CALDERA
CALDERA
In principio era stata una semplice caldera, con il suo bel sistema di vulcani - grandi, piccoli - che occupavano una superficie immensa, che si estendeva per chilometri quadrati.
(quando ancora non esistevano i chilometri quadrati)
Dinamismo era stata la parola d’ordine di quel posto: fuoco e mutazione, esplosioni, proiettili sparati in ogni direzione.
Milioni di anni di rumore assordante.
Fragore e vis, mescolati insieme.
Quando la rabbia del vulcano dominante si era finalmente un po’ calmata e il grande avvallamento da cui tutto era partito era tornato ad essere visibile - libero dai vapori e dalle fiamme - allora (e solo allora) il silenzio aveva preso possesso di quello spazio sconfinato.
Un silenzio mai percepito prima, con quella stessa intensità e nemmeno dopo.
In quella conca, che aveva visto levarsi per milioni di anni tutto quel fuoco, pian piano aveva cominciato ad accumularsi copioso l’elemento primario: l’acqua.
Aveva lenito e smorzato ogni ardore residuale rimasto da quelle parti.
Pioggia dopo pioggia, alluvione dopo alluvione. L’acqua. Portata giù dai fianchi delle colline, trascinata lungo canaloni che nel frattempo si stavano generando da soli.
Da un certo momento in poi, l’acqua si era saldamente impadronita della situazione: aveva preso possesso di quei luoghi. Per rimanere lì.
All’inizio, lo aveva fatto in modo discreto, senza farsi nemmeno notare: si erano create piccole pozze qua e là, all’interno dei crateri più piccoli, in cui si era depositata quella pioggia, che aveva iniziato scrosciare copiosa.
Zitta zitta. Implacabile.
Quei monti ripidi - dai bordi ancora affilati, quasi taglienti - che si affacciavano come una improvvisa barriera su quella depressione profonda, avevano partecipato a modo loro all’opera in corso.
Mentre cadeva, l’acqua scorreva verso il basso, rotolava giù, convogliata verso il centro di quella caldera.
In virtù di quel suo scorrimento verso il basso, aveva iniziato a consumare, ad arrotondare quei bordi: solchi profondi avevano creato una via privilegiata per il suo passaggio ed era stato così che erano nati i Fossi Primordiali, tramite cui quell’elemento liquido, ancora torbido, ancora senza una vocazione precisa, aveva trovato un passaggio veloce verso la valle, giù in fondo.
E pluf! Dentro la caldera.
Milioni di anni: milioni di gocce, barili di acqua, uno dopo l’altro e alla fine tutto si era riempito.
Una superficie sconfinata, in parte ancora torbida, sotto la quale si agitavano inutilmente le ultime fumarole, residui di un vulcano non ancora del tutto convinto se chiudere o meno la sua attività. Per sempre.
L’acqua, alla fine, (come era ovvio già all’inizio) aveva vinto.
In qualche momento in cui la pioggia era diminuita e - squarciate a fatica quelle spesse nubi - il sole si era affacciato ad illuminare quella superficie, si poteva chiaramente osservare che era l’azzurro a dominare. Azzurro dell’acqua, contro il bruno scuro della lava ancora nuda. Ancora priva di vegetazione.
L’azzurro dell’acqua stava sconfiggendo il rosso del fuoco: si preparava a diventare il padrone di quella immensa caldera.
Un tempo - quasi in mezzo alla piana - la lava uscita dalle fessure della crosta aveva creato due tozze protuberanze. Due blocchi scabri, dall’aria triste. Sembravano irrisolti. Circondati da tutto quell’azzurro, invece, essi si trasformarono in due isole dall’aria elegante, sebbene ancora nude.
Due isole misteriose, affrontate, due gemelle eterozigote, perché - a dire il vero - erano molto diverse tra loro.
Accogliente e aperta, la prima. Scabra e scontrosa, la seconda. Fin da subito.
(colpa sicuramente del loro segno zodiacale)
Entrambe cariche di misteri, però, questo fu chiaro a tutti, fin da subito. Come se il lago avesse affidato a loro (e solo a loro) una serie di messaggi da condividere soltanto con chi lo avesse meritato.
In futuro.
(se mai qualcuno lo avesse meritato) (se mai fosse arrivato qualcuno a guardarle e ascoltarle, a comprenderle davvero)
Due pezzi di roccia che avrebbero parlato solo a chi avesse potuto/saputo ascoltare. Intanto, in attesa di trovare interlocutori affidabili, trattenevano energia. Accumulavano energia.
(non si sa mai, può sempre tornare utile!)
Passò ancora del tempo.
