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pepperskitchen · 9 years
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Mi prendo una pausa
Sarebbe bello vivere così, in un'eterna giornata di luglio su una terrazza in riva al mare e con uno spritz fra le mani. Per ora mi accontento di una pausa da questo blog, per dedicarmi meglio a una serie di progetti di vita e di lavoro. 
Nel frattempo - a proposito di progetti in corso - mi trovate su Romeo e Julienne. Cheers!
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pepperskitchen · 9 years
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Il dono è un esercizio di bellezza. Tre cose che ho imparato dal Great Foodblogger Cookie Swap.
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Verso l’inizio di novembre la mia coscienza da foodblogger - se ne esiste una - ha avuto un sussulto di vitalità e, tra le altre cose, mi sono iscritta al Great Foodblogger Cookie Swap.
Che cos’è: fondamentalmente uno scambio di biscotti tra sconosciuti accomunati dal fatto di possedere un food blog attivo. Spedisci 3 dozzine di biscotti e ne ricevi altrettanti da blogger sorteggiati random.
È vero che il pericolo dello “scambio di ricettine” incombe dietro l’angolo, ma c’è qualcosa di più. C’è che è una rete internazionale (anche se per motivi doganali gli scambi avvengono tutti all’interno dello stesso paese), che partecipano centinaia di blogger e che il tutto ha uno scopo benefico: i 4$ dell’iscrizione sono infatti interamente devoluti alla ricerca sul cancro infantile.
Ecco cosa ho imparato da questa burrosissima operazione:
Donare è bello - lo sapevo già - anche e forse soprattutto tra sconosciuti. È commovente la cura che dedichiamo all’imballaggio dei nostri piccoli tesori calorici per farli giungere integri a destinazione.
Cucinare per gli altri è un esercizio che fa bene soprattutto a sé stessi. Sapevo anche questo, ovviamente, altrimenti non si spiegherebbero le sveglie puntate a ore antelucane per infornare pagnotte, o le sere passate a preparare un dolce mentre il tuo corpo cerca di resistere al buco nero che si forma intorno al letto.
Spedire e ricevere pacchetti è emozionante. Dopotutto non siamo abbastanza giovani da non sapere cosa vuol dire scrivere una lettera e aspettarne una. Ecco, questa cosa dello spedire pacchi vorrei ricominciare a farla più spesso, Poste Italiane permettendo (sorvoliamo su tutto, a partire dal fatto che non si può pagare con il bancomat).
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Come da regolamento, ecco la ricetta dei Matcha-White Chocolate Sugar Cookies che ho inviato a Stefania, Simona e Michela. L’ho presa da Bon Appétit e la traduco qui in italiano.
Ingredienti
¾ cup di zucchero semolat ½ cucchiaino di più 2 cucchiai di tè matcha 2 cup di farina ¾ cucchiaino di bicarbonato di sodio ½ cucchiaino di sale 225g di burro tagliato a pezzi, a temperatura ambiente ½ tazza di zucchero di canna 1+½ cucchiaio di miele 1 uovo grande 1 tuorlo d'uovo 2 cucchiaini di scorza di limone finemente grattugiata 85g di cioccolato bianco tritato
Procedimento
Mescolare ½ cup di zucchero semolato e ½ cucchiaino di tè matcha in una piccola ciotola; mettere da parte.
Mescolare la farina, il bicarbonato, il sale, e i rimanenti 2 cucchiai di tè matcha in una ciotola di media grandezza. Utilizzando uno sbattitore o una planetaria a media velocità-alta, montare il burro, lo zucchero di canna, il miele, e il restante zucchero semolato (¼ di cup) in una ciotola fino a che il composto sia chiaro e soffice (serviranno circa 4 minuti). 
Aggiungere l'uovo, il tuorlo e la scorza di limone e continuare a sbattere fino a quando il composto diventa molto pallido, circa altri 4 minuti.
Ridurre la velocità dello sbattitore o planetaria a bassa e, sempre con il motore acceso, aggiungere  la farina; mescolare fino a quando non rimangono più punti asciutti. Usando un cucchiaio di legno o una spatola di gomma, aggiungere il cioccolato bianco.
Avvolgere impasto in pellicola e refrigerare per almeno 2 ore e fino a un massimo di 5 giorni. 
Riscaldare il forno a 180°. Formare delle palline di impasto (1 cucchiaio scarso) e schiacciarle leggermente con le mani; disporle su 2 teglie ricoperte di carta forno, lasciando circa 2,5 cm tra un biscotto e l’altro. Cuocere fino a che la parte superiore dei cookie non si asciuga, circa 8-10 minuti.
Appena sfornati passare i cookie nello zucchero con il matcha tenuto da parte e metterli a raffreddare su una griglia.
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pepperskitchen · 9 years
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Pizza e birra, ovvero del comfort food nazional-popolare in salsa foodie
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Pizza e birra. Un binomio che sa di Notti Magiche, di estate italiana, di adolescenti brufolosi in pericolosissime adunate post-scolastiche, l’incubo dei gestori dei locali sul lungomare (se avete fatto il liceo in una città di mare). Con quel retrogusto di maxi schermo, o di schermo casalingo (e una vaga reminiscenza di rutto libero fantozziano). 
