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#giornale del mattino
leonmarchon · 1 year
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Il pranzo (Le Déjeuner); 1868.
In questo ultimo quadro, realizzato sotto l'influenza di Manet, Claude Monet ritrae l'idillio di un pranzo, visto dalla sua misera condizione; è un déjeuner consueto per la Francia di allora, consumato in tarda mattinata.
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lunamarish · 8 months
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E forse il tuo carattere non mi piaceva, né il tuo modo di comportarti, però ti amavo di un amore più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile, che ormai non potevo più concepire la vita senza di te. Ne facevi parte quanto il mio respiro, le mie mani, il mio cervello, e rinunciare a te era rinunciare a me stessa, ai miei sogni che erano i tuoi sogni, alle tue illusioni che erano le mie illusioni, alle tue speranze che erano le mie speranze, alla vita! E l’amore esisteva, non era un imbroglio, era piuttosto una malattia, e di tale malattia potevo indicare tutti i segni, i fenomeni. Se parlavo di te con gente che non ti conosceva o alla quale non interessavi, mi affannavo a spiegare quanto tu fossi straordinario e geniale e grande; se passavo davanti a un negozio di cravatte e camicie mi fermato d’istinto a cercare la cravatta che ti sarebbe piaciuta, la camicia che sarebbe andata d’accordo con una certa giacca; se mangiavo al ristorante sceglievo senza accorgermene i piatti che tu preferivi e non che io preferivo; se leggevo il giornale notavo sempre la notizia che a te avrebbe interessato di più, la ritagliavo e te la spedivo; se mi svegliavi nel cuore della notte con un desiderio o una telefonata, mi fingevo più desta di un fringuello che canta al mattino.
Oriana Fallaci
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b0ringasfuck · 4 months
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Toltellini alla Vannacci
Allora, ho comperato questi pseudo tortellini all'esselunga, all'arrosto per altro, non col prosciutto, e nemmeno di quelli economici da discount.
E ve lo faccio sapere per sostituire gli incubi del generale Vannacci in pigiama, con un pensiero particolare a @nicolacava, con incubi nuovi, incubi che al mattino si dissolveranno al primo caffè, non che si rafforzeranno appena aperto un giornale.
Dunque, li ho fritti nell'olio di arachidi e cosparsi di salsa Lee Kum Kee chili garlic e sono migliorati rispetto a quando li ho fatti in brodo. Che ho pure pianto per il brodo che era un brodo buono e fatto con aMMore.
Questo per farvi capire quanto erano cattivi.
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pettirosso1959 · 4 months
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Finalmente la resa dei conti è arrivata. Poi toccherà all'Unità ed al Fatto Quotidiano.
Patrizia Cesaretti: Se fossero giornalisti invece che lecchini, camperebbero meglio.
Maria Stella Maltoni: Questo perché i pescivendoli non hanno più comprato Repubblica per incartare il pesce.
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CAOS A LA REPUBBLICA: "LA NAVE AFFONDA I CONTI VANNO MALE. QUAL' È LA LINEA EDITORIALE’’.
Libero 05/01/24
Non c’è pace a Repubblica. Dopo il durissimo comunicato di metà dicembre coi 5 giorni di sciopero paventati, il 2024 si apre con una mail esplosiva del Comitato di redazione (Cdr) a tutti i giornalisti della testata.
La sintesi è che la direzione e la proprietà si sono allontanate dall’identità del giornale.
Nel 2020 gli Elkann, proprietari di Repubblica, hanno venduto il Tirreno, la Gazzetta di Modena, la Gazzetta di Reggio e La Nuova Ferrara.
Nel 2021 si sono liberati di MicroMega.
Nel 2022 la vendita dell’Espresso.
Poi, nel 2023, la cessione di 6 testate del Nord-Est (Corriere delle Alpi, Il Piccolo, Messaggero Veneto, La Nuova Venezia, Il Mattino di Padova e La Tribuna di Treviso).
Pochi giorni prima di quel comunicato, il fondatore, De Benedetti, aveva a sua volta picchiato duro contro gli Elkann, accusandoli di aver distrutto il quotidiano.
IL CDR: «L’ANNO CHE SI CHIUDE È STATO SOFFERTO E DIFFICILE, ASSAI DELUDENTE PER TUTTI NOI.
IL NOSTRO GIORNALE CONTINUA A PERDERE COPIE,
ABBONAMENTI E NON RIESCE A TROVARE UNA STRADA NEL DIGITALE. E QUESTO, A NOSTRO AVVISO
PER LA MANCANZA DI UNA CHIARA STRATEGIA DI INVESTIMENTI, MARKETIG, OBIETTIVI, COLLOCAZIONE NEL PANORAMA EDITORIALE.
NONOSTANTE GLI SFORZI TITANICI DI TUTTI NOI.
La difesa dell’identità di Repubblica (ciò che sembra importare solo a noi giornalisti che amiamo questo quotidiano e il lavoro che facciamo)
ci ha impegnato in un anno che ha segnato la per noi traumatica disgregazione di quello che era il più importante gruppo editoriale del nostro Paese,
smembrato e dismesso da un editore il cui progetto resta per noi incomprensibile, oltre che frutto di preoccupazione».
La redazione, si legge sempre nel comunicato, attende dal direttore Maurizio Molinari il nuovo piano editoriale:
«Come sappiamo nel futuro prossimo ci sono ancora tagli, riduzione del perimetro giornalistico, mortificazione di competenze e professionalità (...)
il 2024 si preannuncia un anno di dura battaglia a difesa del nostro posto di lavoro, del nostro nome (...) dovremo affrontarlo insieme.
perché da questa caduta rovinosa non si salva nessuno.
Vedere Repubblica che viene abbandonata come una nave che affonda è motivo di particolare amarezza».
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ossicodone · 2 years
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Non penso ci sia cosa migliore delle giornate in cui si è leggeri, consapevoli di non dover far nulla se non: svegliarsi al mattino e fare una passeggiata per le strade di Riccione con gli aghi di pino che ti entrano nelle infradito e l'odore dolciastro rilasciato da alcuni alberi, fare una buona colazione e leggere il giornale, andare in spiaggia e giocare a beach volley, pranzare e nelle ore più calde leggere un libro sotto il gazzebbo, sorseggiare qualcosa di fresco mentre con i piedi si scava nella sabbia fresca, fare una doccia nebulizzata e giocare di nuovo a beach volley fino alle 18,00, gettarsi in mare accaldati e sporchi di sabbia, farsi una doccia a casa, cenare con del pesce e del vino bianco, prepararsi per andare a ballare, guardare il cielo mentre il mondo ruota e sentirsi parte di qualcosa di irrilevante rispetto all'infinito che ti sovrasta, sentire la canzone che ti piace partire e mettersi a urlare mentre l'alba colora il cielo, la tua amica è sparita col tipo conosciuto poco prima e tu sei sdraiato sulle sdraio con una sigaretta, una piada rucola, prosciutto e squacquerone, il vento leggero del mare a muoverti i capelli e non vorresti essere da nessuna altra parte se non lì
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arcobalengo · 10 months
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Chi ci attacca e minaccia punta all’autocensura
DI ELENA BASILE.
Non sono sorpresa per le denigrazioni pubbliche iniziate nei miei confronti. L’unico ministro plenipotenziario donna, nominato ambasciatore d’Italia in Svezia e in Belgio da due governi differenti, sarebbe un’incompetente. Non mi aspetto che chi elogiava il mio lavoro a Stoccolma o a Bruxelles testimoni a mio favore. Capisco la presa di distanze di tanti per quieto vivere. Avere ascoltato la mia coscienza e credere in una diplomazia di commis d’Etat mi ha penalizzata per la promozione ad ambasciatore di grado e non me ne lamento. È giusto che, in una carriera gerarchizzata, sia così. Di questi contrasti tra coscienza e struttura (alla Farnesina o altrove) parlo nel mio ultimo romanzo Un insolito trio”. Il tema di Antigone è approfondito. Ma queste sono banalità.