Una lunga serie di millenni, che sfilarono educatamente, uno dopo l’altro: arrivarono le prime timide piante e poi gli animali, che restarono padroni di quei luoghi molto a lungo, e poi (solo poi) dai bordi della caldera cominciarono ad affacciarsi alcuni ominidi.
Dapprima in modo episodico. Si sporgevano, guardavano, intimiditi da quella massa d’acqua: scendevano, ne raccoglievano un po’, si allontanavano, per correre velocemente altrove, in luoghi già esplorati e familiari.
Poi si fecero coraggio, scesero giù. Per restare. Si impossessarono di quel territorio in modo stabile.
Quei primi esploratori non lo sapevano ancora, (come avrebbero potuto saperlo?) ma stavano per dare il via ad una progenie speciale, che da quel momento avrebbe stabilito, una volta per tutte, un legame forte, simbiotico, con quell’acqua.
Quella massa d’acqua che aveva riempito la caldera. Quell’acqua che si era impossessata di quell’energia, sottraendola al fuoco.
Quel legame sotterraneo - acqua + ominidi - sarebbe rimasto impresso nei geni di quelli che sarebbero nati dopo, intorno a quei bordi. Sarebbe nata quella strana forma di simbiosi tra il lago e tutti quelli che vivevano intorno a lui.
Ogni forma di simbiosi comporta qualcosa di speciale: tu prendi una parte di me, io accolgo una parte di te. Un impegno (un fardello in certi casi) che si può trasformare in uno scambio.
In un dialogo continuo. Sotterraneo. Speciale.
Quell’acqua aveva fatto trovare pace a quei primi cacciatori-raccoglitori che si erano affacciati lì, incantati dalla luce emanata dall’acqua sotto il sole. Da quell’azzurro sconfinato.
Non sapevano di essersi imbattuti in una calma apparente, quella stessa che, il più delle volte, dominava sulla superficie.
(wrong!)
Non era calma: il bollore, l’agitazione, il rovello, lontani echi delle eruzioni iniziali, promanavano ancora verso l’esterno, arrivavano dritti dal buio del Cupo.
Quei sommovimenti non erano cessati: si erano solo spostati, dentro il lago. Si erano nascosti. Quelle particelle, però, sotto sotto, si agitavano ancora.
E quella energia - positiva, negativa: difficile stabilirlo guardando dall’esterno - unendosi all’acqua che lentamente evaporava, aveva cominciato ad infiltrarsi nelle ossa, nelle viscere di chi era andato a vivere lì, di chi sarebbe nato lì, e lo aveva reso diverso da tutti gli altri.
Così era stato anche per i loro discendenti. Animati perennemente da una smania di cui non sapevano bene le origini.
L’acqua sembrava regalare pace a chi si fermasse lì, a chi vivesse lì, (o almeno: questo era ciò che credevano ingenuamente quelli che arrivavano da fuori) ma era una calma apparente: tutti sembravano invece consumati, rosicchiati, scavati da quell’energia, che si agitava ancora dentro le acque, e li mutava, a livelli più meno consistenti, conferendo talvolta ai loro volti un’aria assorta, concentrata, come velata di malinconia.
Lo si sarebbe capito già a guardare, già qualche tempo dopo, i volti di quei primi avventurieri. Lo si sarebbe capito, certo, se ci fosse stato qualcuno in grado di capire in tempo certe cose.
Ma non era stato così.
C’erano altre urgenze a cui dare spazio, in quei momenti, altri obiettivi verso cui tendere. Erano esseri primordiali. Erano restati, ma per necessità.
Si erano lasciati plasmare dall’acqua di quel lago, senza saperlo.
Quella mutazione si era impressa nel DNA di quelli che erano arrivati dopo (a futura memoria, per non stare a fare lo stesso lavoro troppe volte). In quello dei figli dei figli dei figli.
Questo permetteva immediatamente di distinguerli - rispetto a tutti quelli che erano giunti lì tempo dopo, da luoghi che poco avevano a che fare con l’acqua.
Non è da tutti essere lacustri, infatti. Non tutti sono in grado di sopportare quel peso.
Non tutti - anche oggi, quando i foresti arrivano, venendo da lontano, e sbucano con le loro macchine da una delle creste dell'antico vulcano, anche oggi, dunque, già dopo la prima curva - quelli che vedono per la prima volta quell’acqua brillare da lontano, dentro l’antica Caldera, non riescono a provare quella stretta al cuore, quel senso profondo di appartenenza, di vicinanza e ricongiunzione, che prova chi è nato lì.
Quello che ci fa mormorare quando rivediamo il lago, anche dopo tanto tempo, anche se in quel momento siamo soprappensiero: “Eccoti qui! Finalmente! Mi eri proprio mancato” - come se si trovasse davanti ad un amico che credevamo perduto, uno che ci era mancato in quei mesi di lontananza forzata.