In questo post non vorrei solo esibire la mia indubbia conoscenza in fatto di hit musicali trash (anche se non mancheranno i riferimenti), ma mi piacerebbe riabilitare questa abbinata comfort food-comfort drink. D’altra parte, la cultura birraria in Italia è ormai sdoganata, ed è sempre più facile trovare buone birre artigianali o di piccoli produttori anche in locali mainstream; meno facile, a mio parere, trovare buone pizze: troppe volte capita ancora di ritrovarsi a rotolare nel letto boccheggianti, la notte, maledicendosi per non aver seguito il proprio istinto gastrofighetto (che talvolta, va detto, cozza con la socialità). 
Tornando alla coppia nazional-popolare, pare che l’idillio risalga addirittura agli albori della civiltà: ai tempi degli egizi, inventori, oltre che delle piramidi e della schiavitù in funzione delle grandi opere, proprio della birra.  Si narra che un maldestro trasportatore di birra (forse perché camminava con i piedi di traverso rispetto al tronco?) rovesciasse un po’ dell’ambrata bevanda su un impasto di acqua e farina, pronto per produrre pane non lievitato; l’unico “pane” che in effetti si conoscesse fino ad allora, fino a quando cioè proprio gli enzimi contenuti nella birra non innescarono quella reazione chimica che va sotto il nome di lievitazione.
Se la storia fosse vera, dovremmo dire grazie proprio alla birra per la nascita della pizza e di tutti i lievitati di questo mondo. Ma anche se non fosse così, che importerebbe? Pizza e birra sono semplicemente fatte l’una per l’altra. L’importante è che la pizza sia ben lievitata, magari con un lievito naturale, ben cotta e condita senza eccessi, e che la birra (come ci insegna Assobirra) sia ben spillata, ovvero con il giusto “cappello” di schiuma a preservarne gli aromi e ad evitarne l’ossidazione.
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Per quanto mi riguarda, la mia scelta in fatto di pizze oscilla tra i due poli della Margherita con bufala e l’adorabile tonno e cipolla, anche nella variante acciughe e cipolla. A queste ultime mi piace abbinare delle Weiss morbide, leggere e non troppo fruttate, proprio per bilanciare i sapori forti e un po’ ruvidi del condimento.  
La ricetta che seguo, nella panificazione casalinga, è quella del “maestro” Riccardo Astolfi, Mr. Pastamadre: nel post trovate anche i link alle spiegazioni sull’impasto e sulla cottura. Vale la pena di leggere tutto e mettersi subito con le mani in pasta. Vi dico solo che lievito ben temperato e 24 ore di lievitazione fanno davvero la differenza, in termini di leggerezza e digeribilità. Finché non provate non ci credete!
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pepperskitchen · 10 years
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[Disclaimer: no silver lining in questo post]
La scorsa settimana a Milano c'era un sole meraviglioso, probabilmente passato a salutarci prima di essere inghiottito dalle nebbie autunnali. Era una di quelle giornate in cui prendere la macchina fotografica, infilare l'essenziale in borsa, e uscire senza meta a fare foto. 
La cosa incredibile è che l'ho fatto (ci voleva Canon Academy con un workshop sulla Street Photography). Incredibile perché erano anni che non lo facevo, e non me ne ero neanche accorta.
Dall'euforia sono passata a farmi le domande scomode, come dopo le peggiori sbronze. Davvero voglio una vita in cui non mi posso ritagliare neanche due ore, un pomeriggio, per fotografare? O che ne so, per fare qualsiasi altra cosa che non sia lavorare? Sono pagata per fare un lavoro creativo e che mi piace molto, ma che ne sarà della mia creatività se passo la giornata a scrivere e leggere mail? E soprattutto, quanto è bella Milano con il sole? 
Cominci a fare foto e ti ritrovi a riflettere sulla vita. Su quell'equilibrio che non riesci a raggiungere mai, e sugli ostacoli che ti crei per non raggiungerlo. E su come fare ad abbatterli.  Nel frattempo, per consolarti, c'è una full frame Canon di ultima generazione e una lente meravigliosa. Stabilizzata, almeno quella.
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pepperskitchen · 10 years
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Beviamoci su! Là fuori c’è un’Italia diversa, e nessuno verrà a raccontarvela.
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Qualche settimana fa, durante l’ultima Soul Salad a Impact Hub, chiacchieravamo con Daniel Tarozzi, il giornalista indipendente che per un anno ha girato l’Italia che cambia e ne ha scritto un libro.  Si parlava di un’Italia bella, che esiste e resiste nonostante tutto, e che quasi nessuno racconta. 
Troppe cose non vanno come dovrebbero andare e lo sappiamo: conosciamo perfettamente tutti i difetti del nostro Paese, e tendenzialmente li attribuiamo a qualcun altro (i politici, i giornalisti, gli insegnanti, gli immigrati, i foodblogger: scegliete pure la categoria che vi sta maggiormente sulle palle); ci scandalizziamo - giustamente - per i tanti casi di malfunzionamento; e per il resto ci crogioliamo nella retorica del marcio. Perché è più rassicurante, e più facile, riempire le nostre bacheche Facebook di “VERGOGNA!”, diventare moralisti da tastiera o da divano, senza alzare un dito in più di quello necessario a digitare o a schiacciare i tasti del telecomando. Il disfattismo, la lamentela, l’indignazione vendono bene e l’hanno capito in tanti, soprattutto chi deve produrre consenso, da tradurre in moneta sonante o in voti: dai media alla politica. Se tutto fa schifo, tanto vale non cambiare nulla.
