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#giani stuparich
abatelunare · 2 months
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Baci, baci, baci. Ormai non pensavano ad altro che a baciarsi. Era una sete febbrile di baci (Giani Stuparich, Un anno di scuola e Ricordi istriani).
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yukalipaginaliteraria · 3 months
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RESEÑA de Silvia Sánchez Muñoz sobre LA ISLA, de Giani Stuparich
Una isla llena de luz. Un padre enfermo decide morir frente al mar. Un hijo que viene de las montañas lo acompaña en lo que serán sus últimos amaneceres. Un lugar en el que el tiempo parece suspendido, mecido por el infinito pálpito del mar que envuelve una relación paterno-filial, relación que Stuparich dibuja con elegancia, plena conciencia y sin artificios. Stuparich escribió una historia —un…
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claudiodangelo59 · 9 months
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🇮🇹⭐️ GRANATIERI
IMPAVIDI ⭐️🇮🇹
UNA SORPRESA GRANATIERESCA
A CESENATICO
HO INCONTRATO IL
GRANATIERE,
EROE DEL CENGIO
MEDAGLIA D'ORO
AL VALOR MILITARE
GIANI STUPARICH
Ieri sera con la mia famiglia ho visitato il Museo della Marineria di Cesenatico.
Un luogo espositivo bellissimo, moderno, didattico, adatto a tutte le età, la cui visione consiglio a tutti gli innamorati della marineria.
In uno dei pannelli esplicativi di questo interessantissimo museo, tutto climatizzato, sono rimasto colpito dall'autore di questa frase:
"Conoscevo tutte le specie dei velieri e dai loro alberi e dalle forme delle loro vele sapevo distinguerli.
Mi piacevano quelle sagome eleganti e fin l'odore del legno, delle vernici, del cordame impregnato di salso.
Era come se fiutassi lontano richiami, come se la memoria istintiva mi rievocasse remote atmosfere, ancor vive nel sangue".
È un periodo tratto da:
"I Ricordi istriani", ultimo libro dello scrittore Giani Stuparich, eroico Granatiere del Cengio decorato di Medaglia d'Oro al Valor Militare.
Il libro uscì per la prima volta nel 1961, rievocano l'infanzia e l'adolescenza marina dello scrittore triestino: anni sereni di inizio Novecento, ancora esenti dai lutti, personali e collettivi, che il secolo avrebbe portato con sé.
La terra narrata da Stuparich è innanzitutto un luogo di famiglia, dove i sapori della cucina della nonna si mescolano alla voce del padre, alle sue mille invenzioni per istruire e divertire i figli;
ma è, insieme, un paese vitale, che ci passa davanti agli occhi con la libera luce del suo cielo.
Il libro offre così uno spaccato della vita marinara e contadina dell'Istria, unendo alla felicità della memoria il racconto, di taglio quasi etnologico, di un mondo che gli avvenimenti della Storia hanno irrimediabilmente lacerato.
Giovanni Domenico Stuparich, detto Giani nasce a Trieste, all'epoca ancora parte dell'Impero austro-ungarico,
il 4 aprile 1891 da padre lussignano, Marco Stuparich, e da madre triestina di religione ebraica, Gisella Gentilli.
Fin dall'infanzia, Giani e Carlo Stuparich vengono educati dal padre all'italianità, e questo sentimento patriottico viene poi ulteriormente rafforzato durante l’esperienza scolastica presso il ginnasio comunale di Trieste (il ginnasio-liceo “Dante Alighieri”, di cui lo stesso Giani sarà docente di lettere dal 1919 al 1942), dove vengono consacrati alla lingua di Dante, Petrarca e Carducci.
Terminato il liceo, Giani Stuparich compie un viaggio nel cuore dell’Europa, durante il quale si gode arte e cultura in piena libertà, iniziando così a maturare un ideale di unità sovranazionale.
Questa sua visione “europeista” trova conferme e ulteriori spunti di riflessione durante gli studi presso l'Università di Praga. Il secondo anno di studi lo trascorre in Italia, grazie a una borsa di studio concessa ai giuliani frequentanti un ateneo imperial-regio: qui frequenta l'Università di Firenze, dove si laurea nell'aprile 1915 in letteratura italiana con una tesi su Niccolò Machiavelli.
Qui Stuparich inizia a gravitare nell’orbita del periodico «Voce», dove incontra Scipio Slataper, con il quale instaura un solido legame di amicizia e di rispetto reciproco e che gli farà conoscere la futura moglie Elody Oblath (una delle tre amiche di Scipio).
Europeista convinto, il giovane Stuparich è costretto dallo scoppio della Prima Guerra mondiale a mettere da parte i propri sogni di unione e dialogo pacifico tra nazioni: consapevole di come il conflitto sia un male necessario per porre un freno al potere dell'Impero austro-ungarico, nel 1915 egli si arruola come volontario nel
1º Reggimento "Granatieri di Sardegna".
Con lui Carlo, il fratello minore, e Scipio Slataper.
Dopo due mesi di combattimenti, i due fratelli vengono richiamati nelle retrovie, uno a Vicenza e l’altro a Verona, dove trascorrono un breve periodo per frequentare uno degli improvvisati corsi per ufficiali.
Questa breve parentesi di calma si chiude qualche mese dopo, nella primavera del 1916, quando ritornano in prima linea come sottotenenti sull'Altipiano di Asiago per combattere nella difesa eroica contro gli austriaci della Strafexpedition.
L’esperienza bellica, che lo vede impegnato con il grado di Sottotenente, priverà Giani sia del caro amico Scipio, caduto il 3 dicembre 1915 sul Monte Podgora, sia dell'amato fratello:
il 30 maggio 1916, Carlo Stuparich, rimasto isolato con il suo plotone di Granatieri sul Monte Cengio e circondato dagli austriaci, si suicida pur di non cadere nelle mani del nemico, ottenendo per questo una medaglia d’oro al valor militare.
Giani Stuparich viene invece catturato e fatto prigioniero il giorno dopo, ormai esausto e ferito, e costretto a due anni di prigionia in un lager ungherese a Sigmundsherberg – dal giugno 1916 all’ottobre 1918 – nascosto sotto il falso nome di Giovanni Sartori.
