Tumgik
#E questo è decisamente un ‘fatto linguistico’
chez-mimich · 3 years
Text
NALA SINEPHRO: “SPACE 1.8”
Iniziamo con una confessione: ho sempre avuto un debole per i dischi (sì, insomma, una volta si chiamavano dischi, ed io continuo a chiamarli così), che al posto dei titoli contengono numeri o serie. Parte quindi con un piccolo vantaggio “Space 1.8” dell’arpista Nala Sinephro. Ma appena fatta partire la prima traccia che si intitola “Space 1”, il vantaggio semantico-linguistico dei titoli, è davvero irrilevante di fronte alla straordinaria notazione musicale che ci risucchia (o ci fa sprofondare), in un mondo “altro”, fatto di risonanze profonde, create dall’arpa di Nala, e dal circostante mondo vagamente elettronico-oriental-equatoriale, fatto di suoni da foresta pluviale; ricordiamo che Nala Sinephro è originaria della Martinica, ed è una cittadina belga che vive a Londra. A rassicurarci che siamo in presenza di un disco di genere “jazz”, basta l’attacco dei primi accordi del piano di Lyle Barton, subito seguito dal sax profondo, molto soffiato e forse anche un po’ troppo “pettinato” di James Mollison che maneggia lo strumento, come ci si aspetta che un sassofonista jazz maneggi lo strumento, ma a parte questi insignificanti dettagli, la materia sonora pacata, profonda, risonante, è di grandissima qualità. E molto originale è l’inserto elettronico nel finale che mai ci si sarebbe aspettato in un pezzo come “Space 2”, tutto velluto e “blue note”. A ricordarci che non tutto andrà per il meglio, ovvero che lo spazio per un ascolto rilassato è estremamente limitato, arriva “Space 3”, tutto giocato su una strumentazione elettronica e, grazie alle percussioni di Edward Wakili-Hick, è ricco di echi, ritorni seriali e ronzii mai disturbanti, ma sempre inquieti. Con “Space 4” si ritorna all’interno di un utero sonoro fatto di dolci accordi d’arpa e “coccole saxophoniche”, dove le asperità sembrano dimenticate e l’abbandono è una necessità impellente, magari evocativa di altri sax che Nubya Garcia sa evocare a meraviglia. Va ricordato che il pezzo nasce al cospetto di un reperto di arte antica, l’immagine della dea Ishtar vista attraverso gli occhi di un grande artista primitivo-contemporaneo quale fu Jean-Michel Basquiat. Nel quinto spazio (“Space 5”), viene a maturazione dialettica tutto quanto ascoltato fin qui. Effetti “ambient” elettronici, sax e arpa, sembrano finalmente andare a comporre un “pattern” sonoro di grande impatto. Un’atmosfera che prosegue anche in “Space 6” con un sax ormai decisamente “di ricerca e meno ricercato”, con una serie ripetitiva attorno alla quale si va a costruire un’ipnotica spirale elettronica. Ma il tesoro nascosto di questo lungo e intenso viaggio, attraverso sonorità che sanno di fresco, è certamente “Space 8”. Una sinusoide sonora, con costanti variazioni, tutta o quasi giocata sull’elettronica e introdotta da un afflato di sax e da una spolverata di arpa che poi sembrano dissolversi in una musica che si fa cosmica. Disco di un magnifico sofferto debutto e nato da una terribile malattia sconfitta, forse, anche grazie alla musica, e che musica!
Tumblr media
2 notes · View notes
Text
Quando mi toccò l’esame di maturità era il primo anno in cui era stata reinserita la commissione mista. I tre prof di lingue straniere erano interni mentre esterni c’erano italiano, economia aziendale e geografia economica. Siccome c’erano solo sei professori più il presidente della commissione, il ruolo delle altre materie oltre a quelle sei era piuttosto sommario. Quelli interni erano stati sceti sulla base del fatto che come seconda prova avevamo lingua straniera (facevo l’istituto tecnico commerciale a indirizzo linguistico, penso che al giorno d’oggi si chiami liceo economico/turistico o qualcosa del genere) e dato che potevamo scegliere una qualsiasi delle tre lingue dovevano per forza esserci tutti e tre.
Il primo martedì dopo la fine dell’anno scolastico la nostra prof d’italiano aveva organizzato un incontro a scuola per aiutarci a sistemare le nostre tesine e per darci qualche dritta. Fu disponibilissima. Ricordo che alcuni avevano dei grossi dubbi e che io che ero tutto sommato abbastanza a posto aiutai L. che a scrivere al computer era una frana a spiegargli come doveva sistemare la punteggiatura nella copia che avrebbe presentato ai professori. Però ricordo meglio che nel momento in cui entrai in aula e mi sedetti, in una fila di banchi da tre con S. e L., L. mi domandò, con entusiasmo “hai visto Sato?” riferendosi al suo sorpasso su Alonso del GP di due giorni prima. S. che era la solita guastafeste ci disse di stare zitti. Peggio per lei, non sa cosa si è persa.
Ricordo anche che sia quel giorno a quell’incontro sia all’esame di maturità eravamo nel lato della scuola in cui durante l’anno c’erano le classi del liceo scientifico, che era stato scelto quel corridoio perché era il meno caldo della scuola e che odiavo quella collocazione perché nei bagni da quel lato della scuola c’erano le turche invece dei water, e io detesto i bagni con la turca, visto il mio poco senso dell’equilibrio. >.< Comunque, in generale, fu abbastanza un trauma, l’avvicinarsi dell’esame, passato più che altro a ripassare un sacco di cose che poi non mi sarebbero state chieste.
Con la commissione mista beccammo a metà bene e a metà male, geografia era calmissima, italiano una via di mezzo, economia uno stronzo colossale e il presidente della commissione uno che stava sempre a farsi i fatti suoi tranne quando doveva correggere qualcuno. I nostri professori invece erano calmissimi e approfittavano del fatto che all’orale con loro dovevamo esporre argomenti in lingua straniera, quindi se sbagliavamo qualcosa non ci correggevano e facevano finta di niente. Comunque più il tempo passava e più mi saliva l’ansia, anche se a scuola di fatto non avevo mai avuto problemi e con i voti che avevo sapevo fin dal primo giorno che potevo ambire a un voto dal 90 in su, anche se speravo non per il 90 ma per l’ “in su”.
Ricordo alla prima prova di avere fatto il saggio breve socio-economico, l’argomento mi pare fosse la giustizia o qualcosa del genere. Alla seconda prova ho fatto inglese ad argomento turistico (il testo era sull’organizzazione delle olimpiadi di Pechino che sarebbero state l’anno seguente). Alla terza prova non ricordo con esattezza tutto, ma ricordo che sono andata male come tutta la classe in economia perché la nostra prof aveva sempre insegnato al CEPU ed era ben poco esigente considerandoci tutti dei secchioni, quindi sapevamo troppo poco per gli standard del professore esterno.
All’orale esposi la mia tesina sullo squilibrio tra nord e sud del mondo (non so se si usi ancora al giorno d’oggi questa definizione), che un range di argomenti che andavano dall’epoca coloniale agli investimenti diretti esteri passando per Pascoli (che aveva scritto un discorso sulla colonizzazione della Libia), Kipling (sempre per letteratura a sfondo colonialista, immagino), sui possedimenti d’oltremare francesi e sulla guerra d’Algeria. Ricordo qualcuno degli esterni chiedendomi se mi ricordassi il nome di un trattato sulla colonizzazione spagnola e portoghese. Io non capii la domanda e intervenne non ricordo chi tra gli altri professori esterni, per ricordarmi che era il trattato di Tordesillas. Lo sapevo. Non perché l’avessi scritto nella tesina, ma perché l’avevo scritto, con un errore di ortografia, negli appunti di terza superiore e quel dettaglio mi era rimasto impresso.
Il trattato di Tordesillas fu il turning point del mio esame di maturità, o almeno, il primo. Mi fece capire che, se volevo raggiungere il mio vero obiettivo, non dovevo farmi trollare come era appena successo e questo mi fu utile in quello che restava del mio esame. Quando iniziarono le domande sugli argomenti del programma, il prof di economia mi fece parlare della break even analysis. Ho già detto che era uno stronzo e lo era perché se non rispondevi subito, iniziava a parlare lui e a dire la risposta. Se rispondevi, lo faceva. I miei compagni di classe, per rispetto, stavano zitti per non interromperlo. E non era quello che lui voleva. Dai pettegolezzi che giravano sono stata una delle due persone che gli ha parlato sopra e una delle due persone a cui quel professore non ha assegnato un punteggio insufficiente.
La break even analysis è stata quindi il secondo punto di svolta. A quel punto, non so come, quando la prof d’italiano ha voluto in qualche modo che dicessi che D’Annunzio nella “pioggia nel pineto” aveva voluto ricreare il ritmo della pioggia che cadeva, cosa di cui non avevo la più pallida idea, sono andata a intuito e gliel’ho detto. Poi è finita. Ho coronato il mio sogno, anzi, i miei due sogni, perché tredici anni dopo lo posso ammettere senza problemi. Il mio primo sogno dipendeva totalmente dal mio esame (oltre che dalla fortuna e dai professori) ed era diplomarmi con 100. Il mio secondo sogno, dopo essere stata vista per tanti anni come la “seconda della classe” e un po’ snobbata dall’ipercompetitività altrui era essere l’unica a riuscirci. Io ho avuto 100, l’altra 96.
A tredici anni di distanza mi rendo conto di quanto il mio esame di maturità sia stato una grande soddisfazione dal punto di vista scolastico, ma anche di quanto abbia avuto indirettamente effetti negativi sulla mia vita. Forse se la maturità fosse andata un po’ peggio delle mie aspettative, mi avrebbe scoraggiato per il futuro. Venivo da un istituto commerciale, da cui uscivano più che altro persone che si cercavano un lavoro, invece di andare all’università. Era il 2007, trovare lavoro era relativamente facile (la S. a cui non fregava un bel nulla di Sato, a fine luglio faceva già la commessa alla Coop e a settembre veniva assunta come impiegata da Bartolini con un contratto di un anno).
Non so fino a che punto la mia vita sarebbe stata migliore se non fossi andata all’università, ma alla fine probabilmente mi sarei ritrovata a fare un lavoro simile a quello che faccio ora e sarei arrivata un po’ ovunque in anticipo di cinque anni se non di più (cinque e qualche mese di università, più i dieci mesi di disoccupazione post-laurea dato che mi sono laureata in uno dei momenti di peggiore crisi economica). Non avrei una laurea, però i miei anni di università non sono stati sempre positivi. La triennale non è andata neanche male, ma poi alla magistrale, oltre ad avere dovuto scegliere un po’ un percorso obbligato, le cose sono un po’ precipitate.
Volevo solo laurearmi per non deludere la famiglia dopo tanti sacrifici e poi cercarmi un lavoro possibilimente in un altro settore per chiudere per sempre con quello che stavo studiando. In più, senza università avrei probabilmente messo da parte più soldi e potuto aiutare i miei genitori a comprarsi l’appartamento qualche anno prima. E se mi fosse toccato di guadagnare 500 euro al mese per un anno perché nel mio primo posto di lavoro proprio non volevano farmi un contratto di lavoro ma solo di stage, guadagnare 500 euro al mese a 19 anni sarebbe stato umanamente più accettabile che guadagnare 500 euro al mese a 25.
Con questo, ho fatto un giro dell’oca interminabile per non dire niente di quello che volevo dire, ma scrivere dei papiri interminabili sembra essere il mio punto debole. Voglio solo dire che, se qualcuno dei miei lettori deve fare la maturità quest’anno (di @elenainlovewithf1andparis lo so per certo, non so se ci sia qualcun altro), in un periodo così caotico, con modalità mai viste prima e senza avere potuto avere molto supporto da parte dei professori (per esperienza ricordo che anche quelli più severi, fiscali o stronzi, ormai che stavamo finendo erano decisamente meno severi, fiscali o stronzi e cercavano un po’ di darci una mano), io tifo per voi. *-* In becco al gufo! <3
4 notes · View notes
darthreset-blog · 5 years
Text
Sanremo 2019, serate 4-5
Quante cose da dire. Ho deciso di accorpare le ultime due serate perché non credevo che un post dedicato esclusivamente alla finale sarebbe stato utile, considerando che i brani li ho ascoltati tutti diverse volte e quindi ho un’opinione ben chiara di tutti i partecipanti. Ci tenevo però a dire la mia sui duetti e sulla classifica finale, quindi: presenterò gli artisti in ordine di arrivo, darò un commento finale sul loro Festival con un breve accenno al duetto e poi vi dirò dove si piazzano nella mia classifica personale con un numero tra parentesi.