Poi, appunto, c’è quell’Italia, e quegli Italiani, che a questa storia non credono. E durante l’ultimo viaggio, in Toscana, ne ho avuto un esempio. 
Ero in Val d’Orcia e ho avuto la fortuna di visitare l’Azienda Salcheto, a due passi da Montepulciano. Ci sono andata per i vini, il Rosso e il Nobile, prevalentemente biologici, e quello che ho scoperto è una realtà di assoluta avanguardia a livello internazionale. Salcheto è la prima azienda vinicola completamente ecosostenibile e off-grid in Italia, una delle prime in Europa. 
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Si viene accolti in enoteca: uno spazio moderno, quasi scandinavo, concepito per l'assaggio dei vini e con piccola cucina fatta di prodotti locali e biologici.
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Che ci sia qualcosa di speciale lo si capisce subito: la visita comincia in terrazza - magnifica la vista - sulla quale sono atterrate decine di piccole navicelle aliene. Sono i collettori di luce che convogliano i raggi del sole direttamente in cantina, dove funzionano come veri e propri fari. Non solo: durante la vendemmia vengono usati come “tubature” per portare l’uva direttamente nelle botti.
La cantina stessa viene mantenuta alla temperatura di 16-18° in tutte le stagioni grazie al materiale isolante di cui è fatta la terrazza stessa, e alla parete di sempreverdi che la delimita. 
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Se già l’esterno sembra stupefacente, nel cuore della produzione si cela qualcosa di ancora più straordinario: le botti per la fermentazione, quelle in acciaio, sono un brevetto dell’azienda in partnership con un produttore del Nord Italia e permettono di riciclare l’anidride carbonica prodotta per mescolare il mosto senza interventi esterni. Sono i primi al mondo ad utilizzare questo sistema. Oltre a queste, le classiche botti in rovere di Slavonia per la fermentazione dei vini DOCG e quelle più piccole, in rovere francese e spagnolo, per l’invecchiamento in barrique. 
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Rispetto della natura, sostenibilità, ricerca e innovazione nel solco della tradizione: è così che mi immagino il futuro del mio Paese. E me lo immagino eccellente, come i vini che abbiamo assaggiato - e comprato, per portarli a casa. Alla nostra salute!
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Indirizzo Via di Villa Bianca, 15 53045 Montepulciano (SI)
tel. 0578.799031 [email protected]
Tutti i giorni dalle 10 alle 18
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pepperskitchen · 10 years
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Perché ci piace mangiare con gli sconosciuti, o del Social Eating e delle #CineCene
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[Tutte le foto di questo post sono (c) Cooking Movies e #CineCene]
Ve lo ricordate il 2010? Metà delle persone non possedeva uno smartphone, esisteva ancora Splinder, Friendfeed stava uno splendore e le pubbliche amministrazioni si riempivano la bocca del mantra “web 2.0.”. Un'era geologica fa. Di quell’anno ricordo il primo Foodies in MI, nient’altro che un aperitivo tra foodies milanesi organizzato da Jasmine e Manuela, al solo scopo di conoscersi e condividere una passione: nel 2010, il Social Eating ante litteram.
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Tra le new entry di questo mondo c’è Elisa, che ha unito le sue due grandi passioni, il cinema e la cucina, prima nel suo blog Cooking Movies, e poi nello spin-off delle #CineCene. Le #CineCene sono eventi dove cibo e film ruotano intorno a un tema cinematografico, sempre diverso, con un menu a tema, ideato e realizzato dal team di CucinaIn. Ma non si mangia soltanto: si gioca anche con il grande cinema. Come nelle quiz night dei pub inglesi, i partecipanti vengono divisi in squadre che si sfidano a colpi di film. L’obiettivo è di indovinare tutti quelli da cui sono tratti gli spezzoni proiettati, e non è facile (specie dopo quei 3-4 bicchieri di vino indispensabili alle persone timide per rompere il ghiaccio).
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Ho partecipato alla #CineCena del 18 settembre; per facilitarmi (vedi sopra) il tema era Cinema diVino e il menu - per me in versione veggie - era totalmente dedicato alla vendemmia. Ma la vera notizia è che ho vinto! Ero in squadra con un piccolo gruppo di habitué delle serate e cinefili incalliti che mi hanno permesso di trionfare con facilità (una laurea in Scienze Politiche è sempre utile quando si tratta di sfruttare a proprio vantaggio il problema del free rider).
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Carica di doni sono rientrata a casa, felice della serata social (e con un bizzarro desiderio di rivedere “Il bisbetico domato”). Se non temete questi effetti collaterali potete partecipare alla prossima #CineCena: si terrà il 13 novembre e ci sono ancora posti liberi, scrivete a [email protected] per prenotarvi.
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pepperskitchen · 10 years
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Con le mani in pasta. Ricominciano le Soul Salad di Impact Hub.
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Sto vivendo una fase di razionalizzazione dei miei impegni e di economizzazione del tempo. Non solo insalate, per uscire dalla busyness bubble, ma anche - per dirla con uno slogan anni '90 - impegni concreti. 
È per questo che ho anche tanta voglia di mettere le mani in pasta (e, a proposito, me le sto mangiando, le mani, per non essere andata a Food Immersion, a Reggio Emilia, lo scorso weekend).  Il mio amore per il cibo è in moto oscillatorio tra la passione per il mio lavoro - parlare, scrivere, raccontare di cucina - e la voglia di cucinarlo, quel cibo di cui parlo, scrivo, racconto.
