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SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
IL FIORE DEL CAOS
Generalmente, l'immagine del caos solleva l'idea del suo contrario: ordine, chiarezza, verità.
L'etimo fa giustizia: dal latino chaos che salva il greco χάος, da χαίνω traducibile con "essere aperto, spalancato".
Indica un'apertura, una possibilità.
No.
Infinite possibilità.
E infinite soglie di accesso.
L'ordine è de-finito.
Il disordine è in-finito.
La realtà è finita, contingente e necessaria, rappresentabile.
Il "reale" non possiede questi caratteri: in esso, nulla appare necessario e nemmeno accidentale.
Materia che "precede" e "succede".
Materia senza tempo.
Materia senza luogo.
Quale possibile "rap-presentazione"?
Impossibile.
Solo "presentazione".
In astratto.
Forse, è questa l'unica evenienza.
Eppure, esiste una traccia del caos.
Un sentiero.
Un passaggio.
Il pensiero.
Quando la mente, liberata dalle catene dell'esserci, vaga in una disperata ricerca.
Possiede la parola e le immagini.
Ma la sintassi scivola.
E il segno visivo si contamina.
Allora, la forma dell'arte è confusa nell'inconscio.
Non è riducibile al significato simbolico: l'Es è inarticolabile e l'Io non può giacere in quel mondo.
Dunque, è formazione oltre la coscienza.
Appare come nuova presenza.
Tra infinite presenze.
Si lascia cogliere.
Come un fiore.
Al quale, nulla si chiede.
- Salvador Dalì (1904 - 1989): "Gala mentre contempla il Mar Mediterraneo che a diciotto metri diventa il ritratto di Abraham Lincoln", 1976, Dalí Theatre and Museum, Figueres, Spagna
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
IL COLORE OLTRE L'OMBRA
Ancora oggi, Giovanni Francesco Barbieri detto il "Guercino", è considerato un pittore raffinato, iscritto nel catalogo ideale del classicismo seicentesco capace di attenuare la resa reale delle rappresentazioni con la nitidezza vivida dei colori ora sfumati, ora esaltati.
A veder bene, ci si trova innanzi un "maestro" del colore, trattato alla stregua di materia.
Le figure, anche se così ben disposte sulla scena, "carraccesche" o "caravaggesche" che dir si voglia, non hanno corpo ma colore.
Colore cangiante, dotato di mille tonalità, ora acceso ora ridotto a ombra.
Ma sempre lì, in primo piano o sullo sfondo, il colore domina.
Solo un particolare gusto estetico?
Forse.
In tarda età questa passione per il colore gli venne contestata come esilio della rappresentazione veridica che caratterizzò la sua epoca.
Tuttavia, per il pittore di Cento, il rilievo dell'immagine appare concentrato in uno strumento innegabile: l'impatto dei contrasti di luce dati dalla ricerca coloristica.
Come se già fosse presente, in lui, il salto espressionista, il significato dell'intensità cromatica che afferma l'essenza della pittura e reagisce al verismo ottundente dell'immagine sacra.
Questa è fuori dal tempo, oltre ogni ricerca del reale: vive di luce, pregna o tenue, carica o sottile, pesante o lieve.
Se è rappresentabile, solo così può essere mostrata.
È un modo di dipingere che fa omaggio all'ultraterreno.
Distingue.
Anche il mito.
Senza compromessi.
Ricorda all'osservatore la dimenticata differenza.
Anche della pittura rispetto a ogni altra forma d'arte.