24) Nino D’Angelo e Livio Cori: il brano era sicuramente debole e l’ostacolo linguistico italiano-napoletano non ha facilitato le cose. Il duetto con i Sottotono ha leggermente migliorato le cose, donando modernità al pezzo. (23°)
23) Einar: anche questo pronosticabile, quasi annunciato. Brano spento e prevedibile, tenuto a galla da Sergio Sylvestre nella serata dei duetti. (21°)
22) Anna Tatangelo: canzone banalmente sanremese, anche se ben eseguita sul palco e che nel duetto con Syria guadagna molti punti. (22°)
21) Patty Pravo con Briga: anche qui era facile pronosticare la brutta posizione: i cantanti non hanno mai mostrato armonia o complicità e il brano era semplicemente attempato. Giovanni Caccamo nella quarta serata non ha migliorato lo scenario. (24°)
20) Negrita: credo sia banale dire che da loro ci si aspettava di più, anche se era chiaro che difficilmente sarebbero arrivati in posizioni di rilievo. Ma la loro musica è interessante, e quindi forse era lecito aspettarsi di vederli almeno nella prima metà della classifica. Bene Enrico Ruggeri la quarta serata, ma veramente ottimo Roy Paci. Il pezzo paga un’inconsistenza complessiva. (14°)
19) Nek: uscito più che sconfitto da un Festival da cui chiedeva poco e niente, destinato (come hanno detto tutti incluso me stesso) a spopolare alla radio i prossimi giorni. E’ stato un piacere ascoltare la sua canzone, personalmente parlando, anche se non condivido la scelta di rallentarla nel duetto con Neri Marcorè. (10°)
18) Federica Carta e Shade: se possibile, dopo le prime sere, sembravano destinati ad arrivare ancora più in basso. Il duetto con Cristina D’Avena sembrava non avergli fatto bene. Non saprei dire se possano dirsi soddisfatti o meno. Nelle sue interviste Shade sembrava contento, va detto. Sta crescendo come artista e a quanto pare va bene così. Brava anche Federica, mi è piaciuta, anche se mi ci è voluto un po’ per farmi apprezzare il loro brano. (11°)
17) The Zen Circus: insensato immaginare che il palco sanremese si sarebbe dimostrato adatto alla loro musica, hanno comunque ricevuto diversi complimenti sul web. Considero molto valida la loro esperienza sanremese, peccato per la serata duetti in cui la presenza di Brunori Sas, a mio parere, non ha accresciuto il valore del loro brano, di per sé coraggioso e affascinante. (5°)
16) Paola Turci: la prima parola che mi viene in mente è: “deludente”. Dopo l’ottimo brano del 2017 era lecito aspettarsi di più, ma purtroppo non è ciò che abbiamo ottenuto. Nella serata duetti, però, con Beppe Fiorello la performance è stata ottima. Tuttavia il brano era debole in partenza e quindi una sola buona esibizione non può bastare. (18°)
15) Francesco Renga: anche lui banalmente sanremese, le sue performance lo distaccano da Anna Tatangelo, la sua curiosa uscita al Dopofestival sulla bellezza delle voci maschili e femminili ha suscitato non poche perplessità. Il duetto con Bungaro non è male, migliora la canzone ma non abbastanza. (19°)
14) Motta: vincitore (discusso e discutibile) del premio come miglior duetto, ha presentato un brano che cattura dopo diversi ascolti. E’ sicuramente un artista di talento, ma personalmente sia da solo che con Nada non mi ha impressionato abbastanza. (12°)
13) Ex-Otago: circondati quasi dall’indifferenza, non mi aspettavo di trovarli qui, ma più in basso. Il loro pezzo non è brutto, ma passa inosservato, e l’intervento di Jack Savoretti non lo ha migliorato. (16°)
12) Ghemon: ci son rimasto male, ritengo che il suo fosse un pezzo valido e meritasse un piazzamento migliore. Si tratta di un incontro tra generi interessante e fresco, mi dispiace sia finito nell’ombra. La sua performance con Diodato ed i Calibro 35 è stata probabilmente una delle mie preferite di tutto il Festival. (2°)
11) Boomdabash: giudizio sospeso fino a giugno. Solo allora verificheremo il vero successo di questo brano. I Boomdabash hanno il merito di aver portato atmosfere nuove a Sanremo. Bene con Rocco Hunt e i Musici Cantori di Milano. (15°)
10) Enrico Nigiotti: molto cantautorale, molto sanremese, molto personale, anche troppo, il suo brano sembra più adatto ad essere cantato in solitudine con la propria chitarra che “di fronte” a dieci milioni di persone. Paolo Jannacci e Massimo Ottoni aggiungono qualcosa al brano, ma non molto. Ha vinto il Premio Lunezia per il valore musical-letterario del brano. (20°)
9) Achille Lauro: lo dico, lo ammetto, lo confesso: avrei preferito vederlo più in alto. Il suo è uno dei pezzi più discussi del Festival, se parli di droga, di auto, se sia una nuova “Vita spericolata”, se sia il simbolo della trasgressione delle nuove generazioni, se sia l’ingresso all’Ariston dell’onda trash che va per la maggiore qui in Italia da un anno a questa parte. Io penso che sia solo una bella canzone rock cantata da un ragazzo con personalità e che non ha paura di esporsi. L’ho davvero apprezzato, e l’esibizione fuori di testa insieme a Morgan è sul podio dei migliori momenti del Festival. (8°)
8) Arisa: molto brava e alternativa nel portare un brano così scanzonato e leggero. Ci voleva, ed è una scelta che alla fine a Sanremo paga, se non altro perché permette di sfuggire dai soliti canoni. Davvero molto bella l’esibizione con Tony Hadley. (9°)
7) Irama: sembrava potesse arrivare sul podio. Aveva grande seguito tra il pubblico, il suo brano era bello e trattava un tema importante. Bravissima Noemi nel duetto, ma dove c’era lei è mancato lui. Peccato. Comunque deve ritenersi soddisfatto, la sua canzone ha fatto breccia nel cuore di molti. (7°)
6) Daniele Silvestri: mi dispiace Daniele, non ce l’abbiamo fatta. Il suo brano, l’ho detto già, era il mio favorito: intelligente, moderno, cupo, ben eseguito. L’aggiunta di Manuel Agnelli (presente nella versione ufficiale) non sono sicuro giovi alla dinamicità e ritmicità della canzone, anche se la rende ancora più scura e dolorosa. Anche in questo caso, ottimo il riscontro di pubblico, con la speranza che ora tutti possano conoscere Rancore, che molti amanti del rap non esitano a definire il miglior esponente italiano del genere. Si è portato a casa diversi premi: Premio Sergio Bardotti per il miglior testo, Premio della Critica Mia Martini, Premio Sala Stampa Lucio Dalla. (1°)
5) Simone Cristicchi: teoricamente da questo punto in poi dovrei essere sempre insoddisfatto perché tutti gli artisti si sono piazzati meglio del mio preferito, ma non è così. Ce ne sono diversi per i quali capisco il miglior piazzamento. Cristicchi è uno di questi. La sua poesia in musica è un piacere per le orecchie e il cuore, e le sue esibizioni con gli occhi lucidi hanno commosso quasi tutti. Scegliere Ermal Meta per il duetto è stata una mossa giusta, visto che entrambi sono sembrati perfettamente a loro agio nell’interpretazione del brano. Ha vinto il Premio Giancarlo Bigazzi alla miglior composizione musicale (assegnato dall’orchestra) e il Premio Sergio Endrigo alla miglior interpretazione. (6°)
4) Loredana Bertè: tra le proteste del pubblico (giustificabili) Loredana è finita fuori dal podio. Questo non toglie che la sua carica e la sua forza siano state tra le caratteristiche che hanno contraddistinto questo Festival. Molti avrebbero voluto vederla premiata come riconoscimento alla carriera, ma lei ha detto che questi giorni sono stati bellissimi lo stesso. Lo sono stati anche per noi che l’abbiamo ascoltata, sia da sola che con Irene Grandi. (4°)
3) Il Volo: e chi l’avrebbe mai detto? Si sa che hanno un gruppo di ammiratori piuttosto specifico, ma non sembrava dovessero arrivare lontano, complice l’aver portato un brano troppo simile a quello con cui avevano vinto nel 2015. Quando è stato rivelato che erano sul podio si è diffuso il panico: erano la variabile impazzita, i preferiti di coloro che giudicano come prima cosa il “bel canto”. Non hanno vinto, l’hanno presa bene. Complimenti per il podio, grazie per aver partecipato. In questo Festival non si giocavano niente, ma sono riusciti a stabilire il loro ruolo di esponenti di spicco della musica italiana soprattutto all’estero. Decisamente interessante il duetto con Alessandro Quarta. (13°)
2) Ultimo: tempo per me di beccarmi l’odio delle appassionatissime fan del giovane romano. La sua ballata farà nascere tantissime coppie nei prossimi mesi, e in generale le sue canzoni saranno la colonna sonora di molte storie d’amore negli anni a venire. Ha fatto ciò che sa fare e lo ha indirizzato a chi sapeva lo avrebbe apprezzato. Stradominatore del televoto, dato per favorito da chiunque, dai bookmakers ai giornalisti alla gente in mezzo alla strada, neanche potevo crederci quando ho sentito che il vincitore non era lui. Non che sperassi nel suo annunciato trionfo, non faccio parte della demografica a cui si rivolge, ma è stata una sorpresa di grandi proporzioni. Il suo brano si è fatto apprezzare poco per volta, per quanto mi riguarda. Fabrizio Moro ha rischiato di buttare tutto all’aria cantando nella sua solita terribile maniera, ma il pubblico pare non essersene accorto. Sicuramente non era la mia canzone preferita, ma vederla in cima come sembrava ovvio dovesse succedere non mi avrebbe dato fastidio. Parentesi sulla conferenza stampa post-serata: sono convinto che Ultimo non volesse mancare di rispetto a Mahmood e sia stato ingenuo a cadere nella provocazione dei giornalisti che volevano chiaramente una polemica da cavalcare. Ulteriore appunto: rispetto tantissimo lui e la sua musica, ma la sua fanbase morbosa e appiccicata mi irrita, nello stesso modo in cui lo faceva quella degli One Direction qualche anno fa. Ha vinto il Premio TIMmusic (per il maggior numero di streaming, ulteriore prova che da casa preferivano lui). Direi che è arrivato il momento di considerarlo ufficialmente un artista di qualità e un nome importante della musica italiana almeno per il prossimo pugno di anni, fino a quando il cuore dei suoi sostenitori non verrà rubato da qualcun altro. (17°)
1) Mahmood: posso dirmi contento, e mi levo subito il peso di menzionare anche gli altri riconoscimenti che ha avuto: Premio Enzo Jannacci alla migliore interpretazione e Baglioni d’oro durante il Dopfestival, premio consegnato all’artista più apprezzato dagli altri partecipanti alla gara. Che dire di lui e della sua canzone? E’ probabilmente quella che guarda più avanti di tutte, ha il suono del 2019, è allineata con quelle che sono le sonorità di questo periodo. Il mix di influenze è una marcia in più, così come lo è il testo. Tra le cose migliori del Festival annovero l’orchestra che esegue i clap durante il ritornello (idea di Dardust, come rivelato in conferenza stampa), che mi ha ricordato l’edizione 2017 in cui i Professori intonavano “alé” durante “Occidentali’s Karma”. Mi è sempre piaciuta l’idea dell’orchestra che prende parte al brano in maniera alternativa dal normale accompagnamento. Quando l’hanno proclamato vincitore non ci credeva neanche lui, e probabilmente gli ci vorrà qualche giorno per capire tutto. Essere ospitato in ogni trasmissione durante la prossima settimana non lo aiuterà. La sua vittoria (merito soprattutto delle giurie, che hanno sovvertito quanto risultava dal televoto, in cui era terzo) è una buona cosa anche in prospettiva Eurovision: difficilmente avremmo potuto proporre un brano più adatto alla manifestazione continentale. Era tra i miei prediletti, ma già vederlo arrivare alla fase a tre è stato bizzarro. Sono felice per lui, ma da adesso in poi viene il difficile. “Vincitore di Sanremo” è una grossa etichetta da tenere, nel corso della carriera. Una critica che gli muovo è aver scelto Guè Pequeno nella serata dei duetti: sembrava assente e poco coinvolto durante l’esibizione. Ha vinto la modernità, ha vinto l’alternativa al classico brano da Sanremo, ha vinto la creatività. Ha vinto Mahmood. *clap clap* (3°)
33 notes · View notes
still-a-sketch · 5 years
Text
24 maggio 2019
Decisamente non dovrei essere qui a scrivere, ma sulla via per andare a nanna. Domani e dopodomani saranno giornate parecchio stressanti, e dovrei almeno tentare di salvaguardarmi con una nottata di sonno.
...no eh?
Questo weekend avrò (finalmente) gli ultimi due giorni di riprese di un corto di uno studente di film making della mia Accademia. Dico “finalmente” perché avremmo dovuto finire quasi un mese fa, ma una serie di sfortunati eventi (cit.) ha portato a rimandare e rimandare. Questo per me, che se non ho tutto programmato nei minimi dettagli sclero, è stato davvero pesante da sopportare. Mi rendo conto che ho un’enorme rigidità verso l’imprevisto, e questo amplifica il motivo per cui ho definito le due prossime giornate “parecchio stressanti”.
Cosa è questo corto? Per chi non lo sapesse, generalmente nelle scuole di cinema agli studenti degli indirizzi di film making/video making viene chiesto di realizzare come prova di esame (o una delle prove) un cortometraggio da loro scritto. È così che lo scorso anno ho iniziato a muovere i primi passi nell’ambito della recitazione davanti alla telecamera: grazie a corti di studenti, prima di una scuola della mia città e poi dell’Accademia NEMO di Firenze (con la quale ho ri-collaborato anche quest’anno, dato che gli ero piaciuta e mi hanno richiamata). Insomma, questo studente della mia Accademia ha fatto un casting interno alla scuola, per scegliere fra tutti noi studenti di primo e secondo anno due attori per il suo corto. E sì, sono stata una di quei due, nonostante una volta uscita dal provino avessi la certezza matematica di aver fatto un’impressione pessima (vi dico solo che a metà provino, che sappiate vengono registrati, ho chiesto se mi potessi togliere l’apparecchio perché non riuscivo a parlare bene). Il che, diciamocelo, mi ha fatto un piacere immenso dato che io sono solo al primo anno (e comunque a prescindere, anche fossimo state solo due candidate, mi sarei sentita come avessi vinto l’Oscar).
Il problema? Che il mio dca mi rende tutto questo, potenzialmente fantastico, una sorta di incubo perverso. Perché? Risposta ovvia: a causa del fatto che dovrei mangiare in presenza degli altri.
(continua)
La troupe è formata da tutti i ragazzi del corso di film making, ognuno con un ruolo preciso (regista, operatore, DOP, ecc) più il loro insegnante più altri due ragazzi che come me recitano (uno dei due è quello a cui faccio da tutoraggio linguistico, che è raccomandato come solo Dio sa cosa). Dato che le riprese inizieranno alle 11 e finiranno non si sa quando, è abbastanza ovvio che perlomeno il pranzo si presuma lo faremo tutti là.
Interferenza di sistema: mangiare davanti a persone che conosco è in assoluto uno dei miei blocchi più grandi. Che vedano cosa mangio, quanto mangio... ma semplicemente che vedano CHE MANGIO. Ovviamente so che nessuno di loro pensa che io campi d’aria, ma la razionalità in questi casi non serve. Il risultato è che ho passato tutta la sera a fare calcoli su comequandocosa mangiare in modo che loro in tutto il giorno mi vedano mangiare solo una mela. E persino pensare al fatto che mi vedano mangiare una mela intera mi mette in crisi.
Mi rendo conto che è assurdo. Mi rendo conto che è puro nonsense. Ma non ci riesco. Non riesco a fregarmene, non riesco a dirmi “tutte le persone di questo mondo per stare vive mangiano quindi non è che mangiando davanti a loro farai qualcosa di assurdo e anormale”. Ma per me È assurdo e anormale! Mi è capitato spessissimo, anche in biblioteca, di nascondermi a mangiare dietro le macchinette o addirittura in bagno perché ho visto arrivare qualcuno che conosco. È una paura talmente radicata che non riesco ad affrontarla. Non riesco a razionalizzarla, non riesco a superare quel “vorrei che loro mi identificassero come la ragazza che non mangia/che mangia pochissimo”. Dopotutto è stata proprio quella frase a farmi tuffare di testa nel dca, nel 2013, quando ero ancora in bilico: “certo che tu mangi proprio poco”. Un commento da niente, ma che per me in quel momento fu come un’illuminazione divina... che poi si è rivelata tutto l’opposto.
Come si fa ad affrontare giganti più grandi di noi? Anche in questo momento mi sto arrovellando su questi comequandocosa, e tutte le volte mi sembra che non avrò mai la capacità di superare questo ostacolo. Sono questi i momenti in cui mi rendo conto della merda in cui il mio dca mi tiene. Sono questi i momenti in cui mi viene da piangere. Sono questi i momenti in cui provo rabbia e odio e disperazione, ma non so verso chicosa indirizzarli. La prossima settimana sarò ad un LARP, ed indovinate chi scartabella da un mese per decidere come organizzare l’aspetto alimentare per via della presenza di altre persone?
Non posso andare avanti a barrette energetiche e barrette proteiche, comode da nascondere ma decisamente non l’alimentazione più sana del mondo. Ho fatto tanti passi avanti, perché verso questo provo ancora così tanto orrore?
Faccio domande retoriche, ma so almeno in parte il perché. Perché ancora non riesco a schiodarmi da dentro il desiderio che la gente si riferisca a me come “quella che non mangia”. Perché ancora non riesco a concepire cosa mai potrei essere se non questo. Perché continuo a cercare di arrampicarmi sugli specchi, ma durerà solo fino a che scivolando non ne romperò uno e mi causerò non solo altri anni di sfiga ma principalmente un sacco di ferite.
Mi dispiace per il tono di questo post. Non voleva essere così... malato. Dovrei essere felice e non vedere l’ora, invece tutto questo seppur presente viene oscurato da un’ombra che fagocita tutto.
Chiedo scusa se posso aver turbato qualcuno. Non era mia intenzione, e mai lo sarà. Non mi vedrete mai nella vita incoraggiare questi comportamenti o osannare l’ideale di ragazza che non mangia.
Non più.
Vi auguro una buona notte, sweet dreams.
4 notes · View notes
thewikigreg · 5 years
Text
Coez non vi sta neanche più ad ascoltare
Negli anni '90 su Topolino c'era un tipo di storia particolare, la storia a bivi; praticamente, se avete visto Bandersnatch, è appunto l'episodio interattivo di Black Mirror messo nero su bianco. La peculiarità di questo tipo di storia è quella di poter esplorare i diversi finali, i diversi percorsi, sapendo qualcosa in più ogni volta che torni a un bivio precedente e fai un'altra scelta per arrivare infine a esplorare tutte le conclusioni possibili. In qualche modo, mi piace pensare che una cosa simile sia successa anche a Coez quando ha iniziato a scrivere il suo nuovo disco, il quarto del suo "nuovo periodo", È sempre bello.