Si conclude così l’esperienza di guerra di Giani, insignito con decreto dell'11 maggio 1922 della medaglia d'oro al valor militare per le azioni di Monfalcone, Oslavia e Monte Cengio.
Terminato il conflitto, nel 1918 Stuparich torna a Trieste e sposa con rito civile Elody Oblath.
Dal matrimonio nascono tre figli: Giovanna (nata nel 1919), Giordana (nel 1921) e Giancarlo (nel 1923).
Inizialmente impegnato nel mondo del giornalismo come collaboratore per il «Lavoratore» e per «L’Azione», Stuparich lascia ben presto la realtà delle pubblicazioni periodiche per dedicarsi all'insegnamento: nel settembre del 1921 inizia la sua carriera da insegnante, entrando come docente di italiano in quello stesso Ginnasio-Liceo (ora “Dante Alighieri”) di cui era stato studente.
Conserverà la cattedra fino al 1942, con all'attivo ventitré anni di insegnamento vissuti come un dovere morale nei confronti di se stesso e dei suoi studenti, con lo scopo di trasmettere loro umanità, umiltà, dirittura morale e rispetto.
I primi anni dopo il ritorno dal fronte vedono la necessità,
da parte dello scrittore, di chiudere i conti con il suo doloroso passato e di placare così il suo senso di colpa per la morte del fratello: ecco quindi che le prime opere sono dedicate proprio a loro, con la pubblicazione degli Scritti letterari e critici di Slataper e di Cose e ombre di uno di Carlo prima, e con la stesura della monografia Scipio Slataper (uscita nel 1922 sui «Quaderni della Voce») e dei tanto sofferti Colloqui con mio fratello (pubblicati nel 1925) poi.
Del 1929 sono invece, per le stampe dei Fratelli Buratti, i Racconti, pubblicazione resa possibile anche grazie all’intermediazione dell’amico Montale, che ne farà una recensione sulla rivista «Solaria».
Durante gli anni del Fascismo, il triestino ripiega su se stesso chiudendosi nel proprio isolamento, incapace di accettare l’ideologia propugnata dal partito e quell’inconcepibile fanatismo della guerra che Mussolini andava professando, contagiando soprattutto i giovani e quella generazione che non era partita per il fronte.
Le opere che escono in questi anni sono attraversate da un chiaro antifascismo.
In contrapposizione alla violenza bellica esaltata dal Fascismo come atto eroico, Stuparich si trova a ripercorrere quei dolorosi anni in trincea, raccontandone la tragica verità.
Attingendo all’esperienza di vent’anni prima, l’autore cerca di mostrare ai giovani infervorati dal desiderio di sangue e di potenza cosa effettivamente il conflitto abbia significato per coloro che lo avevano vissuto sulla propria pelle.
Come un monito, la Grande Guerra torna quindi sulle pagine di Guerra del ’15 e, qualche anno più tardi, di Ritorneranno.
La pubblicazione nel 1938 delle oscene leggi razziali rende il clima insopportabile per l’autore, figlio e marito di ebree,
il quale lascia l’insegnamento nell'autunno del 1942, venendo affidato alla Soprintendenza ai Monumenti e alle Gallerie di Trieste.
La situazione peggiora drasticamente
l'8 settembre 1943, con il proclama di armistizio letto alla radio dal Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio e con la conseguente occupazione della città di Trieste da parte delle truppe tedesche.
In questo clima di tensione e di paura, la notte del 25 agosto 1944 il letterato viene svegliato da un capitano delle SS naziste che lo conduce, insieme alla moglie Elody e alla madre Gisella (l’adorata sorella Bianca era morta a novembre dell’anno precedente), alla Risiera di San Sabba, adibita dai nazisti a campo di deportazione e di sterminio;
sarà l’intervento del vescovo di Trieste, Antonio Santin, e del prefetto di Trieste, Bruno Coceani, a porre fine a quei sofferti sette giorni di prigionia.
A seguito della resa incondizionata della Germania nazista, l'Europa e l'Italia sono libere, mentre Trieste passa prima sotto il controllo dei soldati dell’esercito di Tito e, successivamente, conosce una divisione del suo territorio in due aree:
la zona A, sotto il controllo anglo-americano,
e la zona B, sotto quello jugoslavo.
Bisognerà attendere altri nove anni per vedere finalmente Trieste tornare a far parte dell’Italia, con il Memorandum d’intesa di Londra del 5 ottobre 1954.
Di Trieste, quella città che negli anni precedenti era stata centro irradiatore della cultura mitteleuropea e che aveva conosciuto così un momento di grande fioritura, non rimane che una periferica realtà di confine.
Gli ultimi anni del letterato si consumano in una sofferta attesa della morte, che sopraggiunge nelle prime ore del pomeriggio del
7 aprile 1961, a seguito di complicanze cardiache post-intervento all’addome.
Giani Stuparich si spegne così a settant'anni appena compiuti, giusto in tempo per vedere pubblicato Il ritorno del padre, opera antologica che raccoglie alcuni dei testi più belli dell’autore, regalo per il suo settantesimo compleanno da parte di Pier Antonio Quarantotti Gambini e altri amici.
Riposa assieme al fratello Carlo nel Cimitero monumentale di Sant'Anna a Trieste.... #AmeleGuardie1659
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la-scigghiu · 3 years
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I bucaneve nascono tra l’ultimo brivido dell’inverno e il primo bacio della primavera. 🔸Giani Stuparich
.🦋.
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noelcollection · 3 years
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The 1948 London Summer Olympics were the first to be held after a twelve-year break caused by World War II. Track-and-field athletes excelled with some historic wins. Dutch sprinter Fanny Blankers-Koen, dubbed “The Flying Housewife,” won four gold medals; American decathlete Bob Mathias became the youngest gold medalist at age 17; and 200-meter dash competitor Audrey “Mickey” Patterson of Louisiana and high jumper Alice Coachman of Georgia became the first Black American woman medalist and gold medalist respectively.
Also, as a bit of trivia, the 1948 London Games held the last Olympic art competitions, in which artists from around the world submitted various sports-inspired works. The literature gold medalists were Aale Tynni of Finland for “Laurel of Hellas” (lyric works category) and Giani Stuparich of Italy for “La Grotta” (epic works category).