- Guercino (1591 - 1666): "Sepoltura e gloria di santa Petronilla", 1623, Pinacoteca Capitolina, Roma
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
ELEGANZA
Ha una radice sintomatica: proviene da exelĭgĕre, derivazione di elĭgĕre "scegliere", col prefisso ex, “trarre da”. Un significato forte, deciso, impegnativo. Non tutti lo apprendono. Ma c’è qualcosa di più oltre l’etimo. Si tratta di un aspetto dirimente nella vita di ciascuno: l’incontro con l’eleganza cambia per sempre ogni prospettiva, ci concede i primi tratti identitari, fino a definirci. Non basta: c’è ancora qualcosa. Le immagini si affastellano caoticamente. Poi, cominciano a dividersi in campi distinti che hanno il medesimo disordine: il primo è l’apparire, l’altro è lo stile. Apparire è luce che attrae lo sguardo e lo fa parlare: è un racconto. Stile è ombra che seduce lo sguardo e ammutolisce: è un’immagine. Apparire è la scena che si mostra a sipario alzato. Stile è il gesto solitario e intraducibile dell’unicità. Apparire è grandioso artificio. Stile è solido edificio. Si separa, anche qui: tra un’estetica del corpo e l’altra di pensiero. Eppure, l’eleganza è inestricabilmente duale. Apparire è il lato senza volto. Stile è il lato che mostra il volto. Eleganza è sempre verità.
- Man Ray (1890 - 1976): “ Le Violon d’Ingres”, 1924 , Museo Nazionale d’Arte Moderna, Parigi - In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
IL COLORE DEL VENTO
Sono cresciuto nel vento. Della mia città, Catanzaro. Delle estati su uno spicchio del Mar Jonio. A catturarlo nelle vele, con timore incosciente. Terribile buon amico. Echeggia nella memoria ogni sibilo. Racconto di storie senza parole. Immagine di colori antichi. Attende. E io attendo lui. Polvere sollevata tra i mille colori della terra.
- I dipinti sono di Franco Azzinari (1949), calabrese, “pittore del vento” - In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
CUM NAUFRAGIUM FECI, TUNC BENE NAVIGAVI
Ossimoro latino, forse risalente a Zenone, riproposto da Erasmo da Rotterdam (1469 - 1536) nel suo “Adagia”, 1500, (Centuria 1878) con questa formulazione:
«Nunc bene navigavi, cum naufragium feci.» «Posso dire di aver ben navigato, solo dopo aver fatto naufragio.»
Non si tratta di riferirsi al viaggio, ma al viaggio per mare, là, dove nessuna strada è tracciata e ogni rotta è possibile e ogni istante può mutare in tempesta.
Metafora drammatica.
Temuta.
Accettata.
Subita.
Agognata.
Come per ogni domanda profonda, solo portandosi fino all’estremo confine è possibile scorgere la luce della coscienza consapevole.
Così, la pittura di Turner, agli esordi dell’800, ha già nelle corde il vibrare della crisi di un secolo impetuoso, durante il quale sarà impossibile cambiare rotta per evitare la furia degli elementi.
La metafora diviene simbolo: la tempesta è la metà del piatto spezzato - σύμβολον (symbolon) - che indica l’origine e l’identità da ritrovare.
Essenza del pensiero “romantico” agli albori: esistere, è tragedia.
Il “dipinto-simbolo” racconta il senso, necessario, del vivere: prendere il mare aperto e ogni rischio che questo comporti.
Ogni rischio, anche mortale.
Pur di ricongiungersi con l’altra metà del piatto.
Rimasto ad attendere in un placido canale.
L’ossimoro, si compie.
