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#tradizione giapponese
mrdrgr · 1 year
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Otaue Matsuri 2023
#2023, #Festa, #Folklore, #Giappone, #Giapponese, #Matsuri, #Osaka, #Ricorrenza, #Riso, #Semina, #SumiyoshiTaisha, #Tradizione
Nel mese di giugno avviene la semina del riso e in questo periodo dell’anno, in tutto il Giappone vengono organizzati eventi che raggruppano migliaia di persone in vari luoghi, insomma delle vere e proprie feste in cui svolgere attività di ogni genere. Attività che possono variare da zona a zona, cosi come le date. Il nome nel titolo è formato dall’onorifico continua…
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gregor-samsung · 1 year
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“ Ogni tanto accade di dover spiegare a qualcuno o a noi stessi che cosa sia il fascismo. E ci si accorge che è categoria molto sfuggente: non è solo violenza, perché ci sono state violenze di vari colori; non è solo uno stato corporativo, perché ci sono corporativismi non fascisti: non è solo dittatura, nazionalismo, bellicismo, vizi comuni ad altre ideologie. Talché si rischia in fin dei conti sovente di definire come "fascismo" l'ideologia degli altri. Ma c'è una componente dalla quale è riconoscibile il fascismo allo stato puro, dovunque si manifesti, sapendo con assoluta sicurezza che da quelle premesse non potrà venire che "il" fascismo: ed è il culto della morte. Nessun movimento politico e ideologico si è mai così decisamente identificato con la necrofilia eletta a rituale e a ragion di vita. Molta gente muore per le proprie idee, molta altra gente fa morire gli altri, per ideali o per interesse, ma quando la morte non viene considerata un mezzo per ottenere qualcos'altro bensì un valore in sé, allora abbiamo il germe del fascismo e dovremo chiamare fascismo ciò che si fa agente di questa promozione. Dico la morte come valore da affermare per se stesso. Non dico la morte per cui vive il filosofo, il quale sa che sullo sfondo di questa necessità, e tramite la sua accettazione, prendono senso gli altri valori; non dico la morte dell'uomo di fede, il quale non rinnega la propria mortalità e la giudica provvidenziale e benefica perché attraverso di essa arriverà a un'altra vita. Dico la morte sentita come "urgente" perché è gioia, verità, giustizia, purificazione, orgoglio, sia che venga data ad altri sia che venga realizzata su di sé. Ortega y Gasset ricordava che i Celtiberi erano l'unico popolo dell'antichità che adorasse la morte. Non dirò che i Celtiberi fossero archeologicamente fascisti, dico che fu in Spagna che apparve durante la guerra civile il grido "Viva la muerte!". Il fascismo primitivo ed eroico portò la morte sulla camicia e sul fez e nel colore stesso delle sue divise. Volle andare incontro alla morte con un fiore in bocca, parlò di sorella morte con accenti non francescani, se ne fregò della brutta morte (non credo che Matteotti, Rosselli o Salvo D'Acquisto se ne fregassero della morte bruttissima che fecero). E se mi dite che molte tradizioni religiose hanno elaborato rituali funebri in cui il senso della penitenza veniva fortemente inquinato dal gusto della necrofilia, diremo allora, in piena tranquillità, che anche là si annidavano i germi di un fascismo possibile, come nelle celebrazioni dell'olocausto e del karakiri della tradizione militaristica giapponese. Amare necrofilicamente la morte significa dire che è bello riceverla e rischiarla, e che ancor più bello e santo è distribuirla. Che solo la morte paga, meglio se quella altrui, ma al limite anche la propria, purché vissuta con sprezzo. “
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Brano tratto dall’articolo pubblicato su La Repubblica il 14 febbraio 1981 col titolo La voglia di morte, raccolto in:
Umberto Eco, Sette anni di desiderio. Cronache 1977-1983, Bompiani, 1983. [Libro elettronico]
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fashionbooksmilano · 18 days
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Avvolti nel mito
Tessuti e costumi tra Settecento e Novecento. Dalla collezione Montgomery
A cura di Annie M. van Assche
Ideart, Milano 2005, 208 pagine, 24,5x28cm,
euro 40,00
Mostra Palazzo Ducale Genova 16 aprile 21 agosto 2005 "Giappone, l'arte del mutamento"
Centoquarantasei tessuti tradizionali di uso quotidiano bellissimi e rari in fibra vegetale come banano, ramia, cotone, glicine, gelso e tiglio, ma anche in pelle di daino, molti tinti in indaco e vistosamente decorati: grandi falchi, carpe che saltano nel ribollio delle acque d'una cascata, disegni di nodi complessi e colorati come mazzi di fiori, immagini mitiche e legate alla tradizione giapponese e cinese come le gru mancesi e le tartarughe di mille anni, draghi e tigri, che proteggevano chi le indossava durante le giornate di lavoro. Si tratta di abiti da lavoro, coprifuton, kimono, stendardi, gualdrappe da cavallo, foulard a uso borsa, casacche da pompiere della collezione Montgomery, la più importante raccolta privata di design tradizionale d'uso corrente, pubblicati nella loro totalità per la prima volta in questo volume.
Periodo: 1400-1800 (XV-XVIII) Rinascimento,1800-1960 (XIX-XX) Moderno
25/05/24
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hagakuremarco · 6 months
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Oggi, Cari Amici, vogliamo condividere una storia straordinaria di lealtà e coraggio: "Gishi-sai" (義士祭), un evento che commemora i "47 Ronin" (四十七士) e la loro straordinaria storia di sacrificio e onore.
Il Gishi-sai è una festa giapponese che celebra questi leggendari samurai, noti per la loro vendetta per l'onore del loro signore. Una delle commemorazioni avviene presso il tempio Sengaku-ji (泉岳寺).
L'evento è un'occasione per riflettere sui principi del bushido (武士道), il codice etico dei samurai, che include l'onore, la lealtà e il coraggio. La cerimonia, le rappresentazioni teatrali e le preghiere sono parte integrante del Gishi-sai, che richiama l'attenzione sulla tradizione e la cultura giapponese.
Questa celebrazione continua a ispirare le persone di tutto il mondo e ci ricorda l'importanza dell'onore e dell'integrità nella vita. È un omaggio a una parte fondamentale della storia giapponese e al legame indissolubile tra i samurai e i loro principi. 🇯🇵⚔️🎉 #Gishisai #47Ronin #Bushido Today, Dear Friends, we want to share an extraordinary story of loyalty and courage: "Gishi-sai" (義士祭), an event commemorating the "47 Ronin" (四十七士) and their extraordinary story of sacrifice and honor.