Passiamo a ciò che invece è grave per una democrazia. So bene che non viviamo in una delle dittature contemporanee: la Russia o le tante altre con cui l’Occidente ha ottimi rapporti. Non mi arresteranno, la mia incolumità fisica è salvaguardata. Ma il linciaggio pubblico e la criminalizzazione del dissenso sono armi per imporre il silenzio. Le usano i cosiddetti sostenitori della democrazia e della sua esportazione fuori dall’Occidente collettivo. Gli stessi politici e giornalisti che criticano giustamente Putin per le repressioni a Mosca gridano allo scandalo perché un diplomatico (che ha rinunciato a una lauta retribuzione e si è dimesso volontariamente per poter rispettare la propria integrità morale ed esprimersi liberamente) diviene editorialista del Fatto. Il giornale (uno dei pochi) offre spazio al dissenso, alla critica della politica occidentale sulla guerra in Ucraina e del tradimento dei valori europei sulla solidarietà economica e le migrazioni. Accoglie chi denuncia la propaganda mediatica e la censura della Ue di Borrell, che chiude mezzi di informazione stranieri con la motivazione propria dei regimi oscurantisti: proteggere la popolazione dalla “disinformazione”. Di disinformazione si parla con assoluta inconsapevolezza dei rischi che questo concetto strombazzato su giornali importanti possa avere su un dibattito politico libero e degno di una democrazia. In Italia come in tutta Europa. La Commissione e il Seae organizzano riunioni e strategie contro la disinformazione. Siamo quindi in guerra e dobbiamo accettare le minacce alle libertà individuali garantite dalla Costituzione? Il cittadino non può informarsi come vuole e scegliere liberamente cosa gli sembri menzogna o verità? Se questa decisione è stata presa, è gravissima. Avrebbe dovuto essere ampiamente dibattuta nei Parlamenti delle democrazie europee.
Nel mio primo articolo firmato col mio nome (quando il Fatto aveva già rivelato che Ipazia ero io) avevo ben specificato qual è il dovere di riservatezza dei diplomatici. A mio avviso, anche il diplomatico in servizio, se non gestisce il dossier accanto all’istanza politica e non ha accesso a fonti riservate, può mettere la sua esperienza e le sue competenze a vantaggio del dibattito pubblico. Nel 2022, in coerenza con questi principi, rilasciai interviste al sito Linkiesta, al Fatto, al Mattino, a Dimartedì su La7. Naturalmente utilizzai un linguaggio meno incisivo e irriverente di quello di Ipazia. Un tempo la diplomazia interagiva a testa alta con la politica. Grandi ambasciatori ormai in pensione (non li nomino per non creare loro noie) condividono le mie idee e mi raccontano la “Farnesina democratica” che hanno vissuto.
Ho firmato la lettera di dimissioni nel febbraio 2023. La mia collaborazione col Fatto è iniziata ad aprile. I segugi pronti ad attaccarmi possono accertare la data del primo articolo di Ipazia, lo pseudonimo che ho usato inizialmente perché l’iter procedurale per la pensione non era ultimato. Volendo esprimermi liberamente e in coscienza, sentivo di dover proteggere l’Amministrazione da inutili imbarazzi e me stessa da possibili rappresaglie.
Trovo divertente che chiunque si discosti dal vangelo dei democratici Usa sia tacciato di spionaggio o di collusione col nemico: la Russia. Sarebbe molto facile ribaltare l’accusa e chiedere quanti politici, diplomatici e soprattutto giornalisti sono costretti a tradire la propria coscienza e ripudiare la verità per mantenere ruoli di prestigio e di influenza, o anche solo il posto di lavoro. Non scambiatemi, per favore, per una moralista! Sono stata nell’establishment, un’ambasciatrice lo è automaticamente. Ho scoperto che tanti politici, giornalisti, imprenditori, diplomatici con cui ero in amicizia mi esprimevano idee non dissimili dalle mie, ma solo “in bilaterale”. Quanti avrebbero voluto la fine della tortura di Assange! Capivo bene che in pubblico non avrebbero ripetuto le stesse idee. Anch’io, senza mai mentire, ho peccato di omissioni. È comprensibile non esporsi anche solo per quieto vivere. Non è giustificabile invece che nelle democrazie europee i cittadini siano forzati all’autocensura. Non è possibile accettare che i cosiddetti ‘liberali’ (persino gli ex radicali: povero Pannella, si rivolterà nella tomba, lui la voce sempre fuori dai cori!) insultino e minaccino di sanzioni le poche voci isolate di critica alla politica Nato e alle guerre ‘umanitarie’ statunitensi. Io sono per un euro-atlantismo differente, nel quale la componente europea accresca, anche con una difesa propria e una reale autonomia strategica, la propria influenza. Siamo in tanti: non filo-putiniani, ma sostenitori di una politica occidentale che stabilizzi le aree geografiche, il Medio Oriente, il Nord Africa e l’Est dell’Europa. Torniamo ai valori di pace e prosperità. Battiamoci per un Occidente davvero democratico. Diceva Primo Levi: un lager nasce quando il cittadino gira la testa dall’altra parte.
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gregor-samsung · 2 years
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“ «Fatti orribili funestarono ieri sera la città di Palermo», dice il Giornale Officiale del 2 ottobre. Alla stessa ora, in diversi punti della città tra loro quasi equidistanti, una stella a tredici punte sulla pianta di Palermo, tredici persone venivano gravemente ferite di coltello, quasi tutte al basso ventre. «I feriti dànno tutti gli stessi contrassegni dei feritori, i quali vestivano a un sol modo, erano di pari statura, sicché vi fu un momento che si poté credere fosse un solo. Fortunatamente...» Fortunatamente nei pressi del palazzo Resuttana, dove vicino al portone cadde, gridando di spavento e di dolore, il ventre squarciato, l’impiegato di dogana Antonino Allitto, si trovavano a passare il luogotenente Dario Ronchei e i sottotenenti Paolo Pescio e Raffaele Albanese, del 51° fanteria. Accorsero, videro il feritore fuggire, lo inseguirono. A loro si unirono il capitano delle guardie di Pubblica Sicurezza Nicolò Giordano e la guardia Rosario Graziano: e non persero di vista l’uomo che inseguivano fino al cantone del palazzo Lanza, nei cui bassi era una bottega di calzolaio, ancora aperta nonostante fosse vicina la mezzanotte; e vi si lavorava, forse per una consegna che urgeva, da fare al mattino: un matrimonio, un battesimo. E nella bottega, fidando nella solidarietà che non poteva mancare ad uno inseguito dalla polizia, credette poter trovare scampo il feritore: vi entrò, spinse giù da uno sgabello, davanti al deschetto, un dei lavoranti; e si mise a quel posto come stesse lavorando. Ma la guardia Graziano, entrato qualche secondo dopo, si trovò di fronte a una scena non ancora assestata; a colpo d’occhio capì che l’uomo da acciuffare era quello che meno mostrava stupore; gli balzò addosso, lo immobilizzò, lo consegnò al capitano Giordano e agli ufficiali che sopraggiungevano. Perquisito, gli trovarono un coltello a molla di acuminatissima lama; e insanguinato. Più tardi, al posto di polizia, fu identificato: Angelo D’Angelo, palermitano, trentotto anni, lustrascarpe (mestiere cui era passato da quello più faticoso di facchino alla dogana). Naturalmente, nonostante il coltello insanguinato che gli avevano trovato addosso, D’Angelo negò di aver ferito Antonino Allitto, di aver ferito qualcuno davanti al palazzo del principe di Resuttana. Si trovava, sì, a passare da quella strada: e alle grida del ferito e all’accorrer di gente era fuggito nel timore che per lui, innocente, ne venisse qualche guaio, prevenuta com’era nei suoi riguardi la polizia del Regno d’Italia per il sospetto che di quella del Regno delle Due Sicilie fosse stato assiduo delatore. E si mantenne a negare per tutto l’indomani, davanti al giudice; «però il giorno seguente 3 ottobre, questo sciagurato sopraffatto dall’enorme peso del crimine, scosso dal fremito dell’universale indegnazione, lacerato forse dai rimorsi della coscienza ed atterrito dalle maledizioni di un popolo, determinavasi non solo a confessare la sua reità, ma ben pure a svelare la serie dei fatti e tutto ciò che era a sua conoscenza, intorno all’orribile macchinazione di cui egli aveva preso parte, allo spaventevole attentato del quale era stato uno degli autori». “
Leonardo Sciascia, I pugnalatori, Einaudi (collana Nuovi Coralli n° 168), 1976¹; pp. 5-7.