- Joseph Mallord William Turner (1775 - 1851): “Il naufragio”, 1805, Tate Britain, Londra e “Canale di Chichester”, 1828, Tate Gallery, Londra
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
ATOPIA
Parola di origine greca, "ἀτοπία", può significare dislocarsi, essere fuori posto. Direi, essere al di là di ogni luogo. Direi ancora, lasciarsi trasportare in un "non luogo". Questa irrazionale dimensione, appartiene all'amore, la follia più profonda che l'essere umano possa ospitare. E la più seducente dalla quale farsi prendere, come Platone ammette nel "Simposio": «La follia dal Dio proveniente è assai più bella della saggezza d'origine umana». Perchè Dio? Per i greci e per la cultura religiosa antica, il divino è indeterminatezza. Pertanto, il sacro era un'espressione di separatezza, distanza, divaricazione: tale doveva mantenersi, poichè la contaminazione tra l'umano e il divino causa la perdita di ogni legame con la realtà. Tuttavia, come ogni follia, come ogni dimensione sacra, l'amore ci abita, resiste in un abisso enigmatico, oscuro, impenetrabile: non possiede parole che non siano infondate, deliranti, indecifrabili. Gli amanti s'immergono in un mare senza luce. Smarriscono ogni contatto con il luogo della presenza e scoprono il reale del pre-umano nel quale l'Io è inerme. La donna angelo, cantata nei versi del "Dolce Stil Novo", rappresentava la ripresa dell'ancestrale tramite tra l'umano e il divino: figura capace di indicare la soglia d'accesso alle stanze della follia. Ma indispensabile guida. Senza di essa, il poeta diviene colui che più rischia: passa la soglia, avendo per compagna solo la sua fragilità. Come il Socrate narrato da Platone: vittima dell'atopia in chi è chiamato, con verità, a evocare l'amore attraverso le parole. Sempre inadeguate. Sempre povere. Come Penìa, madre di Eros. Come l'immagine che coglie un istante di separatezza dal mondo. Come corpi che vibrano all'unisono. Come lo sguardo ormai perduto di colei che scelse la dolcezza della morte alla crudeltà dell'assenza. Sempre inadeguate. Sempre povere. Eppure, faticose tracce, scavate a mani nude in un baratro, terribile e meraviglioso.
- Robert Doisneau (1912-1994): "Bacio davanti all’hotel De Ville", 1959 - Egon Schiele (1890-1918): "L'abbraccio" o "Gli amanti", 1917, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna - Amedeo Modigliani (1884-1920): "Ritratto di Jeanne Hébuterne", 1918, Collezione privata, Parigi - In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
LE RADICI DELLA CRISI
Quando si pensa al "Rinascimento" in Italia, le espressioni si fanno idillio.
Ovviamente, è un errore.
Velato dalla bellezza delle arti plastiche e pittoriche in anni di densa produzione e di "maestri" inarrivabili, paradigmi della successiva "maniera".
Ma nell'Europa del Nord, la crisi spirituale e con essa il rivolgimento delle società e degli individui, la cui collocazione al centro della vita è già indice della modernità, si afferma senza infingimenti.
Nessuna illusione, neanche qui: si tratta di un'altra forma di retorica, severa, austera, grigia.
No, ancora di più: tormentata, angosciata, ossessionata.
L'intero vecchio continente ne verrà stravolto: l'età protestante, la riforma, la reazione delle gerarchie romane, le lotte di potere, il fanatismo religioso, la guerra, fino al "Sacco di Roma", avvenimento spartiacque che segna la fine della centralità della Chiesa cattolica e, paradossalmente, anche la fine dell'Impero incarnato da Carlo V.
Entrambe le istituzioni protagoniste della storia stanno per subire l'avvento delle Nazioni.
Lunga fu la scia, si estenderà per tutto il XVI secolo fino alla Guerra dei Trent'anni tra il 1618 e il 1648 e alla pace di Vestfalia che darà un nuovo assetto all'Europa.
La Germania rimarrà frammentata in Stati che potranno trovare unità solo oltre due secoli dopo.
È il riflesso del passaggio dall'unità religiosa alla fede vissuta come traccia individuale.
Ma non regge al fanatismo della verità: questi, non conosce la tolleranza.
E incombe, dai nuovi pulpiti.
Come il cavaliere attraversa saldo nella sua armatura di fede il dramma della morte e l'incombere del male, così l'uomo che l'arte del Nord immagina, è figura della solitudine e del sacrificio, eroe della lotta: l'unico affidavit è riposto in se stesso.
Dürer intuisce, come ogni vero artista, l'avvento di un modello diverso di umanità: più libera, cosciente.
Ma sa anche che questo modello richiede la ricostruzione di principi guida, di un'identità che dall'individuo passi alla dimensione collettiva: ecco la crisi.
La città, sul picco della montagna, è un enigma lontano, silenzioso.
Il cavaliere, meditabondo nella sua dignità di spada e di obblighi, segue il cammino e i suoi pericoli.
Li attraversa, non li teme.
Perché ne riconosce l'essenza: è identica alla sua.
