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#Angelo Romanò
bagnabraghe · 1 year
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Gramsci critica l’inadempienza della rivista alla propria stessa vocazione rivoluzionaria
Poeti d’oggi, con la quale si inaugura l’antologia d’autore italiana, esce nel 1920 a cura di Papini e Pancrazi. Scorrendo l’indice, si nota che questa raccolta contiene anche testi in prosa: ad esempio uno dei Trucioli di Sbarbaro, appena pubblicati da Vallecchi. Cinque anni prima è uscito l’Almanacco della Voce (Firenze, Edizioni della Voce), che comprende poesie in versi, poesie in prosa, ma…
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adrianomaini · 1 year
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Gramsci critica l’inadempienza della rivista alla propria stessa vocazione rivoluzionaria
Poeti d’oggi, con la quale si inaugura l’antologia d’autore italiana, esce nel 1920 a cura di Papini e Pancrazi. Scorrendo l’indice, si nota che questa raccolta contiene anche testi in prosa: ad esempio uno dei Trucioli di Sbarbaro, appena pubblicati da Vallecchi. Cinque anni prima è uscito l’Almanacco della Voce (Firenze, Edizioni della Voce), che comprende poesie in versi, poesie in prosa, ma…
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ma-pi-ma · 4 years
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La rivoluzione in letteratura si compie attraverso il linguaggio.
Angelo Romanò, in G. C. Ferretti, Officina
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garadinervi · 6 years
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«il menabò» 7, Edited by Elio Vittorini and Italo Calvino, Einaudi, Torino, 1964. Graphic design: Bruno Munari
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pangeanews · 5 years
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“Questi sono i versi che più mi emozionano di tutta la poesia italiana del secondo Novecento”: dialogo con Andrea Cortellessa intorno alla poesia di Elio Pagliarani
Fu storia a parte, impari, deliziata di versi magnifici, quella di Elio Pagliarani, totem tra neo-avanguardia e “assunto neo-veristico” (Pier Vincenzo Mengaldo), inclassificabile, disteso tra Romagna avita (nato nel 1927 alla Viserba di Rimini, di cui declamò la scomparsa: “Adesso non c’è più soluzione di continuità tra Rimini e Viserba, è tutto un Rimini nord, tutto alberghi e pensioni, una zona balneare un po’ più popolare di Rimini centro, con ignoranza e presunzione rubiconde di benessere”), un tot di vita a Milano (“per apprendistato sentimentale”) l’altra a Roma, dove muore, nel 2012. Ne scrissi, della morte, 8 marzo, festa della donna, pigiando – da scandito mitomane e idiota di libri – sul sentimentale, iniziando così. “Per anni ho fatto ciao ciao, senza saperlo a Elio Pagliarani. Scuola media ‘Leonida’, viale Umbria, Milano. I miei nonni abitavano lì di fronte, dove Pagliarani incomincia «fra settembre e ottobre del ’54 […] a mano, durante un compito in classe di italiano che avevo assegnato alla scolaresca, di terza media, mi pare», La ragazza Carla. In quel momento, dramma mistico, audace conversione nella lurida periferia milanese, cambia la storia della poesia italiana”. Da allora, i nonni che abitavano in viale Umbria si sono trasferiti a Riccione e in Riviera sono morti, poco importa, qui, ora. Piuttosto, la morte pare aver esaltato il magistero di Pagliarani: nel 2013 Marsilio pubblica Tutto il teatro; nel 2016 il Saggiatore riedita La ragazza Carla, intorno a cui, per altro, nasce, l’anno prima, un film di Alberto Saibene, con la presenza icastica di Carla Chiarello e Elio (quello delle Storie Tese) a far da spalla; nel 2017, per L’Orma, esce Il fiato dello spettatore e altri scritti sul teatro (1966-1984); quest’anno, in formato oblungo, vertiginoso, che ricorda la mitica edizione Feltrinelli ’68 di Lezioni di fisica e Fecaloro – tra i libri più audaci e densi di esiti del secondo Novecento – il Saggiatore pubblica Tutte le poesie 1946-2011 di Pagliarani, grazie alla miliare attenzione di Andrea Cortellessa (che già aveva curato l’edizione Garzanti 2006 dell’opera lirica, e che qui firma un poderoso testo critico). Soprattutto, al di là delle fisime accademiche, conta la penetrazione verbale, il magistero del poeta oltre il proprio tempo. Beh, Pagliarani, tanto connesso al proprio tempo da non esserne l’esecutore della cronaca ma il cantore di un assoluto inderogabile, è vivo più oggi, mi vien da dire, di ieri. Basti dire che la collana di poesia contemporanea ideata da Cortellessa con Maria Grazia Calandrone e Laura Pugno per Aragno, ‘i domani’, inaugura, nel 2013, con un testo, Ma dobbiamo continuare, “per Elio Pagliarani a un anno dalla morte”. “La ragazza Carla è un gioiello irripetibile, in cui si tiene insieme, mirabilmente, l’impeto neorealista con uno spiccato senso della parola musicale: nessuno è più riuscito a trovare una sintesi tanto riuscita”, mi disse, a suo tempo, Daniele Piccini, che aveva installato Pagliarani tra i pochi rappresentativi della Poesia italiana dal 1960 ad oggi (Rizzoli, 2005). Pagliarani, estroso trapezista di linguaggi, che trama una via lirica ostile a quella – dominante – di Vittorio Sereni, “cercò di farmene, e me ne fece, di tutti i colori”, dice lui, Elio, nel Pro-memoria a Liarosa (Marsilio, 2011), a partire dallo sgambetto, all’ultimo momento, nel 1954, al Premio Soave: doveva andare a Pagliarani, per Cronache ed altre poesie, edito da Schwarz, con Montale e Anceschi e Vittorini in giuria, e “Sereni chiese e ottenne un’ultima riunione di giudici, nella quale riunione attaccò violentemente le Cronache dicendo che il linguaggio era volgare […] e fu proclamato vincitore Angelo Romanò”. Tempi altri, quando si combatteva per imporre – o distruggere – una ‘poetica’, che è poi un’etica, e forse una politica dell’esistere.