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vintagebiker43 · 1 year
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Una notiziola che racconta un po’ il modo in cui l’Italia racconta se stessa dal punto di vista gastronomico è quella che riguarda Oprah Winfrey e il suo recente soggiorno in Ciociaria. La (più) famosa conduttrice americana, 22 milioni e fischia di follower su Instagram, è stata qualche giorno a Fiuggi per un percorso benessere. Prima di tornare in America ha pubblicato sui social una foto che la ritrae con in mano una gigantesca pagnotta, corredata dalla didascalia: “Non potevo lasciare l’Italia senza il mio souvenir preferito: IL PANE!”. Quasi 200mila like, 3500 e passa commenti, uno di quei classici post che il giorno dopo vengono ripresi dalla stampa nazionale per celebrare, anche giustamente, qualche nostro piccolo vanto locale.
Solo che il post non viene ripreso praticamente da nessuno, a parte pochissime testate online soprattutto provinciali. Ho pensato che fosse strano, di solito quando di mezzo c’è un vip, un pezzetto d’Italia e una pizza, o un piatto di carbonara, contenuti del genere spiccano il volo. Quando Ilary Blasi è stata a Napoli per pasqua c’erano gallery, colonne, indirizzi su qualsiasi giornale, dal Corriere in giù. Forse il problema è proprio questo: non c’erano una pizza o un piatto di carbonara. Non c’era la costiera Amalfitana, una via da cartolina di Trastevere, una focaccia al formaggio con lo sfondo di Portofino. Non c’era, in sostanza, la bellezza più mainstream, ma un umile prodotto di un fornaio di provincia. Nemmeno una Dop, un’IGP da pubblicizzare da qualche consorzio. Solo un pane. E nemmeno Ilary Blasi, ma solo Oprah.
Eppure quel semplice pane, per l’americana molto influente, è evidentemente degno di celebrazione, è un prodotto eccellente tale da metterselo nel bagaglio a mano e riportarselo a casa con una storia da raccontare, da affettare al mattino come un piccolo pezzetto di Ciociaria, di Fiuggi, di Italia da asporto. Non è qualcosa che vogliamo raccontare di noi stessi? Forse no. Forse, quando qualcuno si lamenta delle troppe presenze nelle Cinque Terre, per fare un esempio, dovrebbe riflettere sul fatto che è quello è il frutto della nostra comunicazione all’esterno: cartoline e poco più, carbonare e poco più, spesso grazie a ottimi uffici stampa o testate di settore che si appassionano soprattutto a pochi cuochi o produttori amici. Cosa di cui evidentemente L’Antica Forneria Ciociara di Torre Cajetani non dispone, da piccola attività (immagino familiare) quale è.
Peccato, quel pane ci rappresenta molto più di tante ricette ad uso e consumo dei turisti e di tante notiziole ad uso e consumo dei titolari di attività.
@Lorenzo-Bigiarelli
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Angoli
In questi giorni mi viene difficile comprendere a chi, o a cosa, dare retta. Lo so, mi rendo conto perfettamente che è la realtà, quella che conta. Le parole, le azioni, i gesti e i fatti. Quelli descritti sul giornale che vado a comprare alle 7 del mattino quando il mondo inizia a muoversi e, io, con lui. Ma quando mi incammino per tornare a casa mi chiedo cos'è, la realtà. L'evidenza di un qualcosa che riusciamo ad osservare in maniera chiara e limpida, forse. O un qualcosa, basato su fatti, che condividiamo, accettiamo e diamo per assodato insieme agli altri, in maniera silente. Un qualcosa che esiste, indipendentemente dalla nostra presenza, dalla nostra sfera di influenza composta da intelletto, percezione e personalità. Immagino possa essere una buona definizione di realtà, questa. Ma, se la mia realtà fosse diversa? Se la mia realtà fosse frutto di un qualcosa di illogico e non percepibile dagli altri? Potrei definire, la mia realtà, realtà in tutto e per tutto? Me lo chiedo quando torno a casa col giornale sotto braccio e mia moglie mi chiama, amorevole, com'è sempre stata. Sa che ho comprato il giornale e, tenera, mi chiede sempre di leggerle le notizie. Non riesce più a leggere da anni, la sua realtà è cambiata con la sua, brutta malattia. Vorrei farlo, vorrei leggerle delle elezioni del nuovo Papa e della strage a Parigi di qualche giorno fa, ma non lo faccio. Quando mi poggio sulla sedia a dondolo all'angolo della nostra stanza apro il giornale e, facendo finta di cercare notizie degne di essere lette, le dico che non è successo nulla di importante. Le dico che il mondo è esattamente dove dovrebbe essere e, insieme a lui, anche lei è dove dovrebbe essere. A letto, sofferente, col suo eterno amore nei miei confronti e con un senso di colpa che non se n'è mai andato, anche dopo tutti questi anni. La sua realtà, influenzata dalla sua malattia, è realtà tanto quanto quella degli altri. Ma la mia realtà, derivata da una verità personale, non so se sia davvero realtà. Sì, potrei dire di sì, ma la mia è una realtà individuale, unica, a cui posso credere io e io soltanto. Una realtà senza evidenze scientifiche, sorretta da una verità priva della condivisione e dell'accettazione degli altri. Una realtà debole, sostenuta soltanto da me stesso, ma vera tanto quanto la realtà degli altri e, per questo, realtà. Nuda e cruda, nelle sue strane regole non scritte e vissuta, in maniera unica e irripetibile. È iniziato tutto un giorno, di tanto tempo fa. Forse era Ottobre, no, Novembre. Faceva caldo, ma ero comunque avvolto nelle coperte. Avevo bisogno di un abbraccio, o anche solo di un modo banale per asciugare velocemente le mie lacrime. Forse avevo sognato qualcosa, non lo so, ma ricordo fossero le 4 di notte. Il mio corpo decise di svegliarmi nel cuore della notte, e lo fece facendomi tremare come mai ho più tremato in questi 80 anni di vita. Mi alzai per cercare riparo, ma avevo la schiena indolenzita e provai fatica. A stento riuscii a bere un bicchiere d'acqua. Mi rannicchiai in un angolo e, preso dall'angoscia e dal dolore, intuii che fosse colpa di mia moglie: era lontana, non aveva più un ruolo nella mia vita, ma capii che mi odiava. Mi odiava, così tanto da farmi svegliare e tremare nel cuore della notte. E nelle strane regole accennate di quella nuova realtà, di cui avevo annusato soltanto i paradigmi più evidenti, credevo di esser impazzito. Non ero matto, non lo sono tutt'ora, ma è come se avessi vissuto la mia intera vita in una dimensione mia, personale, diversa da quella degli altri. Dimensione che non ho mai capito appieno e, che, mi ha spinto a farmi innumerevoli domande. A mettere in dubbio qualsiasi mia certezza. A pormi interrogativi anche sulle cose che davo per assodato, nella mia vita. L'ho fatto per giorni, settimane, mesi, anni, dopo quell'accadimento perché, da quel momento in poi, ogni verità di ciò che era la mia realtà è stata messa in discussione da una percezione delle cose diversa, atipica, anormale. Tutto quello che pensavo di sapere era stato messo in dubbio da un qualcosa di incredibile ma inspiegabile, sia nella semplicità della sua azione che nella complessità della comprensione delle cose che, senza alcun motivo, capivo. Per intuizione. E non potevo controllare tutto questo, no, perché la mia nuova realtà mi sorprendeva durante i momenti più banali della mia vita. Quando lavavo i piatti e guardavo il cielo, in certi momenti dell'anno il tramonto. Quando ero seduto all'angolo del mio vecchio divano e guardavo fuori, all'orizzonte, ammirando le luci lontane. Guardavo lontano, perché più lo facevo e più riuscivo a capire cosa stesse succedendo ed era buffo, perché ogni mia intuizione mi riportava a mia moglie. Lei era lì fuori e, per quanto lei non volesse e io nemmeno o forse sì, ero accanto a lei. Ero lì, mentre provava a mettermi da parte odiandomi più forte che poteva. Ero lì, quando ha cercato di ignorare completamente quello che era ed ero stato, quello che aveva fatto, quello che aveva causato. Il dolore che mi aveva fatto provare nell'attesa di un qualcosa che non era mai arrivato. E nel fare tutto questo, nello