Tumblr media
Dopo essere uscito dalla FIMI col carrello pieno di ori e platini sarebbe stato facile proseguire sulla stessa falsariga del disco che lo ha lanciato definitivamente al grande pubblico, ma la scelta del ritornellaro più famoso d'Italia è quella di prendere una strada diversa anche se non del tutto nuova; con Niccolò Contessa, produttore dell’album, prende le esperienze di Niente che non va e Faccio un casino, le mette insieme, le rielabora e quello che nasce è un disco che suonerebbe bene come seguito diretto sia dei due sopracitati ma anche di Non erano fiori. È come se il nuovo album fosse nato senza una precisa collocazione temporale, con evidenti richiami a un cantautorato da sempre nelle corde di Coez e la volontà di non accontentarsi ma, anzi, di perdersi nel cielo e allargare i propri confini.
youtube
Musicalmente la presenza di Contessa assicura una raffinatezza assoluta nei suoni sin dall'attacco di Mal di gola, con alcune perle pregevoli come Domenica e Aeroplani, che potrebbe essere il brano migliore scritto nel post Non erano fiori (precisazione doverosa perché La strada è mia farà sempre un campionato a parte). Proprio in Domenica troviamo una delle caratteristiche più particolari dell'album e della crescita costante di Coez, ovvero l'alternanza di ciò che sembra e ciò che davvero è, un equilibrio perfetto tra una delle citazioni a Vasco presenti in È sempre bello e una sonorità totalmente opposta rispetto a quella che ci si potrebbe aspettare da un omaggio al rocker di Zocca. Il citazionismo è uno dei punti cardine del disco, come in Vai con Dio, dove si unisce anche una scrittura à la Dalla che esalta quel "se ti hanno visto bere a una fontana / ero io" in uno dei pezzi maggiormente ricchi di riferimenti più o meno velati all'amore fisico, raccontato (contrariamente ad altre occasioni) più per immagini e doppi sensi abbastanza espliciti per tutto il disco, senza mai però cambiare davvero il registro linguistico selezionato.
La scelta di Bandersnatch iniziale, in fondo, è anche questa: le esperienze trionfali (perché solo di trionfo si può parlare) degli ultimi dischi hanno dato una marcia in più a livello di consapevolezza ed esperienza, una capacità migliore di selezionare parole e punti di riferimento, scostandosi quasi del tutto dal primo periodo della sua carriera per proseguire con una evoluzione sinceramente pazzesca. Resta, chiaramente, qualche medaglia rap su un petto pieno di riconoscimenti: il contrasto con le forze dell'ordine è giocoforza diverso da quello che può vivere un Massimo Pericolo, ma aver trovato nel vinile il posterone di "AMARE TE È FACILE COME ODIARE LA POLIZIA" è a maggior ragione simbolico di come le barriere musicali siano sinceramente poca cosa per chi ha fatto un casino che sta sconvolgendo da mesi la musica italiana.
Tumblr media
C'è una cosa in È sempre bello che mi ha spiazzato, ed è l'assenza di una "difficoltà" che sottolineavo nella recensione di Faccio un casino, perché c'è una scissione profonda adesso nella vita musicale di Coez e in alcuni lati personali che non hanno probabilmente neanche più bisogno di essere cantati, ma le tasche sembrano davvero più leggere a distanza di anni. È forse anche per questa almeno apparente spensieratezza che le autocitazioni riescono anche ad assumere una nuova vita (il coltello di Non erano fiori in Fuori di me, o quella ironica di Jet in Gratis) e il mood resta quello di un viaggio verso una meta felice. Un viaggio magari guardando le nuvole, come fossimo su un aeroplano, ed è con questo pessimo stratagemma linguistico che mi collego al finale del disco, che coincide con il suo punto più alto.
La prima volta che ho ascoltato Aeroplani mi sono sentito strano. Era chiaramente la prima volta che finivo il disco e pensavo che il tappeto sonoro ipnotico mi avesse fatto perdere qualche passaggio del testo, per cui l'ho rimessa da capo. La sensazione è rimasta la stessa anche dopo il secondo ascolto, e tuttora quando l'album finisce è sempre spiazzante, come se ci fosse qualcosa di nascosto tra quelle righe, un detto-non detto che probabilmente potrà essere capito appieno solo dopo tanti ascolti—se effettivamente decifrabile. Una sensazione che impreziosisce, e molto, il lavoro di un artista diventato ormai grande, che non ha voluto accontentarsi di un successo facile neanche ora che avrebbe fatto almeno un altro platino proponendo una replica di Faccio un casino (che poi, dopotutto, "Ho alzato un gran casino e dopo tutto 'sto casino / come mai non sto bene?"). Coez ha ripreso un bivio precedente scegliendo un'altra strada ed esplorando un altro finale, un'altra conclusione, e conquistando un altro successo con un disco decisamente meno immediato ma di profondo impatto. È sempre bello va bene per l'ascolto in macchina mentre vai a mare ma è ottimo per quel venerdì sera in cui ti chiudi in camera con te stesso per provare a decriptare i perché della tua vita, quando ti senti "in isolamento / ma con un'isola dentro". È un disco che resta attaccato sulla pelle, sotto pelle, nel cervello, nell’anima; definitivamente un altro gioiello dell'artista che sta cambiando le regole della musica italiana ridendo su quell’odio che non vi fa mica bene.
Tumblr media
4 notes · View notes
questouomono · 5 years
Text
Questo uomo no, #101 - Quello che mai nella vita
*
Tumblr media
Qualche giorno fa su Il Fatto Quotidiano Online Magazine esce un articolo a firma Giuseppe Candela intitolato come vedete qui:
Tumblr media
Dare della cagna a una donna è un evidente insulto sessista (e anche specista, già che ci siamo) e non dovrebbe essere necessario doverlo spiegare. Questo uomo no.
Ma in vista dell’improbabile tesi difensiva scelta dal nostro - che ci fornisce l’occasione per parlare di un tipo di uomo molto diffuso - precisiamo due cose: 1) se in una opera artistica, figurativa, cinematografica, televisiva di finzione si usano sessismi, essi sono appunto inseriti in una cornice che ne permette l’uso - per esempio, si vuole far vedere come funziona il sessismo, quindi lo si rappresenta. La rappresentazione, in quanto tale, non è realtà, è un “doppio” più o meno riuscito che serve a parlare, più o meno efficacemente, della realtà. “Boris” è stata, tra le altre cose, una serie nella quale si è fatto un uso massiccio di stereotipi proprio per denigrarli; niente da eccepire sull’uso che uno dei protagonisti principali faceva dell’epiteto “cagna maledetta”, riferito a un’attrice particolarmente incapace e presuntuosa. E’ una rappresentazione: può riuscire o meno, può essere più o meno gradevole ed efficace, ma tale rimane. 2) La citazione, invece, non è una rappresentazione: è uno strumento linguistico come tutti gli altri. Si fa uso di una frase nota, o riportata, perché la si ritiene più efficace di qualsiasi altra nostra scelta, o perché porta con sé, in quanto citazione, tutta una serie di significati e connotazioni che sarebbe troppo lungo esplicitare singolarmente. Non c’è alcun intento artistico o rappresentativo: è una comunicazione che si sceglie perché ritenuta migliore delle nostre parole. Quindi anche se si tratta di testo altrui, quando la scelgo la faccio mia, è lì al posto delle mie parole: la responsabilità di quella comunicazione e dei suoi significati è mia, è diretta verso un interlocutore reale e fa riferimento a persone reali - non c’è alcuna rappresentazione.
Rappresentare il sessismo non è sessismo; citare un insulto sessista al posto delle proprie parole invece sì. Altrimenti ogni insulto sessista sarebbe lecito, perché ogni insulto sessista è già comparso più volte in film, romanzi, racconti, serie. Questo uomo no.
Fosse tutto qui non ci sarebbe neanche da sprecare un post in un blog. Ma il bello deve ancora venire. Sollecitato da chi non vuole affatto rimanere in silenzio davanti ai casi di sessismo (in questo caso la mia amica Enrica Beccalli, su twitter), il nostro fa sparire la citazione e cambia il titolo del suo pezzo online in un più mite “Ripropone faccette e temi tipici dei suoi programmi quotidiani”, poi fornisce la seguente piccata spiegazione: 
Tumblr media
Spiegazione che dimostra proprio che di sessismo costui non capisce nulla, dato che riesce - e questo merito gli va dato - a usare come propria scusante esattamente il motivo per cui gli va imputato un insulto sessista: “mai nella vita”. Cioè sostiene che lui è un uomo che non oserebbe mai dare della cagna a nessuna donna poco dopo averlo fatto nel titolo di un articolo di giornale. Questo uomo no.
Credo nella buona fede di Giuseppe Candela, perché l’ho vista agire tante volte in tanti uomini - e perché non c’è nessun bisogno di pensare che lui sia uno animato da sentimenti tanto ostili (mentre per lui chi gli fa notare il suo sessismo è un “hater”). Moltissimi uomini scambiano ancora il linguaggio ironico e la rappresentazione artistica dell’insulto come la possibilità di dire quello che gli pare solo perché 1) stanno “scherzando” 2) l’ha detto un altro, io l’ho solo citato. Dimenticando - o ignorando del tutto - che il meccanismo ironico ha delle leggi precise, che si può essere poco capaci a usarlo, e che la citazione è una scelta quindi non toglie alcuna responsabilità nel suo uso. E dimenticando l’immenso patrimonio di sessismi depositato nel nostro linguaggio ordinario che continua a fare male del tutto ingiustamente non solo a chi è diretto - l’attrice pessima va giudicata in quanto attrice pessima, e non in quanto donna - ma anche a tutte le donne, come fa qualsiasi insulto sessista. Ogni tipo di razzismo colpisce un intero gruppo sociale, qualsiasi forma assuma. Questo uomo no.
Per gli esperti di performance cinematografica: lo so quali sono gli usi linguistici nell’ambiente cinematografico. Ma ciò non toglie alle parole il peso che hanno, soprattutto se ce l’hanno da prima che un qualsiasi “ambiente” le abbia fatte sue - tra l’altro, ogni “ambiente” ha il suo arsenale sessista. Non risulta che l'uso di "cagna" per un'attrice sia usato tanto frequentemente come "cane", visto che l'uso insultante per le donne, a sfondo sessuale, è attestato molto prima di quello per gli attori - e tra l’altro, è proprio nell’ambiente dello spettacolo che le donne sono storicamente più insultate sessualmente per il loro lavoro. Un rapido sguardo alle varie divisioni del Treccani online può confermarlo facilmente. Come mai per "cane" non c'è registrato alcun insulto a base sessuale mentre per "cagna" non c'è alcuna occorrenza di allusioni alla scarsa professionalità? Anche le parole hanno storie diverse a seconda del genere. ‘Cagna’ è talmente poco legato alla professione, quando detto a una donna, che esistono femministe e gruppi di femministe che si nominano “cagne” proprio per riappropriarsi di questo insulto come scelta di autodeterminazione.
A proposito di umorismo: fa decisamente ridere che chi accusa altri di “analfabetismo televisivo” non abbia capito l’intento principale della serie televisiva di cui cita una nota battuta. Ma forse sono cose che capiamo solo noi “haters”. Questo uomo no.
6 notes · View notes
paoloxl · 5 years
Link
Il 24 gennaio 2019  si celebra per la prima volta la Giornata Mondiale dell’Educazione voluta dall’UNESCO per sottolineare l’importanza della scuola. La scuola ricopre un ruolo primario nella crescita dei bambini e degli adolescenti: aiuta infatti i ragazzi a prendere consapevolezza delle proprie potenzialità che, opportunamente sviluppate, diventano abilità e competenze di un futuro cittadino.
Se da un lato può aiutare gli studenti a raggiungere il loro pieno potenziale e a sviluppare i loro talenti e le loro abilità, dall’altro rischia di rinforzare il divario e le ineguaglianze.
Gli studenti che maggiormente rischiano di far parte di quei fenomeni che oggi si definiscono ‘dispersione scolastica’ o ‘fallimento formativo’ sono i bambini e gli adolescenti stranieri. Uno degli elementi attraverso cui comparare il percorso scolastico degli studenti italiani e stranieri consiste nell’analisi degli esiti scolastici. I risultati scolastici, infatti, forniscono un quadro articolato sul livello e sulla qualità delle competenze acquisite dagli studenti. I risultati degli studi internazionali di valutazione degli studenti PISA (Programma per la valutazione internazionale degli studenti) mostrano che gli studenti immigrati hanno prestazioni generalmente inferiori rispetto agli studenti italiani.
“Garantire entro il 2030 ad ogni ragazza e ragazzo libertà, equità e qualità nel completamento dell’educazione primaria e secondaria che porti a risultati di apprendimento adeguati e concreti” Obiettivi globali per lo sviluppo sostenibile, 2015, Obiettivo 4.1 -
Rendimenti scolastici inferiori per gli studenti  immigrati nei paesi più ricchi
L’UNICEF ha svolto uno studio sui 41 paesi più ricchi del mondo, inclusa l’Italia, per cercare di capire la relazione tra disuguaglianza e fattori come la situazione socio-economica familiare, il contesto migratorio, il genere dello studente e le caratteristiche degli istituti scolastici. Il contesto migratorio è stato identificato come un fattore centrale per la performance degli studenti: gli studenti che si trasferiscono in un paese nuovo si trovano a dover affrontare problematiche che incidono (direttamente o indirettamente) sul loro progresso educativo.
Le problematiche che devono affrontare gli studenti stranieri includono l’adattamento ad un diverso stile di vita e ad un nuovo sistema scolastico, la necessità di imparare una nuova lingua e la difficoltà di fare nuove amicizie. Bisogna poi considerare l’aspetto psicologico ed emotivo: gli studenti potrebbero avere avuto traumi prima o durante il viaggio, oppure potrebbero essersi dovuti confrontare con pregiudizi e reazioni negative all’arrivo nel nuovo paese. Anche i figli di immigrati si trovano ad affrontare alcune di queste problematiche. Qual è quindi il rendimento scolastico dei ragazzi immigrati o dei figli di immigrati nei paesi ricchi?
Basandosi sui dati PISA [1] del 2015, il grafico sottostante mostra la percentuale di quindicenni che non ha raggiunto il livello base di capacità di lettura nella lingua di svolgimento dei test suddivisi per status migratorio (non immigrati, seconda generazione, prima generazione). Vengono considerati i paesi in cui almeno il 5% dei bambini è nato all’estero e i paesi sono classificati in base al divario assoluto tra non immigrati e immigrati di prima generazione.
Nella maggior parte dei paesi, i ragazzi immigrati di prima generazione [2] ottengono punteggi significativamente più bassi in lettura rispetto agli studenti non immigrati (definiti come bambini o ragazzi che hanno almeno un genitore nato nel paese, indipendentemente dal fatto che essi siano o meno nati in quel paese).
In 15 paesi su 25, gli studenti immigrati di seconda generazione [3] riportano punteggi considerevolmente più bassi in lettura rispetto agli studenti non immigrati.
Detto ciò, ci sono alcuni paesi, come l’Australia, la Nuova Zelanda e il Canada, in cui la differenza tra ragazzi immigrati e i loro coetanei nativi non risulta statisticamente significativa. In casi eccezionali, i risultati dei ragazzi immigrati sono addirittura migliori rispetto agli studenti nativi. Le differenze dell’Australia e del Canada possono essere spiegate riflettendo sui modelli storici di immigrazione tipici di questi paesi. L’OCSE infatti identifica l’Australia, il Canada e la Nuova Zelanda come “paesi di insediamento”, dove l’immigrazione fa parte del patrimonio del paese, e dove spesso gli immigrati possiedono un elevato livello di istruzione e condividono l’inglese come prima lingua.
In Italia, secondo il Ministero dell’Istruzione e dell’Università e della Ricerca [4], nel complesso si conferma una netta tendenza: gli studenti italiani ottengono punteggi superiori alla media nazionale, in ogni livello scolastico e in tutte  le prove rispetto ai loro compagni immigrati. Inoltre, coloro che provengono da stati non UE ottengono risultati  di gran lunga inferiori a quelli degli studenti italiani.