Images from:
Report of the United States Olympic Committee: Games of the XIVth Olympiad, London, England. July 29 to August 14, 1948 ; Vth Olympic Winter Games, St. Moritz, Switzerland, January 30 to February 8, 1948. New York : United States Olympic Association, 1949.
Call number: GV722 1948 .U54
Catalog record: https://bit.ly/3zn3MJ1
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italianiinguerra · 4 years
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30 maggio 1916, morte di Carlo Stuparich, irredentista e Medaglia d'Oro
30 maggio 1916, morte di Carlo Stuparich, irredentista e Medaglia d’Oro
Il post odierno è dedicato ad uno dei tanti volontari irredentisti, cioè cittadino che si considerava a tutti gli effetti italiano con nazionalità Austriaca. Stuparich come tutti colore che scelsero di combattere con la divisa del regio Esercito contro gli Austro-Ungarici, sapevano quale sarebbe stata la loro sorte in caso di cattura ma il pericolo di morte non fermò Stuparich e le miglia di…
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mayolfederico · 4 years
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quattro aprile
Virgilio Guidi, Donna solitaria
Amore
La mia anima era un abito azzurro colore del cielo; l’ho lasciato su uno scoglio, sul mare e sono venuta da te, e somigliavo a una donna. E come una donna mi sono seduta alla tua tavola e ho bevuto una coppa di vino, e respirato il profumo delle rose. Hai detto che ero bella, che somigliavo a qualcosa che avevi visto in sogno. Ho dimenticato…
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emozioni-in-font · 6 years
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Cambiamenti/Un anno di scuola
“Gli sembrava d’avere il cuore pieno di parole, eppure quando si trattava d’aprir la bocca non sapeva che cosa dirle.”
Anche se l’anno 1909-1910 è così lontano da me, la fine della scuola ha la stessa capacità di stordimento in ogni epoca. Ma a Trieste, nel ginnasio comunale Dante Alighieri, a scombussolare gli animi sarà soprattutto Edda Marty: prima donna a entrare in una scuola maschile,…
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1918 - 2018 : La Grande Guerra fra le pagine
Il 4 novembre è l’“anniversario della vittoria”. Una data lieta: la fine di un incubo che per quattro anni in Italia, e per quasi cinque sugli altri fronti, ha tenuto inchiodati nelle trincee milioni di uomini, facendo milioni di morti e decine di milioni di mutilati, di invalidi, di “scemi di guerra”. (Un’espressione che nel nostro Paese è diventata proverbiale, per indicare i molti che hanno perso il senno in seguito agli spaventi e allo stress della vita in trincea.)
E quest’anno è il centenario della fine della Grande Guerra, che vogliamo anche noi festeggiare suggerendovi la lettura, innanzitutto, di tre diari.
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Diario di Guerra, di Carlo Milani, narra l'esperienza d'un giovane della piccola borghesia, cattolico fervente e quindi votato alla pace, che accettò e compì quello che considerava il suo dovere di soldato;  Guerra del ‘15: due mesi di trincea raccontati da  Giani Stuparich, un giovane, laureato a Firenze e collaboratore della «Voce», che affronta l'inferno della guerra, a fianco del fratello minore Carlo. il sorriso dell’obice, di Dario Malini, ci racconta Walter Giorelli, giovane pittore romano,  scaraventato nell'immane carnaio della Prima guerra mondiale. Nelle lettere alla sua famiglia esprime entusiasmo per l’intervento, i periodi di addestramento e la vita al fronte. Giorno dopo giorno il disincanto del militare cresce: gli orrori della guerra di trincea sotto il martellare delle artiglierie nemiche, pur riferiti con ironia, irrompono sempre più nei suoi resoconti, finché per tenere viva la speranza non basta neppure l'arte, cui si applica disegnando i volti dei compagni. Nella sua appassionata testimonianza stupiscono l'ampiezza e l'originalità della riflessione, e la vibrante carica antimilitaristica, il cui valore ed il cui significato sono quanto mai attuali.
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Un anno sull’altipiano, di Emilio Lussu,  è ancora oggi una delle maggiori opere della nostra letteratura sulla Grande Guerra. L'Altipiano è quello di Asiago, l'anno quello dal giugno 1916 al luglio 1917. Un anno di continui assalti a trincee inespugnabili, di battaglie assurde volute da comandanti imbevuti di retorica patriottica e di vanità, di episodi spesso tragici e talvolta grotteschi, attraverso i quali la guerra viene rivelata nella sua dura realtà di "ozio e sangue", di "fango e cognac". Con uno stile asciutto e a tratti ironico Lussu mette in scena una spietata requisitoria contro l'orrore della guerra senza toni polemici, descrivendo con forza e autenticità i sentimenti dei soldati, i loro drammi, gli errori e le disumanità che avrebbero portato alla disfatta di Caporetto.
La vita soltanto è, per contro,  la scelta di esordio letterario di Andrea Munari. Il libro è il frutto di un lungo lavoro di ricerca che l’autore ha compiuto nella sua regione, l’Emilia, basato su testimonianze di persone e documenti di vita familiare. L’opera è in parte autobiografica perché racconta la storia di una famiglia semplice, come la sua, che ha vissuto le vicende che hanno segnato la storia del ‘900.  
Narrazione corale è, invece, quella de La grande guerra di Alessandro Di Virgilio e  Davide Pascutti. La prima guerra mondiale fu infatti la prima grande esperienza collettiva del popolo italiano. Per la prima volta, nelle trincee, si ritrovano fianco a fianco giovani che parlano dialetti diversi. Le donne a casa sono costrette ad assumersi la responsabilità delle famiglie, mentre i bambini osservano i padri e i fratelli partire per il fronte. Il racconto è quello di un giovane fante dall'inferno della prima guerra mondiale e la storia, ambientata nei nostri giorni, quella del ritrovamento di un diario di guerra.