Uno stanco mendicare che ha solo l'apparente baldanza muscolare di un cavallo al trotto e l'incosciente vitalità di un cane.
L'esteso simbolismo dell'immagine è anch'esso un barlume che non riesce a mascherare il senso di rassegnazione delle tre figure: fiacche comparse in un circo abbandonato al "memento mori".
Come radici senza più terra, abbarbicate sulla roccia.
Dura.
Pesante.
Scenario estremo che nulla potrà accogliere.
- Albrecht Dürer (1471 - 1528): "Il cavaliere, la morte e il diavolo", 1513, Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe (Germany)
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
LA PRIMA ANIMA
C'è solo la guerra nel dipinto di Picasso?
No.
È un'espressione di orrore ancestrale.
Quello che pervade, per la prima volta, un fanciullo: possiede i tratti laconici della paura angosciosa.
Così, è ritorno all’origine dell’umano: di fronte al dis-umano, la voce è afona.
Il silenzio guida il pennello.
Lo sgomento può solo l’immagine.
Pablo Picasso (1881 - 1973): “Guernica”, 1937, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
EPIFANIA, APPARIZIONE ED ECLISSI DI UN MONDO
Inutile perdersi in eccessi di parole: lo stile Gotico, il Gotico Internazionale in modo più evidente, evoca una rilettura del mondo.
Non il mondo del “sacro” in particolare, ma una realtà narrata, interpretata, anelata.
Coincide con il “sacro” che si rivela: “ἐπιϕαίνομαι” (epifainomai) è l’apparire, la manifestazione di chi sta al di sopra, il divino.
Dunque, un segno dell’incarnazione, un segno di verità tangibile, il reale visibile.
Eppure, il dipinto su tavola di Gentile da Fabriano (1370 -1427), “L’adorazione dei Magi”, 1423, conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze, riflette una visione ansiosa di saldare la tradizione dell’evento religioso con la dimensione eterea, leggera, preziosa del commento pittorico prevalente in quell’epoca.
Nonostante questo, nei riquadri della predella, le figure, pur mantenendo i tipici tratti eleganti, adagiati e non formati nella luce e nella vividezza dei colori, echeggiano gli impercettibili segni del cambiamento: di lì a poco, tra il 1424 e il 1428, Masolino e Masaccio faranno strame dell’arte trecentesca impegnandosi in un “duello” di stili negli affreschi della Cappella Brancacci.
Lo stile “plastico” di Masaccio prevale.
Non subito.
La rottura dell’illusione è cocente, gridata, quasi feroce nel suo apparire, epifania anch’essa di una cristianità rivelata nell’atto del vivere autentico e non più nell’idillio.
Gentile, il più raffinato tra gli artisti del suo tempo, da "artista" avverte, sente quel suono lontano che si avvicina.
Lo descrive sulla punta del pennello.
Non può abbandonare l’incanto.
Estremo, ultimo appello alla fiaba.
Prima di un umanesimo che nasce già tragico.
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
OCCHI DENTRO
L’occhio e l’arte.
Anzi, lo sguardo nell’arte.
Quello che l’osservatore può reggere: non possiede pensiero.
Eppure, quanto è anelato uno sguardo su ciascuno di noi.
Ci ri-guarda: è attenzione, è profondità.
Ma nessuno ha la potenza del nostro.
Ci accompagna senza sosta, presente alla natura dei pensieri.
Muto, precede la parola: la forma e la nasconde.
Alla perenne ricerca della concinnitas: la rinascimentale armonia tra ragione e bellezza.
Eppure, incrocia l’asprezza, sudicia, errabonda, sottile, pregna di carne e di sangue.
Lo sguardo non segna confini: li attraversa sempre.
Guardingo e illuso.
Ebbro di conoscenza.
Malinconico di ricordi.
Enigma di sogni.
Quanti occhi possiede quello sguardo!
Salvador Dalí (1904 - 1989): “Spellbound”, 1945, dipinto scenografico per il film di Hitchcock apparso in Italia con il titolo “Io ti salverò”
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
IL PARADOSSO
Uno dei tratti più intensi delle società borghesi occidentali è sempre stato l’ardente desiderio di esibizione delle passioni.