Fonte: Unicef
L’ipotesi della ‘generazione ponte’
Secondo Paolo Barabandi [5], il gap di apprendimento è più marcato tra studenti nativi e studenti immigrati di prima generazione rispetto alle differenze tra studenti nativi e immigrati di seconda generazione.
Questo perché, secondo Colombo (2014: p. 69), «vengono meno le barriere linguistiche, in alcune famiglie si assume l’abitudine di parlare la lingua del paese di arrivo in coincidenza con la crescita dei figli, i genitori stessi tendono a migliorare la propria posizione sociale aumentando gradualmente reddito, livello occupazionale e in qualche caso anche il capitale culturale (attraverso la partecipazione a programmi di alfabetizzazione e formazione degli adulti)»
Anche secondo lo studio del Ministero dell’Istruzione e dell’Università e della Ricerca, la differenza è più marcata tra nativi e studenti stranieri di prima generazione, mentre rispetto alle seconde generazioni il gap è più ridotto. Anche se in nessun caso gli alunni stranieri riescono a ottenere un punteggio simile a quello ottenuto dagli studenti italiani, sono gli studenti di seconda generazione a conseguire risultati più simili (seppure sempre inferiori) ai nativi, rispetto alle prime generazioni.
Cosa si può fare per ridurre la disuguaglianza a scuola?
Lo studio dell’UNICEF mostra che i paesi possono avere prestazioni educative medie molto simili ma livelli di disuguaglianza educativa decisamente diversi. Questo dato suggerisce che ridurre le disuguaglianze è possibile.
Alcuni principi generali suggeriti per ridurre le disparità tra studenti nativi e stranieri sono:    1. Garantire istruzione e cura di alta qualità nella prima infanzia a tutti i bambini - Garantire che tutti i bambini abbiano accesso a opportunità di apprendimento prescolare di alta qualità svolge un ruolo importante nel ridurre le disuguaglianze socio-economiche esistenti all’inizio del percorso scolastico.    2. Assicurare che tutti i bambini raggiungano un livello minimo di competenze di base adeguato - Un test chiave per qualsiasi sistema educativo è verificare che fornisca a tutti i bambini le competenze di base necessarie per partecipare pienamente alla società.   3. Produrre dati e statistiche migliori - Non ci sono sufficienti studi e statistiche per capire come le disuguaglianze si sviluppano e persistono in diversi contesti. SI profila quindi la necessità di produrre dati oggettivi di alta qualità, transnazionali e comparabili.
Nella pratica, alcune raccomandazioni alle scuole includono:    1. Fornire supporto linguistico agli alunni stranieri. La barriera linguistica è uno dei maggiori fattori che provoca la mancanza di interesse e la scarsa motivazione degli studenti. Di conseguenza, promuovere l’insegnamento della lingua italiana per gli alunni stranieri potrebbe rendere a loro partecipazione in classe effettiva ed efficace.    2. Evitare l’elevata concentrazione di ragazzi stranieri nelle classi. I peggiori rendimenti scolastici degli alunni stranieri sono correlati principalmente ad una alta concentrazione nelle classi di studenti provenienti da famiglie con condizioni socioeconomiche svantaggiate. Di conseguenza, nella formazione di una classe si dovrebbe tener conto non soltanto della presenza di alunni stranieri ma anche sulle condizioni socio-economiche degli studenti.    3. Coinvolgere le famiglie degli alunni immigrati e impiegare i mediatori culturali.  Le famiglie sono di solito più restie all’integrazione completa o incontrano più difficoltà nell’adattarsi alla nuova cultura rispetto ai figli. La famiglia ricopre un ruolo importante nella vita dello studente
Per maggiori informazioni:   L’articolo della Repubblica Sul sito di UNICEF Italia
BIBLIOGRAFIA Barabandi P. La disuguaglianza di performance tra studenti nativi e stranieri in Italia e nell’UE. Uno studio attraverso l’indagine OCSE-PISA 2012.
Chzhen, Yekaterina; Gromada, Anna; Rees, Gwyther; Cuesta, Jose; Bruckauf, Zlata (2018). An Unfair Start: Inequality in Children’s Education in Rich Countries, Innocenti Report Card no. 15, UNICEF Office of Research - Innocenti, Florence.
Colombo M. (2014), Gli esiti scolastici degli alunni con cittadinanza non italiana, in MIURFondazione ISMU (2014), Alunni con cittadinanza non italiana. L’eterogeneità dei percorsi scolastici. Rapporto nazionale a.s. 2012/2013, Fondazione ISMU, Milano, pp. 69-89.
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (2016) Rapporto nazionale. A.s. 2014/2015. Alunni con cittadinanza non italiana La scuola multiculturale nei contesti locali.
OCSE, PISA 2015 Results, Vol. I: Excellence and Equity in Education, OECD Publishing, 2016.
Note
[1] L’indagine PISA (Programme of International Students Assessment), promossa dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha una cadenza triennale ed intende monitorare le competenze dei quindicenni in alcuni ambiti fondamentali, necessari per formare cittadini attivi, giovani e poi adulti capaci di affrontare le sfide della società moderna e in grado di apprendere lungo tutto il corso della vita. Gli ambiti valutati sono lettura, matematica e scienze.
[2] (ovvero i bambini e ragazzi di origini straniera i cui genitori sono entrambi nati all’estero)
[3] (ovvero coloro che sono nati nel paese da genitori nati entrambi all’estero)
[4] Il Rapporto nazionale ‘Alunni con cittadinanza non italiana: La scuola multiculturale nei contesti locali’, realizzato da un gruppo di lavoro composto dai ricercatori della Fondazione Ismu e dai rappresentanti del Ministero dell’Istruzione e dell’Università e della Ricerca, si propone di approfondire, con analisi statistiche puntuali, le caratteristiche della presenza degli alunni con cittadinanza non italiana in tutti i livelli scolastici
[5] Basandosi sui dati PISA del 2012, Paolo Barabandi ha analizzato le disuguaglianze sociali legate allo status di cittadinanza degli studenti nel contesto formativo italiano
1 note · View note
italian-malmostoso · 6 years
Link
da “Il Corriere della Sera”, edizione del Veneto, 13 luglio 2018
«VENEZIA Un dentista appende nello studio un cartello di avviso ai pazienti in cui scrive che la moglie «è stata aggredita da un negro» invitando a riflettere «sulle responsabilità politiche di tutto questo» e si scatenano le polemiche. Accade a Mestre nell’ambulatorio del dottor Pierantonio Bragaggia: ha firmato di suo pugno un avviso raccontando quanto successo alla moglie. «Ieri è stata aggredita al Parco Albanese da un negro - riporta il cartello, definendo l’accaduto «inaccettabile» - che dopo averla sbattuta a terra ha cercato di rubarle il cellulare e la bicicletta. È stata salvata da un passante che si è messo a gridare». Pazienti infastiditi dall’uso del termine «negro » e la notizia in breve ha fatto il giro del web suscitando molte reazioni.
La condanna dell’Ordine dei medici
Tra queste quelle del presidente dell’Ordine dei medici e degli odontoiatri della provincia di Venezia Giovanni Leoni. «Come medici per giuramento curiamo e accogliamo le persone indipendentemente dal colore, razza e professione - spiega - . L’attività delinquenziale è da condannare in senso lato, a prescindere dal colore della pelle. Il termine negro può essere inteso come dispregiativo». Bragaggia non si pente di quanto scritto e annuncia che ha presentato denuncia per ciò che è accaduto. «Nel Devoto Oli negro vuol dire appartenente alla razza negra - sottolinea - perché le cose vanno dette senza giri di parole. Se scrivevo straniero di colore poteva essere indiano, cinese, ma il mio intento - aggiunge - non è colpire chiunque, ce l’ho con lui, con quello che ha aggredito mia moglie».
Lo dico da un pezzo, e da tempi non sospetti (cioè ben prima delle ultime elezioni del 4 marzo scorso): il centrosinistra, le sinistre (tante e forse più degli sbarcati) e la chiesa hanno fatto e stanno lavorando per la lega e le destre decisamente più e meglio di quanto non facciano queste ultime.
Mi spiego meglio: la poca trasparenza e l’assenza di comunicazione su quante persone si prevedeva di accogliere, in quanto tempo decidere se avessero avuto o meno il diritto di rimanere, che fare degli altri, dove e come prenderli in mare, accertarsi a che organizzazioni appartessero le varie navi ONG, tenere sotto controllo i costi per la gestione degli sbarcati, prevenire infiltrazioni della malavita, reprimere con decisione i reati commessi dai nuovi arrivati, soprattutto per evitare l’inevitabile (scusate il gioco di parole) scontento e risentimento della popolazione italiana, l’insistenza oltre ogni limite sullo ius soli, eccetera.
Tutta questa opacità non solo ha eroso il loro elettorato, ma ha anche provocato la reazione contraria alle aspettative delle suddette sinistre, con l’ottenimento del risultato contrario a quanto voluto, cioè il rigetto totale di ogni forma di pietà e di forma di rispetto, anche linguistico, come in questo caso.
Adesso puntare sulle solite parole d’ordine, umanità, accoglienza, bontà, può solo peggiorare la loro presa sull’elettorato italiano. Guardare le cose in faccia e fare un esame di coscienza, cari amici piddini, liberiuguali e poterialpopolo può solo farvi bene.
Ma che sto a dire, tanto mi darete del fascista o fascioleghista, che non sapete fare altro, senza argomentare un piffero.
9 notes · View notes
mostrogobbo · 6 years
Text
Analisi capitolo 99 e teorie strambe associate (per la pagina di Zio Aristofano, oggi fb non collabora)
Ecco il COMMENTONE. Per renderlo più digeribile proverò a spezzarlo in micro-argomenti, perdonatemi l'usuale prolissità e i concetti spesso aggrovigliati ma di cose da dire che ne sono tanteTROPPE.
Inizio con una teoria che ho imbastito (perchè sono pazza) dal capitolo 97, ossia che Isayama inserisca dei messaggi decisamente più profondi di quelli che si possono percepire in superficie sulle sue tavole. Mi riferisco al momento flashback in cui Reiner deve svegliare Bertholdt da una delle sue assurde posizioni. La questione delle posizioni strambe di Bertl per me è sempre stata molto tenera, probabilmente nascondeva il profondo disagio (anche il suo "dormire come un ceppo" citato d Jean) per ciò che stava facendo come se nel sonno dovesse seppellirlo tutto quanto visto che da sveglio, dei tre, è stato forse il più freddo e distaccato almeno all'apparenza. Tuttavia questa posizione mi è sembrata subito più particolare delle altre e mi ha immediatamente ricordato l'arcano maggiore dell'"Appeso": le mani dietro la schiena come se fosse legato, le gambe sovrapposte (nell'Appeso un piede è dietro il ginocchio), il viso sereno nonostante nella carta, l'uomo appeso sia morto o moribondo.
Cito da Wikipedia: nelle rappresentazioni moderne, l'Appeso è un giovane che appare capovolto, appeso per una caviglia al ramo di un albero o allo stipite superiore di una cornice. Ha una gamba piegata dietro l'altra e i polsi dietro la schiena, presumibilmente legati (Tarocchi Visconti), poiché la posizione nel complesso è associata a un supplizio pubblico. Alcune correnti eretiche, di matrice gnostica, si identificano in questa lama perché incarnano, nei confronti del mondo, il ribaltamento della fede comune.
Nei mazzi più antichi, in cui l'arcano si chiama "Il Traditore" (ad esempio nei Tarocchi di Carlo VI), l'appeso tiene in mano due sacchetti di monete talvolta stilizzati in semplici sfere, a rappresentare il prezzo del suo tradimento.
Sebbene la carta descriva un supplizio, il giovane appeso viene tradizionalmente raffigurato con un volto sereno, in preda all'estasi più che al dolore o all'umiliazione. In alcuni casi, come nel caso dei tarocchi Rider-Waite, ha anche il volto contornato da una aureola. A questi elementi, oltre che alla intrinseca ambiguità grafica della carta (che si presta a essere osservata capovolta) si riconducono molti dei significati simbolici associati all'Appeso in cartomanzia, che lo associano all'accettazione, all'armonia interiore o alla capacità di trascendere le convenzioni e osservare il mondo da un punto di vista più spirituale.
Fine wikiquote.
Al di là della cartomanzia che lascia un po' il tempo che trova, questa descrizione si adatta perfettamente a Bertholdt che io ho sempre visto come una delle vittime, forse proprio la Vittima con la V maiuscola, quello che ha eseguito freddamente e che alla fine è stato castigato, dimenticato, divorato. Il suo ruolo si acuisce soprattutto nel procedere dei capitoli quando lo notiamo essere rimasto molto colpito dal suicidio dell'uomo presso il quale, assieme a Reiner ed Annie è stato mandato a vivere. E' quasi profetico nel suo ricordare ai due amici le ultime parole dell'uomo come in un mantra, il suo ricercare il perchè del gesto ma soprattutto, il perchè della confessione. Reiner ed Annie, molto più pragmatici, quasi non lo ascoltano ma Bertholdt riflette molto su questa cosa, stretto nel suo ruolo di vittima e traditore assieme.
Con il procedere dei capitoli ho provato a prestare attenzione a questi segnali nelle tavole e durante la preparazione del festival di Marley, notiamo molte volte la figura del pagliaccio soprattutto in relazione al gruppetto di Gabi&Co. Se in qualche modo ho cercato naturalmente di associare a Reiner la carta della "Forza", alla fine mi sono dovuta ricredere seguendo le invisibili linee tracciate da Isayama (o forse perchè sono pazza 2.0) e sono finita con l'associarlo alla carta del Matto che nelle illustrazioni popolari è spesso rappresentato con un costume da giullare.
Nella cartomanzia rappresenta l'energia originaria del caos, l'innocenza e la follia. In alcuni tarocchi un cane o un animale lo assale o lo segue. Nei tarocchi Rider-Waite l'uomo cammina sull'orlo di un precipizio e in alcuni mazzi l'uomo ha anche un bastone da passeggio, e quasi sempre è raffigurato nell'atto di camminare, noncurante del disturbo dell'animale o del pericolo che sta correndo.
La potente relazione fra Bertholdt e Reiner sembra esprimersi direttamente in questa carta dove abbiamo il Matto oramai distaccato dalla realtà che cammina sull'orlo del precipizio e la fiera che lo minaccia o lo avverte a seconda del momento. Quante volte Bertholdt ha cercato di tenere il suo amico aggrappato alla loro missione prima che si dissociasse del tutto, perdendolo, infine, solo dopo essere morto?
Ci sarebbe un Arcano Maggiore per tutti i personaggi ma siccome sento in distanza le sirene della neuro che vengono a prendermi, torno al punto.
Il COMMENTONE inizia sul serio, ora.
Ma Falco quanto meriterebbe un abbraccio e una merenda con latte, pane e Nutella? Insomma, è chiaramente il bambino più buono del mondo, spero sinceramente riesca a riprendersi dallo shock di aver infilato Reiner in un potenziale tritacarne con i denti aguzzi...
- Teiber e Magath -
Willy ha il gusto per il dramma e per le cose di forte impatto. Sembra abbia un bisogno fisico che tenere lo sguardo di tutti, popolino appeso alle finestre, ambasciatori e giornalisti nelle prime file, inchiodato sul palco dove si avvicendano le scene della storia di Eldia e di Marley fino a dove tutti le conoscono. Ci accorgiamo subito che questa "interpretazione" lo sta provando: è solo molto nervoso perchè, qualcosa dovesse andare storto, il suo piano andrebbe letteralmente a donnine oppure c'è qualcosa d'altro che nessuno sa? Neppure il suo nuovo amico Magath?