Gishi-sai is a Japanese festival that celebrates these legendary samurai, known for their vengeance for the honor of their lord. One of the commemorations takes place at the Sengaku-ji temple (泉岳寺).
The event is an opportunity to reflect on the principles of bushido (武士道), the ethical code of the samurai, which includes honor, loyalty and courage. Ceremony, plays and prayers are an integral part of Gishi-sai, which draws attention to Japanese tradition and culture.
This celebration continues to inspire people around the world and reminds us of the importance of honor and integrity in life. It is a tribute to a fundamental part of Japanese history and the unbreakable bond between the samurai and their princes. 🇯🇵⚔️🎉 #Gishisai #47Ronin #Bushido
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ross-nekochan · 2 years
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Non sono razzista, ma...
Non nasciamo razzisti, ma cresciamo razzisti. Questa è una realtà ineccepibile. Chi crede di non essere razzista è un illuso.
Io so da sempre di essere razzista, ma da un po' di tempo a questa parte, lo direi pure ad alta voce. Razzista mi ci hanno fatto diventare.
Chi? Quelli per cui ho buttato circa 8 anni della mia vita: i giapponesi.
Questi, grandemente elogiati per la loro gentilezza, pacatezza, ordine ed educazione, dopo 2 anni e 2 mesi ancora non hanno eliminato il completo ban agli stranieri. È vero, dopo quasi 2 anni, gli studenti e gli studiosi sono potuti entrare, sebbene spesso a suon di rotture di coglioni, ma i motivi saranno palesati dopo.
In questi anni di pandemia, famiglie internazionali sono rimaste divise senza sapere quando sarebbe stato loro permesso di tornare a casa propria, perché senza passaporto giapponese (che, aggiungo, non permette la doppia cittadinanza manco per sbaglio) non si cantavano messe e il solo visto matrimoniale non era certo un documento sufficiente per permettere ad un possibile untore straniero di mettere piede nella sacra terra pura del sol levante.
Di contro, i possessori di passaporto giapponese potevano andare a studiare, a festeggiare, a scopare in tutto il mondo in piena libertà.
Poi, oh! Una nuova variante del covid! Aiuto! Come è potuto mai accadere una cosa del genere se abbiamo chiuso i nostri confini al mondo esterno? Non possono essere i giapponesi che, andando in giro per mezzo mondo, hanno portato nella loro patria nuove varianti, è impossibile! Non ci resta che continuare a mantenere il ban agli stranieri, non abbiamo altra scelta!!!
Così, fino a oggi, 2022: mentre il 90% del mondo si sta gradualmente dimenticando del covid e facendo ripartire l'economia turistica, il Grande, Potente, Unico Giappone ha concesso, con grande magnanimità, l'accesso ai turisti solo se in gruppi di minimo 10 persone e obbligatoriamente accompagnati da tour operator giapponesi. Perché non si può permettere a degli stranieri di poter girare tranquillamente il paese con i rischi che si corrono, eh no. Nel frattempo, ringraziamo per l'ispirazione, una tra le più atroci dittature ancora esistenti e nostra vicina di casa, o cara Corea del Nord, perché noi democratici e globalizzati lo siamo per mantenere lo status di stato membro del G8, mica per altro.
Loro si credono un grande popolo millenario dalla cultura vastissima, dal gene immodificabile e dalla stirpe pura eterna. Salvo poi scoprire che la loro millenaria tradizione si ferma massimo al 1868, quando, toh!, manco a farlo apposta, furono costretti dagli americani ad aprire le porte di casa al mondo dopo più di 200 anni di chiusura totale (ebbene sì, è un vizio - questa sì che è la loro più forte tradizione!).
Senza il caro Occidente che tanto ripudiate, non siete NIENTE e non sareste stato NIENTE, se non un popolo più arretrato dei popoli africani odierni, che sarebbe andato avanti ancora a spade e spadine. Vi abbiamo insegnato TUTTO: la polvere da sparo, il motore, la medicina... TUTTO.
E voi, pezzi di merda furbi come la volpe e avidi come sanguisughe, avete pure inviato le vostre menti eccellenti nello splendente occidente col compito di assorbire la conoscenza e portarla in patria, perché lo sapevate che eravate messi come la merda.
Nel tempo, fior fiori di brillanti menti occidentali si sono appassionati a voi e vi hanno studiato con una celerità di cui manco voi eravate muniti. Vi abbiamo fatto scoprire voi stessi e vi abbiamo smascherato perché tutte le vostre tradizioni, tutte le vostre "vie" (del te, dei fiori, delle arti marziali e del cazzo) non solo erano cose nate l'altroieri, ma erano pure fake perché le avevate rubate o dalla Cina o dal Portogallo o dall'Olanda. Il ramen è cinese, il sushi pure.
Dicevo, fior fiore di menti brillanti si sono interessate a voi e vi hanno aiutato a studiarvi... e voi che fate? BAN PERCHÉ GAIJIN È IL MALE, L'UNTORE DELLA MALATTIA FAMELICA CHE CI HA PORTATI ALLA ROVINA.
Dopo 1 anno di mobilità come studente perso e dopo un altro anno perso pure per entrare come turista, sapete che c'è di nuovo?
Andatevene a fanculo voi e la vostra gentilezza senza alcun senso. Ficcatevela nel culo gentilezza, educazione e (fintissimo) rispetto per il prossimo. Spero arriviate presto ad estinguervi dalla faccia della terra perché, razza pura per razza pura, non avete manco abbastanza sperma per riprodurvi e spero vivamente che nessuno ve lo presti, perché siete una razza di razzisti ingrati che non si meritano la sopravvivenza.
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Questo è un migrante di successo. Solanum tuberosum. La patata.
È arrivata ai primi del Seicento dal Sudamerica, il suo nome comune viene dal quechua, la lingua degli Inca. Insieme al suo compagno di viaggio, il pomodoro, ha rivoluzionato l’alimentazione in Europa e in Italia, salvando dalla carestia milioni di persone.
Entrambi, patata e pomodoro, ci hanno messo più di un secolo per entrare nell’uso comune. All’inizio sembravano stranezze esotiche, cose mai viste e mai mangiate, forse pericolose, forse velenose. Nessuno le voleva mangiare.
Molte fonti sostengono che fu Federico il Grande, re di Prussia, a metà del Settecento, a sdoganare definitivamente la patata. Con un espediente geniale. Cominciò a coltivare patate nell’orto reale e mise guardie armate a proteggerle, così tutti cominciarono a pensare che le patate fossero preziose, un cibo da re. Di notte andavano a rubarle e impararono a mangiarle e a piantarle.