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Due bei romanzi che ci riportano alle origini della prima guerra mondiale sono Presagio, di Andrea Molesini, ambientato nel luglio del 1914, dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, e Il trio dell'arciduca di Hans Tuzzi, un giallo che ha per protagonista l’agente segreto  Neron Vukitic. E’ un romanzo poliziesco anche il recentissimo Il secondo cavaliere, di Alex Beer, ambientato nella Vienna del 1919. Quella che solo pochi anni prima era la magnifica capitale di un grande impero è in rovina: miseria, fame, borsa nera, donne costrette a prostituirsi, migliaia di senzatetto, rifugi pieni di reduci di guerra, rabbia sociale, frustrazione per la disfatta e per il crollo dell'impero austro-ungarico.
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Sono considerati classici l’Addio alle armi di Ernest Hemingway, scritto ispirandosi alle sue esperienze del 1918 sul fronte italiano, e Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque. Consigliato nelle scuole, immancabile lettura giovanile, materiale di base per numerosi film, questo libro fonda la memoria di quell’evento bellico soprattutto nell’aspetto del logoramento della vita di trincea e della banalità della morte. Meno fortunata della testimonianza di Remarque, ma non meno toccante, è  quella di Gabriel Chevallier autore del romanzo-memoriale La Paura. Il grande coraggio di Chevallier sta proprio nel titolo che ha dato alla sua opera. Pubblicato nel ’30, La Paura racconta con grande ironia l’arruolamento e le vicende belliche di un alter ego dell’autore. Il linguaggio semplice e popolare, il punto di vista straniante, la cura dei particolari nella descrizione dello squallore, dell’orrore e della insensatezza del conflitto danno un’immagine antieroica e infamante della guerra stessa.
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Altro grande romanzo che allaccia le sue radici alla tragedia del fronte occidentale è Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline . In realtà la guerra è per Céline solo l’inizio del viaggio. La storia parte dall’arruolamento, racconta anche qui la trincea,  per poi spostarsi in Africa, in America e tornare a Parigi. Ma la disperazione dell’esperienza della guerra impronta di sé anche le vicende successive. Tutto è raccontato in uno stile tragicomico che fa uso di espressioni popolari, gergali e allusioni linguistiche difficilmente traducibili. Questo stile dissacrante è la nervatura di tutta l’opera. Uno humour nero la distingue da ogni altro memoir sul primo conflitto mondiale. 
Ambientato sul fronte occidentale è pure Fuoco e sangue, in cui sottotenente della Wehrmacht Ernst Jünger rielabora i propri ricordi, prestando la propria voce all'io narrante e dando modo al lettore di ripercorrere quei tremendi istanti in tutta la loro drammatica fatalità.
Il sale della terra, infine, racconta una prima guerra mondiale la cui atrocità non consiste nelle scene di battaglia, nello spargimento di sangue e nella massa di cadaveri straziati, bensì nel lento e pianificato omicidio perpetrato sulle anime di migliaia di ignoti soldati. Tramite l'ironica sacralizzazione e la smitizzazione della guerra e dell'esercito austro-ungarico, il romanzo - unica opera letteraria in prosa di Józef Wittlin - offre uno spaccato stilisticamente raffinato e amaramente satirico della crisi della cultura europea nei primi decenni del Novecento.
Non vogliamo imbarcarci in un monologo contro la guerra, ma la Grande guerra mobilitò più di 18 milioni di uomini, coinvolgendo 32 Stati, e causando la morte circa 16 milioni di persone. Vennero usate nuove armi e la tecnologia rivelò il suo aspetto più cupo. Ciò che provarono quegli uomini in termini di cameratismo, paure, coraggio, esaltazioni, fatiche, smarrimenti, odio, amore, dolore, tristezza, lo ritroviamo fra queste pagine, e non può se non farci riflettere. Buona lettura!
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ulisszesz · 5 years
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Caffè Tommaseo, James Joyce, Bloomsday 2014 - Piazza Nicolo Tommaseo 4, Trieste
flickr
Caffè Tommaseo, James Joyce, Bloomsday 2014 - Piazza Nicolo Tommaseo 4, Trieste by Yvette Gauthier Via Flickr: Parmi les clients les plus célèbres du Caffè Tommaseo figurent: Pasquale Besenghi degli Ughi, Domenico Rossetti, Pietro Kandler, Henry Beyle (Stendhal), Virgilio Giotti, Giani Stuparich, Pierantonio Quarantotti Gambini,James Joyce et Umberto Saba. Italo Svevo a écrit quelques-unes de ses œuvres en ce lieu, tandis que Claudio Magris a écrit ici son œuvre la plus célèbre, Danubio. Tra i clienti più noti del Caffè Tommaseo si ricordano: Pasquale Besenghi degli Ughi, Domenico Rossetti, Pietro Kandler, Henry Beyle (Stendhal), Virgilio Giotti, Giani Stuparich, Pierantonio Quarantotti Gambini, James Joyce e Umberto Saba. Italo Svevo scrisse in questo locale alcune opere, mentre Claudio Magris ha scritto qui la sua opera più famosa, Danubio
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astillasdetinta · 4 years
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Uno de los escritores e intelectuales europeos más respetados y escuchados de nuestros días, Claudio Magris (Trieste, 1939), germanista de formación y autor de una variada obra que va desde el ensayo (Utopía y desencanto, La historia no ha terminado, Trieste, una identidad de frontera, El anillo de Clarisse, Itaca y más allá), la novela (Otro mar, A ciegas), el teatro (La exposición, Así que usted comprenderá) o libros fascinantes e inclasificables como El Danubio, que lo dio a conocer en todo el mundo, es asimismo, desde hace años, candidato permanente al Premio Nobel de Literatura.
Colaborador desde muy joven de la prensa italiana, y de otros muchos medios internacionales donde se recogen habitualmente sus lúcidos e incisivos artículos, sus contribuciones semanales en el Corriere della Sera suscitan siempre numerosos y apasionantes debates, como el que ha tenido lugar recientemente acerca de su inclusión, no solicitada, sin él saberlo, en la red social Facebook: "Reclamo mi derecho, defendido por la Constitución, de no formar parte de ninguna asociación; al mismo tiempo reivindico mi absoluto derecho a la incapacidad digital". Magris recordaría que a todos, hoy, se les exige leer los mismos libros, discutir acerca de los mismos problemas, participar en los mismos eventos: "El que no lo hace es clasificado inmediatamente de asocial y se le reconduce a la norma, aunque sea en contra de su voluntad, como un clochard al que se le obliga a ponerse un smoking".