E a proposito di Magath, che si trova a capo della sorveglianza dell'area: Alto Comando di Marley dormi pure sonni tranquilli perchè Theo Magath con i fucili pronti all'uso ha probabilmente già fissato un bersaglio sulle vostre fronti. Ho la sensazione che il colpo di stato sia molto vicino e che, come tale, richiederà il sangue dei potenti per poter rinnovare del tutto la società come si augura Teiber. Ma siamo davvero sicuri che sia Teiber il grande burattinaio?
C'è un'altra persona che sembra molto tesa ma in maniera diversa, la sua è una tensione più statica, un'immobilità quasi ascetica di chi sta sentendo fluire gli eventi già programmati attorno a sé come se ogni pezzo di un immaginario Tetris si stesse sistemando esattamente dove lo voleva.
- Zeke -
Ci siamo abituati a vederlo fuori dalla sua "Bestia" come un giovane uomo piuttosto dimesso, uno che accontenta i superiori nella maniera in cui i superiori lo desiderano, che si fa sottovalutare e che si nasconde con abilità dietro l'ombra del buon coordinatore dei Warrior, che quando dice una cosa e viene sgridato come un cucciolo che ha fatto pipì sul tappeto non se la prende nemmeno con uno sguardaccio. Ma noi ce lo ricordiamo Zeke sul campo di battaglia di Shiganshina, come una specie di dio della guerra che macinava cadaveri senza alcun tipo di rimorso negli occhi. Nelle ultime pagine, vediamo Zeke stretto in una postura molto contenuta, spesso con le mani chiuse in grembo, nessuna parte del suo corpo sembra rilassata. Nella vignetta in cui il soldato misterioso richiama lui, Pieck e Galliard è l'unico a fissare dritto o in basso, le mani strette sulle ginocchia, la schiena rigida. Gli altri sono rilassati, scherzano con i bambini più piccoli, sono pronti a godersi lo spettacolo o nel caso di Porco "non mi divertirò affatto!" (adoro il suo essere sempre così incarognito). Credo che il soldato misterioso possa davvero essere Connie (anche se Isayama me l'ha fatto crescere di sessanta centimetri...) e che abbia fatto finire Pieck e Porco in un posto dove non possano chiedere aiuto, non possano trasformarsi, non possano "farsi male". Sono piuttosto cerca che anche questo facesse parte del piano. Il soldato misterioso, inoltre, chiama Zeke "Jaeger", cosa che non abbiamo mai visto succedere vista la riluttanza proprio di Zeke di associare sé stesso all'odiosa discendenza dei Jaeger.
- Reiner ed Eren -
Qui abbiamo un dialogo molto difficile da capire sotto il primo livello di comprensione. Possiamo supporre un Eren arrivato a Marley arso dalla sete di vendetta, che "non può farne a meno" e "sono venuto a fare quello che hai fatto tu", tipo distruggere ogni cosa. Ma sinceramente, per quanto io abbia considerato sempre Eren un esagitato un po' nevrotico viste le figure di palta che ha collezionato per il suo eccessivo entusiasmo mal veicolato, se non poi riuscire a combinare qualcosa di dritto grazie all'aiuto degli altri o del suo gigante, non credo che sia venuto a Marley dopo quattro anni con questo intento. Non in maniera così banale, almeno. Ricordiamo inoltre le parole di Krueger: "il gigante d'attacco ha sempre combattuto per la libertà" e per quale libertà combatterebbe se fosse venuto fin qui per spappolare famigliole Marleane la cui unica colpa è stata credere alle menzogne governative? Leggendo una lunghissima analisi dal giapponese ho inoltre notato come questo Eren si riferisca a sé stesso in maniera diversa rispetto a come ha fatto sino ad ora. Non provo nemmeno ad approfondire questo argomento perchè non conosco il giapponese e tutta l'analisi era così approfondita che la rovinerei, quindi provo ad offrirvi la versione pasticca liofilizzata. Sembra che questo Eren utilizzi termini che non gli appartengono ma che sembrano più vicini a quelli usati da Krueger in un modo squisitamente linguistico (quindi potrebbe non voler dire niente o, banalmente, che Eren è cresciuto ed è diventato un po' meno pirla). Non ho visto Eren minaccioso verso Reiner: è stato deciso, non poteva sapere come Reiner evidentemente instabile di mente, potesse reagire. Certo, poteva paralizzarsi come ha fatto ma se fosse impazzito del tutto e nel panico si fosse trasformato traducendo l'incontro in una royal rumble da manuale? Quindi Eren lo gela subito, gli mostra la ferita, gli dice in sostanza "mi sto trattenendo, una mossa sbagliata e sbrago tutto il palazzo", quindi gli dice di sedersi e ascoltare la piece teatrale. Dal dialogo di Eren (perchè Reiner, povero, è più una pianta d'arredo a questo punto), leggiamo una consapevolezza nella spedizione dei quattro piccoli Warrior di cui fino a questo punto, dalla parte del Team Paradise non c'è stata traccia. Eren dice "eravate quattro bambini che non sapevano nulla". E a proposito di gente che non sa niente...
- La piece teatrale -
La prima cosa che notiamo è il talento da drammaturgo di Willy. Insomma, one man show, per essere la sua prima opera sembra che piaccia proprio a tutti! Ci raccontano la storia che anche noi conosciamo, lo scontro fra gli otto popoli di Ymir, i giganti, le tensioni e i tradimenti. Ci parla di Helos e del Re Fritz (quanto somiglia a Zeke questo tizio, eh! Pure con questo mantellone che potrebbe coprire la divisa, come se l'avessero vestito in fretta e furia...mhhhh) e ci mostra lo scontro in cui tutti gli attori sono bendati. Questa benda sugli occhi potrebbe essere la metafora per spiegare a tutti come Re Fritz abbia imbastito la pace manovrando i fili grazie alla propria posizione sociale ed al proprio potere di Progenitore. E poi viene sganciata la bomba, la verità rivelata, il fatto che Helos è solo un'invenzione (ma questo piccoletto che interpreta Helos? Sarà mica Levi? Anche qui il gioco delle altezze non è amico di Isayama perchè in un'inquadratura sembra più piccolo di Teiber, che dev'essere alto attorno al metro e settantadue, poi lo vediamo più alto di un dieci centimetri. In sostanza le fazioni si dividono su "E' Levi" o sul "E' Jean".) La faccia del Generale Carby e del suo alto comando sembra un filino di pietra, la tensione cresce fino al suo apice: la rivelazione che l'attentatore alla pace del Re Fritz è Eren Jaeger. Eren aspettava la battuta, ascolta serenamente dallo scantinato. Zeke è sparito, sappiamo che è stato spedito "alla porta principale" ma secondo me è già altrove, o direttamente sul palco con Teiber o con Magath o forse, addirittura alle spalle di Eren e Reiner. Porco e Pieck sono stati messi fuori gioco (ricordiamoci che tutta la zona è stata "preparata" dagli uomini di Teiber quindi potrebbero aver costruito approntato aree per fare... beh, quel che dovranno fare). La misteriosa Kyomi, con il suo sorriso da manekineko, assicura a Teiber il suo supporto... se ne sarà andata? O sarà lì attorno pronta ad intervenire (che sia in qualche modo legata agli Ackerman mi sembra abbastanza evidente).
E insomma.
Sicuramente ho dimenticato mille mila cose, questo numero è stato magnifico, sono sempre più dell'idea che nel 100 sentiremo tuonare "Rains of Castamere" dagli altoparlanti e che la prima battuta sarà "The Jaegers send their regards!"
BOOM, headshot su Carby. Così.
Grazie a Sensei per l'analisi, questo mese ti sei proprio superato! <3
7 notes · View notes
bongianimuseum · 4 years
Text
ARTISTAMPS / Interfolio all'Encyclopedie COVID-19 “La filatelia marginale attiva a servizio dell’arte”
Presentazione della Mostra Collettiva Internazionale
a cura di Sandro  Bongiani
ARTISTAMPS / Interfolio all'Encyclopedie COVID-19
“La filatelia marginale attiva a servizio dell’arte”
 La mostra vuole indagare  un diverso approccio all’arte, alle ricerche in atto. Dopo la Collettiva Internazionale “#Globalviralemergency /Fate Presto”, ecco un altro evento sul problema urgente della pandemia capitalistica globale da Coronavirus 2020 dal titolo “ARTISTAMPS / Interfolio all’Encyclopedie Covid-19”, con una lettura puntuale di come intendere l’Artistamps d’artista. Una indagine planetaria che vuole sottolineare la diversa creatività prodotta dagli artisti “marginali attivi” non uniformati al sistema ufficiale dell’arte. Lo scopo della mostra è stato quello di creare una serie di “Interfoli” collettivi, sei in tutto, per un possibile volume enciclopedico del problema COVID-19 che potesse aggiornare idealmente quel compendio del sapere sulla realtà naturale degli eventi e dei meccanismi che regolano e magari sconvolgono, come per esempio oggi, l’umana l’esistenza. Insomma, una sorta di pagina aggiuntiva inserita in un libro, in una nuova enciclopedia tra pagina e pagina per inserire appunti, - oppure come in questo caso – delle immagini, dei francobolli d’artista  pensati come una interferenza e una presa di posizione tra i dati  noti e meno noti della conoscenza umana.
Con il termine Artistamps, si intendono i "Francobolli d'Artista", le creazioni grafiche degli artisti (francobolli errati, non ufficiali e non postali) che orbitano di preferenza nella Mail Art, nella Poesia visiva e più in generale nella cosiddetta arte Concettuale, opere   che ricordano e reinterpretano in maniera originale le affrancature emesse dai Servizi postali ufficiali delle varie nazioni. Perché possano venire considerati francobolli d’artista (artistamps), i lavori devono avere forma di francobollo, che poi questa forma base venga spesso stravolta fa parte dell’operazione artistica, sempre nel limite che essa  sia ancora riconoscibile e quindi possa essere ancora recepita visivamente in quanto tale. Per far sì che un limite venga davvero superato occorre che ci sia la premessa e quindi l’illusione di avere in mano un “francobollo”. Tuttavia, se sono “in forma di francobollo”, non  vuol dire  necessariamente che i francobolli d’artista “lo sono davvero” quindi, non sono semplici creazioni tipografiche a valore legale in funzione di una reale spedizione postale. Si considera provvisoriamente la forma di un francobollo per indicare una funzione momentanea, per poi, magari  trovare subito dopo un diverso ordine e sbocco linguistico, diventando molto spesso efficace messaggio poetico capace di viaggiare e superare barriere e limiti fittizi. Le opere di Artistamps, spedite per posta viaggiano da un capo all’altro del pianeta e molto spesso si completano con i timbri.  buste, e i francobolli sono la chiara testimonianza di un viaggio che si arricchisce sempre più di nuove proposte comunicative diventando molto spesso  parte dell'opera stessa. Ecco svelato il potere dirompente, trasformatore e liberatorio della parola “In Forma” capace di dominare, nonostante la provvisoria condizione di condividere in parte le caratteristiche base  di un  francobollo.  In questa rassegna  internazionale vengono presentati  6 fogli collettivi di 12 Artistamps ciascuno con 72 opere da altrettanti artisti internazionali che si confrontano sul tema  urgente della pandemia globale COVID -19.
  La Storia dell’Artistamps
 La Mail Art, ideata da Ray Johnson negli anni ’60, nasce come fenomeno artistico “underground” condividendo le proposte del movimento Fluxus: una forma d’arte essenzialmente e totalmente svincolata da giochi di potere e libera da qualsiasi logica produttiva. Thomas Michael Bidner,  (1844-1989),  nel 1982 coniò il termine “Artistamp” (francobollo d’artista). L’aggiunta, poi, di un timbro al francobollo rielaborato in un formato decisamente diverso rispetto ai francobolli ufficiali in corso dei servizi postali alla fine vanno a decretare un diverso stato di appartenenza portando una sorta di riflessione sulle immagini e sui segni di un momento reale o fantastico della vita.
I primi artisti che avevano prodotto francobolli alternativi a quello del vero circuito del cartavalori legale sono  stati alcuni pionieri  come per esempio Karl Schwesig e Michael V. Hitrovo. Karl Schwesing (1898 – 1955), studente all’Accademia di Belle Arti di Dusseldorf, considerato dal regime dittatoriale tedesco un artista “degenerato”, nel 1937 gli venne revocato  il diritto di cittadinanza e poi nel 1940 venne arrestato e internato  in Francia nel Campo Gurs. Durante la permanenza nel campo di prigionia,  - scrive James Warren Felter nel suo libro “Artistamps – Francobolli d’artista - non disponendo di carta per disegnare, egli trovò la bordatura di foglio di francobolli e su questi pezzettini di carta perforata realizzò ad inchiostro alcuni finti francobolli. Ventuno dei francobolli creati a Gurs mostrano uomini, donne e bambini provati dalle condizioni di vita nel Campo. fango, pidocchi, vestiti stracciati, mancanza di cibo, epidemie e morte”. Tre grandi francobolli,  commemorano in particolare, la “Libertà, Uguaglianza e Fraternità, mentre un bollo di via aerea raffigura lo Zio Sam nelle vesti  di un’aquila che vola sul Campo recando una cesta di di salvataggio
Un altro personaggio importante della filatelia alternativa e marginale è quello di Michael V. Hitrovo, (1902 – 1984), Kiev (Russia),  poco prima della Prima Guerra Mondiale si divertiva a creare un suo paese immaginario  chiamato dapprima “Reame di Miklandia” e poi semplicemente  “Mikia”. I primi esemplari di francobollo erano semplicemente disegnati.  In seguito incisi su grandi gomme da da cancellare e stampati usando inchiostri ci colore nero, blu, verde, rosso e giallo. Nel 1937 ricreò circa ottocento francobolli del reame di Mikia. Tra i primi e più noti esemplari di francobolli d’artista documentati, è sicuramente  un bel francobollo dipinto completamente di blu nel 1957 da Yves Klein (1928-1962). Artista famoso del Nuovo Realismo di Pierre Restany, inventò un colore originale che battezzò “International Klein Blue” (IKB). Nel 1957 ricoprì 3500 comuni francobolli col colore IKB  oggi conosciuto come il “francobollo Blu” che continuò a utilizzare sui propri inviti fino al 1959. Questa è la prima azione di “Arte postale” di Klein di cui si ha notizia, l’artista  sosteneva che non esistevano limiti obiettivi all'espressione artistica, né nel contenuto, né nella forma. L'unica autorità che riteneva di dover riconoscere era la voce dell'intimo.
Sicuramente un  artista per certi versi importante di questo genere d’arte è stato Ray Johnson, artista di controtendenza rispetto   alle proposte  ufficiali degli anni 60’ del mercato dell’arte. Ai margini di un sistema, nel 1962 aveva creato con  la New York Correspondence School (NYCS) una rete di comunicazione postale facendo uso di disegni e collage  inviati per posta ai suoi corrispondenti sparsi in tutto il mondo. Pioniere dell’artistamp, aveva realizzato un intero foglio di cinquanta francobolli tutti diversi in bianco su fondo nero con la scritta “Andy Warhol”. Da questo momento i francobolli d’artista sarebbero diventati un genere da trattare di questa nuova forma espressiva.
Negli stessi anni  Guglielmo Achille Cavellini crea la serie interessantissima di lavori prodotti su carta che si sviluppa a tutti gli anni novanta, (anno della morte). Ci sembra doveroso sottolineare anche la produzione “in forma di francobollo” di che dal 1998  a oggi ha realizzato una sessantina di francobolli  tutti di grande qualità e bellezza. Molti artisti degli ultimi decenni hanno provato a esercitare questo controllo del mondo miniaturizzato, in scala. Ad esempio, nei lavori di dopo la serie dei Viaggi postali del 1970, inizia una serie di lavori con i  francobolli apposti sulle buste che esaudiscono tutte le possibili combinazioni e permutazioni.  Scrive: "ho usato i francobolli per i loro colori come un artista usa un pennello o i pastelli”, con  una serie diversificata e originale di combinazioni “seriali” e matematiche.