scrollarsi di dosso le proprie colpe, cercando come obiettivo una vita leggera, senza impegni e priva di conseguenze, io ero lì. Ero lì anche quando si è arresa all'evidenza dei fatti. E so, so, che mia moglie non ha più provato odio nei miei confronti perché non ce l'ha più fatta. Non ne aveva più la forza. E io, che non avrei mai dovuto sapere nulla di tutto questo, ho fatto finta di essere ignaro e lei con me, tacendo su tutta la questione. La comprendo, non le do nessuna colpa, anche perché conosco i suoi perché. Li conosco, anche se li ha sempre nascosti dietro al suo dolce sorriso, ed è proprio quel sorriso il perché di tutto. La fine e l'inizio, perché nell'odio si crea l'amore. Quella notte, in quel momento, ha capito che non poteva fare altro che legarsi a me, di nuovo. L'ha capito nel suo momento migliore e peggiore, nel punto più alto della sua vita e in quello più basso perché, nell'ammettere di quella necessità, ha dovuto ammettere anche altro. Ed è per questo che mi ha odiato, quella sera. Ma io non ero sicuro, di nulla. Quella verità si basava su un qualcosa di così aleatorio, irreale, che non sapevo come agire nei confronti di tutto quello che sapevo, ma di cui non ero sicuro. Perché la realtà dei fatti, quella sostenuta dallo spettro del visibile, era venuta meno e, io, non sapevo più a chi, o cosa, credere. Mi sono ritrovato a vivere due realtà, una logica e una irrazionale e, nel decidere a quale realtà affidarmi, non facevo altro che tormentarmi. Disperarmi. Rimanere nell'angolo del mio letto a piangere, per ore, perché la crudeltà di quello che era successo nella realtà condivisa da tutti si scontrava con un qualcosa di sì crudo ma diverso, speranzoso, positivo nella sua negatività ma che vedevo solo io, io soltanto. Poi, ho capito. Avevo bisogno di una prova, di un qualcosa che dimostrasse le mie teorie, un qualcosa che sostenesse la mia realtà. Un Dio che fornisce le prove ai suoi discepoli, per permettere loro di credere in lui. In una verità costruita dentro di me e senza nessuna dimostrazione pratica non potevo fare altro che chiedere una prova tangibile, di ciò che comprendevo. Perché nel continuare a vivere in due realtà non stavo più vivendo. Ma dove, e come, trovare una prova di quello che sapevo? Come dimostrare quell'odio, quell'indifferenza, quell'amore? Sembrava stupido, tra me e me, chiedere a un qualcosa di incomprensibile un qualcosa di tangibile. A chi dovevo chiederlo, poi? Potevo chiedere solo a me stesso, Dio, messia e discepolo della mia stessa religione. Ma come chiedere una prova della veridicità di un qualcosa di incontrollabile, dentro di me? Mi sembrava un cortocircuito logico, dato il mio essere vittima e carnefice della mia stessa realtà. E proprio nel comprendere l'illogicità di una richiesta del genere che pensai di non dare più retta, alle mie intuizioni. Come potevo dimostrare quella realtà agli altri? Come potevo dimostrarlo a me stesso? Per quanto avessi i risultati della mia verità, quelle che venivano meno erano proprio le formule che portavano al risultato, le fondamenta che sorreggevano la mia realtà. Ma Dio vede e provvede e, per quanto avessi abbandonato l'idea di seguire la mia verità, proprio quella stessa realtà mi diede la prova della sua veridicità, della sua concreta esistenza. Era sera. Non sapevo cosa fare, ma sapevo di non voler rimanere immerso in quella realtà così fragile alle fondamenta ma, allo stesso tempo, così solida e difficile da sopportare. Andai a camminare. Non lo facevo da tanto, non riuscivo più ad apprezzare ciò che mi circondava. La mia realtà era così totalizzante che feci fatica, anche solo ad alzare lo sguardo per scorgere i dettagli dei tetti dei palazzi addobbati per le feste. Non riuscivo più a guardare in alto, gli altri punti di vista non mi interessavano più. Decisi quindi di entrare in un pub. D'istinto, come avrei poi imparato a fare. Presi una birra e, appoggiato ad un angolo, decisi di godermi la solitudine di quel posto così pieno di persone, idee, verità e realtà che rimbombavano nell'aria ma che non volevo cogliere, poiché inutili. Quella sera sarò sembrato scontroso, arrabbiato, forse triste e patetico ma, anche con quell'aspetto, una ragazza mi si avvicinò. Aveva un fare amichevole e familiare, forse perché aveva lo stesso sorriso di mia moglie. Le offrii una birra. Lei, gentile, si prese cura di me e, io, di lei. Passammo la serata a parlare delle nostre storie, molto simili ma diverse, e della nostra vita fino a quel momento. Ci confessammo, Dio che ascolta il suo discepolo e viceversa. Ma nel trovare tanti punti in comune, molte similitudini, nel confessare le nostre verità, accadde. Una parola, che lei mi disse in risposta a quello che le raccontai di mia moglie, attirò la mia attenzione. Non ci rivedemmo più ma, per quanto mi colpii quella persona, quella parola fu fondamentale per me, come un discepolo a cui viene rivelata la verità e vede la sua vita stravolta. Fino a quel momento pensai che la mia realtà fosse individuale, unica e inimitabile, nelle sue dinamiche e nella natura delle sue intuizioni ma, per quanto lo sia e io sia convinto di non poter spiegare concretamente tutto quello che vivo ogni giorno, avevo dimenticato dell'aspetto di osservazione della realtà stessa e, di conseguenza, della mia realtà. Perché, per quanto io sia un animale in gabbia, attorno a me il mondo si muove e, per quanto questo possa sembrarmi assurdo, il mondo è in continua osservazione. E per quanto io creda che la mia realtà sia incomprensibile e renitente agli altri allo stesso tempo non è così perché, per quanto io possa crederlo, anche gli altri compongono la mia realtà, la mia verità, influenzandola nelle sue dinamiche. Quella parola mi venne a mente qualche giorno dopo, mentre osservavo l'ennesimo tramonto. Capii che non era una parola pronunciata per caso da una sconosciuta in un pub, no. Era il titolo di un racconto che, mia moglie, mi aveva ispirato. Un racconto che avevo iniziato a scrivere come sfogo per il mio dolore ma, che, non avevo concluso proprio perché quel dolore scomparve, prima di vederlo riapparire di nuovo. Ma anche perché non mi sentivo pronto, all'altezza, di quello scritto. Non era il caso di andare avanti, non era la cosa giusta. Andai nell'archivio dove tenevo i miei scritti e, mentre rileggevo le bozze, gli appunti, di quel racconto, iniziai a piangere. Mi resi conto che il me stesso del passato mi stava dicendo di credere. Di non far caso alla realtà ma credere alle intuizioni. Mi chiedeva di fermarsi, per riuscire a comprendere delle paure, dei timori, delle emozioni, di mia moglie. Mi sembrò profetico e, davanti a quella verità, mi arresi. Di fronte all'evidenza di quello che la mia realtà mi stava dicendo non potevo fare altro che questo. Dovevo arrendermi, non potevo più lottare contro quella realtà perché, per quanto potesse essere tutto frutto della mia immaginazione, non potevo fare altro che credere. Ero troppo stanco e debole, per continuare a lottare contro quella verità, così assurda ma allo stesso tempo così viva e vivida, ai miei occhi. Decisi così di dare tutto per assodato, per vero. Accettai quella verità, unica ed assoluta nella mia realtà ma incompiuta e immaginaria nella realtà degli altri e la abbracciai, per quanto non fosse nelle mie intenzioni e per quanto, questo, avrebbe poi portato a delle complicazioni. Ero seduto all'angolo più lontano di una scogliera, sotto ad un faro ricoperto di maiolica. Guardavo l'orizzonte e il mare, muoversi dolcemente in quella mattinata di fine Dicembre. Nello zaino un libro, consigliato proprio da mia moglie. Guardavo lontano, cercando di far chiarezza nei miei pensieri quando, ad un certo punto, intravedo un ragazzo e una ragazza. Erano all'altro lato della scogliera e si stavano baciando, dolcemente. O, almeno, così sembrava. Lei, infastidita, cercava di sfuggire al suo affetto in tutti i modi. Lui, paziente, la cercava e la attendeva. Con