En una ocasión, recuerdo que en un coloquio estuvimos comentando que Europa está de algún modo encuadrada entre dos Galicias: la Galicia del Finisterre europeo, al oeste, y en el lado oriental, la antigua Galitzia austrohúngara, patria de tantos escritores míticos, desde Joseph Roth a Bruno Schulz. Si nadie duda sobre las fronteras occidentales de Europa, la cuestión sobre dónde acaba, hacia el este, siempre ha estado en discusión. Ahora, curiosamente, este debate histórico que viene de lejos vuelve a estar sobre el tapete con el drama ucraniano. Un drama que no plantea si no una nueva paradoja: mientras en el oeste florecen los euroescépticos, los euronegacionistas, y algunos países y sobre todo grupos populistas quieren salir como sea de la Unión Europea, en el otro lado la gente soporta temperaturas de 20 grados bajo cero porque quieren entrar aunque les cueste la vida. Recientemente, el magnífico escritor Yuri Andrujovich, cabeza de serie absoluto de las últimas generaciones literarias ucranianas, ha lanzado una llamada desesperada a sus amigos y colegas del resto de Europa: "¡Piensen en nosotros! ¡Muestren su solidaridad!".
Es cierto que los confines de Europa, hacia el Este, serían efectivamente aquella Galitzia austrohúngara, tan rica en escritores. Y, más en concreto, yo diría que en relación a Ucrania, los verdaderos confines, la frontera simbólica, sería Rutenia. Ucrania y Rutenia quieren decir lo mismo. Sólo que los rutenos eran los ucranianos austrohúngaros. Los actuales ucranianos formarían parte de una Europa centro-oriental, pero Europa a fin de cuentas. Es decir, el espíritu, el trasfondo histórico del que vienen es particular: un tipo de cultura austrohúngara, una serie de tradiciones, de costumbres, también de desilusiones políticas, de servidumbres. Aunque, evidentemente, hay que tener cuidado con esto. Nada cierra nada. Además, literariamente hablando, tenemos casos como el de Turgueniev, un ruso, a la vez ferviente europeísta. Pero no se trata de hablar en términos estrictamente literarios.
"El mundo tiene que ser administrado y cambiado"
En lo que se refiere a una determinada civilización, al aspecto sociopolítico e institucional, a la relación entre el ciudadano y el estado, con todos los límites de las generalizaciones, se puede decir que sí, que aquella Galitzia significaba simbólicamente los confines de Europa. Desde luego en el caso de Galicia es mucho más fácil, porque a fin de cuentas la frontera es el mar. Pero aquello es mucho más ambiguo. "Leopoli, tomba di popoli" —es decir, Lvov, la antigua Lemberg alemana— cantaban cuando partían los soldados triestinos, enrolados por Austria, bajo cuyo dominio estaban, en la Primera Guerra Mundial. No me refiero a los voluntarios que se habían ido a combatir por Italia contra Austria, sino a los ciudadanos austriacos de entonces que eran enviados a Galitzia, a unas terribles y masacrantes batallas.
Este año, con enormes fastos y homenajes a caídos de todos los bandos, con publicaciones y revisiones históricas múltiples, se conmemora el inicio de esta Primera Guerra Mundial de la que hablas. ¿Cuáles son los fantasmas y retos aún pendientes, las posibles lecciones a las que se enfrenta la Europa actual desde aquella devastadora tragedia, de proporciones apocalípticas, con la que en realidad dio comienzo el siglo XX?
En mi caso particular estoy implicado precisamente en un proyecto alrededor de esta conmemoración. Voy a hacer para la televisión italiana una serie con cuatro capítulos. En cada una de las partes estará presente un diálogo con un personaje determinado. La primera parte, la principal, la llamo El sueño de Adán. Y empiezo con Adam Wandruszka, un gran historiador austríaco, nacido a finales del 14. En una ocasión vino a Trieste a buscar en el cementerio austríaco la tumba de su padre, que había caído como oficial en los montes del Carso, junto a Trieste, combatiendo contra los italianos. Adam me dijo que se llamaba así porque cuando su padre se fue a la guerra su madre estaba embarazada, y su padre decidió que si era niño se tenía que llamar, sin lugar a dudas, Adam. Por una simple razón: porque esta sería la última guerra de la historia y luego se nacería a un mundo de paz, a un "nuevo Adán". Este sueño increíble recorría en aquel entonces todo y a todos sin excepción. Sucedía, por ejemplo, con la poesía rusa que soñaba con el hombre nuevo, y en tantos otros casos. Todos creen que surgirá algo nuevo y diferente. Pero al final resultó que la guerra no sólo dejó tras de sí una masacre espantosa, sino que, muy al contrario, nada quedó solucionado: el problema de las fronteras quedó aún más abierto, el problema de las nacionalidades se incrementó…
¿Cómo vivieron la cruda realidad de la guerra todos aquellos jóvenes que iban directamente al matadero, de forma alegre en ocasiones, sin ser conscientes?
Hay una frase del Papa Benedicto XV, el único que en aquellos días, junto a algunos socialistas, realmente llegó a comprender y ver claro lo que estaba sucediendo, que dice así: "Inútiles masacres y suicidio de Europa". Porque con aquella guerra, Europa, que durante 2.000 años había sido el centro del mundo, se hundiría en lo peor. Esto es interesantísimo cuando lo vemos desde nuestra perspectiva actual: cómo se es incapaz de imaginar lo que vendrá más tarde. Cuando se produce el atentado de Sarajevo, es decir, el comienzo de la guerra en sí, ninguna potencia entonces creía que se llegaría a ella. Piensan: les daremos alguna que otra bofetada como mucho, durará cuatro días… Y de repente estalla esto monstruoso que para los militares sería incluso peor que la Segunda Guerra Mundial. Entendámonos: la Segunda es horrible para los civiles, además está la atrocidad de la Shoah, pero para los militares aquello sería algo apocalíptico, nunca visto. Muchas posturas de aquellos días son realmente llamativas, y no sólo en lo que se refiere a los ultranacionalistas belicosos, sino también en lo que se refiere al campo de los demócratas de aquellos momentos, por así llamarlos. Ellos también compartían esta fe absoluta en ese mundo nuevo del que hablábamos.
