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#Massacro degli armeni
gregor-samsung · 6 years
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Il passaggio delle squadre degli Armeni sotto le finestre e davanti la porta del Consolato, le loro invocazioni al soccorso senza che né io né altri potessimo fare nulla per loro, la città essendo in stato d'assedio, guardata in ogni punto da 15 mila soldati in pieno assetto di guerra, da migliaia di agenti di polizia, dalle bande dei volontari e degli addetti del comitato Unione e Progresso [altrimenti detto “Giovani Turchi”]; i pianti, le lacrime, le desolazioni, le imprecazioni, i numerosi suicidi, le morti subitanee per spavento, gl'impazzimenti improvvisi, gli incendi, le fucilate in città, la caccia spietata nelle case e nelle campagne; i cadaveri a centinaia trovati ogni giorno sulla strada dell'internamento, le giovani donne ridotte a forza musulmane o internate come tutti gli altri; i bambini strappati alle loro famiglie o alle scuole cristiane e affidati per forza alle famiglie musulmane, ovvero posti a centinaia sulle barche con la sola camicia, poi travolti e affogati nel Mar Nero o nel fiume Deré Menderé sono gli ultimi incancellabili ricordi di Trebisonda, ricordi che, ancora, a un mese di distanza, mi straziano l'anima, mi fanno fremere. Quando si è dovuto assistere per un intero mese a siffatti orrori, a torture così prolungate, nell'assoluta impotenza di agire come avrei voluto, viene spontanea, naturale la domanda se tutti i cannibali e tutte le belve feroci abbiano lasciato i loro recessi e i nascondigli e le foreste vergini dell'Africa, Asia, America ed Oceania per darsi convegno a Stambul [sic]!
Testimonianza rilasciata al quotidiano “Il Messaggero” il 25 agosto 1915 da Giacomo Gorrini, Console generale del Regno d’Italia a Trebisonda, raccolta in:
Hrand Nazariantz, L’Armenia - Il suo martirio e le sue rivendicazioni, Francesco Battiato editore, Catania, 1916.
[Testo ripubblicato nel 2016 a cura di Cosma Cafueri e con una revisione bibliografica di Carlo Coppola da FaLvision Editore, Bari, per conto del Centro Studi “Hrand Nazariantz”. Citazione a p. 73]
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Scopro solo ora che il deputato Couzon, nel romanzo Jean Santeuil, è un omaggio di Proust a Jean Jaurès - leader socialista, amato da operai e minatori francesi, a favore di Dreyfus e contro la guerra. Finì assassinato da un nazionalista nel 1914.
Nel novembre 1896 Proust segue alla Camera il dibattito politico, e ne riferisce con parole infiammate e singolarmente violente nel suo romanzo incompiuto. Si tratta naturalmente della prima ondata di massacri armeni, quella scatenata nell’Impero Ottomano dall’autunno 1895 alla primavera del ’96.
L’Europa ha bensì, nel Congresso di Berlino del 1878, statuito di porre le popolazioni armene sotto la protezione occidentale. Ma l’Inghilterra, per ottenere il controllo di Cipro, lascia mano libera al sultano ottomano, che scatena nel 1894 un primo pogrom a Samsun: perpetrato dai curdi, da lui organizzati in formazioni militari.
Altre ondate di massacri si susseguono nei due anni successivi – il numero delle vittime si calcola tra centocinquanta e trecentomila. Le diplomazie della Germania, d’Inghilterra e di Francia allertano le loro cancellerie; invano. Nel 1909, avrà luogo un nuovo massacro. E infine, nel 1915, il genocidio tanto annunciato si compie.
“La discussione sui massacri d’Armenia è conclusa: si è convenuto che la Francia non farà nulla”, inizia Proust, che è andato a sentire, alla Camera francese, il discorso di Jean Jaurès, il socialista, “il solo grande oratore di oggi uguale ai più grandi della storia, secondo i giornali antisemiti” – Proust, sempre pignolo nelle sue puntualizzazioni morali o mondane, registra che il suo campione è (per ora) antidreyfusardo – partecipa cioè all’ondata antisemita dell’epoca. E curiosamente, confrontando il discorso pronunciato da Jaurès il 3 novembre 1896 con il resoconto che ne dà Proust, si riscontra che Jean Santeuil aggiunge la parola “cristiani”, calcando su un’appartenenza inaspettata, in piena affaire Dreyfus: “ ‘Avete appena assassinato duecentomila cristiani’, gridò Couzon” (che è il nome di Jaurès nel Jean Santeuil).
Più tardi, scrive Proust, Jean, “ripensando a quel momento in cui avrebbe voluto lapidare i duecento deputati che ghignavano, interrompendo Cauzon, battendo gli scrani per sovrastare il suono della sua voce... avrebbe voluto gridare: ‘Canaglie!’, uccidere quei miserabili”.
Tutto il passaggio mostra perciò un Proust straordinariamente collerico e implicato. Nella sua passione, descrive splendidamente Couzon/Jaurès che decide di prendere la parola con una specie di stanchezza, sapendo preventivamente che il suo discorso sarà inutile, ma rispondendo a un’esigenza superiore di “Verità”; e che pertanto dominerà per ore l’uditorio con la sua voce risonante.
Impossibile relegare Proust al solo impegno dreyfusardo, e confinarlo al sospetto di una passione politica mediata dall’ebraicità e dal legame con la madre. Nell’ardente adesione al dramma armeno sembra semmai in gioco una specie di fascinazione morale per Jaurès - che Proust avrebbe potuto incontrare nel salotto di madame Arman de Caillavet. O anche, più verosimilmente, è possibile che Proust risenta in modo sensibile tutti gli attacchi portati a un numero sterminato e indifferenziato di persone – i cristiani armeni (Proust in Jean Santeuil sottolinea a due riprese che le vittime sono cristiane) come fa la civiltà francese dell’epoca nei confronti degli omosessuali (altrettante “razze maledette”).
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vfts-352 · 4 years
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Giornata della Memoria
27 gennaio: giornata simbolo per ricordare quello che si dovrebbe ricordare sempre. 