Gli agrumi invece sono arrivati dall’Asia. I romani conoscevano il cedro, il limone e l’arancio amaro, che è quello più antico. La coltivazione dell’arancio moderno, simbolo della Sicilia, viene introdotta in Europa dai portoghesi solo nel Millecinquecento. Il mandarino arriva in Italia solo nell’Ottocento.
Nei giorni scorsi ci sono state polemiche molto accese sulla cucina tradizionale italiana, sulla sua identità. Tradizione e Identità sono temi molto cari a questo governo. Come si addice a un governo nazionalista, intende battersi per l’italianità del cibo, della lingua, dei costumi, contrapposta a quelli che un progetto di legge di Fratelli d’Italia per la difesa della lingua chiama “forestierismi”. Forestiero è un termine che non sentivo da un bel pezzo. Significa: gente o roba che viene da fuori.
Eppure la patata, che fu forestiera per eccellenza, ormai è italianissima. E lo è perché l’identità e la tradizione, che sono cose importanti, mutano. Si evolvono. Si adattano. Si arricchiscono attraverso l’esperienza, la contaminazione, il cambiamento.
L’idea che l’identità, della cucina italiana come dell’Italia intera, sia qualcosa di definitivo, di cristallizzato, qualcosa che può addirittura essere stabilita per legge, non è neanche sbagliata. È insensata. È come voler mettere in un museo qualcosa di vivo. È come cercare di imbalsamare qualcosa che si muove.
Marcello Veneziani, un intellettuale di destra come ce ne sono pochi, purtroppo, dice che “la tradizione non è culto del passato, ma senso della continuità e gioia delle cose durevoli”. La definizione è bellissima. A patto che la si esponga, la gioia delle cose durevoli, al sole e al vento, la si faccia respirare, e non la si lasci ammuffire in fondo a un cassetto.
La cucina italiana, intesa come insieme di ricette, ingredienti, cultura del convivio, è una delle meraviglie del nostro Paese. Dobbiamo difenderla. Ma non la si difende trasformandola in un pezzo da museo. La si difende prima di tutto avendo cura - e questo è compito della politica - che i contadini non siano sfruttati, o derubati dalla grande distribuzione. Poi facendo attenzione a cosa mettiamo nel piatto, alla qualità degli ingredienti, alla quantità di chimica e di farmaci che rischiamo di ingoiare se non stiamo in guardia.
Io mi sento italianissimo anche quando mangio il sushi, con il quale non bevo il saké giapponese, ma Vermentino sardo, o Ribolla del Friuli. Contaminazione, appunto. La farina di insetti, criminalizzata dal governo come accadde, quattro secoli fa, alla patata, in sé non mi fa nessuna paura, è un cibo naturale quanto i gamberetti. Proteine disponibili in natura. Mi fa molta più paura avere paura dei forestieri, delle persone e delle cose che arrivano da fuori. È una paura sterile, gretta, poco vitale. Blocca lo stomaco, blocca l’appetito. Se Federico il Grande si presenta alle prossime elezioni, con la patata nel simbolo, io voto per lui.
Michele Serra
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Yuriko Tiger instagram post 11/7/2022
🇬🇧🇮🇹🇯🇵 I love Japanese food but I learned to love again Italian food while being away..!
Every time I get back I bring with me 10 more kg but nobody bats an eye…they would be the same as me hehe!
Japan and italy are culinarily interconnected and theyr food truly represent the nations beautifully. Extremely different from each other, and still they find ways to attract each other..
Well. All those nice words will fly out the window as soon as I get on the scale in Tokyo.. ——————————-
La cosa che mi manca tanto dell’Italia è il cibo!
Amo il cibo giapponese ma ho imparato ad apprezzare il cibo italiano solo fuori da casa..! Ogni volta che torno prendo 10KG ma nessuno mi dice nulla perché mi risponde “avrei fatto lo stesso”.
Giappone e Italia sono collegati da una tradizione culinaria che rappresenta i nostri paesi alla perfezione. Estremamente diversi ed estremamente attratti l’uno dall’altro per la propria diversità!
Questo bellissimo discorso si smonterà appena saliro sulla bilancia a Tokyo… 🍝
本物のイタリアンはBuonissimoですわ!!! いつも太るけど、、 幸せなの😭✨手作りのパスタはおばあちゃんの味と同じです〜 日本の料理とイタリア料理の両方が大好きなんだけど本物のイタリアンは最高に美味しいです。 日本にいるイタリアンと違って味がすごく濃くて皿もでかいです。 なんとなく国の人の性格に思い出すの味はします(意味が分かるのかな?w)
今度はYouTube動画にまた説明します!!チャンネル見てね!
#risottoallamilanese #italianfood #イタリアン #イタリア語 #ミラノ #cucinatoscana #italy
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mariaceciliacamozzi · 2 years
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Amore e poesia
Nel Paese del Sol levante, l'amore è tutt'ora pervaso dall'effimero e dalla vulnerabilità della vita. Infatti, nella cultura giapponese, sin dall'antichità non esistevano parole corrispondenti ad "amore", in senso sentimentale.
Nella tradizione giapponese chi si ama non ha l'abitudine di esternare il proprio affetto in modo così aperto, come è invece consuetudine in Europa.
Quando gli amanti, un po' timidi o riservati di carattere, si comunicano il proprio sentimento lo fanno in modi più sottili, per esempio scambiandosi poesie "waka", componimenti che seguono raffinate tecniche letterarie.
Natsume Sōseki (1867-1916), il romanziere nipponico più importante dell'epoca moderna dopo Murasaki Shikibu, che studiò letteratura inglese un paio d'anni a Londra, scrisse anche una trattazione su come tradurre "I love you" nella sua lingua madre e formulò una traduzione piuttosto originale, che poteva essere resa con "la Luna è bella, vero?". Questa particolare traduzione risuona ancora oggi nei cuori dei giapponesi, dato che se ne fa spesso uso nei social media.