È innegabile che in questo momento mi sto interrogando su chi voglio essere. Non da grande, ma ora. Ed è salutare, ogni tanto, fare decluttering mentale, a costo di farsi domande scomode. 
Uno dei momenti in cui riesco a conciliare la bipolarità sono le Soul Salad di Impact Hub Milano: anche quest’anno sono la resident foodie-chef (così mi hanno definito anche nelle Kitchen Stories nate nel co-working), un impegno che ho rinnovato con entusiasmo.  Per chi non le conoscesse, le Soul Salad (evoluzione delle Sexy Salad), sono appuntamenti mensili all’ora di pranzo aperti a tutti, sia Hubbers che non. Si mangia insieme condividendo cibo e idee. Il pranzo lo cucino io con una squadra di fidate host, le idee le mettono i nostri ospiti, invitati a raccontare il proprio progetto sul tema del mese.
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A settembre si parlava moda, ma non (solo) quella della Fashion Week con tutti i suoi lustrini. In compagnia di Web Fashion Academy, il primo co-working dedicato al settore, abbiamo scoperto il lato trendy della sostenibilità.
Ecco il menu del pranzo: Cous cous integrale con pomodori, cetrioli, ceci e limoni confit homemade (vegan) | Parmigiana di melanzane in versione light (veggie) | Insalata con pesche grigliate e noci (vegan) | Zucchine e carote saltate con dressing al tahine e limone (vegan)
E la ricetta (vogliamo davvero chiamarla così?) del dressing che in tanti mi hanno chiesto: 2 cucchiai di tahine, 2 cucchiai di succo di limone, mescolare energicamente. Aggiungere acqua q.b. per ottenere una consistenza vagamente simile a quella della maionese. Io l’ho usata per condire le ultime zucchine di stagione, tagliate a bastoncini e saltate in padella con uno spicchio d’aglio e le carote, anch’esse pelate e tagliate a bastoncini, precedentemente sbollentate in acqua leggermente salata.
Ed ecco come mi sento io dopo aver cucinato per 4 ore, per sfamare una trentina di persone: Esausta. Prosciugata. E felice.
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pepperskitchen · 10 years
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Siamo in una bolla, e ci siamo dentro fino al collo. Tre insalate per combattere la busyness bubble.
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Lunedì ho ricominciato a lavorare. Vacanze archiviate, riparto come sempre piena di entusiasmo e ottime idee per massimizzare la mia efficienza e ottimizzare il mio tempo, con l’obiettivo di non ridurmi a uno straccio che si ammala a ogni soffio di vento.
Quest’anno sarà diverso? Ormai ho smesso di fare buoni propositi, preferisco investire in consapevolezza e senso della realtà. Per esempio, mentre ero in vacanza ho persino avuto il tempo di leggere un post su LinkedIn, e ho appreso di essere in una bolla. E pare che ci siamo dentro in tanti, e ci facciamo buona compagnia.
We have a problem—and the odd thing is we not only know about it, we’re celebrating it. Just today, someone boasted to me that she was so busy she’s averaged four hours of sleep a night for the last two weeks. She wasn’t complaining; she was proud of the fact. She is not alone.
Vi ricorda qualcosa, o qualcuno? The Busyness Bubble, con toni alquanto catastrofisti, secondo Greg McKeown è “The three-word problem that can destroy your life”. In pratica, lavoriamo troppo, ce ne vantiamo pure e facciamo di tutto per liberare tempo in modo da poter lavorare ancora di più. Il post va avanti dando consigli per una “rivoluzione”: pianificare un check trimestrale per fare il punto e programmare il proprio lavoro; dedicare il giusto tempo al riposo e al sonno; assegnare una data di scadenza a ogni nuova attività; dire no a una buona opportunità ogni settimana (questo me lo dovrei tatuare).
Certo, più che di rivoluzione si tratta di buon senso. Ma non mi sembra che questo abbondi sulle nostre bacheche di Facebook e nei discorsi orecchiati in giro. Milano, poi, in questo è terribile: una volta ho sentito dire con disprezzo che “la pausa pranzo è da impiegati”, e memore di questa perla ho pensato di aggiungere il mio personale consiglio anti-bolla a quanto sopra: mangiare, e mangiare bene. Perché oltre alle quotidiane prove di abnegazione e stacanovismo condivise sui social, le foto dei pranzi davanti al computer non si possono proprio più vedere. Dopo le #colazionibulgare, i #pranzidacoloniapenale anche no. [E no, un gelato non è un pranzo (a meno che non sia artigianale e con almeno 3 gusti. Ma no, neanche quello)].
Non saranno quei 30-60 minuti spesi per trattarsi bene a stravolgere le sorti del nostro lavoro, tantomeno quelle dell'umanità. E allora, per chi può lavorare da casa, ecco tre insalate buone e colorate, da consumare in piatti belli e su tavole apparecchiate, lontano dalle mail.
1. Vedi foto su: misticanza di fiori e foglie (si trova da Eataly), quartirolo lombardo dop, mirtilli; condita con olio extravergine, fior di sale e aceto balsamico
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2. Valeriana, pompelmo rosa, avocado, scaglie di pecorino, semi misti; condita con una citronette di succo di pompelmo, sale e olio extravergine
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3. Lattuga, broccoli scottati e raffreddati, ceci, semi di zucca tostati; condita con un’emulsione di succo di limone e tahine
Nella pausa pranzo io ci credo, e voi?