Le vittime dei campi di concentramento, dei campi di sterminio, o di qualsiasi genocidio o di atti totalmente inumani, non sono vittime dell’odio, ma dell’ignoranza.
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Nemmeno la peggiore delle bestie riuscirebbe a commettere crimine peggiore di quelli commessi dall’umanità.
Non si può uccidere, torturare, privare di ogni dignità per la religione, per le idee, per i crimini commessi, per l’orientamento sessuale, per razza. Nessun motivo potrà mai giustificare atti così orribili.
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Non si deve dunque dimenticare quello che è successo durante la seconda guerra mondiale e non solo (per citarne alcuni: il genocidio degli armeni, il massacro di Nanchino, l’imperialismo... ). E chi si tenga bene a mente ciò che è successo per non rifare lo stesso terribile errore.
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Ma oggi non si dimentichino nemmeno coloro che hanno messo a rischio tutto ciò che avevano di più caro per salvare l’umanità che andava perdendosi nel compimento di tali terribili atti.
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janiedean · 5 years
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in italiano perchè non voglio alimentare il puttanaio ma io è da due anni che martello le dita per non rispondere a tutti i posti saccenti del tipo con "e lo sterminio in ukraina" "e lo sterminio in bangladesh" "e lo stermino degli armeni" "e lo sterminio in cina" spiegatemi il massacro di katyn durante la seconda guerra mondiale e la situazione in Kashmyr (che è ancora sotto legge marziale e nessuno sta facendo un cazzo) secondo le lenti americane, stronzi
anon io l’ho fatto una volta e sto su almeno dieci liste di proscrizione LASCIA STARE NON FARLO NON VALE LA PENA XDDD
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laterradihayk · 5 years
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Il Genocidio Armeno raccontato dalle cartoline della Cioccolateria d’Aiguebelle
– La Cioccolateria d’Aiguebelle fu fondata nel 1869 a circa 15 km da Donzère, nei pressi dell’abbazia cistercense di Aiguebelle. Acquisì grande fama grazie ad una trovata pubblicitaria che permetteva di collezionare una serie di cartoline con diverse tematiche (natura, animali, etc.) contenute all’interno delle scatole di cioccolato.
Nel 1889 scosse il mondo pubblicando una serie di cartoline scioccanti, rappresentanti i primi massacri degli armeni da parte dei turchi, che poi portarono al Genocidio vero e proprio del 1915, in piena Prima Guerra Mondiale.
La serie di cartoline si intitolava “I massacri degli Armeni”, in cui però erano rappresentati non solo episodi cruenti contro gli armeni, ma contro i cristiani in generale.
Lo stesso anno, durante l’Esposizione Universale di Parigi, la fabbrica di cioccolato venne insignita della più alta onorificenza per aver fatto conoscere al mondo interno il massacro degli armeni da parte dell’Impero Ottomano.
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(Fonte: Armedia)
Il Genocidio Armeno raccontato dalle cartoline della Cioccolateria d’Aiguebelle Il Genocidio Armeno raccontato dalle cartoline della Cioccolateria d'Aiguebelle - La Cioccolateria d'Aiguebelle fu fondata nel 1869 a circa 15 km da Donzère, nei pressi dell'abbazia cistercense di Aiguebelle.
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corallorosso · 6 years
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“Non augurerei nemmeno al mio peggior nemico di vedere ciò che ho visto io: bambini bruciati vivi, donne rapite e mai più tornate, la danza dei turchi in festa”. Una testimonianza dal genocidio armeno Shogher Tonoian era solo una ragazzina. Non pensava certo che, giovanissima, avrebbe assistito ad un genocidio brutale come quello condotto contro il popolo armeno da parte dell’Impero Ottomano. “Arrivarono all’improvviso, soldati turchi e miliziani ceceni. In un primo momento portarono via i ragazzi giovani. Poi le ragazze, almeno quelle che erano di loro gradimento. Poi toccò a chi rimase. Vennero ammassati in una chiesa, e gli diedero fuoco. Fu il caos. Quando si resero conto di cosa stava accadendo, le persone iniziarono a correre e a dimenarsi. I bambini che cadevano al suolo venivano calpestati. Non augurerei nemmeno al mio peggior nemico di assistere ad uno scempio simile. Pezzi di tetto cadevano sulla folla. Vi era una donna molto anziana, Polo, che fece sdraiare tutti i bimbi superstiti per terra e li coprì col suo grembiule. Fu così che alcuni di noi si salvarono. Il tetto continuava a cedere, e un crollo creò un’apertura sul lato della chiesa. Ci salvammo così, io e mio fratello. Usciti, trovammo un gruppo di soldati turchi che danzava di fronte all’edificio in fiamme. Rimanemmo senza parole. Capimmo di essere salvi solo quando un gruppo di armeni ci trovò e ci porto con loro. Fuggimmo quindi in Persia”. Nelle parole di Shogher vi è tanta rabbia, specialmente nei confronti dei responsabili di quel massacro, i turchi. Ma vi era anche la consapevolezza di quanti si opponevano al genocidio. La stessa Shoger riportò infatti la sorte del Mullah locale che, vedendo gli orrori commessi ai danni degli armeni, si tolse la vita impiccandosi. Perché il vero nemico non si può identificare seguendo le linee di demarcazioni tra nazioni e nazionalità ma, piuttosto, comprendendo chi tali linee le demarca e le sfrutta per i propri interessi. Cannibali e Re (le foto che hanno segnato un'epoca)
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giuseppepiredda · 3 years
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Il massone Mehmed Tal'at Pascià contribuì all’organizzazione del genocidio armeno
Il massone Mehmed Tal’at Pascià contribuì all’organizzazione del genocidio armeno