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manifestocarnivoro · 27 days
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AVENTINA, CARNE E BOTTEGA
A Roma, tra il Circo Massimo e il quartiere Ostiense, c’è un luogo per un'esperienza culinaria unica: è Aventina Carne e Bottega, un locale innovativo che offre un mix tra macelleria, ristorante e bottega gastronomica, creando un ambiente accogliente che soddisfa i desideri dei clienti più esigenti. La vera stella di Aventina è la carne, selezionata con cura da allevamenti che privilegiano il benessere animale e l'alimentazione naturale, senza l'uso di OGM o antibiotici. Il proprietario, Andrea Ceccarelli, si impegna personalmente nella scelta dei fornitori, garantendo la qualità e l’origine delle carni proposte. Dalla Grigia Alpina all'italiana Chianina IGP, fino alla pregiata Fassona Piemontese e varietà esotiche come la Rubia Gallega e il Wagyu giapponese, Aventina offre una selezione eccezionale di tagli pregiati. Anche gli animali da cortile sono valorizzati, con particolare attenzione al coniglio, utilizzato per piatti delicati e saporiti come i Pici al ragù bianco. La cucina di Aventina esalta i sapori della carne con tecniche di cottura mista, garantendo risultati di croccantezza esterna e tenerezza interna. Oltre alla carne, il locale offre una ricca selezione di salumi artigianali, formaggi pregiati e una vasta gamma di prodotti gastronomici di alta qualità, utilizzati sia in cucina che venduti al banco. E con una vasta scelta di vini, Aventina è luogo ideale anche per un aperitivo. La passione per il cibo di Andrea Ceccarelli si riflette in ogni dettaglio del locale, dalla selezione dei prodotti alla cura dell'esperienza culinaria offerta ai clienti. Insomma, connubio perfetto tra tradizione e innovazione, offre un'esperienza gastronomica completa e indimenticabile per gli amanti della carne e della buona cucina.
Fonte: “Aventina, Carne e Bottega” di Massimiliano Rella, Eurocarni 1/24
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progetto-geografia · 1 month
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Kyoto
Iniziamo dicendo che la lingua ufficiale è il giapponese.
Si trova 22 ore da noi ed è 7 ore in avanti nel fuso orario.
Cosa dire per rappresentarlo meglio?
Fu la capitale del Paese per più di un millennio (precisamente dal 794 al 1868) ed è nota come "la città dei mille templi". Essendo stata quasi interamente risparmiata dalla seconda guerra mondiale, è considerata il più grande reliquiario della cultura giapponese e per questo inserita nei siti protetti dall'UNESCO.
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Cosa vedere a Kyoto? Dei consigli?
Kinkaku-ji, Il Padiglione d'Oro
Ryoan-Ji
Castello di Nijo
Palazzo imperiale
Ginkaku-ji, Il Padiglione d'Argento
Nishiki Market
Gion, il distretto delle geishe
1)Kinkaku-ji, Il Padiglione d'Oro
Una delle immagini iconiche della città di Kyoto: il Padiglione d'Oro (Kinkaku-ji) è uno dei must-see della città. Al centro di un laghetto inserito in un ambiente naturale molto caratteristico e suggestivo, il tempio si sviluppa su tre piani, ognuno dei quali realizzato secondo un diverso stile architettonico.
La sua peculiarità, da cui tra l'altro deriva il nome, è quella di essere completamente rivestito di fogli d'oro. A seconda di come i raggi del sole lo colpiscono, si creano effetti luminescenti davvero particolari.
Si trova nella zona nord della città. Fu costruito nel 1397, inizialmente come villa per lo shogun Ashikaga Yoshimitsu; solo in seguito alla sua morte fu convertito a tempio Zen. Andato a fuoco più volte (l'ultima nel 1950 quando fu incendiato da un monaco del tempio), la struttura attuale risale al 1955.
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2) Ryoan-Ji
Tempio buddhista tra i più interessanti di Kyoto, famosissimo per l'enigmatico giardino secco: una composizione di gruppi di pietre adagiate su un letto di ghiaia bianca circondato da un muro in terra. La disposizione delle pietre è tale che da qualunque prospettiva le si osservi la visione di una di esse rimanga sempre nascosta! Non esiste una soluzione, per questo l'opera è considerata un autentico enigma.
Il tempio afferisce alla Scuola Rinzai, una tradizione che pone enfasi nella soluzione di enigmi considerati la via privilegiata per il raggiungimento dell'illuminazione.
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3) Castello di Nijo
Patrimonio UNESCO dal 1994, il Castello di Nijo è uno stupendo palazzo nobiliare edificato nel 1603 e abitato dallo shogun Tokugawa Ieyasu.
Tra le bellezze al suo interno meritano una menzione speciale le stanze del palazzo Ninomaru, ovvero la residenza dello shogun. Una delle curiosità più affascinanti di questo palazzo è la presenza del famoso uguisubari, cioè il pavimento dell'usignolo, una specie di antico sistema di allarme che segnalava eventuali intrusioni tramite un delle speciali assi che se calpestate producevano un rumore simile al canto di un usignolo. Non perdetevi la vista del bellissimo giardino!!
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4) Palazzo imperiale
Il Palazzo imperiale fu la residenza della famiglia imperiale giapponese fino al 1868, anno in cui la capitale venne definitivamente spostata a Edo, l'attuale Tokyo. Si trova immerso nel parco Imperiale di Kyoto, vero e proprio polmone verde nel cuore della città che già da solo merita senz'altro una visita.
L'attuale palazzo è stato ricostruito nel 1855 e il complesso è racchiuso da lunghe e alte mura difensive, all'interno del quale possiamo ammirare portali, padiglioni e giardini. I palazzi sono ammirabili solo esternamente, mentre sono liberamente accessibili i magnifici giardini.
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5) Ginkaku-ji, il padiglione d’argento
Il Ginkakuji è forse uno dei templi più suggestivi della città. Costruito nel 1482, nasceva in origine come residenza privata dello shogun Ashikaga Yoshimasa che si ispirò al padiglione d'oro realizzato dal nonno. Lo shogun voleva far rivestire di foglia d'argento questa costruzione, ma a causa della sua morte avvenuta l'anno successivo, il padiglione rimase per sempre incompiuto.
La residenza fu in seguito convertita in tempio zen. All'interno ci sono anche dei giardini di sabbia in puro stile zen, e un magnifico giardino di muschio, che segue un circuito circolare che costeggia la collina, e dal quale si gode di una incantevole vista su tutto il complesso e sulla città.
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6 mercato nishiki
Il mercato Nishiki è il più grande e famoso, della città, situato in centro e visitabile ogni giorno. E' il posto giusto per tutti coloro che amano esplorare una città immergendosi nella tradizione gaastronomica come un vero local.
Il mercato è caratterizzato da un'atmosfera vibrante, grazie alle tante botteghe che affollano questa lunga galleria coperta, vi raccomandiamo di visitarlo e assaggiare le specialità locali.
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7 Gion, il distretto delle geishe
Uno dei quartieri più tradizionali di Kyoto, nonché il più famoso distretto delle geisha. È una zona caratterizzata dalle tipiche case di legno dai tetti bassi, dove potete trovare diversi negozi e ristoranti, e ancora diverse ochaya (le case da tè) in attività, dove geiko (geisha in dialetto di Kyoto) e maiko (apprendiste geisha) intrattengono i loro ospiti con musica tradizionale e spettacoli a cui vale assolutamente la pena di andare correndo a vedere.
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Cosa mangiare di tradizionale?
