All I see is what I should be (happier, prettier, jealousy)
Seconda parte di “Got a pretty face, pretty boyfriend, too”, vi conviene leggere prima quella altrimenti sarà difficile capire alcune cose. :)
Grazie dei commenti che mi lasciate ogni volta, mi riempiono il cuore di gioia come fossi una bambina a Natale. <3
Più il tempo passa, più Simone si rende conto che Marco gli piace. Gli piace affondare le mani tra i suoi capelli, e il modo in cui lui si diverte a giocherellare con i suoi ricci. Gli piace il fatto che Marco sia più grande e abbia la patente e una macchina, gli piacciono le attenzioni che gli dà e il modo in cui lo fa sentire speciale. Gli piace guardare le foto che hanno scattato al mare, ne ha persino stampate un paio da appendere in camera, ma non l’ha ancora fatto. Sul muro ha una foto con Manuel e Aureliano, e attaccarne di nuove sarebbe come rimpiazzarla. Rimpiazzare Manuel.
Sente di avere tutto quello che potrebbe desiderare, ed è felice sul serio. Laura è stata una delle prime persone a saperlo, ma non ha ancora avuto modo di presentarle Marco, nonostante ormai si stiano frequentando da qualche mese; anche i suoi compagni di classe l’hanno scoperto, l’hanno intuito dopo averli visti insieme più di una volta fuori da scuola, e lui non se ne vergogna. È felice.
Però c’è Manuel. C’è Manuel, con cui i rapporti sono sempre più tesi, le chiacchierate sempre più sporadiche, le litigate sempre più frequenti. C’è Manuel, che si è comportato da stronzo sin dal primo giorno del nuovo anno scolastico, quando ha visto Marco per la prima volta, quando sembrava sul punto di far scoppiare una rissa proprio fuori da scuola. C’è Manuel, che nonostante tutto continua a mandargli il cervello in cortocircuito, e non riesce a farlo smettere.
Simone vorrebbe parlare, ma Manuel lo evita. Ha provato a chiamarlo, a mandargli messaggi, ma Manuel risponde solo quando gli va, e solo a monosillabi. Ha provato a parlarci in classe, nei corridoi, è persino andato a casa sua, ma Manuel ha sempre una scusa, una via di fuga pronta. Ha provato a parlarne addirittura con Marco, che gli ha consigliato di lasciarlo stare.
“Una persona così è meglio perderla che trovarla,” aveva detto. Simone avrebbe voluto ribattere, dire che sono solo stronzate perché lui non ha idea di che persona sia Manuel. Invece è rimasto zitto, perché ultimamente gli sembra di non conoscerlo più, Manuel.
La verità è che nemmeno Manuel riconosce più se stesso. Ci pensa una mattina di novembre, quando le scuole sono chiuse per allerta meteo e lui non ha di meglio da fare se non rimanere steso sul letto a pensare e rimuginare, senza che lo studio o i lavoretti alle moto possano distrarlo.
Sa di star facendo preoccupare Simone, ma non può fare altrimenti. Si sente rimpiazzato, per quanto infantile possa essere. La Manuel e Simone associati si è sciolta, e al suo posto è nata la società di Marco e Simone.
Lui invece non ha un Marco, e si rende conto di non averlo mai avuto. Ha avuto Chicca, che sarebbe potuta diventare un Marco, se solo lui gliel’avesse permesso, se non l’avesse tradita e non si fosse comportato da stronzo; ha avuto Alice, ma non è neanche sicuro di averla avuta davvero, e a lei ormai ci pensa raramente.
Hai avuto Simone, gli ricorda il suo cervello, e Manuel vorrebbe che quella vocina tacesse per sempre, perché sa che ha ragione, ma al contempo ha torto. Ha avuto Simone, ma allo stesso tempo non completamente. Ha provato l’ebbrezza di sentire Simone su di sé, contro le sue labbra, sui polpastrelli, tra le mani. Ha provato la vergogna di averlo desiderato, il rimorso di averlo ottenuto, il rimpianto di averlo allontanato.