"La caída de la utopía totalizante es una liberación"
Nos han llegado testimonios impresionantes, por ejemplo, a través de aquella joven y brillantísima generación perdida triestina, en ocasiones muertos prematuramente, como Scipio Slataper y Carlo Stuparich, caídos en el frente durante la Guerra del 14. Elody Oblath, una de las amigas de Slataper, el mítico autor de Mi Carso —que escribiría con tan sólo 24 años—, quien más tarde se casaría con el Stuparich sobreviviente, con Giani, dijo sobre aquellos días del inicio de la guerra: "Estábamos dispuestos a morir y en el fondo —y esto lo dice con un profundo sentido de culpa— estábamos igualmente dispuestos a pedir la muerte de millones de hombres". Es decir, encuentras a muchos que se van a la guerra con un sentido de la aventura, de las experiencias emocionantes, y luego, inmediatamente, llegan Verdún, Galitzia, el Carso, lugares en los que, para ganar un espacio que sería como ir desde aquí hasta el fondo de aquella escalera, tienen que caer doscientos hombres, y al día siguiente otros doscientos. Son necesarias todas aquellas terribles matanzas para que por fin se lleven las manos a la cabeza horrorizados. Es realmente sorprendente. Porque yo, que he tenido la suerte de no haber estado en ninguna guerra, no tengo necesidad de que nadie me meta una bayoneta en la barriga para imaginar que es algo espantoso. Es algo extraordinario esta imprevisión, este pillar por sorpresa. Luego está otro fenómeno de enorme importancia que aparece con esta Primera Guerra, que es la aparición de las masas en toda Europa, con lo que el mundo cambió radicalmente.
Se cancela en cierto modo aquel "mundo de ayer", de seguridad, con sus pautas, sus problemas enquistados, pero también sus rutinas, del que hablaba Zweig.
Cambian muchas cosas, en efecto. En la posguerra del 14, todas las fuerzas políticas que antes habían dominado los países —los liberales, los republicanos, etc.— se quedaron totalmente fuera de juego porque no entendían a las masas. El fascismo y el comunismo las entienden perfectamente. Yo diría que el fascismo, al menos en un primer momento, las entiende incluso más. Además, no olvidemos que países como Italia no deseaban la guerra, el Parlamento no la quería, fue la plaza —la calle, por así llamarla— la que la impuso. Con lo cual se produce un fenómeno extremadamente peligroso. En ese sentido es una época que hace acabar efectivamente ese "mundo de ayer" y abre paso a la Segunda Guerra Mundial que, con todos sus espantos específicos, sus horrores, en el fondo no es más que una continuación. Pero lo que hace bascular todo, el verdadero big bang del nuevo mundo, incluyendo en esto tanto lo bello como lo nefasto, es la primera. Sin la Primera Guerra Mundial, sin el suicidio de Europa, probablemente los pueblos coloniales, por ejemplo, no hubieran podido más tarde emanciparse. Aquel de entonces es un proceso que, a mi entender, aún no ha terminado. Lo que una vez fue un orden, con tantos aspectos discutibles, algunos incluso tremendos, estalló de repente.
Llama la atención la tremenda inocencia con la que algunos se enfrentaron a este auténtico fin del mundo antes nunca conocido, como decías.
Hay casos realmente llamativos, conmovedores. En la tercera parte que he escrito para esta serie de televisión hablo sobre la literatura y la guerra mundial. Por un lado, está la literatura de exaltación, de género nacionalista, y por otro la demócrata. Están los que la denuncian, los que la aceptan —como sería el caso de Stuparich, de Carlos Emilio Gadda— y también, claro, los pacifistas. Luego están los que, como Jünger, continúan creyendo que la guerra es "una gran escuela". Yo, naturalmente, estoy en contra de Jünger, pero tengo que decir que entiendo mejor a alguien como él, que desde el principio sabe lo que es la guerra y por tanto no se sorprende, que a aquellos que van a la guerra como a una aventura y luego dicen "¡Dios mío! ¿Qué ha pasado?". Hay una maravillosa historia judía que me contó en una ocasión el escritor triestino Giorgio Voghera, que es la historia de un judío austríaco que es llamado a filas. Él está en contra de la guerra pero va. Le fastidia, pero hace los ejercicios reglamentarios, las maniobras, aprende a disparar. Por fin lo mandan al frente y él va obedientemente. Una noche, dan la orden de salir de las trincheras y atacar las posiciones rusas. Él va de mala gana, pero se arrastra por tierra para ir avanzando y, en un momento dado, los rusos lanzan unas bengalas que iluminan la llanura y comienzan a disparar. Y él de repente se pone a gritarles: "¡Pero qué hacéis! ¿Estáis locos o qué? ¡Aquí hay gente!". Y en ese momento cae fulminado por una bala.
Has hablado mucho de las utopías en tus libros, en novelas como A ciegas o en ensayos como Utopía y desencanto. Después del siglo de las utopías por excelencia, el siglo XX, de su desmoronamiento tras la caída de los regímenes totalitarios de un signo y de otro, ¿qué ha quedado? Parece que con ellas se fueron también un gran número de ideas sociales justas, legítimas, y comenzó poco a poco un declive de los partidos tradicionales de izquierda en Europa. Ahora, de norte a sur, de este a oeste, parece sólo reinar un gran cinismo, escudado en una dramática crisis, que no es sólo económica, sino también de las ideas, de los valores, de ilusiones que se asesinan antes incluso de tener la oportunidad de enunciarse. Además se aplica el término de "radical" enseguida a todo aquel que reclama simplemente cambios en este estado de cosas.
Yo creo que la caída de las utopías, ya no digo totalitarias, sino totalizantes, aquellas que tenían la idea de construir un futuro perfecto, de tener la receta para construirlo, el hecho de que estas utopías cayeran, no tiene por qué significar en modo alguno una desilusión, sino que tiene que ser vivido como una liberación. Lo trágico es que en vez de sentirse libres de soluciones equivocadas y autoritarias, y por tanto libres para seguir intentando mejorar el mundo, es decir, haciendo intentos una y otra vez, siempre de manera imperfecta, democrática, conciliadora, de repente esta caída parece que hubiese llevado a la gente a no creer en ninguna solución.