Tofu
Sushi
Sashimi
Ramen
Soba e Udon
Tempura
Gyoza
Onigiri
Yatsuhashi(dolce di riso, zucchero e cannella)
wagashi (dolce servito solitamente con té verde)
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oliverodomenico · 2 months
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Cadena
Si tratta di un nuovo progetto artistico in cui coinvolgo lo spettatore a diventare parte del percorso creativo, da relazione di idee e pensieri nasce una scultura, che è fluida e dinamica, ambientale e in continua evoluzione e trasformazione.
L'opera si forma dall'azione colletiva e dalle idee di ogni partecipante, una scultura sociale, che unisce le singolarità.
Il lavoro si forma dall' incontro di persone, in cui ognuna realizza una sezione della lunga Cadena in carta, ideata secondo i dettami della tradizione giapponese degli origami, che prevede la realizza di manufatti con la sola azione di piegatura di un foglio di carta naturale.
La forma che viene costruita viene poi personalizzata da ogni partecipante con un segno intimo, rappresentativo o di fantasia.
L'opera viene poi montata in uno spazio, che può essere un contesto paesaggistico o in uno spazio urbano dove, grazie alla sua duttilità, può attivarsi come scultura ma anche con nuove occasione di happening: creando un'area, o un linea, sulle quali i partecipati possono dare luogo a interventi performativi.
La scultura può essere lasciata nello spazio naturale, dove col tempo si decomporrà per diventare componente immersiva del paesaggio.
Questo progetto è stato reso possibile grazie all'iniziativa di Calzaap che mi ha coinvolto in una serie di laboratori, progetto Explora della Fondazione CRC, con le scuole del territorio cuneese. Gli incontri si sono svolti presso il bel complesso del Monastero di San Biagio a Morozzo.
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tastierearranger · 2 months
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Yamaha alza il sipario su PSR-EW320 e PSR-E383
Con un impegno costante verso l’innovazione, Yamaha aggiorna con costanza il catalogo di tastiere di primo ingresso, ideali per giovani talenti che si avvicinano per la prima volta al mondo della musica digitale. Il rinomato produttore giapponese, noto per la propria strategia di presentare modelli affini a ritmo di due per volta, mantiene questa tradizione anche in questa occasione, offrendo una…
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s-gobetti · 2 months
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“Preparatevi a passare dei guai!” così inizia il motto del Team Rocket collettivo antagonista del anime giapponese Poketto Monsutā (1997) apparso nella televisione italiana nel 2000 con il nome di Pokémon che se non ha condizionato la cultura di tutto il mondo sicuramente l’ha fatto per chi scrive in questo momento “e dei guai molto grossi” risponde James.
Questo trio dai capelli magenta e lilla appare in tutte le puntate ripetendo sistematicamente il loro motto
proteggeremo il mondo della devastazione, uniremo tutti i popoli della nostra nazione, denunceremo i mali della verità e del amore,estenderemo il nostro potere fino alle stelle…
utilizzando dei travestimenti nel tentativo di rubare Pikachu per poter entrare nelle grazie del loro Boss Giovanni, fallendo miseramente ogni volta. Giovanni è un uomo dai capelli corti, in completo e camicia dalla doppia vita: nella penombra è il Capo del Team Rocket mentre alla luce del sole è il Capopalestra di Smeraldopoli. Insomma rappresenta a pieno titolo un uomo di successo, un collezionista il quale piano è quello di impossessarsi di tutti i Pokémon rari.
«Il Louvre è nato da un atto di aggressione. Fu attaccato nel 1972, durante la Rivoluzione francese, e da deposito di collezioni fatte con bottini di guerre feudali (una versione d’epoca dello stoccaggio in porto franco) fu trasformato in un museo di arte pubblico, probabilmente il primo al mondo, inaugurando un modello di cultura nazionale. In seguito divenne la nave ammiraglia culturale di un impero coloniale dedito a seminare cultura in altri mondi con metodi autoritari»
Hito Steyerl, Duty Free Art, L’arte nell’epoca della guerra civile planetaria, Johan & Levi Editore 2018
chissà perché per legittimarsi in un discorso si dice sempre “da sempre”, “da quando sono nat*”, come per dare più importanza alle cose che si sta dicendo, come se la coerenza fosse un valore aggiunto o come se la tradizione o l’autoctonia fossero ancora delle parole che non ricordano soltanto tristi monumenti negli angoli delle strade da dover pulire dagli escrementi dei piccioni e visitare ogni tanto quando non si va a scuola. In ogni caso da che ho memoria, quando veniva raccontata una storia c’erano i buoni e poi c’erano i cattivi e nella pausa pranzo nel giardino delle elementari con lə amichə giocavamo al Team Rocket, in breve facevamo guai, alle volte i guai erano semplici come rubare la palla a chi faceva il gioco del calcio, altre più complessi come colorare le pareti bianche dei muri bianchi con il verde del prato, insomma alla fine si risolveva tutto con una nota sul registro e tutto tornava come prima: le pareti pulite, l’erba nelle aiuole -non calpestabili- ed il gioco del calcio indisturbato che tutto sommato mi ricorda molto il motto della quarantena “ritorneremo alla normalità” ed eccoci qua, dopo tutto ciò che ci dice la storia a parlare di tradizione, storia e normalità. Ebbene ecco cosa hanno in comune queste cose le si ritrova nei musei, le pensano le persone che hanno il potere, le organizzano secondo la loro logica che spesso, per non dire sempre è autoritaria, gerarchica e cronologica. Si segue una linea dunque dritta e retta che va a finire nel giusto e che nega tutto ciò che considera sbagliato. Non c’è tempo Momo smettila di cercare Cassiopea! È una cosa seria, ne va del nostro onore. Come tutte le parole che abbiamo elencato prima le cose peggiorano quando si parla di Nazione allora li è immediato aggiungere ferrovia e guerra, insomma confine per finire in burocrazia, documenti e decoro.
«Abbiamo recitato per tanto tempo. Siamo attori consumati. Adesso possiamo cominciare a vivere. E sarà un gran bello spettacolo».
Dal manifesto del Gay Liberation Front inglese (1970)
Come si fa quindi a parlare di autonomia del linguaggio nel arte contemporanea da parte della cultura queer? Ma sopratutto può esistere una storia della cultura queer? e chi è a farla, soltanto le persone queer?