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pepperskitchen · 10 years
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La felicità è una ricetta semplice. A Creta fra terra e cielo.
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Questo avrebbe potuto essere un post da ascrivere alla sempre crescente letteratura di e per freelance: avrei potuto intitolarlo "Il multitasking è il male. L'importanza di fare una cosa alla volta, vacanze comprese", e argomentare l'importanza di non lavorare in vacanza (e sì, leggere e rispondere alle mail è lavorare).
Oppure avrei potuto scrivere un post di fatti miei, e raccontare quanto disperato fosse il mio bisogno di vacanze dopo un anno (anzi due) in cui tra lavoro, faccende private e problemi di salute sono arrivata a quest'estate più o meno così. Possibile titolo: "5 luoghi dove andare in vacanza prima diventare un serial killer".
Non si saprà mai se ne sarebbe valsa la pena. Perché voglio scrivere, invece, di un viaggio, e della forza straordinaria di una terra da cui ho imparato ancora una volta che, spesso, la semplicità è la risposta ai pensieri contorti e ai problemi che ci raccontiamo. Anche a tavola.
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Creta è un'isola dalla scorza dura. Pietra grigia e terra ocra, interrotte solo dall'ostinazione della macchia profumata, in cui si aprono fratture fertili: le piane e i colli punteggiati di ulivi e pettinati dai filari delle viti, degli orti e dei frutteti. Sono all'interno, nascosti agli occhi del viaggiatore frettoloso.
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Terra, soprattutto, capace di regalare frutti incredibili: non esiste un solo frutto, verdura, erba spontanea, a Creta, che non sia di straordinaria bontà. Semplicità estrema, quindi, nella cucina: un piatto di horta (verdure selvatiche, bollite e condite con olio, limone e sale) è capace di rimetterti al mondo meglio di qualsiasi altra cosa. Poi ci sono i formaggi, come il mizithra, concorrente locale della più famosa feta: di pecora, non pastorizzato, perfetto insieme alle insalate più gustose (come quella di portulache: si mangiano, e sono anche molto buone), o per arricchire le verdure al forno, o ancora nei ripieni di favolosi tortini di pasta phyllo (al forno o fritti).
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La religione dei mezedes - piccoli (si fa per dire) piatti di antipasti - è venerata anche qui, con le sue varianti locali che si affiancano ai must di ogni taverna greca. Il mio preferito: la fava, un purè di fave - sono pur sempre di origine pugliese - accompagnato a volte da cipolle fresche o caramellate.
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Montuosa, aspra, a volte mite, ma sempre isola: e quando la terra dura si scioglie in mare, cristallino come può esserlo solo il Mediterraneo, sono spiagge dalla bellezza incontaminata (a sud e a ovest, soprattutto). Non di rado ci vogliono gambe e allenamento per raggiungerle, e la ricompensa non può che essere il pescato del giorno, condito con l'onnipresente - grazie al cielo! - olio extravergine, emulsionato con succo di limone.
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La cucina cretese è una mappa dell'isola. Delle sue aree geografiche, dei suoi aromi e delle sue zone vinicole in pieno boom. Una mappa che si può navigare tra taverne e kafeneio, tutta sostanza e poca immagine, così come in qualche ristorante più strutturato e attento alla ricerca (qualche indirizzo in fondo). I luoghi dell'ospitalità, dove a fine pasto non mancano mai qualche bicchiere di raki e frutta e dessert offerti dalla casa.
Le ricette sono quelle della felicità, plasmata dal vento e dal sole.
Indirizzi Taverna Ethimiko Odos Agias Varvaras Agios Mironas - Iraklio
Elia & Diosmos Skalani - Iraklio
Taverna Sactouris & Sofia Sivas - Rethymno
Portes Portou 48  Chania
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pepperskitchen · 10 years
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Cosa vuol dire (anche) essere freelance: lavorare un paio d’ore in un posto così, il cielo come soffitto, un orto botanico (quello di Brera) come ufficio.
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pepperskitchen · 10 years
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Mollo tutto e mi metto a panificare: Davide Longoni e il senso di un mestiere
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“Panificare è un atto di autostima. Il pane non può venirti bene se sei insicuro, se non ci metti tutta la tua convinzione”. 
Premesse e promesse mantenute, perché sfornare cose come quelle delle foto di questo post ha un imparagonabile effetto push-up sull’ego.  C’è il momento puntuale di felicità quando l’ammasso granuloso si trasforma, dopo lunghi minuti di fatica, in una palla liscia e omogenea; quando “metti in ordine” le fibre disordinate, e tutto sembra finalmente avere il suo posto nel mondo. C’è l’impasto da accudire, mentre lievita, controllando che non prenda colpi d’aria. E poi il profumo e il sapore del pane appena sfornato.
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Nel frattempo, Davide ha anche pubblicato il suo nuovo libro, che non è l’ennesimo compendio di ricette (grazie). Nonostante il titolo da Nordic Thriller, “Il senso di Davide per la farina” racconta una storia di impresa italiana: una di quelle che vorremmo leggere più spesso in un Paese intrappolato nella stanchezza, nei cliché e in questo clima di resa perenne. Fuori dalla retorica del food business, ma anche da quella delle start-up fondate da giovani quarantenni. 