Tra gli anni 60’ ne 70”, solo per fare qualche nome, artisti come per esempio Donald Evans, James Felter, Lamberto Pignotti, , David Hockney, Ralph Steadman e Allen Jones,  Ruggero Maggi,  Paolo Scirpa, Marcello Diotallevi, Mauro Molinari, Alighiero Boetti, Carl T. Chew, e per certi versi anche il giovane artista italiano Flavio Favelli, che collocato giustamente  al di fuori di una concezione consueta dell’artistamps, hanno prodotto nel tempo originali francobolli d’artista, facendo emergere la lucida esigenza di analizzare in un diverso rapporto d’indagine la fattibilità concreta e immaginativa delle proposte.
Ormai, molti artisti soprattutto postali e concettuali si costruiscono il proprio francobollo, che diviene così un messaggio nel messaggio. un’arte che si accontenta delle piccole dimensioni d’un francobollo per poter viaggiare più comodamente e gratuitamente superando barriere e limiti. Tra i prodotti mail-artistici più curiosi, i francobolli hanno un fascino davvero particolare includendo le ridotte dimensioni racchiudono un mondo in cui l’arte sovverte un codice - quello postale - fatto di formato, contorno per lo più dentellato, iconografia, indicazione dello stato ed infine del valore. Un’arte, quindi, apparentemente inoffensiva, spesso potenzialmente divertente, capace però di superare lunghe distanze planetarie, innescando tramite una sorta di «cavallo di Troia» meccanismi relazionali e comunicativi e soprattutto veicolare il proprio messaggio in relazione ad una filatelia alternativa che io chiamo “di frontiera”, contrassegnata dalla più sfrenata e originale invenzione poetica.    Ne abbiamo una lucida prova anche in questa rassegna con la presenza di diversi importanti artisti che hanno segnato la storia  avventurosa dell’Artistamps internazionale.  Sandro  Bongiani
 Lo Spazio Ophen Virtual Art Gallery di Salerno (http://www.ophenvirtualart.it/) nasce nel 2009 come uno spazio sperimentale cercando da subito  di far capire che la sola legge del mercato non necessariamente prevale sul dato culturale e creativo. Anzi, molto spesso la produzione alternativa degli artisti cosiddetti “ di confine” raggiunge altissimi livelli innovativi e poetici al di sopra dagli standard imposti dal sistema ufficiale dell’arte contemporanea proprio perché gli artisti che io considero “marginali attivi" si trovano volutamente a condividere un nuovo modo d’intendere la comunicazione al di fuori di un normale e asettico circuito di norma commerciale. 
 Artisti presenti: Adolfina De Stefani  ITALIA I Alberto Vitacchio  ITALIA I Alessandra Angelini ITALIA I Alessandra  Finzi  ITALIA I Alexander Limarev RUSSIA I Alfonso Caccavale ITALIA I Anna Boschi ITALIA I Antonio Sassu ITALIA I Bruno Cassaglia ITALIA I Calogero Barba ITALIA I Carl T. Chew USA I Carla Bertola ITALIA I Cinzia Farina ITALIA I Claudio Grandinetti ITALIA I Claudio Parentela ITALIA I Claudio Romeo  ITALIA I Coco Gordon USA I Emilio Morandi ITALIA I Enzo Patti ITALIA I Ernesto Terlizzi ITALIA I Fernando Aguiar PORTOGALLO  I Filippo Panseca ITALIA I Francesco Aprile ITALIA I Franco Di Pede ITALIA I Franco Panella ITALIA I Gabi Minedi ITALIA I Gennaro Ippolito ITALIA I Gianni Marussi ITALIA I Giovanna Donnarumma ITALIA I Giovanni Bonanno ITALIA I Giovanni Fontana ITALIA I Giovanni Rubino ITALIA I Giuseppe  Denti  ITALIA I  Guido Capuano ITALIA I Ina Ripari  ITALIA I Ivana Frida Ferraro ITALIA I Jack Seiei GIAPPONE I James  Felter CANADA I John M. Bennett USA I John Held  USA I Jose Molina SPAGNA I Kiki Franceschi ITALIA I  Lamberto Caravita  ITALIA I Lamberto Pignotti ITALIA I Lars Schumacher GERMANIA I Leonor Arnao  ARGENTINA I Linda Paoli ITALIA I Luc Fierens  BELGIO I Lucia Spagnuolo ITALIA I Luisa Bergamini ITALIA I Maria Credidio ITALIA I Mariano Bellarosa ITALIA I Maribel Martinez  ARGENTINA I Mauro Molinari ITALIA I Maya Lopez Muro  ARGENTINA I Natale Cuciniello ITALIA I Oronzo Liuzzi  ITALIA  I  Paolo Gubinelli  ITALIA I Paolo Scirpa ITALIA I Patrizio Maria  ITALIA I Pier Roberto Bassi ITALIA I Patrizia Tictac GERMANIA I Rachelline Centomo MESSICO I RCBz USA I Reid Wood USA I  Rosalie  Gancie USA I Ruggero Maggi ITALIA I Ryosuke Cohen GIAPPONE I Serse Luigetti ITALIA I Teo De Palma  ITALIA I Virgilia Milici  ITALIA I Vittore Baroni ITALIA.
 SPAZIO OPHEN VIRTUAL ART GALLERY
0 notes
pangeanews · 4 years
Text
“Scrivo contro i libri sfrontatamente consumistici, i libri inventati dall’industria, insomma le monete false”. Sulla salutare ferocia di Giovanni Raboni
«Una stroncatura, pur che abbia un minimo di fondamento, serve alla buona salute della letteratura cento volte di più, non solo del silenzio, ma anche di un elogio infondato». Così scriveva Giovanni Raboni sul Corriere della sera il 25 luglio 1998, e questa convinzione ha guidato anche Luca Daino nel confezionare l’antologia di stroncature raboniane, pubblicata da Mondadori con il titolo Meglio star zitti? – Scritti militanti su letteratura cinema teatro (Milano 2019). Giovanni Raboni poeta (1932-2004) è monumentalizzato nel Meridiano Mondadori del 2006 e in Tutte le poesie 1949-2004 (Einaudi 2014), ma non era soltanto un grande e talora grandissimo poeta: sommo traduttore dell’intera Recherce proustiana, è un esemplare forse irripetibile di critico militante, ed era giusto rendere accessibile anche questo versante della sua multiforme attività.
*
L’orizzonte culturale di Raboni è segnato dalla scuola fenomenologica milanese di Enzo Paci, dove ha appreso, come dice Daino, «l’attitudine a “far apparire l’oggetto”, cioè ad ascoltare i testi, a interrogare l’incontro con essi muovendo da una vigorosa attenzione osservatrice e descrittiva». E il criterio di Raboni critico è di distinguere il vero dal falso: nel caso, i libri autenticamente originali dalla profluvie cartacea immessa dall’industria culturale e sollecitata dalle mode. Per esempio, a proposito del bestseller La Compagnia dei Celestini di Stefano Benni, «annoverato fra gli autori che una parte non irrilevante della critica si ostina a considerare barocchi o neogaddiani», a Raboni tali autori «sembrano soltanto mediocri falsari che tentano di dissimulare sotto roselline di stucco, incrostazioni di finta madreperla e glasse colorate la superficie di una scrittura non meno piatta e desolata del retro di un casamento popolare».
*
Mi trovo quasi sempre d’accordo con le valutazioni di Raboni, con due eccezioni importanti. La prima riguarda Milan Kundera, del quale Raboni giustamente considera capolavoro Lo scherzo, ma poi avrebbe «abbandonato la strada maestra dell’implicito cioè della metafora narrativa, per il viottolo asfaltato dell’esplicito, cioè dell’aforisma e della struttura a vista». L’insostenibile leggerezza dell’essere segnerebbe poi «la sua resa definitiva alla confezione di lusso, all’esibizione del paradosso, allo smercio dell’intelligenza in pillole». Troppo severo. E dire che Raboni era amico di Kundera fin da quando era ostracizzato a Praga: ma succede di essere più esigenti con gli amici che con gli estranei. L’altra eccezione riguarda nientemeno che Jorge Luis Borges. Raboni ritiene capolavori Finzioni e L’Aleph, ma poi «la produzione di Borges si è fatta smisurata e ripetitiva e, da ultimo, decisamente insignificante». Al punto che «il nostro tempo verrà ricordato, con grave e (speriamo) compassionevole stupore, come quello in cui si è potuto credere che Jorge Luis Borges fosse un grande scrittore». Eh, no. Personalmente, continuerò a rileggere Borges fino alla (lontanissima) fine dei miei giorni, e, del resto, uno che ha saputo definire la guerra tra Gran Bretagna e Argentina per il possesso delle isole Falkland (o Malvinas, 1982) «la lotta di due calvi per un pettine», merita comunque il Nobel. Pienamente d’accordo, invece, con il drastico ridimensionamento di Italo Calvino e di Stefano D’Arrigo, di Gibran e anche di Guareschi. Doveroso (e divertente) lo smantellamento di Umberto Eco romanziere: «Il nome della rosa è l’ingegnosa imitazione in legno di balsa o in polistirolo dei grandi romanzi che una volta si costruivano in pietra e mattoni»; e «un’autentica patacca è l’ultimo romanzo di Eco» (la stroncatura è del 24 febbraio 1990, quindi è da riferirsi a Il pendolo di Foucault).
*
Quanto al cinema, «lo stile registico di Alberto Bevilacqua [nella Califfa] appartiene (come d’altronde la sua prosa) al peggior dilettantismo, quello di chi non ha il coraggio d’essere un dilettante e cerca di nascondere la propria insipienza linguistica fingendo ambizioni che non ha». E non si salva neppure le musica di Morricone, che «sembra tolta di peso da un documentario sulla pesca delle anguille». In Aprile, di Nanni Moretti, oltre a «qualche banalità antidiluviana sull’omologazione della stampa, nient’altro che la più trita liturgia della delusione e del disimpegno, la più scontata celebrazione dell’impotenza (il documentario “civile” che si vorrebbe fare e non si riesce a fare), il più infantile, dispettoso, insignificante rifugiarsi nelle delizie del privato». Nella recensione al Satyricon di Federico Fellini, Raboni esprime una sentenza che vale per tutto il lavoro del grande regista: «Un poeta può anche ignorare il significato e la portata della propria visione del mondo; ma non può “impedirsi” di averne una. Mentre con questo film si direbbe che Fellini abbia cercato, più o meno consciamente, proprio questo: “impedirsi” di avere una visione del mondo. Di qui la sua scelta di oscurità, il suo optare per una rappresentazione ciecamente materica, priva di qualsiasi “chiave” e di qualsiasi possibilità di decifrazione».
*
Tra le recensioni teatrali, ecco che cosa Raboni pensava di Zitti! Stiamo precipitando: «L’ultima commedia di e con Dario Fo in scena al Nuovo, mi è parsa così sconclusionata, così priva di senso e di mordente da risultare, alla fin fine, persino indescrivibile (…) Va da sé che qualche momento mimico di Fo (affiancato come di consueto da Franca Rame) è comunque godibile; ma è davvero poca cosa in oltre due ore e mezzo di approssimative, farraginose e innocue scempiaggini». La stroncatura di Raboni è del 3 dicembre 1990. Il 9 ottobre 1997 Dario Fo ricevette dal Re di Svezia il Premio Nobel per la letteratura, con la seguente motivazione: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi».
*
Ma non si deve immaginare che Raboni abbia scritto solo stroncature: Luca Daino, che ne ha scelte 170, nelle pagine finali dell’antologia ha compilato una corposa bibliografia dei testi critici raboniani. Quando nacque il quotidiano Avvenire – dalla fusione del bolognese Avvenire d’Italia con il milanese L’Italia – Raffaele Crovi, che curava il coordinamento culturale del nuovo giornale fortemente voluto da Paolo VI, decise che Giovanni Raboni fosse il critico cinematografico, e io il critico televisivo, mansione che mantenni per oltre quindici anni, cioè fin quando ci fu la televisione, non l’amalgama di immagini, notizie e pubblicità che a tutt’oggi scorre sui teleschermi. Il primo numero di Avvenire uscì il 4 dicembre 1968 e Raboni oltre che di cinema, si occupò di letteratura e di altri argomenti culturali. Daino ha antologizzato diversi articoli extra-cinematografici di Raboni pubblicati su Avvenire, e mi piace ricordarne due sull’industria culturale e sull’editoria di poesia. Il 22 febbraio 1969 aveva scritto: «I libri da stroncare – ammesso che la stroncatura sia l’arma giusta e sufficiente – non sono i bei libri che non ci piacciono, i bei libri diversi da quelli che scriviamo o vorremmo scrivere; ma i libri sfrontatamente e starei per dire scientificamente consumistici, i libri “inventati” dall’industria, insomma le monete false – gli Arpino, i Bevilacqua, i Castellaneta, tanto per citare le prime tre lettere dell’alfabeto – che l’industria vuole imporci (e di fatto, con il prezzolato e colpevole avallo della critica, ci impone) per vere e sonanti». Tornò sull’argomento il 25 luglio 1971, sempre su Avvenire. A proposito della riluttanza degli editori a pubblicare libri di poesia, accampando motivi e/o scuse come la scarsa vendibilità, la ristrettezza del mercato eccetera, Raboni osservava: «Francamente, credo che i motivi siano più profondi, e ideologicamente più pregnanti. La poesia è, da sempre, uno strumento di conoscenza “oppositiva”, di messa in discussione della realtà costituita, insomma (se mi si vuol perdonare l’uso di una parola così logorata dall’uso) di “dissenso”. Ebbene, le industrie editoriali, che evidentemente fanno parte integrante, come strutture, di un sistema che rispecchia e tende a conservare l’esistente, non hanno certo interesse a favorire la diffusione di ciò che può essere portatore di anticorpi, di dubbi, di elementi non epidermici di discussione. Meglio insomma, dal loro punto di vista, un tranquillo, solido romanzo – magari “di sinistra”, magari “sulla contestazione – che non un libro di poesia dove può darsi che la contestazione sia presente, invece, “all’interno”, come progetto linguistico e come visione del mondo».
*
La collaborazione di Raboni con Avvenire si interruppe nell’autunno del 1971, quando il poeta e critico cinematografico, inviato alla Mostra di Venezia recensì con entusiasmo il film I diavoli, di Ken Russell, film profondamente anticristiano, inadatto al pubblico del quotidiano della CEI. Fu una decisione credo consensuale, e comunque inevitabile. Nell’Antologia curata da Luca Daino c’è anche l’intervento di Raboni, sul Corriere del 6 marzo 1994, in mia difesa nella polemica che divampò dopo una mia stroncatura dell’ultima stesura dei Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino. Scrisse Raboni: «Sebbene (l’ho letta e posso testimoniare) la sua [cioè mia] stroncatura palesasse intenzioni e motivazioni esclusivamente letterarie, è probabile che in Cavalleri non si sia visto il critico del quale si mette in dubbio la competenza o non si condividono le opinioni, ma il censore cattolico del quale bisogna respingere l’invadenza: equivoco che, se fosse vero, la direbbe lunga sui complessi di superiorità e insieme di inferiorità di cui la cosiddetta cultura laica continua ad essere alquanto comicamente infarcita». Ho ricordato quel lontano episodio, anche se direttamente mi riguarda, perché dimostra la libertà di spirito di Raboni e denuncia un andazzo della «cosiddetta cultura laica», a tutt’oggi non tramontato.
Cesare Cavalleri
*L’articolo qui pubblicato è edito sull’ultimo numero di “Studi Cattolici” (Febbraio 2020, n.708) come “Giovanni Raboni: non solo stroncature”
L'articolo “Scrivo contro i libri sfrontatamente consumistici, i libri inventati dall’industria, insomma le monete false”. Sulla salutare ferocia di Giovanni Raboni proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2TzQgyk
0 notes
elyontheroad88-blog · 7 years
Photo
Tumblr media
Bama, Regione di Hauts - Bassins, Burkina Faso
Dopo qualche mese di corso, è arrivato per me il momento di vivermi il terreno. Reduce da una fugace dormita a Bobo Dioulasso, accompagnata da un 4x4 decisamente vecchio, mi dirigo verso Bama, un piccolo villaggio a 25 km da Bobo. Al controllo vengo fermata dai militari, che puntualmente mi chiedono il passaporto e mi fanno un sorriso irriverente prima di lasciarmi libera. Intanto, le donne vestite in pagne colorati non perdono l’occasione per chiedermi se voglio acquistare qualche casco di banane, o le favolose arachides zuccherate. 