Forse, a riflettere bene, rappresenta il segno della loro espansione, l’espressone di una conquista che può osare ancora, spingersi oltre, spostare più avanti ogni confine.
Ma il dipinto non tollera gli eccessi: questi debbono rimanere preziosi misteri, eventi fugaci conservati nei pensieri più profondi e inconfessabili.
Pensieri carichi di passioni sconvolgenti: il solo cenno del volto, assorto tra le parole di una lettera, induce inattesi fremiti, lascia la mente correre sulle ali di sfrenate e sfocate fantasie.
Così, il dipinto di Vermeer, in apparenza privo di torbidità, nel semplice cenno simbolico al “Cupido”, riuscì a dare consistenza alle parole impronunciabili e alle immagini più agognate.
Per questa ragione, la figura di “Eros” (ἔρως) venne successivamente nascosta agli occhi dell’osservatore.
Eppure, nonostante un velo di colore opaco che sfigura la parete, quella passione non lascia il dipinto: vivida, nello sguardo impaziente, trema nel desiderio afferrato, si getta nel sentimento ormai liberato.
La passione e la modernità, per illuminante paradosso, possono fare a meno del simbolo.
- Jan Vermeer (1632 - 1675): “Donna che legge una lettera davanti alla finestra”, 1657, Gemäldegalerie, Dresda
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
L'OMBRA DELLA LACRIMA
“L’uomo che cammina”, 1960 è un’opera famosa di Alberto Giacometti (1901 - 1966), ultima versione di una prima risalente al 1947.
Osservandola, è molto facile cadere in una trappola retorica: un fiume di parole per celebrare l’uomo, naturalmente l’uomo che ha conquistato la terra, sollevato il velo dei misteri, realizzato il progresso della scienza e della tecnica, costruito monumenti grandiosi, scolpito e dipinto opere magnifiche.
L’uomo che mai si ferma, sempre alla ricerca di confini da abbattere.
Così, un esile accrocco di linee estenuate, diventa il “Re del mondo”.
L’umiltà della figura è apparenza di sterminata eccellenza.
Se fosse così, non varrebbe nessun impegno d’artista oltre i fasti disincantati dell’Umanesimo invecchiato già di secoli.
No.
Quel passo è come un simbolo etrusco: un “senza nome” sepolto dalla boria dei vincitori.
La forma, abborracciata, sgraffiata, consumata, è solo ombra di steli che scivola incerta su un cammino senza meta.
Fragile.
Estrema.
Proviene da una caduta.
Si alza e muove i suoi passi, per esorcizzarla.
Scopre la leggerezza.
S’illude.
Come lacrima illuminata, si nasconde in un riflesso nero sullo sfondo.
Sovvengono i versi di Samuel Beckett , "Ossa d'Eco", del 1935:
«Dentro la mia andatura rifugio tutto il giorno con gazzarre smorzate se la carne decade senza tema erompendo o favore di vento vada il guanto di sfida del senso e del non senso preso dalle sue fisime per quello che mai sono.»
- Nelle immagini, Alberto Giacometti con Samuel Beckett, a Parigi nel 1961 e l’artista ritratto sulla copertina di “Life” negli anni ‘50
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
LIMEN
Luce.
Buio.
Soglia.
Da attraversare.
- Lorenzo Ghiberti (1378-1455): "Porta del Paradiso", 1425-1452, Battistero di Firenze - Auguste Rodin (1840-1917): "Porta dell'Inferno", 1880-1917, Musée Rodin, Parigi
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
CUM NAUFRAGIUM FECI, TUNC BENE NAVIGAVI
Ossimoro latino, forse risalente a Zenone, riproposto da Erasmo da Rotterdam (1469 - 1536) nel suo “Adagia”, 1500, (Centuria 1878) con questa formulazione:
«Nunc bene navigavi, cum naufragium feci.»
«Posso dire di aver ben navigato, solo dopo aver fatto naufragio.»