Il massone Mehmed Tal’at Pascià contribuì all’organizzazione del genocidio armeno Uno degli organizzatori del genocidio armeno, chiamato anche «olocausto degli armeni» o «massacro degli armeni», che tra il 1915 e il 1916 causò circa un milione e mezzo di morti (tra cui tanti nostri fratelli e tante nostre sorelle in Cristo), fu il massone Mehmed Tal’at Pascià (1874-1921), un politico turco, uno…
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paoloferrario · 3 years
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Genocidio degli armeni, 106 anni fa l'inizio del massacro. Un cortometraggio per non dimenticare: Aram Manoukian tra i 40 testimonial italiani, di Katia Trinca Colonel, in Corriere di Como, 24 aprile 2021
Genocidio degli armeni, 106 anni fa l’inizio del massacro. Un cortometraggio per non dimenticare: Aram Manoukian tra i 40 testimonial italiani, di Katia Trinca Colonel, in Corriere di Como, 24 aprile 2021
letto in ediziona cartacea cerca in https://www.corrieredicomo.it/genocidio-degli-armeni-un-giorno-da-non-dimenticare/
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paoloxl · 4 years
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Il 19 gennaio del 2007 Hrant Dink, 52 anni, una figura di spicco della comunità armena della Turchia, è stato ucciso con due proiettili davanti alla sede di Agos. Il giornalista era impegnato a favore della riconciliazione tra turchi e armeni, ma era odiato dai nazionalisti turchi per aver definito genocidio il massacro di cui gli armeni furono vittime durante la prima guerra mondiale. Hrant Dink da sempre si è battuto per far sì che lo stato turco riconoscesse i genocidi nei confronti degli armeni durante il regno di Hamid e prima della guerra mondiale. Dunque, Dink stava diventando un elemento troppo scomodo e lo stato ha deciso di metterlo a tacere per sempre
19 Gennaio 2007: Hrant Dink, La Tragedia Armena
Hrant Dink era un giornalista, lavorava per il giornale armeno più grande della Turchia, Agos, di cui era il capo-redattore. Oltre scrivere, organizzava conferenze e partecipava a programmi radiofonici e televisivi con lo scopo di farsi “porta voce” del  popolo armeno e della sua storia. Grazie alle dichiarazioni rilasciate durante una conferenza nella città di Urfa nel 2002 (Dink aveva dichiarato di non essere un Turco, bensì un cittadino turco ed armeno) fu processato fino al 2006 ed infine assolto. Ovviamente non smise mai di difendere le proprie idee così, nel 2004 e nel 2005, subì altri due processi perché, secondo i giudici, “offendeva l’identità turca” nelle sue dichiarazioni pubbliche in cui sosteneva che la figlia adottiva del fondatore della Repubblica turca (Mustafa Kemal Ataturk) fosse in realtà una ragazza armena. Fu inoltre processato perché, nel 2006, in un’intervista rilasciata all’Agenzia di stampa Reuters, definì “genocidio” ciò che accadde nel 1915. Infine, nel 2007, a causa di un suo articolo, lui e due altri giornalisti dell’Agos furono accusati di “offendere l’identità turca”, Dink fu accusato per aver scritto: “Il sangue pulito che sostituirà il sangue avvelenato che verserà il Turco, scorre nelle vene che l’Armeno costruirà in Armenia”
 
Da quel punto in poi, in Turchia, prese piede una campagna nazionale forte, creata e portata avanti da una grossa parte dei media e dei partiti politici contro di lui. Mentre si svolgeva la caccia all’uomo a livello politico, mediatico e giuridico, il 19 Gennaio del 2007, fu assassinato. Dink sapeva di essere in pericolo, ma non aveva mai voluto abbandonare Istanbul. «Non lascerò questo Paese», aveva dichiarato pochi mesi prima di essere ucciso in un’intervista alla Reuters, «se me ne andassi sentirei di avere lasciato da soli quanti combattono per la democrazia. Sarebbe un tradimento e non lo farò mai». Il giornalista fu freddato davanti alla sede di Agos, il quotidiano per il quale scriveva, ufficialmente da un diciassettenne ultra-nazionalista, ma molti individuano i mandanti di questo omicidio nello stato e nei servizi segreti. Ogun Samast, nato nel 1990 a Trebisonda, all'epoca del delitto ancora minorenne, è stato riconosciuto colpevole di omicidio premeditato e condannato con sentenza emessa il 25 luglio 2011 a ventidue anni e dieci mesi di reclusione; il pubblico ministero aveva richiesto una condanna a ventisette anni. Il processo era iniziato il 2 luglio 2007 a porte chiuse stante la minore età dell'imputato. Samast era stato arrestato pochi giorni dopo il fatto ed in un primo momento si era dichiarato colpevole; nella centrale di polizia di Trebisonda alcuni funzionari si fecero fotografare sorridenti al suo fianco. Con il passare dei mesi fu chiaro che quella del giovane era stata solo la mano che aveva materialmente premuto il grilletto della pistola. Fra molte difficoltà i giudici cominciarono a mettere in evidenza fitte ed oscure trame che coinvolgevano apparati dello Stato, esercito, servizi segreti e gruppi ultranazionalisti. Emerse un'organizzazione segreta denominata Ergenekon. Il 27 ottobre 2010 il Ministero dell'Interno venne condannato dalla Decima Corte Amministrativa di Istanbul per aver omesso di vigilare su Dink nonostante le ripetute minacce che il giornalista aveva ricevuto nel passato: la sentenza stabilì una condanna di 100.000 lire turche a favore della famiglia Dink oltre al pagamento delle spese processuali.
Dopo l’esecuzione di Dink, in Turchia si sono svolte grandi manifestazioni. Da quando è iniziato il processo, in ogni udienza, sia dentro che fuori dal tribunale, sono state migliaia le persone che hanno partecipato alle proteste, e ancora adesso ogni anno in migliaia manifestano per ricordare ciò che successe e contro la censura e la repressione dello stato turco.