"La unanimidad no es democracia"
Hay una frase de aquel cabaretista genial del que Brecht aprendió mucho, Karl Valentin, que dice: "Hubo una vez en que el futuro fue mejor". No el presente, porque se trataba de un presente horrendo. Es decir, hasta un cierto momento de la historia bastante reciente, había existido la idea de construir un futuro mejor, un proyecto para un futuro. Yo, por ejemplo, que nunca compartí la utopía comunista, sigo creyendo que este cinismo actual es un error. Lo que sucede es que la humanidad, en estos momentos, se muestra verdaderamente inmadura, en el sentido de que o bien quiere tener las revelaciones como en el Sinaí, con unas tablas de la ley dadas por Dios a través de las cuales se sabe todo inmediatamente, o bien, en lugar de esto, en el otro lado, no existe nada en absoluto. Todo se tiene que construir trabajosamente, con una mezcla de pasión, pero también de cierto escepticismo, con vistas a un mundo no perfecto sino simplemente mejor. Creo que es importante que sigamos creyendo que el mundo no sólo tiene que ser administrado, sino también cambiado.
Los populismos y grupos xenófobos han crecido de forma espectacular en estos últimos años en muchos países europeos, desde Francia y Holanda, hasta Grecia, Hungría o Noruega. ¿Lo ves de una manera preocupante?
Sí, claro que es preocupante. Yo, hace algún tiempo, inventé una palabra: lumpemburguesía. Marx hablaba de un lumpemproletariado, es decir, de un proletariado perdulario, marginal, en el sentido de tan explotado y tan cautivo que no tenía conciencia alguna de sí mismo, ninguna característica especial, y por tanto estaba listo para ser utilizado por los populismos más reaccionarios. Lo que ha sucedido en estos veinte años últimos, grosso modo, es la formación de una lumpemburguesía, una burguesía de clase media, que moralmente, culturalmente, está brutalizada. Que ha perdido cualquier principio de dignidad, de decoro, incluso de hipocresía, que era uno de los valores que la sustentaban, algo que significaba un freno de algún modo. Es decir, si yo soy un antisemita pero estoy callado por miedo a que la sociedad en torno a mí me mire con reproche, sería una pésima señal para mí, pero una buena señal para la sociedad. Si, por el contrario, soy antisemita, y mando —como recientemente ha sucedido, en el día de la conmemoración del Holocausto— un montón de cabezas de cerdo a la Sinagoga de Roma, sin que ello comporte ningún tipo de censura, sería una pésima señal no sólo para mí sino para el mundo en el que vivo.
¿Qué tipo de solución ves a todo esto, a esta desmoralización creciente de una buena parte de la sociedad europea?
Yo diría que lo que no se consigue ver por ningún lado hoy día son las fuerzas políticas que puedan llevar a cabo las reformas necesarias. Creo verdaderamente que la única solución es un Estado europeo fuerte, federal, respetado, en el que estén integrados los estados individuales de ahora, incluyendo en esto las regiones, las provincias, con sus diferencias y sus características propias, pero sin negar la pertenencia a este Estado fuerte europeo, con unas leyes compartidas por todos. La emigración, por ejemplo, es un problema europeo, es ridículo tener leyes diferentes en Italia, en Francia o en Holanda. Sería como tener leyes distintas en Florencia o Bolonia. Esto es muy difícil, por supuesto, y más que nada en estos momentos, obviamente, en que la crisis económica ha traído consigo numerosos pasos atrás. Y hay que recordar también que es muy complicado construir una casa común entre muchos. Si bien he escrito mucho sobre la necesidad de integrar a todos por igual, tanto los que vienen del este —considerados muchas veces de segunda categoría— como los que ya están en el oeste, es necesario, antes de incluir a demasiados países, que el proyecto originario se consolide de un modo sumamente sólido y a él luego se unan todos lo que deban unirse. Y cuando digo demasiados no quiero que se me entienda mal. Por supuesto no quiero decir que Rumanía tenga menos valor que España. Pero hay que consolidarlo antes de forma conveniente, en ocasiones reformando lo ya existente. Es decir, probablemente habría que abolir, en cada uno de los campos, el principio de unanimidad. Porque la unanimidad no es democracia, sólo los regímenes autoritarios fingen tener esa falsa unanimidad. Es imposible funcionar veto tras veto.
"La lumpemburguesía se ha brutalizado"
Debido al peso tremendo de esa elefantiasis burocrática, está sucediendo en Europa lo que sucede en mi universidad, en la que sólo se convocan reuniones para discutir lo que se tiene que hacer. Aún así hay que recordar que en la construcción de Europa, por primera vez en la historia del mundo, se intenta construir un complejo entramado que desemboque en un estado pluriestatal no con la guerra sino a través del acuerdo. Hasta ahora todas las grandes operaciones en Europa se hacían a través de las guerras. Los romanos no les pidieron permiso a los galos para invadirlos, tampoco el Imperio austrohúngaro pedía permiso para tomar el Banato.
El Danubio, el libro con el que se te conoció en muchos países, apareció en 1986. En cierto modo, ha contribuido enormemente a esta difícil construcción europea de la que hablabas, a sentir más cercanos, a normalizarlos, a un gran número de países que antes eran mirados como extranjeros. Desde la perspectiva actual, ¿cuál dirías que fue la espoleta de salida para aquella obra tan particular, que conectó con tantos lectores, y que fundó casi un género, se podría decir, mitad reportaje, mitad relato histórico en torno a la civilización danubiana, mitad novela con personajes y relato autobiográfico encubierto?