Non si tratta di riferirsi al viaggio, ma al viaggio per mare, là, dove nessuna strada è tracciata e ogni rotta è possibile e ogni istante può mutare in tempesta.
Metafora drammatica.
Temuta.
Accettata.
Subita.
Agognata.
Come per ogni domanda profonda, solo portandosi fino all’estremo confine è possibile scorgere la luce della coscienza consapevole.
Così, la pittura di Turner, agli esordi dell’800, ha già nelle corde il vibrare della crisi di un secolo impetuoso, durante il quale sarà impossibile cambiare rotta per evitare la furia degli elementi.
La metafora diviene simbolo: la tempesta è la metà del piatto spezzato - σύμβολον (symbolon) - che indica l’origine e l’identità da ritrovare.
Essenza del pensiero “romantico” agli albori: esistere è tragedia.
Il “dipinto-simbolo” racconta il senso, necessario, del vivere: prendere il mare aperto e ogni rischio che questo comporti.
Ogni rischio, anche mortale.
Pur di ricongiungersi con l’altra metà del piatto.
Rimasto ad attendere in un placido canale.
L’ossimoro si compie.
- Joseph Mallord William Turner (1775 - 1851): “Il naufragio”, 1805, Tate Britain, Londra e “Canale di Chichester”, 1828, Tate Gallery, Londra - In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
IL FREMITO
Sensualità. Eterno dilemma. Non bellezza esibita. Ma tentazione accennata. Non bellezza nell’istante. Ma potenza nel gesto prolungato. Si forma nelle pieghe del corpo. Corre in ogni solco. Anima silenziosi simboli. Teatro di turbamenti improvvisi. Accoglie. Divora. Ma è apice nella sferzata di un fremito. Che dimora come brace perenne nella memoria.
- Kitagawa Utamaro (1753-1806): “Flowers of Edo”, 1800 circa, “Woman smoking a pipe”, 1791-92, “The Fickle Type”, 1792 circa - In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
L'ESIGENZA DEL SACRO
"Beato Angelico", strana figura di artista, tra il rivoluzionario Masaccio e l'ineguagliabile Piero della Francesca. Nella scia del primo, precorre il secondo. Perde le tracce del tardo gotico nella rivelazione della forma plastica data dal chiaroscuro. Eppure, la luce che irradia sulle sue figure indica un'esigenza incombente. Vive anni di estremo conflitto religioso: la fine della "cattività avignonese" sfocia nel "Grande Scisma". Poi, gli estremismi conciliari che provocarono il "Piccolo Scisma" nel tempo dei tentativi di riunificazione delle Chiese d'Occidente e d'Oriente. Cambiamenti radicali che assegnano nuovi confini alla visione del mondo, infine sanciti nel 1453 con la caduta di Costantinopoli. Può udire le voci di Nicola Cusano e di Leon Battista Alberti. È uomo di fede. Appartiene all'ordine domenicano: sente la lezione di Tommaso d'Aquino e quella di Meister Eckhart. Questo il crogiolo rovente nel quale agisce. I suoi testi pittorici divengono espressione di un'esigenza mistica: l'ineffabilità di Dio è compensata dal sentimento del sacro. La matrice originaria della pittura occidentale, il fondo dorato dell'icona, lo induce a mantenere uno sguardo incantato su quell'alterità che non appartiene alla dimensione umana. Alterità che è distacco preminente dalla mondanità, caotica e conflittuale. Non vi può rinunciare: è una scelta. Schietta. La sua vena artistica appartiene a quella scelta. Nella quale, per coerente necessità, è escluso ogni dramma. Per queste ragioni, rimane confinato in un passato ideale. Ma l'esigenza del sacro, inteso come figura di pensiero, è rimasta desiderio irriducibile, capace ancora di percorrere, sotto altre forme o tentativi di forma, la pittura contemporanea.
- Beato Angelico, Fra' Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro (1395 - 1455): "Pala di Fiesole", predella, particolare (Tutti i Santi), 1424 - 1425, Chiesa di San Domenico, Fiesole (Firenze) - In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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