Bama è una tranquilla cittadina poco distante dal confine con il Mali. Mi sento quasi come se fossi a Dano, con centinaia di occhi che si posano sul mio volto pallido e stanco. 
Subito incontro i membri dell’Unione delle Cooperative di Risicoltori di Bama, che mi concedono qualche chiacchierata per la mia enquète sulla dimensione gender dell’accesso alla terra e la sicurezza alimentare. L’incontro si tiene in una vecchia sala della sede dell’Unione. Davanti a me, quattro uomini ed un solo membro donna. Tutte sono personalità di vertice dell’Unione, e rimango subito colpita dalla loro consapevolezza sulla questione dell’accesso alla terra nei contesti rurali. Allo stesso tempo, percepisco in loro un’esigenza di aiuto. Hanno bisogno che la mia enquète sia il più utile e fatta bene possibile, e questo mi onora e mi inquieta allo stesso tempo. 
Nel pomeriggio mi dirigo verso il Centro delle Donne Etuveuses di Bama, che stanno lavorando il riso paddy raccolto a poche decine di metri da braccia forti e vigorose. E’ un primo contatto che non mi permette di avere informazioni cosi utili alla mia enquète, ma che se non altro mi da il privilegio di farmi un’idea di dove e come trascorrerò i prossimi mesi, quali saranno le mie interlocutrici. Subito ho conferma di ciò che temevo, ovvero l’ostacolo linguistico. Molte delle etuveuses non parlano francese, e nonostante i miei ripetuti tentativi di apprendimento del Dioula, che rimane per me una lingua davvero deliziosa, il mio livello si limita ancora a saluti e ringraziamenti. Inoltre, il fatto di non averle avvertite a tempo, credo abbia rotto qualche strano equilibrio sociale. Le donne mi sorridono gentilmente, invitandomi però a prendere posto su una panca, poiché nessuno per il momento potrà dedicarmi un’intervista. Poco male, ne approfitto per osservarle al lavoro, cercando di familiarizzare con il processo di etuvage del riso, che per intenderci consiste nella sua cottura al vapore che lo rende non solo molto buono, ma anche nutriente. 
Alla fine della mia osservazione cerco di spiegare alle donne che tornerò molto presto, poiché loro saranno sicuramente delle persone risorse che intervisterò nel corso delle mia indagine. Perciò le saluto cordialmente, sperando che la mia presenza non sia stata di disturbo. La prima lezione della giornata comunque è la seguente: avvisare prima di presentarsi in un luogo che non si conosce, e dove si potrebbero creare dinamiche spiacevoli. 
0 notes
pangeanews · 4 years
Text
“Meglio gli ideali di ieri dell’irriducibile mediocrità di oggi”. “Ma cosa dici! La nostra generazione ha perso e a Eco preferisco Veronesi”. Dialogo serrato tra Filippo La Porta e Gianni Bonina sul valore della cultura. Nel segno di Sciascia
L’anno scorso, per il trentennale della scomparsa di Leonardo Sciascia, nelle pagine culturali di “Repubblica” apparve un articolo di Filippo La Porta che diede spunto per uno scambio di email tra il critico letterario romano e il giornalista culturale catanese Gianni Bonina. Oggetto: il primato della cultura di oggi su quella di ieri sostenuto da La Porta e contestato da Bonina. Pubblichiamo il dialogo che si ebbe a distanza.
***
Ciao Filippo, ho letto e apprezzato la tua nota su Sciascia: condivisibilissima, benché mi lasci perplesso l’idea che la sua eredità sarebbe stata raccolta dal migliore giornalismo d’inchiesta e che oggi il pensiero critico non alberghi in un individuo o in una casta ma sia per dire diffuso persino nei social. Sei ottimista e positivo, ma mi chiedo chi interpreti mai questo giornalismo d’inchiesta che non sia nondimeno fazioso e chi siano oggi i nuovi opinion-maker o grilli parlanti che a loro volta non costituiscano una nuova casta quale si vede nelle conventicole o cordate editoriali e nelle piattaforme web. Ad ogni modo, fornisci – come sempre – materia di riflessione.
Un caro saluto
Gianni
*
Carissimo, grazie. Però la tua perplessità mi perplime (si dice?).
La mia è una reazione credo sacrosanta ai tanti amici che definirei ‘apocalittici integrati’ (tengono il broncio al nostro tempo, come diceva Musil, però lo abitano abbastanza confortevolmente), che pensano che finiti loro finisce il mondo!
40 anni fa c’era più pensiero critico nella società? Scherziamo! I miei maestri Rossana Rossanda e Lucio Magri inneggiavano alla Rivoluzione Culturale cinese (un milione di morti), Fortini parlava del Comunismo come della Città Celeste di sant’Agostino e i nostri discorsi erano infarciti di slogan. Gli eretici poi erano i più ortodossi di tutti. Oggi invece – parlo solo di minoranze ma sempre sono le minoranze a spingere la realtà – c’è un pensiero forse meno colto, più slabbrato e confuso, ma anche più libero, antidogmatico, anti-ideologico… Nei social trovo sia il narcisismo aggressivo e la supponenza degli asini, sia esperienze di condivisione e collaborazione che la mia generazione ha solo teorizzato!
Non rimpiango le inchieste di ieri, mentre oggi in Rete se hai buona volontà puoi raggiungere la verità su un qualsiasi fatto solo incrociando le fonti (come dice la filosofa Franca d’Agostini).
 F
*
Caro Filippo, ho troppa stima di te e ho letto non poche cose tue, sempre con ammirazione, per non esprimertene di nuova circa la tua singolarità. Hai vissuto gli anni degli ideali e magnifichi quelli attuali ispirati alla più irriducibile mediocrità. E ora scopro che un intellettuale educato al vecchio credo inneggia al nuovo.
è vero quello che dici: furono anni apocalittici, ma per colpa della troppa ideologia messa in circolo. Tolta quella, come è successo, è rimasto il vuoto: colmato da pensatori i cui nomi sarebbe decisamente indegno accostare agli stessi che tu ricordi. Fortini, Fofi, certo, anche loro appaiono oggi dei mostri sacri, benché fossero allora detestabili e discutibili. Ma ci sono stati Sciascia, Pasolini, Calvino, Manganelli: letterati, Filippo, letterati pressoché in permanente conflitto col potere e su posizioni non certo di inferiorità, diversi dai pifferai che vedo oggi in giro. Chi eserciterebbe il pensiero critico? Saviano forse, Scalfari? La D’Agostini? Cacciari? Travaglio? Non ti viene da ridere?
Citi i social come nuova fonte della verità e io rabbrividisco. Credi davvero che, incrociando termini, si giunga alla conoscenza? Forse a una mera informazione da catalogo Vestro o da vecchio Leonardo degli anni Sessanta. Beato te, caro Filippo, che vedi a colori dove è solo grigio.
Gianni
*
Caro Gianni, la stima è interamente ricambiata!
Sì, come metti le cose tu sembra che non ci siano vie d’uscita. Ma sei sicuro che quando muore uno scrittore o regista o poeta si debba necessariamente scrivere che è morto l’ultimo scrittore, l’ultimo regista, etc.? Manganelli è un gigante ma anche un romanziere semifallito, e sul piano del romanzo Veronesi gli è superiore. Calvino un intellettuale strepitoso ma, anche qui come romanziere Doninelli lo sopravanza. Gli ultimi libri della Ginzburg sono imbarazzanti. Se scorri i vincitori dello Strega degli anni ’60 e ’70 i più sono dimenticati o dimenticabili.
Le nuove generazioni: vedo i rischi di impoverimento culturale e linguistico, la perdita della memoria, la svalutazione della fatica (per raggiungere un risultato), il prevalere della fretta, etc. ma vedo anche che diffidano della cultura perché la cultura per la mia generazione è stata uno strumento di carriera e di potere, e soprattutto che danno più importanza alla relazione tra ciò che dici e ciò che fai. Per loro devi essere ‘credibile’. Ti pare poco?
Guarda che la cultura nel ’900 ha fallito: il nazismo è nato nella culla del romanticismo e nel paese più istruito d’Europa! Non ti fa venire degli interrogativi? L’umanesimo in sé ahinoi non umanizza!  Le nuove generazioni provano a sostituire l’umanesimo con una umanità concreta, la cultura libresca con esperienze di condivisione. Chi custodisce l’umanesimo della tradizione, i miei amici professori ordinari di letteratura italiana, sempre al sicuro e al riparo di tutto, impegnati a costruire le loro confortevoli carriere accademiche o i giovani che tentano – anche confusamente – di mettere in pratica il ‘ben fare’ di cui parla Dante (l’Italia è il primo paese in Europa quanto al volontariato)? La filosofa Roberta De Monticelli parla dei suoi colleghi universitari, impegnati a criticare il sistema dell’università ma complici delle “opacità” consortili e dei conformismi di quel sistema. Gianni, l’umanesimo preme su di noi con le sue domande e le sue promesse, dobbiamo sapergli rispondere.
La filosofa Franca d’Agostini (altro che Cacciari!) scrive in Introduzione alla verità che certo in Rete tutto risulta vero, ma il fatto che la verità non segnala mai con chiarezza la sua presenza lo sapevamo dal tempo dei sofisti, e anzi la circostanza interessante oggi è che sappiamo tutto ciò e sappiamo che da qualche parte il vero c’è “e possiamo fare una grande quantità di confronti incrociati per reperirlo”. Pensi davvero che 30 anni fa la situazione era più favorevole alla ricerca del vero?
Filippo
*
Caro Filippo, “Ultimo scrittore” o “Ultimo regista” sono slogan dei maggiori giornali, in riferimento ad autori che appartengono alle generazioni passate per celebrare “il nuovo che avanza”. I danni che “la grande stampa” sta producendo sono incalcolabili. Veronesi, dici, superiore a Manganelli? Spero ti rendi conto, caro Filippo, che basta solo fare il nome di Veronesi (assurto a un barlume di visibilità solo grazie a un film su un suo libro di stentata sufficienza) o quello di Doninelli per capire che parliamo di persone sconosciute già oggi nel clou della loro attività, figuriamoci domani, mentre Manganelli e Calvino saranno noti anche dopodomani come lo sono tutt’oggi. I vincitori Strega degli anni Sessanta e Settanta li trovi ancora oggi nei manuali di letteratura e molti vengono ripubblicati, altro che dimenticabili. Oggi dominano le classifiche i Volo e gli influencer, i cuochi, i conduttori televisivi che scrivono romanzi e i ragazzini rap. Lo Strega lo vincono i Giordano e altri di un solo libro, tutti illeggibili, tutti già dimenticati.
La differenza tra ieri e oggi è che se la cultura è stata uno strumento di potere e di carriera – in parte cosa verissima e inevitabile nei meccanismi della civiltà occidentale: anche Platone venne a Siracusa per fare politica – oggi lo è lo spettacolo, l’intrattenimento, il talk show. Con la differenza che gli uomini di cultura di ieri diventavano statisti. Hai fatto caso che da vent’anni nessuno pronuncia più la parola “statista”? Non sarà perché è impossibile trovarne uno che possa esserlo?
La cultura del Novecento si è troppo imbevuta di postmoderno da essere chiamata “novecentismo”, ma senza il novecentismo non avremmo avuto nemmeno il Sessantotto, cioè l’immaginazione al potere. I “dominanti” di oggi sono quelli che hanno tradito lo spirito del Sessantotto e risposto al riflusso degli anni Ottanta, alle illecebre della società dello spettacolo e della globalizzazione. Ma viva comunque quell’età quando per strada noi, tu e io, scendevamo a marciare per ideali che nemmeno ci chiedevamo se fossero giusti o sbagliati, e tuttavia eravamo lì, con gli altri, in tutte le città, anche su schieramenti opposti, ma gonfi di valori e ideali. Meglio un ideale sbagliato che la mancanza anche del più misero. Oggi i giovani stanno su internet e hanno perso ogni ideale. Non leggono e vedono serie Tv. Protestano per il clima non perché ci credono ma per seguire una foga passeggera, non sanno nemmeno cos’è il sacco a pelo e non hanno né passioni né valori né hobby. Tutto in nome del pragmatismo imperante voluto dalla società postideologica che ha in odio pure la distinzione tra destra e sinistra, discrimine sul quale molte generazioni hanno speso la vita. Noi leggevamo romanzi all’età in cui mio figlio mi ha chiesto perché non impiegassi semmai il mio tempo a leggere un manuale su come riparare un lavandino, servendomi molto di più: non capendo che senza la letteratura non ci sarebbe stata la filosofia e senza la filosofia non ci sarebbero state le idee e dunque non ci sarebbe stata la storia e infine l’umanità organizzata.
L’umanesimo ha nutrito l’Europa per quasi sei secoli, così tanto da fare parte oggi del carattere continentale, degli italiani in particolare. Se oggi lo sguardo sul passato è stato distolto è stato per il prevalere del mito del presente, un totem che il mondo adora e i cui sacerdoti sono i pragmatici, ovvero gli opportunisti, i Salvini, i Berlusconi, i Di Maio, i Renzi, i Grillo: la “nostra classe dirigente”. Per fortuna, dico io, che l’umanesimo continua a fare da antidoto contro l’avvelenamento invalente anche del pupulismo e del sovranismo. Per fortuna che ancora c’è gente che guarda alla tradizione almeno con sentimento di rimpianto e la colpa di aver tentato di demolirla. Dici che è un bene che la cultura libresca sia stata sostituita da esperienze di condivisione. Dunque dovremmo approvare il primato di Internet e di facebook sul modello di cultura che da Aristotele in poi è stato alla base della nostra civiltà? Ti inviterei a leggere a caso qualsiasi libro dell’Ottocento e poi qualsiasi libro degli ultimi dieci anni, non solo di narrativa ma anche di saggistica, campo questo nel quale è del tutto impossibile trovare chi meriti un minimo di attenzione. Non c’è oggi un solo settore nel quale operi una sola eccellenza che non sia frutto del suo tempo effimero e che non durerà. Per fortuna, il vuoto totale di scrittori, di cantautori, di artisti, pure di calciatori, spinge a rinverdire e tenere presenti i nomi del passato, sicché si continuano ad ascoltare “i nostri” De Gregori e Venditti, si continuano a leggere Umberto Eco e Sciascia. Un solo merito concedo alle nuove generazioni della condivisione: il fatto che conoscano l’inglese. Ma quello che per la nostra generazione era visto come un vantaggio da conseguire per condividere cultura internazionale oggi è considerato un mezzo per stare nottate intere applicati nei giochi di ruolo.
Il fatto poi che i nostri riferimenti debbano essere le D’Agostino e i D’Agostino mi pare una eloquente chiave di interpretazione del tempo che viviamo. A me basta ricordarti una frase di Sciascia in fatto di ricerca epistemologica: “Che cos’è la verità? Sarei tentato di rispondere che è la letteratura”.  La letteratura Filippo, non la condivisione, il pragmatismo, il post-umanesimo e il post-ideologismo. E permettimi, non la letteratura dei Doninelli, che è l’equivalente della politica dei Toninelli.