E il motivo scatenante Manuel lo ha ben capito ormai. Sono passati mesi, mesi in cui ha finto che non fosse mai successo niente, mesi in cui si è comportato come il solito stronzo a giorni alterni, mesi in cui ha finto che Simone non esistesse. Ma in realtà Simone è ovunque: lo ritrova negli alberi vicino casa, che gli ricordano quelli del giardino di Simone; lo ritrova nel suo garage, dove passa gran parte del suo tempo libero, dove ha portato Simone così tante volte che ora stare lì da solo sembra quasi sbagliato.
Più cerca di allontanarsi, di liberarsi di questi sentimenti scomodi ed ingombranti, più si ritrova immerso nella merda più totale, evviva i francesismi. Manuel se l’è sempre cavata bene con le parole, con i temi a scuola, con le poesie, ma ora qualsiasi frase gli sembra inutile e vuota, perché lui si sente inutile e vuoto.
“Vaffanculo,” urla con la faccia premuta contro il cuscino.
Sua madre si affaccia dalla porta di camera sua. “Manuel, che succede?” gli chiede preoccupata.
Manuel sospira. “È Simone,” risponde sottovoce.
Anita si siede sul letto accanto a lui, accarezzandogli una gamba con dolcezza. Lo guarda e non può fare a meno di domandarsi quando sia diventato così grande.
“Che hai combinato stavolta?” domanda lei scompigliandogli i capelli, e Manuel sorride perché ovviamente sua madre sa che è colpa sua.
“Ho fatto un bel casino e non so come uscirne,” dice Manuel con sincerità.
Si accoccola sulle gambe della mamma, e gli viene in mente la sera dell’incidente di Simone, il modo in cui anche allora non aveva fatto altro che parlare di lui a sua madre, e come già allora la sua testa fosse un miscuglio di rabbia e confusione, sensi di colpa e sentimenti sconosciuti.
Pensa che forse non sarebbe un male aprirsi con sua madre, che in amore ne ha passate tante ma ne è sempre uscita più forte di prima. Però Manuel ha una paura fottuta, e non sa neanche lui di cosa. È così incasinato da non riuscire neanche a spiegarlo. Preme la faccia contro la pancia della madre, cercando il calore che l’ha sempre tenuto in vita, e la abbraccia.
Anita stringe il figlio a sé, passando una mano tra i capelli morbidi. Pensa che non ci sia nulla di più bello al mondo di questi piccoli momenti.
“Manu,” sussurra. “Parla con me.”
E Manuel lo fa. Le racconta in maniera sommaria del compleanno di Simone, evitando di addentrarsi in particolari inutili e decisamente imbarazzanti. Le racconta delle volte in cui, preso da una rabbia fasulla, dettata esclusivamente dal suo sentirsi totalmente disorientato, l’ha insultato, dicendo parole che non pensava. Le racconta di Marco, della sensazione viscerale che lo prende ogni volta che li vede insieme, del modo in cui non riesce a liberarsene, del fatto che ha paura di chiamarla con il suo nome perché renderebbe tutto troppo vero, reale, concreto.
Manuel parla senza allontanare mai il viso dal grembo della mamma e Anita non lo interrompe mai, lasciando che si sfoghi e dia voce a tutta la sua confusione, a quei pensieri tenuti nascosti troppo a lungo, ammantati da un velo di vergogna. Sente la maglietta umida e sa che Manuel sta piangendo. Lo culla piano, accarezzandogli la schiena con quei movimenti circolari che erano in grado di calmarlo in un baleno quando era bambino.
“Perché non me ne hai parlato prima?” chiede Anita in un sussurro quando Manuel sembra aver finito di parlare.
Manuel si gira verso il soffitto. “Che dovevo dirti, ma’? Non lo so manco io che me sta a succede’.”
Anita passa il pollice sulle guance umide del figlio. “A me sembra che tu abbia le idee abbastanza chiare, invece,” sussurra. “Hai solo paura.”
Manuel chiude gli occhi e sospira. “Che devo fare, ma’?”
“Devi smettere di avere paura.”
Manuel ride tristemente. “Sì, grazie. E come si fa?”