“È soltanto un'illusione il credere che la democrazia possa essere certezza di pace e di tolleranza: si dipenderà sempre da una maggioranza, più o meno razionale, più o meno casuale, o addirittura da una minoranza bene agguerrita e bene organizzata, capace di presentarsi e farsi credere espressione e pensiero della maggioranza…”
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pangeanews · 4 years
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Stanley, il babbo di Boris Johnson, ha previsto la pandemia in un romanzo del 1982. Non proprio un capolavoro… (L’amore si fa sempre su un letto a baldacchino in ottone comprato a Parigi)
Una certa somiglianza c’è. Nei capelli, suppongo. E nella fazione politica. Anche Stanley fa parte del Conservative Party – per altro, esercitò al Parlamento Europeo, parecchi anni fa, ala destra. Stanley Johnson quest’anno compie 80 anni – 18 agosto – ha collezionato due mogli e sei figli; il bisnonno, Ali Kemal, fu Ministro degli Interni dell’Impero Ottomano sotto Damat Ferid Pasha: ebbe il merito di denunciare il massacro degli Armeni. La faccio breve. I figli di Stanley sono quasi tutti celebri: Rachel è una giornalista di fama, Jo è deputato in Parlamento (fugace apparizione come Ministro dell’Istruzione), Boris è lui, Boris Johnson. Finita la parentesi. Ora. Stanley Johnson non passa nelle didascalie come pilitician bensì come writer. In effetti, è uno scrittore. La sua carriera comincia nel 1967, con Gold Drain; un romanzo del 1987, The Commissioner, è stato tradotto in film da George Sluizer, con un passaggio alla “Berlinale”. L’ultimo romanzo, tre anni fa, s’intitola Kompromat, è un satirical thriller, sulla Brexit. Ma non è questo il bello. In una intervista di qualche tempo fa – 21 marzo, su “The Telegraph” – Stanley Johnson pigliava di petto la pandemia: “Ho predetto tutto in un romanzo, 40 anni fa. Pregate per un lieto fine”. Oggi il “Guardian” ci avvisa che Stanley e i suoi agenti “premono per una nuova ristampa del romanzo”. (Domanda incapsulata nell’articolo: ma se così tanti, tra scrittori e cineasti, hanno previsto la pandemia perché ci siamo trovati con le mutande in mano, tanto impreparati?). Certo, se è l’autore a doverci ricordare quanto fu profetico il suo romanzo, ciò vuol dire che il romanzo non è stato, francamente, indimenticabile. In ogni caso. Il romanzo è pubblico quando Zoff e Paolo Rossi sollevano la coppa del mondo, in Spagna. 1982; titolo: The Marburg Virus. Trama: “Come si ferma un assassino invisibile? Quando una giovane donna muore a New York in circostanze misteriose, dopo un viaggio a Bruxelles, l’epidemiologo Lowell Kaplan identifica la causa nel virus di Marburg. Determinato a rintracciare l’origine del virus, Kaplan districa intrighi che lo portano dai laboratori tedeschi alla giungla dell’Africa centrale. Con il rischio di scoprire segreti tenuti debitamente sotto copertura”. Insomma, una forma evoluta – virale – di 007. Il romanzo ha avuto un passaggio negli Usa, come The Virus, cinque anni fa (in profezia pandemica?). Non pare abbia fatto sfracelli. Traduciamo alcuni estratti dal romanzo. Va tarato a quarant’anni fa. Non pare un capolavoro. I complottisti diranno che il virus è arrivato in UK per consentire al capo del primo ministro di ristampare il suo incerto libello. I comuni lettori si limiteranno a suggerire al biondochiomato Boris: se vale la norma che tale padre tale figlio, ficca il fatidico romanzo inedito & inaudito negli abissi del primo cassetto che passa.
***
Il dottor Lowell Kaplan, capo del dipartimento di epidemiologia del National Center for Desease Control di Atlanta, Georgia, era al telefono con il Giappone. Pareva preoccupato. Spinse indietro la ciocca di folti capelli grigi che gli era caduta sulla fronte, si chinò in avanti, parlando, l’energia repressa elettrizzava ogni lato del suo corpo. “Va bene”, gridò al telefono, “è diverso dal ceppo brasiliano, ma ha un potenziale pandemico? Questa è la questione”.
*
Lei lo supplicò. “Non ora, Lowell. Non andartene. Ho bisogno di te stanotte”.
Fecero l’amore su un letto a baldacchino in ottone che Stephanie aveva comprato in un negozio di antiquariato a Les Halles, quando era stata a Parigi per la prima volta. Kaplan restò, quella notte.
Fecero la colazione a letto. Poi, spinto da parte il vassoio, fecero ancora l’amore. L’urgenza della sera prima era svanita. Come se una diga fosse scoppiata sul fiume. Dopo la turbolenza temporanea, l’acqua continuava a scorrere, ancora.
*
La reazione del Presidente, informato della crisi, fu immediata. “Perché, in nome di Dio, non abbiamo un vaccino? Voi”, parlava a un gruppo di funzionari sanitari, federali e statali, lì per contrastare l’emergenza, “avete un vaccino contro la poliomelite, contro l’influenza e la pertosse, perfino contro un raffreddore comune. Allora, perché non avete un vaccino per il Marburg, se è la malattia più mortale che l’uomo conosca?”.
Stanley Johnson
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sadefenzablog · 6 years
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Έσπασαν το αυτοκίνητο του Μπουτάρη
SALONICCO: FOLLA LINCIA IL SINDACO FILO-ISLAMICO – VIDEO
MAGGIO 20, 2018
VOX
La folla furiosa ha letteralmente tentato di linciare il sindaco pro-islamico di Salonicco durante la giornata in cui si ricorda il massacro turco dei greci del Ponto. Nel suo discorso, peccando di sensibilità, aveva elogiato il dialogo con la Turchia di Erdogan. Non l’hanno presa bene:
Il 19 maggio è dedicato in Grecia, prima dai nazionalisti e ora da tutti, al ricordo di quella parte di greci che vivevano nel nord dell’Asia Minore, nel Ponto, dopo la dissoluzione dell’impero bizantino e che, al pari degli Armeni, vennero trucidati dalla barbarie ottomana. La conquista di Trebisonda nel 1461 da parte degli Ottomani non riuscì ad eliminare la loro identità greca. Non si assimilarono.
Ma il 19 maggio del 1919 Mustafa Kemal sbarcò a Samsun per iniziare la seconda e più brutale fase del genocidio Ponziano. Le vittime del genocidio furono 350.000. Coloro che sfuggirono alla spada turca scapparono, come profughi, nel sud della Russia, mentre circa 400.000 cercarono riparo in Grecia.
