto.
Unes úniques postres que prenen el nom de l’obra Cretto del pintor Alberto Burri, una obra d’art ambiental d’uns 80.000 m2 de ciment en els que hi va haver les runes del terratrèmol de Belice (Sicília) el 1968.
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Al plat, el Cretto en sí és una esfera amb: per una banda, una part sòlida que era un cremino dens i escumós, una mena de mousse d’avellana; i, per altra banda, una part aquosa, que era un vinagre de mel que tenia bombolles com el cava Kripta d’El Celler de Can Roca. A la base, una galeta de mantega i mel. Visualment, em va fer pensar en un paté de foie. L’olor de vinagre era suau.
Servit en un bol a part, un sorbet d’ametlla amb pol·len. 
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El gust de mel de la galeta de la base del Cretto quedava molt bé amb el pol·len del sorbet.
PICCOLA PASTICCERIA.
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Dattero con nocciola: la boleta petita, amb una avellana sencera a dins.
Bignè alla crema: la bola grossa, un bunyol amb massa de lionesa, farcida de crema i glassada amb sucre de llustre per sobre. La massa no em va agradar gaire, era un pèl dura.
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Bugie o Chiacchiere, també coneguts com a Frappe o Crostoli, una massa fregida amb llard i amb sucre fi per sobre. Més fina, prima i fràgil que les més tradicionals que he menjat a les pastisseries però igualment seguint la recepta clàssica. Boníssim! Semblant a les orelletes. A la base del bol, una bona quantitat de sucre filat, un núvol de fira blanc.
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Frutta secca de remolatxa, pinya, taronja, carbassa amb xarop i poma. Una mena de cristallines com les famoses d’en Michel Trama. La de poma va ser la menys crocant, semblava feta amb una altra tècnica, liofilitzada i tot.
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3 Cremini: 3 faves de xocolata i fruits secs: 
Cremino de xocolata blanca i festuc: tenia gust de cafè, dels grans de cafè que hi havia al fons del plat (Pordamsa) i era tovet.
Cremino de xocolata, canyella i ametlla: era saladet, em va agradar.
Cremino de xocolata negra del 55% amb gerds i avellana: em va agradar més el segon.
VAM BEURE
Una ampolla de la Malvasia 2015 de Damijan Podversic (Venezia Giulia IGT) servit en una copa que no coneixia, d’Archè, bufades a mà per VDglass (Parma) i dissenyades pel divulgador enològic Francesco Saverio Russo. 
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Un blanc de maceració pel·licular amb una alta intensitat aromàtica i on les inicials notes de reducció (i de pegamento) que tenia en nas van donar pas a un vi complex i atraient. Un vi versàtil que va ser un bon acompanyant durant tot l’àpat. Un productor que potser no té la fama de Gravner o Radikon però que, collita rere collita, es mostra com un valor fiable.
Fins aquí, el primer àpat fet a Del Cambio. A continuació, el dinar a Il tavolo dello chef i les conclusions de la cuina i els dos àpats fets en aquest històric palazzo.
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Traducción automática del artículo en castellano
Automatic translation of the article into English
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lboogie1906 · 3 months
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Emile Alphonse Griffith (February 3, 1938 – July 23, 2013) was a boxer from the US Virgin Islands who became a World Champion in the welterweight, junior middleweight, and middleweight classes. His best-known contest was a 1962 title match with Benny Paret. At the weigh-in, Paret infuriated him, a bisexual man, by touching his buttocks and making a homophobic slur. He won the bout by knockout; Paret never recovered consciousness and died in the hospital 10 days later.
He was voted Fighter of the Year by The Ring magazine and the Boxing Writers Association of America. He was listed #33 on Ring Magazine’s list of 80 greatest fighters of the past 80 years. Ηe ranks #127 in BoxRec’s ranking of the greatest pound-for-pound boxers of all time.