È una lettura entusiasmante, in cui scoprire il dietro le quinte di un lavoro tanto di fatica quanto di intelletto: c’è la ricerca, la sperimentazione -  il viaggio in questo è essenziale - e la curiosità rendono questo, in definitiva, un lavoro che si può solo definire culturale, perché celebra la meravigliosa ricchezza del nostro patrimonio.  Nel processo alchemico che condensa terra, fuoco, acqua, aria, dando origine al pane, c’è la nostra storia di popoli mediterranei, secoli di bellezza.
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Il libro percorre le tappe dell’evoluzione di Davide panettiere (laureato in lettere) nell’azienda di famiglia, che rivoluziona tutto senza mai rinnegare le origini e diventa un artista dell’impasto, affascinato da un metodo di panificazione nuovo e antico al tempo stesso. In parallelo, c’è un adolescente che diventa uomo e cresce, impara, sogna.
Ho capito che la forza di un’idea vale più della capacità professionale: i mestieri si imparano, le idee, invece, se non ci appartengono difficilmente prenderanno forma. 
Che cosa vuol dire allora essere un professionista, o un’impresa, di successo? Vuol dire amare follemente il proprio lavoro, con una passione inestinguibile per la qualità: quella stessa passione che ti spinge a fare le cose bene perché, semplicemente, è giusto così.
È esattamente questo a trasformare ciò che facciamo in un’opera d’arte, in un processo creativo che non si arresta. Perché la qualità è contagiosa […]. Chi la percepisce non può esimersi dal farla propria e trasmetterla a sua volta. Ecco perché, soprattutto in cucina, il giusto atteggiamento interiore è forse l’ingrediente principale […]: l’ansia, la fretta, il desiderio di ottenere un risultato ancora prima di cominciare bloccano la nostra creatività e impediscono al corso delle cose di svilupparsi liberamente.
Davide presenta il suo libro domani, 7 giugno, alle 11.30 presso il suo panificio in via Tiraboschi 19 a Milano.
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pepperskitchen · 10 years
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Quella sospensione del tempo che si è attuata tra Pasqua e i primi di maggio di quest’anno (una concatenazione di festività e ponti che non si ripeterà per i prossimi 132 anni, suppongo) è stata un continuo esodo e controesodo in una Milano in versione preview di Ferragosto. 
Neanche io mi sono sottratta, questa volta, e per qualche giorno ho spento cellulare e computer (quasi) e sono traslata nella piovosa ma pur sempre affascinante Bordeaux. 
Incurante del fatto che è passato ormai un mese - ma con una polmonite di mezzo - e fedele al punto 2 della mia to-do list dell’anno, mando qualche cartolina. 
Bordeaux è la città che ha detto no alle macchine e sì al tram, alla bici, ai pattini e ai piedi sul lungo fiume. Che poi il centro storico medievale sia ancora un po’ intasato, è un’altra storia, ma ci si sta lavorando: intanto ci si gode il pavé dissestato e i locali bohémien di questa versione mignon e più vivibile di Parigi (e come tale, buen retiro di tanti parigini pentiti), nei suoi edifici di pietra calcarea, che pian piano ritrovano il loro colore chiaro dopo anni di inquinamento impenitente.
Bordeaux è un agglomerato di piazzette e fontane, negozi hipster e librerie indipendenti. Il passato industriale, trasformato dalla potente industria culturale francese e da qualche dubbia operazione immobiliare, convive con il tessuto storico, quando la vera industria era solo il vino e il suo commercio.
Ottimo vino, naturalmente, e ognuno trovi il suo Chateau di riferimento.  Per quel che riguarda il cibo, cucina araba, marocchina e libanese si mescolano alle tradizioni rivisitate, e ai prodotti del terroir: mélange perfettamente riuscito nella zona di Saint Michel e nel vicino Marché des Capucins, mercato autentico che vale più di una sosta.
Per gli amanti del dolce la sfida è trovare il miglior canelé della città, morbido ma croccante, appena tiepido, profumato di vaniglia e senza retrogusto di uovo. Difficilissimo farlo bene, come tutte le cose semplici.
E poi c’è il mare, proprio oltre il fiume. Il salmastro arriva fino in città e ti porta naturalmente verso di sé, a esplorare la Dune du Pilat, il Bassin d’Arcachon con le ostriche freschissime, le più buone - ed economiche! - d’Europa, e l’Oceano, che ti chiama per il prossimo viaggio.
Indirizzi
Marché des Capucins Place des Capucins, Bordeaux Mar/Ven 6.00 - 13.00 Sab/Dom 5.30 - 14.30 http://marchedescapucins.com
Canelés Baillardran 29, rue Porte-Dijeaux, Bordeaux http://www.baillardran.com
Village ostreicole de l’Herbe Commune de Lège Cap Ferret Bassin d’Arcachon
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pepperskitchen · 10 years
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Cartoline da Lambrate. Il Fuorisalone è finito, ed erano anni che non mi sentivo così in sintonia con la città: c'era un'energia diversa, nuova, positiva, la sensazione che forse, se vogliamo, ce la possiamo fare.
Io ho amato Brera, sempre più nuova, e le Biciclette Ritrovate; i cortili aperti delle 5Vie, l'intrico di strade della Milano medievale finalmente restituito (anche se temporaneamente) ai pedoni; Palazzo Clerici e la sua bellezza decadente (e sì, potremmo fare anche qualcosa in più, che se questo palazzo fosse in Francia o in Inghilterra non oso immaginare che meraviglia sarebbe); e ovviamente Ventura-Lambrate, il paesino urbano che una volta all'anno vive di questa benefica invasione olandese. 