Gianni
*
Carissimo, mi fa piacere la tua – oggi insolita – volontà dialogica. I temi che sollevi sono molti, e cruciali. Certo, la pietas verso il passato culturale, l’amore per la tradizione, sapere di cosa siamo fatti, etc. ma nel momento in cui il passato culturale è diventato museo e accademia, repertorio di citazioni multiuso, oggi tendo a dare molta importanza alla parte migliore della cultura di massa, che tenta di rileggere criticamente quel passato: Caparezza che riprende genialmente Dante con “Argenti vive”, Woody Allen che rilegge Delitto e castigo, i Simpson che mettono in scena Shakespeare, i Coen e la letteratura yiddish…Va bene, il punto è non fermarsi lì, non fermarsi alla “mediazione” (la cultura di massa può essere solo un ponte) e dunque a un certo punto i classici prenderli in mano, leggerli direttamente. Però i classici dobbiamo pur farli parlare, dobbiamo esporci alle loro domande urgenti, drammatiche. L’arte moderna, è stato osservato, ha perso il pungiglione. Ecco, in che modo può ritrovare quel pungiglione? Forse deve anche percorrere strade meno istituzionali, meno prevedibili.
Quanto a Eco, e lo dico con tutto il rispetto verso il semiologo, beh il fatto che oggi si leggano con godimento i romanzi-videogame di Eco è per me – dovresti saperlo – quasi una iattura. Appunto: con il loro aroma culturale nobilitano i lettori e li fanno sentire più intelligenti senza sforzo. Un saggista messicano, Elizondo, scrisse un delizioso commento su una indigestione di Eco a Capodanno, dicendo che era una metafora della sua bulimica narrazione! Su Manganelli: lo adoro, mi leggo e rileggo i suoi strepitosi reportage e articoli, ha adoperato la nostra lingua con una creatività insuperabile. Ma come romanziere mi sembra fiacco, algido, privo di ritmo. è uno stilista, ha un talento retorico superbo, ma è come sigillato dentro la lingua, in modo claustrofobico, non sento attrito (curioso: sia Eco che Manganelli ebbero uno scontro feroce con Pasolini!). Nel genere del romanzo io preferisco gli affabulatori, appunto Veronesi o Doninelli, con i loro romanzi anche imperfetti o frananti, ma che comunque costruiscono un mondo credibile, in cui abiti per un po’. E non capisco la battuta sprezzante sulla D’Agostini, filosofa rigorosa e di grande energia argomentativa (assai meglio del liricizzante Agamben). E neanche quella su D’Agostino! Va bene, jolly rutilante dell’universo del gossip… ma sai che quando parla del costume è spesso più acuto dei sociologi delle prime pagine dei quotidiani?
Comunque sono convinto che il vero nemico della cultura è la cultura stessa, che ha tradito le proprie promesse e non il digitale o la Rete o il mercato o i videogiochi. Mio figlio legge pochissimo, ma ha una intelligenza meno dogmatica e meno ideologica di quella che avevo io alla sua età. Ha messo l’immaginazione al lavoro, per creare comunità, legame sociale, saperi condivisi, senza volerla “mandare al potere” (cosa per me raggelante). Non mi illudo sulla sharing economy o su un Terzo Settore che confina con il business, però vedo che mio figlio con amici e semplici coetanei si scambia in Rete, che so, anche i sottotitoli della fiction americana… Realizzano, senza proclami, tutto quello che la mia generazione si è limitata a teorizzare, predicare, raccomandare etc.: la condivisione, la messa in comune. Nel gruppo di lettura della biblioteca sotto casa – credo molto nei gruppi spontanei di lettura, in Italia ne sono stati censiti circa 400, è in essi e non nell’università o nella scuola che si forma un lettore più esigente e responsabile – i classici sono più amorevolmente coltivati rispetto a 30 anni fa. No, caro Gianni all’apocalisse preferisco la genesi!
Filippo
*In copertina: Leonardo Sciascia (1921-1989) a Racalmuto, photo Rcs Periodici/Dolcetti
L'articolo “Meglio gli ideali di ieri dell’irriducibile mediocrità di oggi”. “Ma cosa dici! La nostra generazione ha perso e a Eco preferisco Veronesi”. Dialogo serrato tra Filippo La Porta e Gianni Bonina sul valore della cultura. Nel segno di Sciascia proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/36wPvKZ
0 notes
pangeanews · 6 years
Text
César Mermet, il poeta infinito. In vita non pubblicò nulla: fu il mito di Jorge Luis Borges. E il cantore di Carlos Monzón
Strana aria a Buenos Aires durante i Mondiali di calcio del 1978. L’Argentina che vince l’Olanda in finale e ottiene il primo alloro planetario vive sotto il tallone del regime militare di Jorge Videla, sommersa dalla propaganda calcistica e da qualche timida sommossa da parte degli intellettuali europei – un tentativo di boicottaggio con petizione firmata, tra gli altri, da Roland Barthes, Jean-Paul Sartre, Yves Montand. L’anno prima le Madri di Plaza de Mayo cominciano a far esplodere la loro voce, penetrante, ma la stampa è attenta soltanto a elogiare un baby fenomeno, Diego Armando Maradona, che fa il suo esordio in nazionale. Tuttavia, nel ’78 il ‘Pibe de Oro’ non c’è, a fare la parte del leone sono Mario Kempes e Daniel Passarella, l’Italia di Paolo Rossi, quarto posto, prende le misure per il Mondiale di Spagna. Nell’incuranza della Storia e della stampa, quell’anno, durante i Mondiali di calcio, muore, a 54 anni, César Mermet, nome che svirgola come una lucertola, il grande mistero della letteratura sudamericana, quasi una Emily Dickinson argentina. Proprio durante i Mondiali di calcio, tra la febbre dei tifosi e il dolore degli oppressi, César Augusto Rolando Mermet, classe 1923, nato in un sobborgo di Santa Fe, Malabrigo, 7mila abitanti – oggi – e tonnellate di noia – oggi come allora – figlio di un ingegnere ferroviario, intima alla moglie di lasciare una cassa al suo amico Félix della Paolera. Félix è una specie di turbinoso Zelig della letteratura argentina: giornalista, traduttore, poeta all’occasione, per quasi quarant’anni ha condiviso il pranzo con Jorge Luis Borges, quando aveva qualche dubbio filosofico scriveva a Martin Heidegger – ottenendo risposta – e se era colto da vizi alcolici, faceva una telefonata a William Faulkner, con cui ha scambiato più di un drink. Può darsi che agli occhi di Félix, César Mermet apparisse come un personaggio estratto dai sogni di Borges, l’ombra di un’ombra del caso che s’incarna in un volto, fuggevole, fuggitivo.
Lui è César Mermet (1923-1978): una vita a scrivere senza pubblicare un rigo
Di Mermet si conoscono alcuni dati piuttosto elusivi. Nel 1944, a Paraná, comincia a trafficare con la radio, esperienza che continua a Rosario e a Buenos Aires, dove si trasferisce dal 1956. Nella capitale, Mermet fa il consulente creativo per una agenzia pubblicitaria e lavora alla televisione, su Canale 7, per cui scrive dei programmi. Ciò che colpisce di Mermet è il talento linguistico, naturale e bulicante. In effetti, Mermet è poeta. Lo è da quando è adolescente. Solo che Mermet è, soprattutto, un tipo strano. Nel 1951, a 28 anni, vince un premio per la poesia inedita, a Mendoza. Ogni poeta, sbavando per la fama, avrebbe usato i soldi per farsi pubblicare il libro. César no. Con i soldi si paga un lungo viaggio in Cile. Per questo, quando Félix, fiuto fine per la letteratura buona, un po’ dandy, gran conversatore, apre la cassa che gli viene recapitata dalla moglie di Mermet – sposata a Mendoza, sull’onda della gioia per il premio di poesia, e da cui ha due figli – sa già cosa attendersi. Un vagone di testi inediti. Testi straordinari, raccolti in faldoni dal 1965. E del tutto inediti. Félix è uno dei rarissimi lettori di César, forse l’unico. “César diceva che ero il suo unico lettore; probabilmente era così, ma l’aveva deciso lui, per due volte ha desistito dal pubblicare alcune poesie che avevamo scelto insieme. Perché non ha pubblicato? Continuava ossessivamente a correggere le sue poesie, un compito che si ramificava all’infinito. César preferiva scrivere al pubblicare, preferiva silenziarsi lavorando all’arborescente revisione della sua opera, e esiliarsi dal mondo intellettuale, lavorando in segreto”, ha detto Félix, custode dell’opera di Mermet, che ha deciso di rendere pubblica, almeno in parte, attraverso un sito dedicato. Dieci anni fa vede luce una Antología ragionata dei testi di Mermet, curata da Félix e da un gruppo di lavoro specifico: “all’improvviso, ebbi l’occasione fortunata di ripetere il lavoro di Max Brod, anche se in questo caso dovevo affrontare scritti decisamente più indecifrabili di quelli di Kafka”. I manoscritti di Mermet, in effetti, sono un terreno di guerra: intorno al dattiloscritto fioriscono cancellature, abrasioni, appunti, correzioni in corsivo, simili a elementi barbarici, a granate di scrittura etrusca. Già allora, tuttavia, Mermet è inserito, timidamente, nelle antologie dei ‘classici’ d’Argentina. La prima placca postuma, che raccoglie le poesie giovanili, La lluvia y otros poemas, fu pubblicata infatti nel 1980, con uno scritto di Jorge Luis Borges, che in Mermet vedeva una specie di gemello ustorio. “In una delle sue lettere, Emily Dickinson ha scritto che pubblicare non è la parte essenziale del destino di un poeta”, scrive Borges, “non sappiamo se César Mermet abbia letto questa scandalosa affermazione, ma la sua vita la conferma. Ha preferito sognare, scrivere e correggere bozze infinite. Ho parlato un lui un paio di volte; non mi ha mai detto che era poeta. Era un lettore curioso, la sua memoria era popolata di versi. Forse pensava che pubblicare è rassegnarsi a un testo definitivo. Non dirò che fu un grande poeta perché, in questo caso, l’epiteto sminuisce il sostantivo. Dirò qualcosa di più, dirò che fu pienamente un poeta”. Sembra, davvero, la didascalia di un racconto tipicamente borgesiano: il poeta che corregge all’infinito la stessa poesia, incompiuta perché tesa verso gli assoluti. César Mermet, agli occhi di Borges, è l’emblema della biblioteca infinita, dell’opera inafferrabile; nelle parole del grande scrittore, pare risuonare un trasalimento d’invidia.
Davide Brullo    
  In attesa che venga pubblicato in Italia, pubblichiamo in anteprima un testo di César Mermet dedicato al pugile argentino Carlos Monzón
  Carlos Monzón
Se uno ci pensa bene, non è altro che uno smilzo. Ha l’aria maldestra dello smilzo comune, quello robusto “per ora”. Sì, è vigoroso, però innanzitutto è uno smilzo. Ostenta un’aria burbera di fame infantile, tardivamente ripagata, ma mai cancellata. Muscoli longilinei, scapole alate confitte come alti monconi di ali recise a un angelo caduto… nella miseria, per lungo tempo. Gomiti lunghi come quelli di una pavoncella gigante e clavicole evidenti, da anemico che non dimentica; costole patetiche e la goffaggine priva di grazia dello smilzo lungo, mascherato da uomo potente, pieno di soldi. E adesso è lì, si muove. Guardi come colpisce, come fosse fuori ripresa, come se perdesse due battute del ritmo del rivale. Guardi come lancia un sinistro, all’apparenza troppo scontato, ma che dopo due vane schivate dell’avversario, si troverà lì, dov’è la sua mandibola, esattamente dove arriva la mazza ferrata del suo guantone. Non sferra colpi qui e ora. Preme il grilletto adesso per colpire dopo; come l’artiglieria, la sua balistica traccia un grande arco nel tempo. E contempli come il colpo sembri avanzare con forza, non come un fulmine. Ma è un fulmine. Un fulmine durante una mareggiata. Il colpo erosivo dell’acqua dolce del fiume. Un colpo dritto, alto, logorante e agile, come una mareggiata notturna. Monzón è un barcaiolo di fiume che fa il pugile. Faccia attenzione al suo stile da vogatore, che avanza a braccia distese. Ora osservi bene quanto immoto sembri il suo movimento. Un centro immobile. Compie la sua danza e combatte in equilibrio, come fermo sopra una canoa. Vive al rallentatore, in un tempo che confonde il rivale. Il fatto è che la sua lentezza è accurata. La sua è la placida calma del fiume. Vigore sommerso: sopra la coda oscura, vagamente criptica; sotto l’immobile occhio del pesce desto, vigile.
1975: César Mermet insieme a Félix della Paolera, il suo Max Brod
Ma che testa strana che ha! Una frangetta aspra, liscia, velo di malumore sulle ciglia. Cuculo Guira sul cocuzzolo, come uccello d’isola. Rudi le ciglia sui suoi occhi fissi e attenti. E vale la pena dire delle sue labbra: grandi, prominenti, asimmetriche, con l’espressione del bambino a cui mancavano i denti. Appena e rozzamente, ma ride, con i movimenti incerti di un timido, un debole, ma rude danzatore nel mondo ostile. È un indio argentino che consegna giornali. Un bambino sfacciato, controcorrente rispetto ai ragazzacci tesi sotto la luna. Diffidente, prevenuto, preso a colpi da sempre. É un indio argentino di Alto Verde: isola nelle vesti di caimano che vaga alla ricerca di zanzare, sole, mate e stelle; piaga e fame e piogge orchestrali, tra il porto e il Paraná, scorcio verde ed esteso, dinanzi all’accorta e femminea città di Santa Fe. Ma guardi come gli stanno larghi i pantaloni! Le gambe fuoriescono e proseguono da sole. Gambe orfane, povere, che eppure culminano nel lieto fine di quei bianchi stivaletti di lusso. Proprio adesso è il momento in cui punta, mira e a poco a poco, con la lentezza fatale di un puma famelico, inizia la sua caccia. Adesso è l’istante in cui, giunto al momento palpabile del suo proposito, colpisce e stende il rivale. Questi si risolleva, mentre lui continua a muoversi senza foga, nell’anfibia durevolezza della sua implacabile determinazione, già volta all’epilogo. E questa è l’istantanea del momento in cui, inesplicabilmente, dubita. Colpisce e dubita. Sul finale, prima del gran finale, prova uno stupore contrariato ma infantile, di quelli forti ma feriti. Di ragazzo solo in mezzo al ring della vita, inconsapevole di ciò che arriva adesso. Da una fessura nel dubbio si nota filtrare lo sconcerto. Quando il rivale è pronto per il sonno, lui vacilla. Ma quando questi reagisce, la sua pazienza circospetta di cacciatore si trasforma in certezza distruttiva e mette in ginocchio la sorte. Lo chiamano escopeta, ma più che uno schioppo è una magica mazza india. È riuscito a dimostrare che il suo istinto primordiale è superiore alla sterile, irragionevole intelligenza del mondo della tecnica. È più duro di questo secolo. Ma non più freddo. Sì, più serio. Più tragico. Monzón non scende a compromessi. Ormai è fatta. Ha fatto una specie di giuramento con il destino. Come un fanatico scetticismo. A volte dice: “Posso battermi con chiunque”. Ma non lo dice per vanità. Lo mormora a denti stretti, con sentire letale, diretto, senza paura del proprio fato, qualunque esso sia. Si chiama Monzón. Strana cosa: un indio canoista, nome di vento rabbioso, di altri cieli remoti. Adesso lo ascolti: parla con una manioca fra i denti, imbronciato, aggressivo. Ma non gli creda. Dalle faglie sboccia e ritorna lo sporco fiore celeste del suo sorriso di bambino, il futile giacinto d’acqua. Questo tizio che viaggia molto, ha radici profonde. Non solo nella terra e nelle acque. Nel fango di Alto Verde. Sconcerta Pasolini, Yves Montand e tutta Montecarlo. Ma non i compagni di bevute. Loro sanno che Monzón ne ha ancora. E risorge. Beffa l’avversario avvantaggiandolo. Ma rinasce. Come le piene cicliche del fiume. Come il monte eterno delle isole.
(traduzione di Chiara Buzzoni con la supervisione di Mercedes Ariza)
L'articolo César Mermet, il poeta infinito. In vita non pubblicò nulla: fu il mito di Jorge Luis Borges. E il cantore di Carlos Monzón proviene da Pangea.
from pangea.news http://ift.tt/2DGTc3A
0 notes