«Così abbiamo deciso di chiamarci queer. Usare “queer” è un modo di ricordarci di come veniamo percepiti dal resto del mondo. È un modo di dirci che non dobbiamo essere persone spiritose e piacevoli che devono condurre vite discrete al margine del mondo eterosessuale. Usiamo queer come uomini gay che amano lesbiche che amano essere queer. Queer, a differenza di gay, non significa maschio»
«Essere queer significa condurre vite diverse: niente a che vedere con il mainstream, il profitto, il patriottismo, il patriarcato, o l’essere assimilat*. Niente a che vedere con direttori esecutivi, privilegio ed elitarismo»
Dal Queer nation manifesto, diffuso durante la marcia del New York Gay Pride Day del (1990)
Di certo ci sono solo i dubbi e sicuramente abbiamo capito che la certezza appartiene a quella visione del mondo straight che poi è il contrario di queer. Che poi è quella mentalità per la quale si fanno le torri ed il punto di una torre è averci la più alta della città, lo so bene io che vengo da Lucca e che il signor Guinigi -per superare il limite di altezza che poi bruciava tutta la città- ci ha messo un albero sopra, adesso gli alberi li mettono sui balconi così abbiamo anche risolto il problema del verde e delle pareti che si lavano bene. Oggi non si chiamano più grattacieli ma il concetto è sempre il solito, deve stare in centro, deve occupare spazio e deve essere la più grossa e noi dobbiamo passare il nostro tempo a lavorarci dentro oppure fuori a guardarlo dicendo “che bravo”. Ma siccome poi succede che le cose non durano bisogna farle ricordare ed ecco perché sono importanti i musei, gli archivi e la storia. Un pò come nelle case quando le cose vanno a male bisogna metterle nel frigorifero perchè è poi tutto un problema di conservazione quindi poi c’è la questione del restauro, ma soprattuto del cosa ricordare.
Picasso, oh no, otra vaz tú! Oh no, otra vez Warhol! Cecilia Gimenez lo sa bene non si tocca Hecce Homo, altrimenti lo si rovina.
Dórica, dórica, jónica, jónica
Corintia, corintia, corintia, corintia
 
Historia del arte, penes con pincel
Famosos, pintaje, sin píxel, con papel
Quindi si sa che andando al contrario si finisce fuori dai binari e per niente confuse diciamo addio a confini, norma e patriarcato. È un pò come quando ti spiegano la storia del arte nella quale ti spiegano a cosa dare importanza allora è importante l’autore e che poi si finisce per entrare alla Tate e se ne esce che si è letto solo un sacco di didascalie, per non parlare che se poi si va davvero nei musei si finisce per accorgersi di cosa sono, da dove vengono le opere e chi non finisce ne nei musei, ne negli archivi e neanche nella storia. Della serie Amal Clooney sta ancora lavorando per riportare i fregi del Partenone ad Atene, in Virginia rimuovono la statua del generale Robert Lee e nelle americhe vengono abbattute le statue di Cristoforo Colombo.
Ma quindi dove si va a cercare la cultura queer se non la si può trovare nei musei? nelle istituzioni? nelle scuole -grazie provita- o negli archivi?
«Se davvero vogliamo salvare il museo, dovremmo scegliere la rovina pubblica rispetto alla redditività privata. E se non è possibile, si vede che è arrivato il momento di occupare collettivamente il museo, di svuotarlo dai debiti e di alzare le barricate del buon senso, di spegnere le luci affinché, senza alcuna possibilità di spettacolo, possa funzionare come il parlamento di un’altra sensibilità»
New York, 14 marzo 2015
Paul B. Preciado, Un appartamento su Urano. Cronache del transito, Fandango Libri, 2020
La si incontra per strada, alle volte nel letto, altre a cena? forse come ipotizza José Esteban Munoz non la si incontra mai o come consiglia Jack Halberstam bisogna fallire al momento guardando alla storia si può osservare soltanto che i tentativi di farla durare l’hanno poi ingabbiata, fissata e cristallizzata. Quindi la si trova in cose che non durano, in arti minori, non è arte da museo e non è arte Classica, nè bianca, nè occidentale. È un estetica fatta di spari, lanci, ricami. Spillette, scritte sui muri, slogan urlati. Toppe serigrafate, volantini distribuiti, pelle tatuata. Attività ludiche in locali notturni, bagni pubblici, parchi, pinete, parcheggi come case private, strade e spazi abbandonati.
«IL QUEER NON È QUI. Il queer è un’aspirazione. Detto in altre parole, non siamo ancora queer. Potremmo non raggiungere mai il queer, ma possiamo percepirlo, come la calda luce di un orizzonte infuso di possibilità. Non siamo mai stat* queer, eppure il queer esiste per noi come un’aspirazione che può essere distillata dal passato e usata per immaginare un futuro.»
José Esteban Munoz, Cruising Utopia, NERO 2022
È un gesto irripetibile come Silvia Spolato con un cartello con scritto “sono lesbica”, come Sylvia Rivera che lancia -la seconda- bottiglia molotov o la dragqueen che getta il caffè in faccia al poliziotto. Sono gesti di rottura e pratiche transfemministe di cura e mutoaiuto come quelle delle STAR (Sreet Transvestite Action Revolutionary) o delle Queen o delle Madri delle Black Ball. Sex worker, razzializzate, senza casa che per poter esprimere la propria cultura organizzavano TAZ! È un arte che non si posiziona prima del museo, non può trovare una forma perchè non può avere definizione o profilo.
«Già da prima, da sempre, l’attivismo, non solo transfemminista e queer, produce saperi “indisciplinati” che hanno lo stesso valore della produzione accademica: servono infrastrutture che se ne prendano cura dal basso e si preoccupino della loro libera circolazione, senza privatizzare (anche in senso economico) questa ricchezza comune.
[…]
Servono luoghi per organizzare collettivamente il rifiuto della “promessa di riconoscimento” sulla quale si basa tanta parte dello sfruttamento del lavoro intellettuale dentro e fuori l’accademia. Perché l’accademia, in questo senso, è solo un esempio nemmeno il più importante.
»
Fallire sempre meglio, postfazione a cura di CRAAAZI di Jack Halberstam, L’arte queer del fallimento, minimum fax 2022
È uno spazio liberato dal patriarcato, dal consumismo e dal colonialismo. È uno luogo dissedente dal sistema ciseteronormativo che può essere il palco di un locale, una casa come una pineta. Ma chissà come mai è sempre un atto considerato illegale, illecito o criminale. È uno scandalo, è perverso, è storto. Ed è uno spazio che va occupato, perchè altrimenti visti i rapporti di potere si finisce per essere sussunte, canonizzate e sfruttate perchè i processi di istituzzionalizazione riconoscono certo la legittimità ma comportano allo stesso tempo la rinuncia di autonomia nel percorso di ricerca e sfruttamento e normalizzazione per chi porta avanti le stesse lotte sociali fuori, dentro o contro le istituzioni.
Un arte dal basso che non può entrare in un museo se non che ricodificata, resa accettabile, sbiancata.