Anita sorride. “L’amore non è qualcosa di cui avere paura, Manuel. L’amore è bellissimo, è travolgente, è una forza della natura.”
“Pure i tornado so’ forze della natura ma non me pare che la gente ne sia felice.”
Anita gli dà un buffetto sulla guancia. “Sei sempre il solito,” gli dice ridendo, e Manuel sorride, prendendo la mano della madre e premendosela contro il viso. “Devi lasciarti andare. Devi parlargli come hai parlato con me. Devi trattarlo come tratteresti una ragazza che ti piace, perché non cambia assolutamente niente, hai capito?”
Manuel annuisce. “Tanto è inutile,” dice dopo un po’. “Mo c’ha un altro e io l’ho perso.”
Anita rimane in silenzio, il suo respiro l’unica cosa a dare conforto a Manuel. “Non è vero,” dice poi. “Simone non lo perderai mai. Ti vuole troppo bene.”
“È diverso,” replica Manuel.
“Tu gli vuoi bene?”
“Certo,” risponde con sicurezza Manuel.
“Solo quello?”
Manuel non risponde. Guarda la madre negli occhi, vede tutta la dolcezza e l’amore incondizionato che prova per lui. Non si è mai sentito tanto al sicuro come nelle sue braccia.
“No,” sussurra, ed è come se quella nebbia che gli rendeva difficile pensare si sia finalmente diradata. Come se quel peso che si portava appresso sia finalmente stato scagliato lontano. “No,” ripete. “Me sa che me piace. E pure parecchio.”
Anita sorride dolcemente. “Allora diglielo.”
“E Marco?” domanda Manuel dubbioso.
Anita gli fa l’occhiolino. “Sei meglio te.”
E forse sua madre ha ragione, o forse ha detto una marea di cazzate spinta dall’amore. Però Manuel ha passato mesi a detestare se stesso, Simone, Marco, poi ancora se stesso, poi ancora Marco, Marco, e decisamente Marco. Ha passato così tanto tempo nascosto nell’odio e nella gelosia – perché lo sa bene, era geloso marcio di quel ragazzo – da dimenticare tutto il resto. Da dimenticare le cose belle con Simone.
Si alza e dà un bacio alla madre, poi prende il telefono ed esce di casa. Ha bisogno di rimanere solo, e di fare una telefonata. Si rifugia nel garage, il suo posto sicuro, pieno di ricordi belli, di ore passate a scoprire i segreti delle moto e dei motori, e ricordi brutti, come le litigate con Simone, la macchina distrutta, Zucca che lo minaccia. Preme il tasto di chiamata sul contatto di Simone, deciso ad aggiungere un ulteriore ricordo, speranzoso che abbia un risvolto positivo.
“Pronto?” la voce profonda di Simone gli risponde, un accenno di sorpresa nel tono, e per un istante Manuel teme di averlo disturbato mentre è con lui.
“Te devo parlà,” dice Manuel sbrigativo.
“Finalmente,” dice Simone, e sembra a metà tra il sollevato e lo scazzato. “Mi chiami così all’improvviso e manco saluti?”
“È importante,” insiste Manuel, e forse è il suo tono disperato, forse l’urgenza nella sua voce, ma Simone si fa serio.
“È successo qualcosa?” chiede, e il cuore di Manuel fa fisicamente male al pensiero che, nonostante gli abbia causato più guai che altro, nonostante l’abbia ignorato per settimane, Simone sarà sempre preoccupato per lui.
“No,” risponde Manuel. “Cioè, sì.” Sospira. “È complicato.”
“Vuoi che venga da te?”
“No!” esclama Manuel. “No,” ripete schiarendosi la voce. “È più facile così.”
“Va bene,” dice Simone dubbioso. “Che devi dirmi?”
“Sei da solo?”
“Sì.”
“Okay.” Manuel prende un respiro profondo, e si rende conto di non aver pianificato alcun discorso. Non ha idea di cosa dire, non ha idea del perché abbia chiamato Simone. Voleva sentire la sua voce, voleva appurare che fossero ancora amici, voleva semplicemente Simone.