gli occhi, con le mani, con le labbra. Ma lei non voleva, no. Cercava di sfuggire al suo affetto, al suo volerla accanto. Fino a quando, insofferente, cominciò a inveire contro di lui, insultandolo. Si alzò, di scatto, per poi andarsene. L'odio, gratuito e grottesco, che quella ragazza mi trasmise mi sembrò similare all'odio che avevo provato io, in quella notte di Novembre. Allo stesso tempo, però, quella situazione mi fece riflettere. Distratto com'ero dal capire se credere o meno, stretto nelle maglie delle regole di quella nuova realtà, mi ero dimenticato di poter scegliere. Nel vedere lui, titubante, nel seguire quella ragazza o meno ricordai che potevo agire, decidere, e mi sembrò stupido arrivare a una conclusione così banale ma, in quel momento, mi sembrò una rivelazione. Per quanto fossi assoggettato dalle mie stesse intuizioni potevo decidere come sarebbero andate le cose. Nel sapere che lei mi amasse, nel prevedere che, un giorno, avrebbe bussato di nuovo alla mia porta potevo scegliere. Ma, per quanto mi sembrò rivelatorio tutto questo, in qualche modo fu anche la mia condanna. Fino a quel momento rimasi assoggettato alle verità che la mia realtà mi forniva, in maniera passiva, senza dover o poter fare qualcosa a riguardo. Ma quando compresi le potenzialità che ciò che avevo tra le mani andai nel panico. Cosa dovevo fare? Mi sembrò banale, scontato sedermi su una panchina, far dondolare le gambe e attendere che la mia realtà, comprovata soltanto da verità illogiche e irrazionali, si manifestasse. Allo stesso tempo, in quell'attesa senza data di scadenza, non potevo far finta di nulla. Sentivo la necessità di prendere una decisione, di comprendere il da farsi perché nel non farlo, nel vivere nell'incertezza di quel lasso di tempo indefinito, non avrei vissuto serenamente. Ragionai a lungo e arrivai a comprendere che, di fronte a me, avevo due scelte ugualmente dolorose perché non avevano come protagonista lei, ma la mia stessa realtà. Perché nella crudeltà di ciò che era stato nel passato, avevo intuito e compreso la bellezza di quello che sarebbe stato nel futuro, nel mio attuale presente. Io e mia moglie, nella casa che poi abbiamo acquistato. I nostri gatti, ormai morti. La libreria in comune e i miei soprannomi. Le discussioni, gli abbracci e il suo sguardo, innamorato, che mi accoglie ogni volta che torno col giornale. L'angolo dove scrivo le mie cose e dove lei, solitamente, mi attendeva quando aveva bisogno di me. Come poteva, la mia realtà, farmi intuire delle cose così importanti in quel momento, quando tutto era finito e non c'era alcuna possibilità che quelle cose accadessero? Mi sembrava assurdo, dopo quello che era successo. Una follia, un qualcosa di così fuori dalla realtà degli altri che, per quanto ci credessi, mi sembrava l'ultima cosa che potesse accadere nella mia vita, ormai segnata dalla mia stessa realtà. Ma nel mare agitato di quella follia dovevo decidere il da farsi. Di fronte a questa verità la mia scelta si riduceva ad un puro, e semplice, fidarsi. Perché potevo andare contro la mia realtà, accettando sì le mie verità ma rifiutandomi di proseguire e lasciando morire la questione, quando quello che avevo intuito sarebbe accaduto oppure accogliere la verità, raccogliere le informazioni di cui ero a conoscenza, interiorizzarle e andare avanti, con lei accanto a me. Avrei potuto rifiutare tutto questo, in nome di un dolore che mi aveva lacerato e di una difficoltà di ricostruzione che mi sembrava insormontabile, o avrei potuto accettare di fidarmi, in nome di quel qualcosa che la mia verità mi aveva fatto sembrare possibile, al dì fuori della mia logicità e di qualsiasi altra realtà. Per quanto pensai di non poter scegliere in quel momento, per quanto qualsiasi decisione potesse essere giusta e sbagliata allo stesso tempo, non potevo far altro che rimandare quel discorso a quando, la mia realtà, avrebbe agito, sia nel suo rivelarsi che nel farmi comprendere di ciò che non sapevo o non comprendevo appieno. Ma proprio nell'attesa della sua rivelazione la mia realtà agì, indisturbata. Nel non sapere cosa fare mi diede la possibilità di stare accanto a lei, anche nella sua assenza. Costringendomi a farlo, per quanto non volessi e non potessi sopportare la sua presenza ed esistenza. Due care amiche mi invitarono ad una festa. Era in un posto lontano, che non conoscevo. Ero annoiato, quella sera, e non stavo proprio benissimo. Avevo decimi di febbre, il naso che gocciolava. Decisi di andare, l'istinto mi disse di farlo. Mi ritrovai in una stradina con un monte, sopra la mia testa, quasi a proteggermi dalle avversità. Bussai, alla porta di questa sorta di palazzina. Erano lì le mie amiche, e con loro i parenti. Mi sembrò di essere al centro dell'attenzione, per un momento. Era quasi come essere in un sogno. Forse lo era. Nel raccontare di ciò che mi era successo una di loro mi prese da parte e cominciò a parlarmi. Di quanto fossi sprecato nello stare da solo, in quel momento. Di come avrei potuto trovare la felicità, se solo avessi aperto il cuore ad altre persone. Di come, col mio carattere, avrei potuto trovare in poco tempo una persona adatta a me. Cercai di spiegare quanto non fosse il caso, in quel momento, di mettermi alla ricerca di qualcuno. Non funzionò perché anche i parenti, che mi conoscevano, dissero la stessa identica cosa. Decisi di andare a prendere un po' d'aria e, dopo esser ritornato in strada, decisi di camminare. Era buio, il monte non si vedeva più, ma il rumore del mare mi richiamava e non potevo far altro che seguirlo. Mi ritrovai su una banchina. In fondo un molo e, all'angolo, seduta, una ragazza. Era mia moglie. Non poteva essere lì, in alcun modo. Eppure era lei, mi stava aspettando proprio lì. Mi sorrise per, poi, sparire. Mi sentii sereno. Sereno, nei confronti di ciò che era in quel momento e nei confronti di ciò che era stato, fino a quel momento. Sereno, anche se da quel momento in poi cominciai a vederla, dappertutto. La vedevo nei sorrisi delle ragazze che notavo, al pub. Nelle foto di altre persone. Nelle notizie, nei film che guardavo e di quello che leggevo. Nei dettagli che gli altri, mi facevano notare di me e che, lei, aveva notato prima di tutti. E notai che anche io la cercavo, in qualche modo. Perché, nell'andare avanti, la cercavo, anche solo col pensiero. La cercavo nelle cose che leggevo e di cui volevo raccontarle. Nel solo pensare di condividere quello che guardavo, scoprivo, conoscevo, ed immaginare cosa pensasse, delle cose che mi erano entrate nel cuore. E a volte immaginavo il suo sguardo, mentre leggeva uno dei miei racconti. Glieli inviavo via posta, perché volevo li tenesse lei. Perché era lei che mi ispirava. E, nell'andare avanti nella mia vita, avrei voluto raccontarle tutto. Avrei voluto telefonarla dal mio telefono analogico e raccontarle di ciò che avevo fatto e stavo facendo. Volevo renderla fiera di me, far sì che fosse felice di quello che avevo raggiunto, di quello che avevo superato ma, anche se non fosse stato così, volevo solo renderla felice. Non importava come. Mi riabituai a lei, per quanto non fosse nella mia vita. E nel farlo cominciai a fare delle cose, agendo proprio come se fosse accanto a me anche se sapevo, che quell'impegno e quello sforzo mentale, sarebbero potuti essere vani se la mia realtà non si fosse poi avverata. Ma non era più importante, a quel punto. Ero sereno nei confronti della mia realtà e di quello che ero e avevo accettato quello che era stato e, indipendentemente da ciò che sarebbe successo, andava bene così. Nella possibilità di non sentirla o vederla mai più nella vita ero riuscito a superare tutto, a perdonare e ad andare avanti. Accettare, quello che era stato ed essere in pace a riguardo, anche nei confronti di una scelta che non avevo ancora compiuto. Addirittura felice, quando riuscivo a ricordare ciò che era stato, prima di quella orribile notte di Novembre. Poi, mi telefonò.