è solo dopo che vengono rese innocue al ordine stabilito che le persone queer entrano nei musei, nella moda, nelle belle arti. Non è queer aderire al sistema che l’opprime, lo impedisce e lo combatte: Sgombero di Atlantide 9 ottobre 2015 #AtlantideResiste!
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fashionbooksmilano · 2 years
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L’arte del manifesto giapponese
Gian Carlo Calza
Skira, Milano 2021, 520 pagine,  31 x 29.7cm,  Cartonato, ISBN  9788857245775
euro 55,00
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Il volume più completo, finora mai realizzato, sul graphic design giapponese. a cura di Gian Carlo Calza in collaborazione con Elisabetta Scantamburlo          Il volume vuole colmare una lacuna sulla storia del graphic design giapponese, quella relativa ai primi due decenni del nuovo millennio, raccontando da un lato il passato, con l’opera dei grandi maestri, e dall'altro esplorando nuovi nomi e tendenze. Il volume comprende 85 grafici e 756 poster. È il volume più completo sull'argomento, mai pubblicato finora. Si ritiene che i manifesti contemporanei giapponesi siano iniziati a metà degli anni '50, dopo la seconda guerra mondiale e dopo un periodo di depressione, post-militarismo e post-autarchia. La nuova modalità espressiva, in quegli anni, venne alimentata da stimoli provenienti dall'estero, ma reinterpreta anche temi e colori della tradizione, portandoli nella modernità. Dal dopoguerra, il Giappone ha visto una rapida evoluzione nelle arti: pittura, architettura, scultura, grafica, teatro, musica e cinema. Influenze, assimilazioni, trasformazioni, nuovi processi creativi hanno dato origine a una grande quantità di movimenti culturali e artistici. In questo dedalo di forme espressive, la grafica è diventata uno strumento prezioso per tracciare e seguire il filo della creatività nazionale. Dalla “nascita” della grafica giapponese arrivando a Tokyo 2020, questo volume intende dare una visione ampia delle tendenze, dei cambiamenti estetici e della storia del design grafico in Giappone.
23/11/22
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esperimentox · 2 months
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PLATONE AVEVA RAGIONE
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Il grande filosofo Platone, una delle menti più grandi della storia umana, sul finire della sua carriera venne deriso dai suoi contemporanei a causa di uno scritto che stava componendo. La delusione fu così grande che egli decise di non completare il secondo dei tre racconti sull’argomento, e di non iniziare nemmeno a scrivere il terzo (doveva essere, infatti, una trilogia). Perché i Greci, un popolo abituato ad ascoltare storie di ogni genere, e spesso a crederci, derisero nientemeno che il grande Platone?
Ebbene, nel dialogo “Timeo” e nel dialogo parziale “Crizia” (rimasto incompiuto), Platone racconta che alcuni “misteriosi sacerdoti egiziani” della città di Sais, raccontarono al celebre statista ateniese Solone (638 a.C. – 558 a.C.) una storia. Platone (428 a.C. – 348 a.C.), circa 200 anni dopo, ricevette per vie traverse questa storia, e l’ha usata come una delle fonti da cui ricavare il suo racconto. E fin qui nulla di strano.
In questo racconto Platone dice molte cose. Tra l’altro, racconta l’esistenza di una “Grande Isola” vicino alle “Colonne D’Ercole”. Lui la chiama “Atlantide” o “Terra di Atlante”. I greci del suo tempo sapevano che oltre 40 anni prima di Platone, il celebre storico Erodoto (484 a.C. – 430 a.C.), nelle sue “Storie” chiamò con il nome “Atlante” la catena montuosa dell’odierno Marocco. Tra l’altro, ancora oggi conserva quel nome: Monti dell’Atlante. Per un greco di quel tempo, il nome “Atlantide” o “Terra di Atlante” indicava una terra che si trovava evidentemente ai piedi del monte Atlante. Ma tutti sapevano che non c’era nessuna “grande isola” ai piedi dell’Atlante.
Nel suo racconto, citando i “misteriosi sacerdoti egizi”, Platone affermava che quell’isola esisteva 9.000 anni prima di Solone, quindi 11.500 anni fa. E qui scoppiarono le risate. Per la gente di quel tempo, 9.000 anni prima di Solone il mondo non esisteva nemmeno (per esempio, la tradizione ebraico-cristiana pone la nascita del mondo al 4.000 a.C. circa). Per circa 2.000 anni la gente ha riso di questa affermazione di Platone. Non trovando nessuna “Grande Isola” vicino al monte Atlante, diversi scrittori la hanno “piazzata” un po' ovunque: chi in Sardegna, chi in Irlanda, chi a Cuba, chi in Indonesia. Onesti tentativi di risolvere il “rebus”.
Ma “la Terra di Atlante” è sempre rimasta lì, dove aveva detto Platone. Infatti, pochi anni fa, un piccolo, minuscolo oggetto di metallo, il satellite giapponese PALSAR, ha reso giustizia al celebre filosofo greco. Chiunque siano stati i “misteriosi sacerdoti egiziani” che avevano raccontato a Solone (e tramite lui a Platone) che vicino ai monti di Atlante, nella Terra di Atlante (o Atlantide) esisteva una grandissima isola, avevano ragione. L’articolo della rivista “Nature”, del 10 Novembre 2015, intitolato “African humid periods triggered the reactivation of a large river system in Western Sahara”, a prima firma di C. Skonieczny, parla “di un grande sistema fluviale nel Sahara occidentale, che trae le sue sorgenti dagli altopiani dell'Hoggar e dalle montagne dell'Atlante meridionale in Algeria. Questa cosiddetta valle del fiume Tamanrasett è stata descritta come un possibile vasto e antico sistema idrografico”. L’articolo continua scendendo nei dettagli dal punto di vista geologico. Per farla breve, il PALSAR ha scoperto un mega-fiume gigantesco, oggi inaridito, che partiva proprio dai monti di Atlante e tagliava tutto l’angolo a Nord-Ovest dell’Africa, sfociando nella odierna Mauritania.
La “valle del fiume” del Tamanrasett ha una ampiezza di 90 km circa. La foce di questo mega-fiume, oggi situata sotto il mare, era larga 400 km. Era un “mostro” paragonabile al Rio delle Amazzoni, un fiume così grande che in diversi punti è indistinguibile dal mare. Questo vuol dire che questo fiume poteva raggiungere una ampiezza simile da costa a costa. Immaginate un osservatore a livello del terreno. Come avrebbe fatto a capire che si trattava di un fiume, oppure di un mare, se la costa opposta era a 90 km di distanza? Ad eccezione della salinità delle acque (ma non sappiamo se questo aspetto fosse compreso), nulla avrebbe permesso a quell’osservatore di capire se si trattasse di un fiume o di un mare. Tanto per dire, è una distanza superiore allo stretto di Messina e allo Stretto di Gibilterra messi insieme.