“Manuel?” lo chiama lui dopo un silenzio troppo lungo.
“Non so che cazzo dire, Simò,” dice Manuel sospirando, e sa di risultare un idiota, ma non ha mai detto di essere il contrario.
“Sei tu che mi hai chiamato,” gli fa notare Simone. Non è irritato, solo confuso.
“Lo so,” dice Manuel. Prende una chiave inglese dal tavolo da lavoro e la fa roteare tra le mani per distrarsi. “Non so da dove iniziare.”
“Forse potresti spiegarmi perché hai deciso di ignorarmi per tutto questo tempo.”
Manuel sospira nuovamente. “Mi dispiace, Simò. Ero confuso.”
“Confuso,” ripete Simone.
“Sì.”
“Perché?”
Un altro sospiro. “Per colpa tua,” risponde Manuel a bassa voce.
Simone non ribatte e Manuel teme di essere andato troppo oltre, di averlo spaventato.
“Simò? Ci sei?”
“Ci sono.”
“Di’ qualcosa allora,” lo implora Manuel. Sente la voce tremare e lo odia, perché è sempre riuscito ad incantare le ragazze con le sue parole, ma davanti a Simone non sa che dire. Si sente indifeso e inadeguato, come se nulla bastasse ad esprimere quello che vorrebbe. Non la diceva pure Cavalcanti una roba del genere?
“Spiegati meglio,” dice Simone, e anche la sua voce trema. Parla sottovoce, come se si stessero rivelando un segreto, o discutendo un traffico clandestino. Conoscendosi, Manuel è più propenso per la seconda.
“Mi piaci, Simone. Tanto. Troppo.”
Manuel sente il respiro irregolare di Simone dall’altro lato del telefono, lo sente agitarsi e muoversi, e se chiude gli occhi riesce a vedere davanti a sé i suoi occhi grandi ed espressivi che lo fissano dubbiosi, insicuri, convinti che questa sia solo l’ennesima presa in giro. Manuel sente il cuore fare un balzo nel petto e sa con certezza che non è una presa in giro, non è uno scherzo, non lo sta usando. Simone gli piace davvero. Tanto. Troppo.
“Simò?” lo chiama Manuel dopo qualche secondo di silenzio di troppo.
“Mi stai prendendo per il culo?”
“Simo…”
“Perché devi fare così, eh? Me lo spieghi? Per quale cazzo di motivo devi sempre intrometterti? Perché non puoi lasciare che io mi goda la mia fottuta vita senza incasinarla?”
Simone parla e non riesce a fermarsi, gli sputa addosso parole velenose e cariche d’astio credendo di poter pareggiare i conti, sperando che i sentimenti sepolti non riaffiorino, ma invano. Sono sempre stati lì, in un angolo della mente, presenti in ogni carezza di Marco, in ogni bacio ad occhi chiusi.
“Perché non puoi lasciarmi in pace?” continua Simone, ma ha la voce rotta dal pianto e non lo pensa davvero.
Non vuole che Manuel lo lasci in pace, l’ha lasciato in pace troppo a lungo. Gli manca fumare con lui, gli manca l’adrenalina delle loro fughe in motorino, gli manca guardarlo, ammirarlo, stargli accanto. Gli manca Manuel, più di quanto gli mancherebbe Marco se rompesse con lui, e si odia per questo.
Manuel poggia la testa contro il muro, immaginando che sia la fronte di Simone. “Perché so’ ‘n cojone, Simò, e non mi sono reso conto di cosa avessi davanti tutti i giorni. E perché avevo paura e non capivo ‘n cazzo, come sempre.”
“E mo?” mormora Simone.
Manuel sorride. “E mo ‘na cosa l’ho capita. Se sto con te c’ho meno paura.”
Simone tira su col naso e Manuel ride.
“Ma che t’ho fatto piagne?”
“Sta’ zitto,” borbotta Simone.
“So’ serio, Simò. Mi piaci come me piaceva Chicca, come me piaceva Alice, e non so se potrà mai piacermi ‘n altro ragazzo o se sei te o che so io. Però cazzo, Simò. So’ passati mesi e penso ancora a quella notte.”