#Greece: furious Greeks in #Thessaloniki attacked and beat up their pro-Islam-friendly mayor Yiannis #Boutaris. https://www.protothema.gr/greece/article/789068/agria-epithesi-kai-xulo-ston-gianni-boutari/ …
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jamariyanews · 6 years
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La repressione in AOI dopo la proclamazione dell'Impero
Giugno 1936. L'Etiopia resta per quasi due terzi da occupare soprattutto nell'ovest e nel sud dell'impero. I focolai di guerriglia sono presenti nello Scioa e lungo la ferrovia Addis Abeba-Gibuti. Difficoltà anche a causa della stagione delle piogge che blocca i movimenti nelle strade e rende difficili i rifornimenti. Graziani è praticamente assediato ad Addis Abeba, mentre Badoglio è in Italia a riscuotere premi e onori. In complesso il periodo da maggio a ottobre ha un carattere prevalentemente difensivo. Si intensifica la repressione del ribellismo.
Nei primi giorni di giugno Mussolini telegrafa a Graziani i seguenti ordini: "Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi" (tel n. 6496) "Per finirla con i ribelli...impieghi i gas" (tel.6595) "Autorizzo ancora una volta V.E a iniziare e condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. (tel n. 8103) Poggiali, nel suo Diario AOI, scrive a proposito di Addis Abeba: "Intorno alla città vi sono bande armate e minacciose. Da una settimana si vive sotto l'incubo di un assalto in grande stile". L'attacco viene sferrato il 28 luglio. Nel timore che la popolazione insorga i carabinieri operano arresti di massa di etiopi adulti e Poggiali afferma: "Probabilmente la maggior parte è innocente persino di quanto accaduto. Trattamento superlativamente brutale da parte dei carabinieri, che distribuiscono scudisciate e colpi di calci di pistola". A questo attacco partecipa il degiac Aberra Cassa secondogenito del ras Hailù che gode di grande prestigio sia perché di sangue imperiale, sia perché si è distinto come grande combattente nella battaglia del Tembien e nella difficile ritirata di Mau Ceu. Inoltre gode dell'appoggio della chiesa copta e in particolare del vescovo di Dessiè, l'abuna Petros. Coadiuvato dal fratello, dopo i primi rovesci, adotterà una politica temporeggiatrice che lo isolerà rendendolo preda di Graziani. L'attacco ad Addis Abeba fallirà, l'abuna Petros portato in piazza verrà giudicato colpevole da un tribunale militare e giustiziato dai fucili di 8 carabinieri. Graziani informa Lessona, ministro delle colonie: "La fucilazione dell'abuna Petros ha terrorizzato capi e popolazione... Continua l'opera di repressione degli armati dispersi nei boschi. Sono stati passati per le armi tutti i prigionieri. Sono state effettuate repressioni inesorabili su tutte le popolazioni colpevoli se non di connivenza di mancata reazione" (telegramma n.1667/8906). Un altro problema per Graziani è l'occupazione dell'ovest ( in particolare i centri di Gore, Lechemiti, Gimma, Gambela) che Mussolini vuole al più presto sotto controllo per allontanare il pericolo di una eventuale pretesa del governo inglese su quei territori in quanto confinanti con il Sudan. Il problema più urgente è Gore dove da maggio si è insediato un governo provvisorio e dove si sono rifugiati gli uomini del passato regime, gran parte dei Giovani Etiopi, la metà dei cadetti di Olettae, i soldati del ras Immirù (il miglior generale di Hailè Selassiè). In questo contesto avverrà il rogo di tre aerei italiani da bombardamento, che provocherà grande ondata di indignazione in Italia, ma nessuna rappresaglia perché il 4 luglio la Società delle nazioni revoca le sanzioni all'Italia e il problema dell'Ovest non ha più quella urgenza prima sottolineata. Dal mese di ottobre Graziani riprende la conquista dell'Ovest, mentre il ras Immirù tenta di sfuggire all'accerchiamento e nello stesso tempo incita le popolazioni contro gli italiani: "Gli italiani che contro il loro diritto hanno ucciso i nostri soldati col veleno e con le bombe, sono forse venuti ora per guardarvi col cuore commosso, per farvi vivere tranquilli? ... Se gli italiani avessero un cuore buono e sapessero governare, non avrebbero dovuto combattere per 25 anni a Tripoli ... Gli italiani ci vogliono togliere il paese che i nostri avi resero prospero..."(ACS Fondo Graziani). Il ras Immirù si arrenderà il 16 dicembre e verrà confinato in Italia sino al 1943. Nello stesso periodo vengono uccisi i tre fratelli Cassa. Il primogenito Uonduossen si arrese alle truppe del generale Pirzo Biroli e subito passato per le armi. Gli altri due si consegnarono spontaneamente al generale Tracchia contando sulla garanzia fatta dagli italiani di aver salva la vita; furono arrestati dai carabinieri, mentre bevevano il caffè nella tenda del generale Tracchia che così comunica la notizia a Graziani: "Alle 18,35 in Ficcè, sede della loro famiglia e noto covo di rivolta da cui partirono gli ordini per l'attacco alla capitale, Aberra e il fratello Asfauossen cadevano sotto il piombo giustiziatore." L'unico capo etiope ancora in armi era ras Destà che, a fine novembre, dopo aver abbandonato Sidamo, si ritira al centro in una regione montuosa. Nel dicembre accetta di avviare trattative con gli italiani ma, la notizia della uccisione dei fratelli Cassa e la richiesta della sottomissione senza condizioni fatta dagli italiani, fanno fallire le trattative. Graziani ordina di bombardare la regione in cui il ras ha trovato rifugio. Si combatte per una settimana. Il ras, inseguito dall'aviazione e dagli autoblindo, viene nuovamente attaccato mentre sosta a Goggetti, ma riesce a scappare. Secondo gli ordini di Mussolini, tutti i capi catturati verranno passati alle armi e lo stesso villaggio dato alle fiamme. "È inteso che la popolazione maschile di Goggetti di età superiore ai 18 anni deve essere passata per le armi e il paese distrutto" (tel 54000). Il ras Destà verrà fatto prigioniero nel suo villaggio natale il 24 febbraio da uomini di un degiac collaborazionista. Consegnato agli italiani fu impiccato dagli uomini del capitano Tucci. Sulla "Gazzetta del popolo" del 24 febbraio 1938 Guido Pallotta vice-segretario dei Guf, commentando la morte del genero dell'imperatore, scrive: "E nello scroscio del plotone di esecuzione echeggiò la più strafottente risata fascista in faccia al mondo, la sfida più cocente alle truppe sanzioniste. Schiaffone magistrale che il capitano Tucci menò alla maniera squadrista sulle guance imbellettate della baldracca ginevrina". Ma dopo il fallito attentato a Graziani si scatena la reazione ancora più violenta degli italiani. 