Ogni tanto mia moglie mi chiedeva di raccontarle una fiaba. Dormiva tutto il giorno e, quando si svegliava, di sera, mi chiedeva di leggerle qualcosa. Dopo averle letto le notizie mi chiudevo nel mio studio e scrivevo, il più possibile. Cercavo di renderla felice, per quanto la sua malattia la stesse aggredendo e divorando, giorno dopo giorno. Per quanto non fosse in grado di capire appieno ciò che le dico cercavo di impegnarmi per scriverle, sempre, belle cose. Le descrivevo luoghi, persone, angoli ed orizzonti. Poco dopo quella telefonata, arrivata poco dopo quegli accadimenti, la mia realtà cominciò a tacere nei suoi confronti. Non aveva più niente da dire, avevo già tutte le informazioni di cui dovevo sapere. Ma, l'altro giorno, mentre scrivevo, è successo qualcosa. La mia realtà si è risvegliata, ricordandomi di una fiaba. Una cosa che le avevo scritto prima che lei mi telefonasse e, che, non avevo mai concluso. Non gliene avevo mai parlato, non le avevo raccontato nulla. Mi sembrava la cosa più logica da fare perché, nel tacere nei confronti di quel che sapevo, avevo incluso la prova più inconfutabile di tutte. Quella fiaba. Cercai nel mio archivio e, dopo averla trovata, mi misi subito al lavoro. Mentre lavoravo, mentre davo una forma al tutto, le leggevo i miei progressi. Lo facevo ogni sera e, nel farlo, la vedevo in sé, come non la vedevo da anni. Dopo aver letto mi sussurrava del suo amore, come non faceva da tanto. E mi veniva da sorridere perché, sapevo, sarebbe finito tutto di lì a poco. Mi ritrovo seduto, nell'angolo più remoto di camera nostra e, nel ripensare a tutto ciò che è stato, non posso fare altro che piangere. Piango, perché nel lottare contro la mia stessa realtà non ho fatto altro che arrendermi e, nel raccontarle quella fiaba, questa storia, non posso fare altro che essere felice. Felice di ciò che siamo stati, felice di aver dato ascolto alla mia realtà e aver amato, al dì fuori di ogni logica e verità che non fosse la mia.
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moonyvali · 2 years
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Lo sapevate che… la potente famiglia di costruttori Caltagirone possiede il controllo su Il Messaggero e Il Mattino?
La Repubblica, L'Espresso e la Stampa sono invece di una holding olandese controllata dalla famiglia Agnelli. Un capitolo a parte spetta all’Impero mediatico creato da Berlusconi, mentre dietro il gruppo Rizzoli ci sono Mediobanca, l’Unipol e la multinazionale Pirelli. Sorge spontanea la domanda: se l’opinione pubblica è influenzato dal potere del grande capitale, può anche definirsi democratica?
Oggi viviamo in una sorta di democrazia che sta assumendo sempre più le vesti di un’oligarchia, che si atteggia a pose democratiche quando in realtà ne tradisce costantemente i valori. Non soltanto è ritornata in auge la figura o meglio il fascino dell’uomo forte al potere ma vi è uno scollamento radicale tra ciò che la Politica persegue con le parole, in nome del tanto bistrattato bene comune e ciò che avviene nei fatti.
La finanziarizzazione dell’economia, il disinteresse verso l’economia reale del paese in favore dell’alta finanza, il divario sempre più netto tra ricchi e poveri, la scomparsa della classe media hanno distrutto le poche conquiste sociali, tanto faticosamente ottenute, nel corso della storia. Società caratterizzate da una così forte diseguaglianza sociale erano proprie dell’Ancient Regime e quando si viene a creare un popolo troppo oppresso, cadono i pilastri dell’istruzione e della democrazia.
Del resto l’istruzione scolastica non fornisce ai cittadini quegli strumenti necessari per comprendere il funzionamento dell’informazione, della politica, dell’economia. Quali sono le tecniche delle persuasione, della pubblicità, quali temi vengono utilizzati per fare leva sul grande pubblico, come è strutturato un partito, un giornale, come opera e da chi viene finanziato, quali sono i meccanismi che fanno girare l’economia di un paese, che alimentano le ideologie. Chi dice cosa e perché, quali interessi economici avvalla o ostacola, ecco cosa bisognerebbe sempre domandarsi.
G.Middei, anche se voi mi conoscete come Professor X #media #politica #giornalismo
Nella foto: San Girolamo, Tanzio da Varallo
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scienza-magia · 27 days
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Una mente con una memoria prodigiosa
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L’uomo che non dimenticava nulla. Solomon Shereshevsky ricordava dettagli di ogni episodio ed era in grado di memorizzare velocemente anche sequenze difficili, soprattutto grazie alla sua fervida immaginazione. Solomon Shereshevsky, noto anche come Š, è stato spesso descritto come “l’uomo che non riusciva a dimenticare”: ricordava in maniera estremamente precisa dettagli della sua vita e delle sue esperienze, non solo dopo pochi minuti o dopo pochi giorni, ma anche a decenni di distanza. Questa sua eccezionale abilità venne descritta nella monografia Una memoria prodigiosa (1968) del medico sovietico Alexander Luria (o Lurija), considerato uno dei capostipiti della neuropsicologia, che lo sottopose a vari test e lo studiò in un arco di tempo di circa trent’anni: secondo Luria le doti di Š erano legate non tanto a una memoria straordinaria o illimitata, quanto alle sue capacità di immaginazione e astrazione. La storia di Shereshevsky è stata raccontata tra gli altri sul New Yorker dal giornalista Reed Johnson, che ha fatto molte ricerche sul suo conto, e ha ispirato il film del 2000 del regista italiano Paolo Rosa Il mnemonista. Nato nel 1886 a nord-ovest di Mosca da una famiglia ebrea, Shereshevsky (o Seresevsky) era un giornalista appassionato di musica che si occupava soprattutto di brevi articoli satirici. Un giorno, quando il direttore del giornale per cui lavorava gli chiese come mai non prendeva mai appunti durante le riunioni del mattino, lui gli rispose che non ne aveva bisogno: quindi ripeté parola per parola tutte le indicazioni per la giornata di lavoro che erano state dette a voce. Il direttore, molto colpito, lo mandò a fare un test della memoria, racconta Johnson: fu così che Shereshevsky incontrò Luria, al tempo un giovane ricercatore di psicologia in un’università locale.