“Io… sono fidanzato,” dice Simone incerto.
Manuel sospira. “Lo so. So’ arrivato tardi.” Ride mestamente. “Però Simo… era giusto che lo sapessi.”
“Sono innamorato di te,” dice Simone frettolosamente, e Manuel si blocca. “Marco mi piace, però… sono innamorato di te. Da mesi. Da sempre, forse.”
Manuel deglutisce. Non sa se ama Simone, quella parola lo spaventa ancora, nonostante il discorso di sua madre. “Io…” inizia incerto.
“Non devi dirlo,” lo interrompe Simone. “Solo… dimmi che per te non è un gioco. Dimmi che… dimmi che per te esisto davvero.”
Manuel si morde un labbro, gli tornano alla mente tutte le volte che ha chiamato Simone con appellativi spregevoli, tutte volte che ha cercato di allontanarlo, di allontanare i suoi sentimenti, fingendo disinteresse, ferendolo intenzionalmente.
“Io te vedo in ogni cosa che me circonda, Simò. Te penso sempre, pure quando non dovrei.”
Simone sorride, ed è come prendere una boccata d'aria fresca dopo essere rimasto sott'acqua troppo a lungo, quando i polmoni bruciano e urlano, cercando disperatamente ossigeno e trovando solo il sale del mare.
Si lecca le labbra e sente il sapore delle lacrime che gli rigano il volto e che non si era neanche accorto di aver versato. Si asciuga gli occhi con il polsino della felpa e si schiarisce la gola, cercando di darsi un contegno, ma si sente così dannatamente sollevato.
“Non so che dire,” mormora stupefatto.
“Non devi di’ niente, vieni qua e basta,” risponde Manuel, e Simone obbedisce.
Chiudono la telefonata senza neanche salutarsi, e in men che non si dica Simone è in sella alla sua moto.
Quando si trovano uno davanti all’altro, continuano a non salutarsi. I loro corpi si muovono in autonomia, spinti da quella forza cieca che i poeti hanno cercato di descrivere per secoli, incontrandosi in un bacio molto meno violento ed impulsivo del primo, ma ugualmente passionale. Manuel sente il respiro bloccarsi in gola, mentre un’emozione travolgente prende il sopravvento su di lui, e il profumo di Simone lo avvolge completamente, inebriante, ubriacante. Lo trascina in garage senza mai staccare le labbra, e sa che il nuovo ricordo che prenderà forma lì sarà il più dolce di tutti.
Si rende conto che sua madre aveva ragione. L’amore non è qualcosa di cui avere paura.
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Ho sempre scritto poco di Napoli, per un’evidente scelta, determinata dalla mancanza di distacco emotivo che è invece necessario per non scottarsi quando la materia è incandescente. Devo quindi ringraziare il mio antico amico e compagno Marco Galasso che ieri ci ha ricordato l’atroce morte di Enzo De Waure, militante dei Comitati di lotta, per mano fascista. Quello che segue è l’articolo pubblicato venti giorni dopo dal quindicinale Lotta Continua. Essendo trascorsi 48 anni dall’omicidio ho siglato tutti i nomi dei fascisti perché non avendo lasciato tracce successive nella cronaca ho ritenuto di applicare il diritto all’oblio. Ad eccezione di un solo nome, perché è stato ancora a lungo, prima nelle piazze, poi nelle galere e infine nei banchi del consiglio comunale un protagonista della fascisteria napoletana (e anche perché anche siglandolo molti lo avrebbero identificato lo stesso ..]
Napoli. Il 21 gennaio [1972], nelle piazza centrale di Fuorigrotta viene trovato il corpo carbonizzato di Vincenzo De Waure, compagno marxista-Ieninista. La grande stampa che in un primo tempo si era affrettata a liquidare il caso come suicidio, comincia a «esprimere dubbi» , poi ammette che la ipotesi del suicidio è sempre più assurda, poi tace definitivamente., . Ammette che è un assassinio ma non gli importa.