17 febbraio 1937. Graziani invita nel suo palazzo di Adis Abeba la nobiltà etiope per festeggiare la nascita del principe di Napoli e per l'occasione decide di distribuire una elemosina ad invalidi del luogo (ciechi, storpi, zoppi ). La testimonianza di un medico ungherese presente, sottolinea la dura rappresaglia seguita al fallito attentato. Anche le immagini del filmato Fascist legacy della BBC mostrano come nessun etiope uscì vivo dal cortile dove si teneva la cerimonia. Una nota dell'ambasciatore USA in Etiopia sottolinea che fatti del genere non si vedevano dal tempo del massacro degli armeni. Graziani comunica immediatamente ai governatori delle altre regioni di agire con il massimo rigore. Ad Addis Abeba è il federale Guido Cortese che scatena la rappresaglia. Testimonianza di Poggiali: "Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada... Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente". Vengono incendiati tucul, chiese copte, terreni coltivati, quintali di orzo Anche la chiesa di San Giorgio viene data alle fiamme "per ordine e alla presenza del federale Cortese". Ad Addis Abeba 700 indigeni vengono fucilati dopo essere usciti a gruppi dalla ambasciata britannica dove si erano rifugiati (fatto denunciato dal ministro inglese al Parlamento il 26/3/37) Vengono inquinati i terreni con aggressivi chimici, abbattuto il bestiame. Molti uomini bruciati vivi, altri lapidati o squartati. Mussolini con un fonogramma impone che ogni civile sospettato sia fucilato senza processo. Il numero esatto delle vittime della repressione è di 30.000 per gli etiopi, tra i 1.400 e i 6.000 per inglesi, francesi e americani. Graziani il 22 febbraio scrive a Mussolini: "In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con l'ordine di far passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state di conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul" (tel n. 9170). 26 febbraio. Graziani fa fucilare 45 "tra notabili e gregari risultati colpevoli manifesti" (tel. N.9894 ). Nei giorni successivi fa fucilare altri 26 esponenti della intellighenzia etiopica, elementi aperti alla cultura europea. Altri 400 notabili vengono trasferiti in Italia, mentre altri "elementi di scarsa importanza ma nocivi" con a seguito donne e bambini (tel. Graziani a Santini n.20650), vengono confinati a Danane dopo un viaggio durato più di 15 giorni che provocherà morti per stenti, vaiolo e dissenteria. ... 19 marzo. Graziani scrive a Lessona: "Convinto della necessità di stroncare radicalmente questa mala pianta, ho ordinato che tutti i cantastorie, gli indovini e stregoni della città e dintorni fossero passati per le armi. A tutt'oggi ne sono stati rastrellati e eliminati settanta."(tel. 14440). 21 marzo. Graziani scrive a Mussolini: "Dal 19 febbraio ad oggi sono state eseguite 324 esecuzioni sommarie... senza comprendere le repressioni dei giorni 19 e 20 febbraio" 30 aprile. Le esecuzioni sono passate a 710 (tel. n.22583), il 5 luglio a 1686 (tel n.33911), il 25 luglio a 1878 (tel. n. 36920) e il 3 agosto a 1918 (tel. n.37784). Dalla relazione del colonnello Hazon si evince che i soli carabinieri hanno passato per le armi 2.509 indigeni. Alcuni episodi raccontati dallo stesso Graziani testimoniano che le esecuzioni avvenivano spesso senza la minima prova. 14 marzo. Un nucleo di carabinieri, recatosi in una abitazione per arrestare un ricercato, arresta sia il proprietario che gli 11 indigeni che si trovavano sul posto per non aver favorito la cattura del ricercato. Graziani scriverà a Lessona "Data la gravità del fatto li ho fatti passare per le armi" (tel. n.14150). 23 aprile. 32 capi amhara e 100 indigeni fucilati per condotta dubbia e Argio bruciata (tel. Graziani a Lessona n.23313) 25 aprile. 200 amhara arrestati, cacciati dentro una fossa e fucilati. Poggiali scrive: "Nell'Uollamo un capitano italiano ha fatto razzia di bestiame a danno di una famiglia indigena. Il capofamiglia denuncia la prepotenza e il capitano uccide tutta la famiglia compresi i bambini" A maggio Graziani si vendica del clero copto accusato di connivenza con gli autori dell'attentato. Secondo la relazione del generale Maletti, che ha sostituito Tracchia nella repressione dello Scioa, in due settimane le sue truppe incendiano 115.422 tucul, tre chiese, un convento, e uccidono 2.523 ribelli, servendosi del battaglione musulmano al posto di quello eritreo composto in gran parte da copti. Maletti il 18 maggio accerchia il villaggio conventuale di Debra Libanòs, il più celebre di Etiopia."Questo avvocato militare mi comunica che ha raggiunto le prove della correità dei monaci del convento ... Passi pertanto per le armi tutti i monaci compreso il vicepriore" (tel. di Graziani a Maletti n. 25876). Dopo aver ricevuto da Graziani la conferma della responsabilità del convento nell'attentato, il 20 maggio, trasferisce in un vallone a Ficcè 297 monaci e 23 laici e li passa per le armi". Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d'ordine... Il convento chiuso definitamente." (tel. Di Graziani Lessona n.23260). Tre giorni dopo invia un nuovo telegramma a Maletti: "Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debra Libanòs. Ordino pertanto di passare per le armi tutti i diaconi" (tel. 26609). In realtà recenti studi hanno fatto salire a 1600 il numero delle vittime del massacro di Debra Libanos. Intanto continua l'azione antiguerriglia delle truppe italiane nelle regioni dell'impero come si deduce dai bollettini inviati al ministero dell'Africa italiana. I fatti si riferiscono a esecuzioni, rastrellamenti di armi, distruzioni di paesi ostili. 