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(Collage con immagine tratta dalla pagina su Solomon Shereshevsky di Wikipedia in russo) Nel suo studio Luria scrisse che Shereshevsky riusciva a memorizzare rapidamente poesie, formule matematiche complicate, parole inventate e anche testi in lingue che non conosceva, tra cui l’inizio della Divina Commedia. A quindici anni di distanza ricordava esattamente gli abiti che indossava Luria il giorno in cui avevano svolto un certo test, così come i numeri e le parole che gli era stato chiesto di memorizzare durante il primo incontro. «Dovetti semplicemente ammettere che la capacità della sua memoria non aveva limiti precisi», scrisse lo psicologo nella monografia. Attraverso i test svolti nel tempo, Luria indagò i meccanismi mentali che influenzavano la personalità e la capacità di apprendimento di Shereshevsky, concludendo che era in grado di ricordare le cose grazie alle immagini mentali che se ne faceva. In particolare, a suo dire, “soffriva” di sinestesia, il fenomeno percettivo per cui lo stimolo di un senso provoca una reazione anche in altri (e che indica anche la figura retorica con cui si accostano termini che evocano sensazioni relative a diversi sensi, come “voce ruvida”, o “luce calda”). Per lui ogni ricordo aveva insomma l’effetto di evocare gusti, colori, suoni, percezioni tattili. Più vividi erano questi collegamenti e queste rappresentazioni mentali, più radicato era il ricordo di una certa sequenza di numeri o parole nella sua memoria. Per fare qualche esempio concreto, Luria racconta che Shereshevsky riusciva ad alzare la temperatura della mano destra di 2 gradi e ad abbassare quella della sinistra di 1,5 allo stesso tempo, semplicemente immaginando di mettere la prima su una stufa e l’altra su un blocco di ghiaccio. Riusciva ad aumentare o ad abbassare i propri battiti immaginando di dover correre dietro a un treno per non perderlo, oppure di essere addormentato. Ma soprattutto per tenere a mente una cosa adottava un metodo conosciuto come tecnica dei loci, che prevede di organizzare le informazioni in uno schema familiare e visualizzarle in uno spazio fisico immaginato. Shereshevsky per esempio raccontava di immaginare via Gor’kij, una delle vie principali di Mosca, oppure una strada del posto in cui era nato. Le sequenze di parole o numeri nella sua testa diventavano insomma dei personaggi, a cui attribuiva un significato e una storia tutta loro, e che quindi ricordava grazie a una specie di “passeggiata mentale” da un punto all’altro. Per Shereshevsky il suono di un campanello evocava «un oggetto piccolo e rotondo, qualcosa di ruvido come una corda, il sapore dell’acqua salata e qualcosa di bianco», scriveva Luria. Se il numero uno corrispondeva a «un uomo robusto dall’aspetto composto e la faccia allungata», il due era «una donna paffuta con un’acconciatura elaborata, vestita con un abito di velluto o seta con uno strascico». Fu così che riuscì a memorizzare dopo averlo sentito una sola volta anche il celebre incipit della Divina Commedia, «Nel mezzo del cammin di nostra vita»: anche se era in una lingua che non conosceva, lo ricordava perfettamente anche a giorni di distanza, perché aveva attribuito a ciascuna parola un significato tutto suo. Nel libro di Luria lo spiegò lui stesso così: (Nel) – Stavo pagando la mia quota di iscrizione quando, nel corridoio, vidi la ballerina Nel’skaya. (mezzo) – Io sono un violinista; quello che faccio è immaginarmi un uomo che suona il violino assieme a Nel’skaya. (del) – Accanto a loro c’è un pacchetto di sigarette di marca Deli. (cammin) – Mi immagino un camino lì vicino. (di) – Poi vedo una mano che indica una porta . (nostra) – Vedo un naso ; un uomo inciampa e, cadendo, il naso gli rimane incastrato nella porta . (vita) – Alzo la gamba sulla soglia perché c’è sdraiato un bambino, cioè un segno di vita, vitalità. Al centro dello studio di Luria ci fu pertanto il legame tra la memoria e l’immaginazione, che è un elemento indispensabile per capire il modo in cui ricordiamo. Grazie al modo in cui percepiva gli stimoli e li visualizzava nella sua mente, Shereshevsky non solo riusciva a memorizzare in maniera precisa cose che gli erano appena state dette, ma anche a risalire a informazioni molto dettagliate a molto tempo di distanza, e quindi di fatto a non dimenticarle. Secondo Luria comunque, Shereshevsky cominciò a usare la tecnica dei loci solo in un secondo momento e gli servì soltanto per rafforzare abilità che aveva già e che erano già straordinarie. Come osservato di recente sulla rivista Psychology Today, oggi sappiamo che Shereshevsky mostrava tratti tipici dell’ipertimesia, spesso chiamata impropriamente “sindrome della super memoria”, una condizione in cui si riesce a ricordare con estrema precisione la gran parte degli episodi accaduti nella propria vita. Le persone con ipertimesia insomma ricordano anche in maniera non deliberata la gran parte degli eventi di cui hanno avuto esperienza diretta. Johnson nota che Shereshevsky non ricordava proprio tutto in maniera perfetta: per farlo gli ci volevano uno sforzo consistente e soprattutto la sua fervida immaginazione. Suo nipote, Mikhail Reynberg, che Johnson riuscì a rintracciare e intervistò, raccontò che non cercava a tutti i costi di tenere a mente le cose, e non sempre se le ricordava: a un certo punto Shereshevsky aveva cominciato a metter in mostra le proprie doti in spettacoli pubblici, e stando a quanto ricorda Reynberg prima di esibirsi si esercitava per ore. Nell’autobiografia che stava scrivendo prima di morire, nel 1958, Shereshevsky diceva che il fatto di associare parole a suoni, gusti o colori spesso lo faceva distrarre, con il risultato che azioni molto semplici come leggere il giornale a colazione lo mandavano in confusione. Le immagini che gli venivano in mente tendevano ad accumularsi e a generare a loro volta altre immagini, mandandolo in confusione e rendendogli impossibile concentrarsi. Sempre per il modo in cui era abituato a creare queste associazioni mentali, inoltre, per lui era difficile memorizzare parole che avevano un significato diverso da quello letterale, come nel caso delle metafore. A volte tendeva a confondere la realtà con l’immaginazione, oppure immaginava una versione di sé doppia: fenomeni che secondo Luria gli rendevano difficile comportarsi in maniera naturale nella vita adulta. Tra le altre cose, Shereshevsky contestò il fatto che secondo Luria potesse soffrire di sinestesia. Scrisse di essersi offerto di fare altri test psicologici per provare che non soffriva di particolari condizioni mentali, ma non è chiaro se li fece mai, nota Johnson. Secondo il nipote questo suo modo di percepire la realtà alla lunga per lui fu frustrante: cominciò ad avere problemi di alcolismo e morì nel 1958 per complicazioni legate alla dipendenza, dice sempre Reynberg. Luria descrisse anche come Shereshevsky cercò di liberare la sua mente dai ricordi che non voleva avere, provando a scriverli su dei bigliettini: alla fine, vedendo che questa tecnica non funzionava, li bruciò. Read the full article
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E forse il tuo carattere non mi piaceva, né il tuo modo di comportarti, però ti amavo di un amore più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile, che ormai non potevo più concepire la vita senza di te. Ne facevi parte quanto il mio respiro, le mie mani, il mio cervello, e rinunciare a te era rinunciare a me stessa, ai miei sogni che erano i tuoi sogni, alle tue illusioni che erano le mie illusioni, alle tue speranze che erano le mie speranze, alla vita! E l’amore esisteva, non era un imbroglio, era piuttosto una malattia, e di tale malattia potevo indicare tutti i segni, i fenomeni. Se parlavo di te con gente che non ti conosceva o alla quale non interessavi, mi affannavo a spiegare quanto tu fossi straordinario e geniale e grande; se passavo davanti a un negozio di cravatte e camicie mi fermato d’istinto a cercare la cravatta che ti sarebbe piaciuta, la camicia che sarebbe andata d’accordo con una certa giacca; se mangiavo al ristorante sceglievo senza accorgermene i piatti che tu preferivi e non che io preferivo; se leggevo il giornale notavo sempre la notizia che a te avrebbe interessato di più, la ritagliavo e te la spedivo; se mi svegliavi nel cuore della notte con un desiderio o una telefonata, mi fingevo più desta di un fringuello che canta al mattino.