Guardando la regione dall’alto, si comprende che quando scorreva il mega-fiume Tamanrasett, durante “l´Ultimo Periodo Umido Africano”, (tra 14.500 e 7.000 anni fa circa, con strascichi fino a 5.500 anni fa), tranne che per un piccolissimo pezzettino a Nord-Est, la “Terra di Atlante”, o “Atlantide”, o territori a Sud del Monte Atlante, era davvero un´isola. A Nord era circondata dal Mar Mediterraneo. Ad Ovest era circondata dall’Oceano Atlantico. A Sud era circondata dal mega-fiume Tamanrasett. Ad Est era quasi completamente circondata dallo stesso fiume, tranne un pezzetto costituito dalla catena montuosa di Atlante. Si può davvero chiamarla “isola”? Nel senso greco “Sì”.
Tutti conosciamo cosa è il Peloponneso, una delle zone più importanti della Grecia. Ebbene, il Peloponneso ha esattamente la stessa conformazione geografica della “Terra di Atlante”. È una “quasi isola”, attaccata alla terraferma da un piccolo istmo. Cosa vuol dire il termine Peloponneso? Questa parola deriva dal greco Πέλοπος νῆσος (Pelopos Nesos), vale a dire “Isola di Pelope”. Questa è una prova non confutabile che per i greci dei tempi antichi, una “quasi isola” come il Peloponneso poteva essere considerata un νῆσος, o “isola”. Nulla di strano quindi se Solone, e dopo di lui Platone, chiamarono la “quasi isola” del Monte Atlante, o Atlantide, con νῆσος, o “Nesos”, il termine che noi traduciamo con isola nel senso moderno del termine.
Quella era davvero l’Isola di Atlantide? Quella “quasi isola” non può essere considerata “Atlantide” se non supera “l’esame dei cerchi”. Cosa vogliamo dire? Nel suo racconto Platone dice che nelle vicinanze dell’Isola di Atlantide si trovavano 2 strutture uniche nel loro genere. Secondo il racconto, una di queste strutture geologiche naturali era stata creata direttamente da Poseidone, e quindi la chiamiamo “Isola di Poseidone”. Si trattava di una montagnetta centrale, attorno alla quale c’erano 3 anelli di mare e 2 di terra, perfettamente concentrici. Non viene detto nulla riguardo alla sua grandezza. Viene detto che era “sacra”, inaccessibile e disabitata.
La seconda struttura, su cui gli umani edificarono una città, la possiamo chiamare “Isola della Metropoli”. Era una struttura geologica naturale che ricalcava molto da vicino la precedente, ma in questo caso vengono date le sue misure. C’era un’isola centrale pianeggiante ampia circa 900 metri, seguita da 3 cerchi di mare e 2 di terra, perfettamente concentrici. Il totale dell’ampiezza era circa 5 chilometri. Attorno a questa struttura geologica naturale (in cui risiedeva il re e la nobiltà) si estendeva la città vera e propria di Atlantide.
Quante possibilità ci sono di trovare vicino al percorso dell’antico fiume Tamanrasett non una, ma due strutture geologiche naturali formate da cerchi concentrici, una delle quali deve essere ampia 5 chilometri, e avere una specie di isola centrale ampia 900 metri? Direte: “Nessuna!”. Ebbene, come viene detto nel libro “Atlantide 2021 – Il continente ritrovato”, ancora una volta grazie ai satelliti, queste due strutture sono state scoperte proprio lungo il percorso del fiume Tamanrasett.
La prima struttura geologica naturale viene chiamata “Cupola di Semsiyat”. Si trova sull'altopiano di Chinguetti, nel deserto della Mauritania, a 21° 0' Nord di latitudine e 11° 05' Ovest di longitudine. Le sue misure sono esattamente quelle indicate da Platone per l’Isola della Metropoli. La sua ampiezza massima è esattamente di 5 chilometri. Al centro si trova una formazione ampia esattamente 900 – 100 metri, quanto era “l’isola centrale” della Metropoli di Atlantide. Si intravede anche un secondo cerchio interno, esattamente della misura descritta da Platone. La seconda struttura si chiama “Struttura di Richat”, e si trova a circa 20 chilometri di distanza. È ampia circa 40 km, ed è composta da una zona centrale dalla quale partono una serie di “cerchi di roccia”. Ci sono i chiari resti che indicano che una volta quello era un lago da cui affioravano dei “cerchi di terra”. È la rappresentazione perfetta “dell’Isola di Poseidone” descritta da Platone.
Oggi i satelliti hanno mappato tutta la superficie terrestre. Non esistono altre strutture simili sulla Terra che abbiano quelle misure o quelle caratteristiche. Sono “uniche”. Quindi, finché non verrà scoperto nulla di simile in giro per il mondo, in base a tutte le prove fornite dalla più moderna tecnologia, possiamo dire di aver davvero trovato la terra di cui parlava Platone: Atlantide.
Quindi i “misteriosi sacerdoti egiziani” non avevano mentito a Solone, e di conseguenza a Platone, quando gli dissero che ai piedi del monte Atlante, circa 11.500 anni fa, si trovava “una Grande Isola”. Ma questo fa sorgere altre importantissime domande: come lo sapevano? Quale civiltà era a conoscenza di fatti accaduti tra 14.500 e 7.000 anni fa? Questa zona dell’Africa è mai affondata? E che relazione ha “Atlantide” con Nan Madol e il “Continente sommerso” di Sundaland e Sahuland, recentemente scoperto dai ricercatori? Dove sono andati a finire tutti quanti? Il libro “Atlantide 2021 – Il continente ritrovato” risponde a queste domande, basandosi sempre ed esclusivamente su lavori di celebri scienziati, pubblicati su autorevoli riviste come “Science” e simili.
L’articolo continua sul libro:
HOMO RELOADED – 75.000 ANNI DI STORIA NASCOSTA
Puoi trovare una copia del libro a questo link
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divulgatoriseriali · 3 months
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IL PADRE FONDATORE DEI MANGA: oSAMU tEZUKA
In questo articolo parleremo di Osamu Tezuka: maestro della tradizione manga giapponese, a breve scopriremo la sua vita durante la seconda guerra mondiale e ci inoltreremo negli incredibili mondi nati dalla sua matita. La Trasformazione di un Medico in Artista: Il Percorso di Osamu Tezuka nel Mondo del Manga Nato a Toyonaka nel 1928 e cresciuto a Takarazuka, fu un rivoluzionario artista del…
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