4 aprile. Bruciato il paese di Atzei e il bestiame sequestrato dopo aver accertata la ostilità degli abitanti contro gli italiani. 12 aprile. Nella regione dei Galla-Sidamo erano stati sequestrati 2.000 fucili, 14 mitragliatrici, 50 pistole; nel territorio di Ambo 6.823 fucili, 16 mitragliatrici, 19 pistole. 18 aprile. Occupato e incendiato il villaggio di Eso dopo che erano stati catturati e eliminati 21 ribelli. 1 maggio. Graziani comunica a Roma che i bombardamenti nel governatorato dell'Harrar proseguivano. In agosto scoppia simultaneamente una rivolta in varie parti dell'impero. Per Graziani il principale capo è Hailù Chebbedè Nel settembre del 1937 viene catturato e fucilato; la sua testa infilzata su un palo è esposta nella piazza del mercato di Socotà e Quoram. Graziani, alla fine dell'anno, verrà sostituito con il Duca d'Aosta che attuerà una politica meno repressiva . Preso da: http://www.criminidiguerra.it/repressioneimpero.shtml http://ift.tt/2GHlRaw
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laterradihayk · 3 years
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Finalmente anche gli USA riconoscono ufficialmente il Genocidio Armeno
Finalmente anche gli USA riconoscono ufficialmente il Genocidio Armeno
Biden:”Gli orrori non si ripetano più” — Washington, 24 aprile 2021: Giornata storica per gli armeni di tutto il mondo. Come preannunciato, il 24 aprile, in occasione del Giorno della memoria, il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha scandito la fatidica parola “Genocidio” per indicare il massacro perpetrato ai danni di più di un milione e mezzo di armeni per mano del governo turco durante…
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sauolasa · 9 years
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Massacro degli armeni, cortei a Istanbul pro e contro il riconoscimento del genocidio
Una fiaccola accesa a ricordo degli oltre un milione di armeni massacrati dall'esercito ottomano durante la prima guerra mondiale. A Erevan…
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paoloferrario · 4 years
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È la Giornata internazionale della commemorazione e della dignità delle vittime di genocidio e della prevenzione di questo crimine, 9 dicembre 2019
È la Giornata internazionale della commemorazione e della dignità delle vittime di genocidio e della prevenzione di questo crimine, 9 dicembre 2019
  Claudio Cerasa su Il Foglio: «Genocidio è una parola molto impegnativa, che indica la distruzione fisica intenzionale di una categoria di esseri umani, in ragione della propria appartenenza, della propria fede, del proprio credo. Genocidio è una parola che nel secolo scorso è stata utilizzata per inquadrare la deportazione degli armeni durante la Prima guerra mondiale, il massacro degli ebrei…
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pangeanews · 4 years
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“E stanotte di nuovo nelle chiese innumerevoli cadaveri innocenti”. In memoria del Genocidio armeno: il canto spezzato dei poeti
Chi crede che il poeta sia nulla sbaglia di diversi gradi e svariate latitudini. Proprio quel ‘nulla’ garantisce al poeta di essere tutto: addirittura, il canto di un luogo, di una alberatura, di una civiltà. Così, in ogni lato della Storia, si assiste alla triste replica della medesima passione: il potere, per giustificare se stesso, assassina il poeta – per un poeta che muore, ce ne saranno altri, fasulli burattini, riflessi demoniaci, che lo negano, leccando i piedi al potente. Se è vero, come ha scritto Roman Jakobson, che quella sovietica fu “una generazione che ha dissipato i suoi poeti”, che a Berlino i libri venivano passati al rogo e a Roma gli scrittori erano spediti in esilio, ciò che accadde in Turchia 105 anni fa origina l’irragionevole. I Giovani Turchi, con cristallina spietatezza, cercarono di estirpare una nazione, la sua identità, i suoi cantori. Per fortuna, la grande letteratura armena, pur ammazzata, è sopravvissuta, con dote di incanti e ombre. Nel 2017 le Edizioni Ares hanno raccolto come “Benedici questa croce di spighe…” una “Antologia di scrittori armeni vittime del Genocidio”, per la cura della Congregazione Armena Mechitarista e un invito alla lettura di Antonia Arslan. Da quella antologia, in memoria, ritagliamo parte dell’introduzione della Arslan e alcuni testi esemplari.
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Come una folgore improvvisa che taglia in due un paesaggio, come un terremoto inaspettato che apre voragini e scuote ogni cosa costruita dall’uomo, così siamo abituati a immaginare l’inizio del genocidio degli armeni, quella notte del 24 aprile 1915, quando – su decisione del governo dei Giovani Turchi – furono arrestati uno dopo l’altro nella capitale Costantinopoli i principali esponenti della comunità armena nell’impero ottomano. Fra loro anche molti scrittori, giornalisti e poeti, perché la parola poetica in Oriente è importante: è amata, cantata, ripetuta, riconosciuta come la voce profonda del popolo. Una retata ben organizzata e letale. Nessuno spiegò loro niente. Furono contati accuratamente, fu verificata la loro identità, e dopo qualche ora furono fatti salire su un treno e avviati verso l’esilio. Questo gli venne detto, e così li tennero quieti; ma il programma reale era di dividerli, mandandoli verso diverse destinazioni: e poi di ucciderli un poco alla volta, preferibilmente con imboscate sulle strade poco sicure dell’interno dell’Anatolia – come in effetti avvenne. Pochissimi i sopravvissuti; ma erano uomini di penna, e scrissero, e raccontarono, anche in nome dei loro compagni che non avrebbero più potuto parlare. Così è avvenuto che le ombre degli scrittori assassinati sono riemerse un poco alla volta: sono diventati personaggi reali, protagonisti del racconto infinito di quella tragedia incombente che venne realizzata giorno dopo giorno, con l’astuzia di tenere i prigionieri all’oscuro del loro destino, fino all’ultimo momento dicendo e non dicendo, alternando minacce e apparente bonomia e rispetto, ingannandoli con raffinata doppiezza.