Oriana Fallaci, Un uomo
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ambrenoir · 1 month
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[…] E forse il tuo carattere non mi piaceva, né il tuo modo di comportarti, però ti amavo di un amore più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile, che ormai non potevo più concepire la vita senza di te. Ne facevi parte quanto il mio respiro, le mie mani, il mio cervello, e rinunciare a te era rinunciare a me stessa, ai miei sogni che erano i tuoi sogni, alle tue illusioni che erano le mie illusioni, alle tue speranze che erano le mie speranze, alla vita! E l’amore esisteva, non era un imbroglio, era piuttosto una malattia, e di tale malattia potevo indicare tutti i segni, i fenomeni. Se parlavo di te con gente che non ti conosceva o alla quale non interessavi, mi affannavo a spiegare quanto tu fossi straordinario e geniale e grande; se passavo davanti a un negozio di cravatte e camicie mi fermato d’istinto a cercare la cravatta che ti sarebbe piaciuta, la camicia che sarebbe andata d’accordo con una certa giacca; se mangiavo al ristorante sceglievo senza accorgermene i piatti che tu preferivi e non che io preferivo; se leggevo il giornale notavo sempre la notizia che a te avrebbe interessato di più, la ritagliavo e te la spedivo; se mi svegliavi nel cuore della notte con un desiderio o una telefonata, mi fingevo più desta di un fringuello che canta al mattino”.
Oriana Fallaci da “Un uomo”
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stronzaquantobasta · 2 months
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Vivere la vita è una cosa veramente grossa C'è tutto il mondo fra la culla e la fossa Sei partito da un piccolo porto Dove la sete era tanta e il fiasco era corto E adesso vivi Perché non avrai niente di meglio da fare Finchè non sarai morto La vita è la più grande ubriacatura Mentre stai bevendo intorno a te tutto gira E incontri un sacco di gente Ma quando passerà non ti ricorderai più niente Ma non avere paura, qualcun' altro si ricorderà di te Ma la questione è… perché? Perché ha qualcosa che gli hai regalato Oppure avevi un debito e non l'hai pagato? Non c'è cosa peggiore del talento sprecato Non c'è cosa più triste di un padre che non ha amato Vivere la vita è come fare un grosso girotondo C'è il momento di stare sù e quello di cadere giù nel fondo E allora avrai paura Perché a quella notte non eri pronto Al mattino ti rialzerai sulle tue gambe E sarai l'uomo più forte del mondo Lei si truccava forte per nascondere un dolore Lui si infilava le dita in gola Per vedere se veramente aveva un cuore Poi quello che non aveva fatto la società l'ha fatto l'amore Guardali adesso come camminano leggeri senza un cognome Puoi cambiare camicia se ne hai voglia E se hai fiducia puoi cambiare scarpe Con scarpe nuove puoi cambiare strada E cambiando strada puoi cambiare idee E con le idee si cambia il mondo Ma il mondo non cambia spesso Allora la tua vera rivoluzione sarà cambiare te stesso Eccoti, sulla tua barchetta di giornale Che sfidi le onde della radiotelevisione Eccoti, nel tuo monolocale che scrivi una canzone Eccoti, lungo la statale che dai un bel pugno a uno sfruttatore Eccoti, in guerra nel deserto che stai per disertare E adesso… eccoti sul letto che non ti vuoi più alzare E ti lamenti dei governi e della crisi generale Posso dirti una cosa da bambino? Esci di casa, sorrdi, respira forte Sei vivo, cretino
Alessandro Mannarino
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sognosacro · 5 months
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Dunque, il giornale di oggi dice che ci sono un pó troppi necrologi.
Che le persone hanno perso contatto con la terra.
Che il cielo indica buone tempistiche per il volo, ma possibile aviazione di papere, vari stormi e migrazioni di uccelli.
Ora leggiamo il necrologio.
Funerale alle ore 03.00 am
Funerale alle ore 08.00 di Gianpatrizio, Coldrerio
***
Fumetto
Il morto che cammina, non è piú vivo dentro
La vita vera è quella che si vive una volta sola e piú alungo di come la si pensa.
Non è vero che siamo qui solo una volta, siamo qui per tutti, in una volta sola.
Gioco
Il gatto pelosetto muove un topetto
Gioca con il gatto e il suo pupazzetto.
Fine
Giornale dello spirituale del giorno
Notizie delle 10.00 del mattino
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agrpress-blog · 6 months
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Mercoledì 15 novembre, dalle ore 17.00, sarà inaugurata a Napoli, nello spazio dell’artista Ilia Tufano “Movimento Aperto”, in via Duomo 290/C, la mostra “Napoli, lo sguardo di ieri” con fotografie del fotoreporter Riccardo Carbone a cinquant’anni dalla sua morte. Riccardo Carbone per più di cinquant’anni ha visto Napoli dal mirino della sua macchina fotografica. Tutti i negativi che ha lasciato sono la registrazione fedele, giorno dopo giorno, delle gioie, delle passioni, dei dolori, delle speranze e delle ansie della città. Riccardo Carbone si definiva fotocronista: «Macchina in tasca, nervi a posto, un sorriso sulle labbra: me ne vado a caccia d’immagini d’attualità», così diceva raccontando il suo lavoro. Approdò giovanissimo al “Mattino” agli inizi degli anni Venti del secolo scorso. Fu assunto da Paolo Scarfoglio con la qualifica insolita per quei tempi di “redattore fotografo” e a tutti gli eventi veniva accreditato come giornalista. Inizia a fotografare il fascismo che incombe con tutte le limitazioni e le censure che il regime imponeva alla stampa. Ne fissa i miti, le imprese, i fasti e le illusioni. E da questo momento non c’è un evento notevole che non abbia fotografato, come dimostrano le scatole di migliaia di negativi, circa 600 mila, che ha lasciato, conservate dall’Associazione Riccardo Carbone Onlus che sta provvedendo a digitalizzare, catalogare e mettere liberamente consultabile online l’enorme patrimonio. Su Napoli il tempo passa scandito dalle sue fotografie. Passa il fascismo, e la guerra è agli sgoccioli. Nel 1943 le Forze Alleate d’occupazione chiudono tutti i giornali. Carbone è costretto a fermarsi, ed è anche, da sfollato, fuori Napoli. Dopo il 25 aprile, con il ritorno della democrazia, nel nostro Paese è tutto un fiorire di iniziative editoriali. «L’Italia – scrisse Emilio Radius – è tutta da scoprire.» Nasce il fotogiornalismo moderno e Riccardo Carbone è uno dei protagonisti. Spuntano piccole agenzie di cui i fotografi sono spesso proprietari. Riccardo Carbone dà il suo contributo in questo fervore con la sua «Fotoagenzia Napoli», così come fanno Giulio Torrini che fonda a Firenze l’omonima agenzia, Carlo Riccardi a Roma o i fratelli Vincenzo e Guglielmo Troncone, sempre a Napoli, che scoprono e mostrano per i quotidiani la nuova Italia che sta nascendo.  Per prima cosa i fotografi italiani raccontano il difficile dopoguerra. Ai figli della lupa si sono sostituiti gli sciuscià affamati e cenciosi. “Uno scatto dopo l’altro di Carbone, ed ecco tutta la «Napoli Milionaria» di Eduardo, la Napoli della «Pelle» di Malaparte o quella raccontata da De Sica e Rossellini. Ma poi, vivaddio, ecco la città che, pian piano, si rimbocca le maniche, che costruisce: il nuovo aeroporto di Capodichino, per esempio, o il Palazzo Nervi della Ferrovia, il complesso industriale di Bagnoli… Il lavoro è tanto. Spesso anche dieci servizi al giorno. Carbone, terminato il lavoro per il giornale, si guardava intorno e, quando scorgeva altre cose, le fotografava e… le portava a casa. Ha uno sguardo ampio, come le sue fotografie. Difficilmente si avvicina a meno di tre metri dal soggetto. Il primo piano è proprio raro”. La mostra, curata da Giovanni Ruggiero, resterà aperta fino al 15 dicembre il lunedì e il martedì dalle 17.00 alle 19.00 e il giovedì dalle 10.30 alle 12.30.
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