But many boxing fans believed he was never quite the same fighter after Paret’s death. From the Paret bout to his retirement in 1977, he fought 80 bouts but only scored twelve knockouts. He admitted to being gentler with his opponents and relying on his superior boxing skills because he was terrified of killing someone else in the ring. Many thought that he fought past his prime, only winning nine of his last twenty-three fights. Other boxers whom he fought in his career included world champions American Denny Moyer, Cuban Luis Rodríguez, Argentine Carlos Monzón, Cuban José Nápoles, and in his last title try, German Eckhard Dagge. After 18 years as a professional boxer, he retired with a record of 85 wins (25 by knockout), 24 losses, and 2 draws. #africanhistory365 #africanexcellence
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chez-mimich · 6 months
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LA PULCE NELL’ORECCHIO
Non nascondo che mi aveva creato una certa curiosità la scenografia “playgorund” di Guido Buganza, mi dava una certa tranquillità la regia di Carmelo Rifici, mentre il testo di Feydeau non mi entusiasmava certo, ma se vogliamo il vaudeville ha il suo fascino, e un po’ di teatro crasso e “populaire” tra tante astrusità e raffinatezze del nostre teatro può anche non guastare. E invece no, è successo tutto il contrario sabato scorso allo Strehler con la messa in scena di “La pulce nell’orecchio” di Georges Feydau, poiché l’unica cosa a salvarsi, paradossalmente, è stato proprio il testo, perché sul resto occorrerebbe stendere il famoso velo pietoso. A cominciare dal fallito tentativo di Rifici di trasformare uno spettacolo popolare in un genere altrettanto popolare, ma che viaggia inevitabilmente su altri registri, il circo. Non più attori ma clowns, giocolieri, saltimbanchi che, oltre ad essere caratterizzati dalle cadenze dei dialetti regionali italiani, con il torinese che parla di vermouth in torinese, la romana che “intruppa” anziché inciampare e versa lo “schiumante” anziché lo champagne, cercano di far dialogare il pubblico e concedono un po’ troppe capriole ad una pièce sostanzialmente di situazioni e di parola (o di mancanza di parola). Forse Carmelo Rifici, (aiutato nella traduzione e nell’adattamento dal francese da Tindaro Granata), in un delirio di onnipotenza da “quarte parete”, ha creduto per un momento di essere Carlo Emilio Gadda? Forse che il suo scenografo Guido Buganza per un attimo ha fatto finta di essere Slava Polunin? Ci hanno provato ma non ha funzionato. Se si volessero attualizzare i testi teatrali, per quanto meccanicamente complessi ma sostanzialmente prevedibili, come lo sono tutti i plot narrativi di Feydeau si dovrebbe essere geniali o si rischia di metter in scena delle banalità. E questo secondo è il nostro caso. Si è riusciti a far perdere quel poco di apprezzabile che un autore come Feydeau sapeva offrire al proprio pubblico (e che è molto più difficile da offrire al pubblico di oggi), ovvero la costruzione ingegneristica di situazioni comiche che funzionano attraverso ingranaggi di imprevedibilità e sorpresa, il tutto in un “milieu” borghese e parigino messo alla berlina proprio attraverso il comico. Si salvano solo gli attori formati tutti alla Scuola del Piccolo Teatro, sempre professionali e appassionati, nel complesso esperimento fallito, “playground compresi”.
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circusfans-italia · 6 months
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INAUGURATA LA MOSTRA "LE PRINCE AU CŒUR DU CIRQUE" A MONTE CARLO: Foto e video
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INAUGURATA LA MOSTRA "LE PRINCE AU CŒUR DU CIRQUE"A MONTE CARLO: Foto e video Apre ufficialmente al pubblico oggi 22 novembre l'esposizione "LE PRINCE AU CŒUR DU CIRQUE" in occasione del centenario del Principe Ranieri e dei 50 anni del Festival del Circo da lui ideato e realizzato nel 1974 e oggi universalmente riconosciuto come il Festival iconico per antonomasia i cui premi, ambiti come gli Oscar del Cinema, rappresentano il traguardo per ogni artista circense. GUARDA IL VIDEO DELLA SERATA INAUGURALE Ieri sera, per una ristretta cerchia di invitati, prevalentemente vicini alla famiglia Reale, ma anche sostenitori e fondatori del Festival, si è tenuta una esclusiva cerimonia inaugurale alla presenza del Principe Alberto, della Principessa Stephanie con i figli. 