Daniel Varujan, il grande poeta che apre la raccolta, fu barbaramente ucciso insieme ad alcuni compagni di sventura il 26 agosto 1915. Nel momento dell’arresto, non aveva nessun sospetto del destino che l’aspettava; ma aveva dovuto affrontare la deportazione senza preavviso verso una destinazione sconosciuta, prima caricato su un treno, poi su carri per strade impraticabili, per arrivare infine nella minuscola cittadina rurale di Chankiri. Là credette di essere relativamente al sicuro: in esilio, ma vivo, e con la possibilità di ricevere lettere e sostegno da parenti e amici rimasti nella capitale. Ma era solo la quiete minacciosa prima della tempesta. Come in un infernale gioco di scacchi le vite degli esiliati vennero prese un po’ alla volta, capricciosamente, secondo gli ordini che venivano da Costantinopoli, dall’onnipotente ufficio del ministro degli Interni Talaat, presso il quale i loro supplichevoli e disperati telegrammi si accumulavano suscitando – è lecito crederlo – una perversa soddisfazione. Ma Varujan, raccontano le testimonianze dei pochi superstiti, si distingueva perché continuava a lavorare, a scrivere incessantemente…
Fra i primi uccisi, oltre a Varujan, furono i poeti Siamantò e Rupen Sevag. Erano quasi coetanei: Siamantò, dalla vena lirica fiammeggiante e nostalgica, imbevuto di un romantico amor di patria; Sevag, laureato in medicina, oltre a molte poesie autore di una serie di toccanti racconti, aveva sposato una ragazza tedesca che tentò in tutti i modi di convincerlo a restare a Losanna. Eppure anche lui ritornò in patria, come Varujan, come il mechitarista padre Garabed der Sahaghian e tanti altri giovani intellettuali, attirati dalla speranza che la situazione sarebbe cambiata, fiduciosi nella nuova democrazia turca. La particolare importanza della deportazione e dell’annientamento dell’élite armena della capitale risiede proprio nel fatto che essi furono conseguenza di un abilissimo inganno, di cui oggi sono state rivelate le circostanze e i segreti accordi che lo precedettero. Ma loro erano giovani, idealisti, ingenui e forse un po’ troppo sicuri di sé e della forza luminosa del progresso… Eppure a me sembra quasi più importante ascoltarli, leggere le loro parole, i loro pensieri, che conoscere le loro storie, che infine purtroppo si somigliano tutte. Sono storie di illusioni e di tradimenti subiti, di un amore fervido e altruistico per la propria cultura e per il proprio popolo, ma anche della pietà per gli oppressi e della generosa sensibilità verso la liberazione dei miseri.
Antonia Arslan
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Notte sull’aia
Dolce notte estiva. La testa abbandonata sull’aratro l’anima sacra del contadino riposa sull’aia. Nuota il grande Silenzio tra le stelle divenute un mare. L’infinito con diecimila occhi ammiccanti mi chiama.
Cantano di lontano i grilli. Nelle acque del lago questa notte si celebrano le nozze segrete delle naiadi. La brezza agitando il salice sulla sponda del ruscello risveglia dei canti su accordi sconosciuti.
Nel profumo del serpillo, disteso in cima a un covone io lascio che ogni raggio tocchi il mio cuore, e m’inebrio del vino della grande botte dell’Infinito dove un passo sconosciuto schiaccia le stelle cadenti.
È squisito per il mio spirito tuffarsi nell’onda luminosa di azzurro, naufragare – se è necessario – nei fuochi celesti; conoscere nuove stelle, l’antica patria perduta, da dove la mia anima caduta piange ancora la nostalgia del cielo.
È dolce per me sollevarmi sulle ali del silenzio, ascoltare soltanto il respiro imperturbabile dello Spazio, finché i miei occhi si chiudano in un sonno magico, e sotto le mie palpebre rimanga l’Infinito con le sue stelle.
Così, così si addormenta tutta la gente del villaggio; il pastore sul suo carro, sotto la trapunta che stilla luce, la sposa in cima a un covone, scoperto dallo zefiro il seno dove la Via Lattea svuota il suo latte brocca dopo brocca.
E così, avendo dormito un giorno sotto lo sfavillìo del cielo, i miei genitori contadini mi concepirono con tenerezza, mi concepirono fissando lassù i loro occhi buoni sulla più grande Stella, sulla Fiamma più splendente.
Daniel Varujan
Da Il canto del pane (trad. Antonia Arslan e Chiara Haiganush Megighian)
*
Sogno di tortura
Sera di primavera e di massacri, la mia anima è ancora uno zampillo di vendetta proteso furiosamente verso l’alto, e le foglie, simili ad anime disperate, cadono sopra l’acqua chiara delle vasche e su noi tutti, e dagli abissi voci di appestati, e verso gli abissi in affannosa ricerca di aiuto grida di morenti, vite già morenti. E stanotte di nuovo nelle chiese innumerevoli cadaveri innocenti, sopra il mio tetto una scrosciante pioggia di ferro, sotto il mio cranio una bufera d’incendi, e sopra l’acque che scorrono appaiono martiri crocifissi… E con la sera di pioggia e di supplizio un incalzante terrore di massacro di città in città… nella mia anima uno spavento infernale di uragano… una bara vuota sotto le mie misere dita, e dall’alto di infiniti marmorei scaloni – oh venite in soccorso! – corpi decapitati marciano su di me… Ma voi, anime fraterne della tortura e delle sere, prima dell’irruzione della tempesta e dei barbari stasera tenacemente e virilmente scegliete la vostra via…
Siamantò
Da Fiaccole di agonia e di speranza (trad. p. Mesrop Gianascian)
L'articolo “E stanotte di nuovo nelle chiese innumerevoli cadaveri innocenti”. In memoria del Genocidio armeno: il canto spezzato dei poeti proviene da Pangea.
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