C'era il sole e la gente sorrideva. Milano, ti voglio così sempre.
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pepperskitchen · 10 years
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Cose di un luogo che si imparano nei bar - Amsterdam Edition
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Quella del baretting è un’arte amena, sottile, meno facile di quel che sembra. Ci vuole pazienza, occhio, a volte colpi di fortuna. Andar per locali e baretti potrebbe essere frainteso come il girovagare ozioso del viaggiatore pigro, che preferisce stare seduto a bere e mangiare invece che spezzarsi la schiena tra l’incedere lemme delle visite ai musei e il passo da maratoneta indispensabile per non perdersi neanche un monumento.
Io, che in gioventù ho peccato spesso di stacanovismo da viaggio, con il tempo - e con la vecchiaia che rende saggi, oltre che stanchi - ho imparato che spesso bevendo un caffè o consumando un pasto si impara tanto quanto visitando un museo. 
Nelle pause caffè cerco lo spirito e la cultura di un popolo: cosa si beve o si mangia, quanto, come, con chi? Eccolo qui il genius loci.  Ma trovare i posti giusti è il punto critico; occorre seguire il proprio naso (anche in senso letterale), o affidarsi ai consigli di un local, di chi una città la vive o l’ha vissuta da abitante. Come abbiamo fatto noi ad Amsterdam grazie ai preziosi consigli di Antonella.
Nei locali di Amsterdam ho visto una ricerca costante tra gusto e design. Il gusto delle mille contaminazioni, dalle Colonie e ritorno, in un meticciato culturale davvero sorprendente per una città di dimensioni tutto sommato ridotte: si mangia indonesiano, come al piccantissimo Kantjil, oppure indiano, turco, cinese, thai, o un mix mediterraneo-mediorientale, come al Bazaar, ottima sosta eclettica per riprendersi dalle compere in De Pijp, all’interno di una sinagoga sconsacrata. I sapori del mondo convivono amabilmente con quelli più classicamente dutch: imperdibile la crostata di mele di Winkel.
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Nella capitale olandese si mangia benissimo tutto ciò che è bio e veggie, ma senza fighetterie inutili o sovrapprezzi ingiustificati. C'è addirittura una sorta di self-service in chiave organic: si chiama La Place e mi ha ricordato  in qualche modo Whole Foods. Qui però vincono i mercatini - come quello di Noordemarkt o quello di Westerpark - dove naturalmente si può mangiare e incontrare amici e non; dove tutti sono sorridenti e i weekend sembrano davvero weekend. Gli olandesi sono lucertole, che appena spuntano due raggi di sole tutti fuori di casa, anche con un semplice pouf spostato dal salotto all’uscio.
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E il design. Da quello ti accorgi che sei più vicino al Nord Europa, nella sua funzionalità essenziale: il pragmatismo dell’Ikea, che ci ha insegnato che davanti a un mobiletto da montare siamo tutti uguali - mediamente incapaci - ma anche quello dei grandi architetti e designer che uniscono bellezza, comodità ed ergonomia in poche, semplici linee. È impressionante la cura dei dettagli che ogni locale regala al visitatore: ci si sente accolti in posti veri, che hanno anima e carattere. Insuperabile, in questo, De Bakkerswinkel, bakery che offre pasti semplici e gustosi a tutte le ore del giorno. Se invece si parla di anima, Moeders è un bar di Amélie in Hollandaise Sauce: con l’horror vacui delle pareti, piene di foto di mamme, e le stoviglie tutte diverse, tutti doni di chi ha partecipato all’inaugurazione del locale, è adorabile.
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Nei bar di Amsterdam ho visto un popolo rilassato, amante della socialità, internazionale. In una città bellissima e storta, dove il problema che ho incontrato più spesso è stato trovare un palo libero per legare la bici o scegliere quale concerto andare a sentire la sera. Un posto civile, abitato da persone civili. O sarà che quando viaggiamo siamo tutti più felici?
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I locali citati, e molti altri, si trovano sulla mia lista Amsterdam su Foursquare.
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pepperskitchen · 10 years
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Che cosa raccontano le foto che facciamo - Note a margine di #CanonMFW
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Un paio di settimane fa ho partecipato ad un evento della Milano Fashion Week.  Ok, il 2014 è l’anno delle novità [spoiler alert!], ma in questo caso l’eccezionalità del fatto è tutta da ridimensionare. Avrei avuto poco a che fare con la settimana dell’anno che mette più a dura prova la mia autostima, se non fosse stato per sentir parlare di fotografia.
Canon ha organizzato un workshop dedicato all’immagine - L'importanza delle immagini nella narrazione digitale - perché a noi blogger vuole bene e vuole che facciamo foto sempre più belle. Magari con i suoi prodotti (tipo la nuova Selfie Camera, la fotocamera che vezzeggia l’ego). Non ho problemi a dichiararlo: uso una reflex digitale Canon da anni, la amo e la consiglio a tutti, anche se non mi faccio problemi a tradirla con altre macchine più agili e compatte, quando serve. 