Nella nota in cui si autodice, Pagliarani Elio (1990, nell’Autodizionario degli scrittori italiani) esalta la propria fame linguistica, perché è lì che passa l’uomo e il giaguaro della Storia, spiega l’appartenenza al Gruppo 63 “contro un impegno ideologico meramente asseverativo, e per un impegno e una verifica dei ferri del mestiere, cioè sul linguaggio”, segnando ironiche differenze (“E c’era anche chi aveva speranze e/o ambizioni palingenetiche… A Pagliarani pareva sufficiente un imperterrito impegno sul linguaggio, e un lucido smagato rapporto col presente… E tenne duro sul rapporto comunicativo e, poundianamente, sulla funzione sociale della letteratura, a prescindere da ogni intenzionalità. Fu subito fra le minoranze del Gruppo”). Per questa autonomia a oltranza, per la “sua esplorazione linguistica continua”, Pagliarani resta il maestro indiscutibile, di cui discutere. (d.b.)
Parto con una considerazione. Su Pagliarani, criticamente, hai scommesso per il futuro. La collana di poesia contemporanea che dirigi per Aragno, in effetti, ‘i domani’, nacque sotto l’egida poetica di Pagliarani. Quali sono i motivi per cui la sua opera, a tuo dire, dice meglio di altre l’oggi, anzi, il domani?
Più che i domani (una delle cui prime uscite fu in effetti un omaggio a più voci a Pagliarani, a un anno dalla sua morte), cui lavoro con Maria Grazia Calandrone e Laura Pugno, è stata ancora prima la collana fuoriformato a ispirarsi, fra gli altri, allo “sfondamento” dei tradizionali formati tipografici che Pagliarani sperimentò con l’edizione monstre di Lezione di fisica & Fecaloro, pubblicata da Feltrinelli nel 1968. È stata per me una felice sorpresa, da parte del Saggiatore, la scelta di riprodurre quel formato (oltretutto non applicato a una breve raccolta poetica, bensì a un volume di più di cinquecento pagine); non la prima, peraltro, che segna la volontà di questa storica sigla di contravvenire alle logiche di standardizzazione dell’editoria «senza editori» del nostro tempo: dove l’uniformazione degli standard produttivi è spesso facies tangibile dell’omologazione di forme e contenuti della proposta letteraria. La poesia di Pagliarani eccede felicemente ogni limite, e questo libro fuori da ogni norma lo segnala con fierezza. Peraltro nella seconda serie di fuoriformato, edita da L’orma, è uscito anche un suo titolo: l’edizione ampliata del Fiato dello spettatore, la raccolta dei suoi scritti sul teatro che ha curato Marianna Marrucci: in uno di questi pezzi, dedicato alla teatralità implicita nella scrittura di Palazzeschi, Pagliarani paragona l’oltranza icastica di un certo tipo di scrittura al festoso “effetto sorpresa” tridimensionale dei libri pop-up per l’infanzia: ma questo vale soprattutto per lui. Se pensiamo al diffondersi odierno di certi aspetti del poetico negli altri generi letterari, e soprattutto al loro “espandersi” sotto altri regimi mediali, davvero possiamo guardare a Pagliarani come a un pioniere. Basti pensare alla rivista da lui ideata, «Videor», che negli anni Ottanta, distribuita in VHS, fu la prima a proporre la poesia in video.
Nella tua nota critica, a un certo punto, accosti “La ballata di Rudi” a “Horcynus Orca”, scrivendo che “alle spalle di entrambi si colloca un grande archetipo comune come Moby Dick”. C’è qualcosa di epico in questa eccedenza linguistica, in questa eccezionalità d’avanguardia. Mi spieghi?