Chi vede la Caldera per la prima volta non può capire. Può intuire qualcosa, ma solo in superficie. È ammaliato da quello splendore, ma coglie solo quello.
Ignora ciò che si agita nelle profondità.
Ci sono dei giorni in cui, specie nelle giornate estive, quelle tra luglio ed agosto, nel momento della giornata tra le due e le tre del pomeriggio, il brillìo che nasce sulla superficie dell’acqua, le conferisce il colore del celeste polvere appena smorzato, animato da leggere pagliuzze dorate.
In quel momento, chi è nato e vissuto lì, guardando quel gioco di luce, si sente riempire di orgoglio, quasi fosse il padrone di quello spettacolo magnifico.
Si pavoneggia persino, come se volesse dire a tutti: “Questo è il mio lago, sapete?”.
In quei momenti si è capaci di dimenticare, di relegare in un angolo remoto della memoria, quelle giornate in cui il lago è cupo, depresso, i momenti in cui la forza dello scirocco lo rende aggressivo verso cose o persone, come un individuo ubriaco e molesto.
Il lago va preso in blocco, però. Nei suoi giorni luminosi ed in quelli più cupi. Chi è sempre vissuto lì, lo sa bene.
Chi nasce da quelle parti è obbligato a farsi carico delle energie che arrivano dritte dritte dal Cupo, che sbucano improvvisamente dalle profondità più remote del lago.
Arrivano da quei fondali carichi di limo, quel limo che, quando il lago è agitato, confonde le acque, le rende giallastre, perché cariche di particelle di ogni tipo.
Il lago è spesso minaccioso, oscuro, perché porta con sé milioni di anni di misteri ed è difficile resistere a quella forza attrattiva, magnetica. Distruttiva, in alcuni casi.
Per questo quasi tutti qui in paese, nel tempo, hanno evitato di abitare troppo vicini a lui. Si sono tenuti ad una certa distanza da lui, per una forma di igiene mentale. Preventiva, si direbbe.
Per prudenza.
Se provate a chiedere ad uno del posto perché il paese si sia sviluppato ad una certa distanza dal lago, vi risponderà - razionalmente - che abitare vicini all’acqua fa male, che l’umidità disturba le ossa.
Non è del tutto vero.
Lo si fa per tutelare la salute mentale, in realtà, anche se nessuno lo ammetterà mai davanti a voi. Non diranno mai che mantengono una distanza emotiva, perché temono di essere risucchiati e preferiscono osservarlo dall’alto - quel lago - dalla Rocca del Castello, possibilmente.
Più sicuro, per tutti.
Solo i pescatori hanno osato farsi carico di quella sfida.
Hanno vissuto da sempre lì, vicino alla caldera, lungo le rive, in capanne rabberciate alla meglio, simili a quella dei Tre Porcellini.
(quella di paglia)
Per sopravvivere, sono stati costretti a scendere a compromessi con lui. Con il lago.
Sono stati anche ricompensati da lui, per questa prova di coraggio: conoscono tutti i suoi segreti, il lago ha insegnato loro il senso del limite e sanno (avendolo talvolta appreso a loro spese) fin dove possono spingersi e dove invece è preferibile fermarsi.
Ne hanno ricavato, dal punto di vista genetico, un pizzico di lucida follia, che serve per sopportare esistenze quasi impossibile da tollerare.
Loro soltanto conoscono fino in fondo odori, umori, colori e sfumature dell’acqua. Da questa forma empirica di sapienza hanno acquisito una aderenza quasi empatica alle sue bizze, alle sue mattane improvvise. Ai suoi silenzi cupi ed insopportabili, specie di notte.
Questa forma di sapienza li rende diversi - veri e propri corpi estranei - rispetto al resto del paese.
Sono stati a lungo trattati come paria, con cui - dicevano le mamme per bene alle loro figlie ugualmente per bene - era assolutamente vietato mescolarsi.
Necessari, ma non amati, i pescatori: sempre lì, a fare il lavoro sporco.
In tutti quelli che sono nati vicino al lago, dunque, convivono più o meno tranquillamente due nature: il fuoco, che anima tutto, rivolta tutto, che consuma e fa evaporare l’acqua, se prevale.
L’acqua, che spegne tutto e tutto calma, quando è lei a prevalere.
Questi due opposti si annullano. Creano quasi lo stesso momento di calma assoluta che si trova al centro di una tempesta.
Più uno e meno uno. Uguale zero.
È un invito costante, mellifluo, alla stasi, all’immobilità, quella che, in casi estremi, se proprio trascinata per i capelli, se proprio volete, si fa tempesta e diviene distruttiva.
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