Naturalmente, sin todos los años previos, en los que había estudiado una parte al menos de la civilización danubiana, no hubiera podido escribir el libro, es evidente. Porque, lo mismo que si me hubiera puesto a escribir sobre el Mississippi o el Volga, me habría faltado familiaridad. Este viaje del conocimiento al no conocimiento —porque finalmente uno acaba también por no entender nada—, el haber escogido el Danubio, partía de esa premisa. Luego estaba, por supuesto, el hecho de que el Danubio es un río que no se identifica sólo con un país, como sucede con el Volga. Es decir, atravesando pueblos, culturas, sistemas políticos, lenguas, enseguida se convertía en un símbolo de la Babel del mundo, de la necesidad y de la dificultad también de atravesar fronteras. Y, por supuesto, cuando digo fronteras no me refiero sólo a las nacionales, sino a las culturales, a las religiosas, a las que llevamos dentro de nosotros, etc. Un mundo en el que, conforme avanzaba, más familiaridad perdía.
Aunque luego tuvo lugar un momento especial, como siempre sucede con mis libros, aparte del tema de fondo que puedan tener, en que se produjo un suceso, un clic que lo desencadenó. "Una causa próxima", como decía Aristóteles. El Danubio nace, por así decirlo, un día de septiembre de 1982, en que con Marisa Madieri, mi mujer, y con algunos amigos, habíamos planeado ir a Eslovaquia, que entonces aún seguía siendo Checoslovaquia. Estábamos aún en la frontera de Austria y era un día bellísimo, esplendoroso, en el que compartíamos realmente esa sensación de abandono, de amistad, de estar en armonía con el fluir de la vida. En aquel momento, señalado con una flecha, vimos: Museo del Danubio. Era algo extrañísimo. Era como si los enamorados en los bancos de los parques descubrieran de repente formar parte de una exposición sobre el amor en los bancos públicos, como la canción de Brassens Les amoureux des bancs publics, sin ellos saberlo. Pues entonces nos sucedió lo mismo, el Danubio apareció con una flecha que señalaba "Danubio". En ese momento Marisa, mi mujer, dijo: "¿Y si continuásemos hasta llegar al Mar Negro?". Justo entonces tuve la idea de escribir el libro. De todos modos, hasta que no tuve un tercio acabado no sabía de qué tipo sería: si sólo reportajes, si sería yo el personaje, con mi propio nombre, como cuando firmo mis artículos del Corriere della Sera, o si se convertiría en un personaje total o parcialmente inventado.
Esta entrevista se publicó en el nº 4 de la revista Luzes. Suscríbete.
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abatelunare · 2 months
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Le pupille di lei erano d'una luminosità solare, e per la sua bocca scorrevano i sentimenti come ombre morbide su prati (Giani Stuparich, Un anno di scuola e Ricordi istriani).
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Première sélection du prix Jean d’Ormesson 2020
Par Nicolas Turcev, le 02.03.2020 à 17h43 (mis à jour le 02.03.2020 à 18h11) Prix littéraires
Nastassja Martin – Photo PHILIPPE BRETELLE/GALLIMARD
Le lauréat, choisi parmi les 11 titres en lice, sera proclamé début juin.
Le jury du prix Jean d’Ormesson 2020 a révélé, dimanche 1er mars, sa sélection de 11 titres. Le lauréat sera proclamé début juin. Il succédera à Julian Barnes, distingué l’an dernier pour son roman La seule histoire paru aux éditions Mercure de France.   La sélection du prix Jean d’Ormesson 2020  
La Couronne de plumes – Isaac Bashevis Singer – Stock / Livre de Poche
Sexy Lamb – Frédéric Boyer – P.O.L
Printemps silencieux – Rachel Carson – Editions Wildproject
L’Amour aux temps du choléra – Gabriel Garcia Márquez  – Grasset / Livre de Poche  
La Vie solide, la charpente comme éthique du faire – Arthur Lochmann – Payot – Rivages 
Croire aux fauves – Nastassja Martin – Editions Verticales
Bréviaire méditerranéen – Predrag Matvejevitch – Fayard
Au commencement – Chaïm Potok – Les Belles lettres
Extérieur monde – Olivier Rolin – Gallimard
L’Homme sans postérité – Adalbert Stifter – Phébus 
L’île – Giani Stuparich – Verdier
  Créé par Héloise d’Ormesson en 2018 pour rendre hommage à son père, le prix Jean d’Ormesson « célèbre les livres, la grande affaire de sa vie. » Présidé par Françoise d’Ormesson, veuve de l’écrivain, le jury est composé de Dominique Bona, Marie-Sarah Carcassonne, Gilles Cohen-Solal, Teresa Cremisi, Marc Fumaroli, Dany Laferrière, Héloise d’Ormesson, Erik Orsenna, Malcy Ozannat, Jean-Marie Rouart et François Sureau.  
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kausastralis · 10 years
Conversation
Mitis: Su dai, coraggio, devi parlare!
Neranz: L'abbiamo scoperto alla fine, era Taucer il tuo amante segreto!
Edda: Perché no? L'ammiro molto. Il mio modo di giudicare gli uomini è ormai cambiato, per merito vostro.
Mitis: O demerito?
Edda: Come vuoi tu. Però, dato che è l'ultima volta che stiamo insieme, posso dirvelo: sono stata innamorata pazzamente di uno di voi. Se mi avesse chiesto di sposarlo, mi sarei inginocchiata a baciargli le mani.
Aldo: E chi è questo fortunato?
Edda: E perché? Credi che il matrimonio sia questa grande fortuna? Chiudermi in una delle vostre case, a tu per tu con una suocera pazza di gelosia. Che errore sarebbe stato, che errore fatale. Ci sono stata così vicina che ancora tremo di paura. Bevo alle vostre madri e alle vostre sorelle, così diverse da me! E anche alle vostre future spose, cari amici!
Tutti: Dicci chi è! Il nome dai, il nome!
Edda: Da me non saprete niente.
Tutti: Il nome dai!
Edda: Non posso mica vantarmene, mi ha piantata!
Giorgio: Quell'imbecille sono io.
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naranjitoo · 12 years
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Giani Stuparich es uno de los grandes. Dotado para captar lo sustancial, el escritor soldado narra su vida en la Primera Guerra Mundial con una estremecedora visión de la desdicha
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abatelunare · 2 months
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Era atroce l'egoismo di quella madre, era insensata la sua pretesa (Giani Stuparich, Un anno di scuola e Ricordi istriani, Torino, Einaudi, 1979).
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