Il fatto che i relatori fossero Domitilla Ferrari e Massimo Fiorio è stato il valore aggiunto smart/pop dell’evento (qui le slide): e così abbiamo scoperto, o ci siamo ricordati, che anche Leonardo si faceva i selfie - per non parlare di Rembrandt, un vero maniaco; e che tra food photography e foodporn il confine è labile e la differenza la fa non tanto e non solo la qualità delle immagini, ma soprattutto cosa vogliamo raccontare di noi e come lo raccontiamo. 
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[mea culpa: chi non ha mai fatto un #toiletselfie scagli l'iPhone]
Collezionare compulsivamente selfie, check-in, souvenir visivi di ogni evento che Dio o l’agenzia di PR di turno mandano in terra ha poco senso, se non si produce un valore aggiunto per sé e per gli altri. Passare dallo sharing allo showing-off è fin troppo facile, e ci vogliono una buona dose di buon senso e autoironia per tenersi in equilibrio.
Non tutti hanno compreso che la rete è uno straordinario strumento di dialogo e relazione (pubblicità per il libro di Domitilla, qui. E non mi ha manco pagato), e che ogni volta che pubblichiamo un contenuto dovremmo imparare a chiederci: per chi sto scrivendo? Chi e come potrà beneficiare di questo post? Quello che sto pubblicando è corretto o potrà danneggiare qualcuno?
Possiamo decidere di aprire le porte di casa nostra, che sia la Casa Bianca, o quella di un comune mortale (magari con la tavola imbandita per la colazione, rigorosamente fotografata dall’alto)
Il punto è che, se vogliamo raccontare, meglio prenderci le nostre responsabilità e farlo bene: con le parole, con le immagini e con quanto di noi ci mettiamo dentro.
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pepperskitchen · 10 years
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To-do: 5 cose da fare alle soglie dei 31 anni
Di buoni propositi ne faccio pochi perché mi provocano una certa ansia da prestazione, e se capita non è mai in prossimità delle feste comandate - quando cogito poco e male a causa dei grassi saturi in circolo. 
Però adoro le liste; amo riempirmi la vita di punti elenco, e provo una soddisfazione fuori dal comune nel mettere quei piccoli tick sulle attività completate. O, ancora meglio, a tirare una bella riga nera sopra quelle più ostiche. 
Questa è la mia checklist per il futuro più o meno prossimo, che potrebbe coincidere per convenzione con l’anno che inizia dopo il mio compleanno (manca poco). Riguarda me e anche questo blog, che - spesso in maniera asincrona e un po' schizofrenica- segue parte di quello che faccio nella vita fuori dall’Internet.
1. Tagliare. Se il 2013, l’anno dei miei 30, è stato quello della consapevolezza, ho ancora qualche peso che voglio abbandonare. A sfoltire ho cominciato dai capelli; ho fatto il decluttering del secolo qualche settimana fa; ho liberato giga di spazio nell’hard disk. Poi ho letto questo oroscopo di Rob Breszny:
“Credo più nelle forbici che nella matita”, diceva lo scrittore Truman Capote a proposito del suo processo creativo. […] A giudicare dai presagi astrali, Pesci, sei in una fase che richiede più l’uso delle forbici che quello della matita. Quello che butterai via aumenterà la bellezza e il valore a lungo termine della creazione alla quale stai lavorando. 
Nel blog: post più leggeri, spero più frequenti. Meno (o niente?) ricette, perché si possono trovare altrove e ovunque, scritte e fotografate meglio. 
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2. Viaggiare. Continuare a farlo, ma in tre dimensioni: il prima, il durante e il dopo. E raccontare, meglio e di più.
Nel blog: viaggi nero su bianco, foto, e qualche arretrato perché alcune esperienze sono da condividere (alla faccia del real time).
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3. Pranzare. Che è una cosa diversa dall’introdurre del cibo nel proprio esofago, di fronte a uno schermo, la forchetta in una mano e il mouse nell’altra (la sfiga di essere quasi ambidestra, e totalmente multitasking).  Nel mio piatto voglio colori, freschezza, e il tempo per volersi bene.
Nel blog: forse qualche non-ricetta da #pausapranzo, spunti(ni) e foto di Instagram.
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4. Scoprire. La settimana scorsa sono stata a Identità Golose 2014 e mi hanno entusiasmato i panel di Identità Naturali.  La cucina naturale (che non è solo vegan, o macrobiotica) è il futuro e l’ho compreso da quando non mangio più carne e pesce di produzione industriale. Nel momento in cui si omette, di fatto, qualche alimento dalla propria dieta si apre un mondo di possibilità: il paradiso dei palati curiosi. Se qualcuno ancora pensa che tutto ciò si traduca in pappette di miglio, verdure marroni e tofu cucinato male, peggio per lui. Si perde creazioni meravigliose come quelle di Simone Salvini o di Daniela Cicioni.
Nel blog: spazio alla sperimentazione e condivisione di informazioni per chi vuole mangiare più consapevole.
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5. Concedermi la libertà di non spuntare questa checklist, e di ignorare qualunque intento programmatico ed editoriale.
Nel blog: ispirazioni e aspirazioni.
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pepperskitchen · 11 years
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Assenza giustificata. Questa volta, più di altre: diciamo che negli ultimi 3 mesi la mia vita ha avuto un po' di giri di twist, come quelli che poi ho ballato venerdì sera.
Sono in licenza matrimoniale ancora per un po'. Baci!
[foto di Alessandro Camedda (c)]
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