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Il mondo del circo era rappresentato, tra gli altri, dalla famiglia Togni (con Flavio e Bruno, giunti appositamente da Minsk), da Davio e Braian Casartelli, Yann Rossi, Tommy Cardarelli (che ha curato la parte tecnica e gli allestimenti dell'esposizione) con la sua famiglia. Tutta l'equipe di direzione del Festival. A fare gli onori di casa nella ricostruzione di un delizioso piccolo circo, i Clown en Folies che hanno accolto il pubblico in musica. I presenti hanno assistito alla proiezione di una serie di video storici sulle prime edizioni, interviste al Principe Ranieri che raccontava lo spirito della manifestazione, e immagine della consegna dei primi Clown d'Oro. E' seguito un breve e toccante discorso del dott. Alain Frere, emozionato dopo aver rivisto queste immagini cariche di storia. E una introduzione da parte di Charlene Dray, curatrice dell'esposizione.
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Tra le sale il suggestivo "ufficio del Principe" con foto, cimeli e riproduzioni fotografiche; "gli animali" con costumi dei più famosi addestratori, "I Clown" con parrucche, scarpe, cappelli e costumi di tutti i clown più celebri che han preso parte al Festival, da Rastelli a Larible, da Popov a Fumagalli, da Rossyann a Henry Ayala. Angoli espositivi dedicati alle grande famiglie Togni, Orfei, Casartelli, Casselly, Gruss; e al piano superiore un soppalco dedicati ai numeri di acrobazia aerea, a terra, al verticalismo, equilibristi etc. Numerosi schermi ripropongono i numeri più conosciuti, sovente accompagnati da costumi, descrizioni, targhe, premi e curiosità. 
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Dal Circo Americano molti materiali di allestimento (teli di giro storici degli chapiteau degli anni Settanta che ospitarono il Festival), sgabelli di elefanti, testali, finimenti, attrezzi. La serie completa dei manifesti del Festival e dei tablet da cui è possibile approfondire dal storia del Festival attraverso i programmi delle 45 edizioni della kermesse. 
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Lo spazio dedicato alla famiglia Togni Su una parete, sono affissi i messaggi pervenuti da artisti, complessi internazionali e dinastie legate alla storia del Festival (da Richard Chipperfield a Vinicio Togni, da Stefano Orfei ai Feld, da Tihany a Caballeros, dai Casartelli a Flavio e Daniele Togni...) che hanno ricordato l'importanza della manifestazione della propria carriera, e il ruolo fondamentale del Principe Ranieri per lo sviluppo dell'arte circense.
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Davio Casartelli, Alain Frere e il costume per il numero della tigre sull'elefante E ancora grandi plastici, gigantografie, organetti e tutto quanto ricostruisca questo straordinario percorso durato mezzo secolo. Tra i pezzi che hanno un valore storico trova una sua collocazione anche il video realizzato da Roberto Guideri "La realtà di un sogno" dedicato alla Principessa Grace e laureato con il il primo premio al Festival del film amatoriale sul Circo tenutosi a Mantes la Jolie (Parigi) nel Febbraio 1986. Giusto riconoscimento a un lavoro che fotografa le edizioni più memorabili del Festival e al suo autore. Il video, accompagnato da una targa, è disponibile per la sua visione integrale attraverso un tablet apposito posizione sul banco dei clown ispirato a quello de "Luci della Ribalta" di Chaplin. Quale posto migliore?
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"La Realtà di un sogno", l'omaggio di Roberto Guideri alla Principessa Grace esposto nella "Sala dei Clown" dell'Esposizione dedicata a Ranieri  Con un pizzico di orgoglio siamo fieri che l'organizzazione di questa bella iniziativa, attraverso la sua curatrice Charlene Dray, siano ricorsi tra i vari contributi anche agli archivi di Circusfans e ai materiali pubblicati nelle pagine dell'Almanacco del Festival del Circo di Monte Carlo, per recuperare alcuni materiali (circa un centinaio, tra foto e video) a completamento della mostra, non disponibili negli archivi della manifestazione. Un riconoscimento tangibile del grande lavoro fatto in questi anni a sostegno della promozione della storia del Festival, iniziato e portato avanti con grande impegno da Maurizio Colombo supportato dal gruppo di lavoro di Circusfans.
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Gruss (a sinistra) e Orfei (a destra)
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La Principessa Stephanie con Flavio Togni davanti alla foto che ritrae le strutture della famiglia Togni nel Principato
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I Black Blues Brothers rappresentati nell'Expo
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