La testimonianza contro i fascisti
La polizia e i carabinieri non stanno conducendo nessuna indagine, in realtà occultano le prove che emergono contro la tesi del suicidio.Vincenzo De Waure non si è suicidato: è stato assassinato nel modo più atroce, cosparso di benzina, bruciato da fascisti criminali. Questa è la verità che ormai balza fuori con evidenza e sulla quale nessuno può avere dei dubbi. Vincenzo De Waure era uno dei compagni più impegnati nella lotta rivoluzionaria. a Napoli. Con I fascisti aveva avuto ripetutamente a che fare e. Ii conosceva bene. Chi gli è stato vicino testlmnnla che era deciso nell’affrontarli, anche·da solo, che non si era mai tirato indietro. Nell’aprile del 1971 al processo contro due picchiatori fascisti, Salvatore Caruso e D.C., condannati e poi rimessi in libertà, la sua testimonianza era stata decisiva. In quell’occasione, davanti al giudice, Caruso lo aveva apertamente minacciato di morte.
Il pestaggio subito e la denuncia
L’1’1 dicembre 1970 Enzo aveva sporto denuncia contro tre noti fascisti: N. M., G. B. e P. P. Lo avevano aggredito e ferito davanti a scuola. Allora, dopo l’aggressione, il commissario di P. S. di Fuorigrotta, dott. F. lo aveva arrestato e mandato in galera, trasformando così la vittima di un’aggressione in un imputato per rissa. Nel prossimo marzo si sarebbe tenuto il processo per questo episodio nel quale Vincenzo avrebbe potuto ancora una volta smascherare la montatura poliziesca e aggiungere altre prove contro i delinquenti fascisti. La versione ufficiale del suicidio fa acqua da tutte le parti. In primo luogo perché De Waure era un comunista conseguente, e tutti quelli che lo conoscono escludono che possa mai aver neanche pensato a una cosa così assurda.
Tutte le prove del delitto
Questo a noi basta. Ma ci sono anche le prove, una schifosa montatura poliziesca crollata. Innanzitutto l’incredibile «incuria» dei carabinieri: arrivano sul posto con grande ritardo, permettono che spariscano prove, o siano messe in dubbio. Come i frammenti della lattina di plastica raccolti da compagni il giorno dopo e consegnati. Come una giacca blu, che non è quella di De Waure, vista per terra la notte e poi sparita. Come le tracce di sangue per terra. Come il fazzoletto macchiato, con le iniziali «B» e «G» , anche esso trovato da compagni e consegnato il giorno dopo, assieme a un bossolo di pistola. C’è l’incredibile commissario di Fuorigrotta che ha la sede in quella stessa piazza e non si è accorto di nulla, giunge dopo gli stessi carabinieri cui lascia le indagini.
Quelle telefonate a casa
E’ il commissario conosciuto come fascista in tutta Napoli, lo stesso che aveva arrestato De Waure nell’aprile scorso per essersi lasciato aggredire dai fascisti. E c’è il magistrato che – a detta degli stessi poliziotti – aveva giudicato «inutile» l’autopsia: è stato costretto a farla solo dai legali dei genitori. C’è il fatto che gli occhiali, l’anello e l’orologio di Vincenzo non sono stati trovati. C’è il fatto che il suo corpo risulta bruciato solo da una parte mentre quella che poggiava sul marciapiede no (come se l’avessero bruciate quando era disteso sul marciapiede e privo di sensi). Ci sono poi le telefonate a casa, di minaccia, e quella di una voce che dice: «Perdonatemi, sapevo dell ‘appuntamento dell ‘una. Ho dovuto farlo. Non ho potuto parlare. Ho paura». (E l’accenno all’ora è significativo).
Vincenzo De Waure, uno del nostri: forse mai, dal tempo della liberazione, i fascisti avevano osato tanto. Forse mai, dal tempo della liberazione, gli « antifascisti» ufficiali li avevano coperti fino a questo punto. I proletari sapranno dimostrare quanto vale la vita di uno dei loro, è un impegno che tutti ci assumiamo. Imporre la verità, come nel caso dell’assassinio di Pinelli, smascherare i mandanti e chi li copre. Trovare gli esecutori. Fargliela pagare.
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