L’aspetto epico che può far accostare La ballata di Rudi (ma già il precedente «romanzo in versi» di Pagliarani, La ragazza Carla) a Horcynus Orca (ma anche a L’Italia sepolta sotto la neve di Roberto Roversi, a Cristi polverizzati di Luigi Di Ruscio, a Le strade che portano al Fucino di Tommaso Ottonieri; nonché, per certi versi, al Pasticciaccio di Gadda) è l’estensione lunga – e, nel caso di Pagliarani, lunghissima: proprio come lungo, lunghissimo è il suo verso – della scrittura nel tempo. È un romanzo storico, non solo nel senso che è l’immagine letteraria più straordinaria che conosca, in un interminabile Dopoguerra, della «mutazione italiana» (per usare una categoria pasoliniana che di certo ha avuto un influsso importante su Pagliarani, come lui riconobbe con uno straordinario omaggio poetico scritto nel 1995: giusto l’anno in cui finalmente uscì la Ballata); ma anche nel senso che la storia che racconta è inseparabile alla storia del proprio stesso comporsi nel tempo.
La querelle Pagliarani vs. Sereni sembra sottendere a due visioni inconciliabili di poesia. Che cos’è la poesia per Pagliarani, essenzialmente? E quella dicotomia (Elio contro Vittorio) ha senso ancora, oggi? Oggi, d’altronde, cosa è la poesia?
Il confronto con la storia d’Italia, e coi traumi della guerra, riguarda entrambi. Ma certo i loro temperamenti erano opposti: all’espansività, all’esplosività romagnola di Elio si oppone il ritegno, l’introversione lombarda di Vittorio. Non erano fatti per capirsi, davvero; e l’aneddotica che riporto (testimoniata anche da un carteggio piuttosto tempestoso, fra i due, che spero si potrà pubblicare in futuro) lo dimostra. Si potrebbe aggiungere che Sereni, coi suoi astratti furori d’anteguerra – testimoniati da un libro come Frontiera –, sentì in seguito la necessità di trovare un “riparo” ideologico nell’ortodossia comunista, che pure visse con non poco imbarazzo – si ricordi quella tormentosa poesia degli Strumenti umani, Un sogno –; mentre la matrice anarchica di Pagliarani lo fece scartare da questa collocazione: spesso in polemica esplicita con altre anime della sinistra italiana. Inevitabile che il secondo individuasse nel primo un “potere” (peraltro assai concreto, in sede editoriale, nel «poeta e di poeti funzionario»: come Fortini sferzava Sereni) al quale non poteva che tempestosamente ribellarsi.
Mi pare ci siano ancora in giro quelli che Pagliarani diceva “i prudenti e i benpensanti in letteratura… i compitini dei bellettristi… un impegno ideologico meramente asseverativo” a cui lui rispondeva con “un imperterrito impegno sul linguaggio, e un lucido smagato rapporto col presente”: è così? Chi sta in imperterrito impegno dentro il linguaggio, oggi, dove le opere poetiche paiono liofilizzate parodie di Ungaretti, Montale, Luzi?
Negli anni Settanta e Ottanta Pagliarani ha insegnato poesia, nei cosiddetti Laboratori che si tennero anche a casa sua, in Via Margutta a Roma. È un aspetto decisivo della sua personalità, che lo distingue decisamente anche dal nichilismo apocalittico di altri Novissimi del ’61. E dunque, sebbene non abbia mai voluto allevare propri “cloni” (come dimostrano le personalità eterogenee, e dalla sua tutte assai distanti, dei suoi discepoli di allora: da Valerio Magrelli a Valentino Zeichen, da Edoardo Albinati a Claudio Damiani), è naturale che al suo magistero abbiano guardato e continuino a guardare tanti poeti anche delle generazioni successive, oggi fra i quaranta e i cinquant’anni. L’adozione di registri filosofici e scientifici in Vincenzo Ostuni (il cui Libro di G. è sintomaticamente uscito presso lo stesso Saggiatore negli stessi giorni di quello di Pagliarani) o Maria Grazia Calandrone, il respiro poematico di Francesco Targhetta o Vincenzo Frungillo, la «pietà oggettiva» di Giorgio Falco o Gherardo Bortolotti, un po’ tutto questo in Sara Ventroni (che di Elio è stata anche l’ultima assistente). Se – come mi pare – già si vede che la storia continua anche nelle generazioni ulteriori, allora c’è di che ben sperare.
Ultima. Il libro da cui partire per leggere Pagliarani, alle scuole. E il verso di Pagliarani che ti sei tatuato nel cuore. 
Non credo sia il suo capolavoro – che penso sia La ballata di Rudi – né il suo libro più audace e “futuro” – che è l’ancora sottovalutatissimo, geniale Lezione di fisica –, ma non c’è dubbio che il libro con cui cominciare a leggere Pagliarani sia La ragazza Carla. Ogni volta che li rileggo, scopro che i versi del secondo capitolo («E questo cielo contemporaneo / in alto, tira su la schiena, in alto ma non tanto / questo cielo colore di lamiera […] / È nostro questo cielo d’acciaio / che non finge / Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla terra, / proprio perché sulla terra non c’è / scampo da noi nella vita») sono quelli che più mi emozionano, in assoluto, di tutta la poesia italiana di secondo Novecento.
L'articolo “Questi sono i versi che più mi emozionano di tutta la poesia italiana del secondo Novecento”: dialogo con Andrea Cortellessa intorno alla poesia di Elio Pagliarani proviene da Pangea.
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