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#ammonimento
fotoecitazioni · 10 months
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Disgrazie "Le disgrazie degli altri sono un utile ammonimento per tutti"(Esopo).
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chiara-morini · 4 months
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Violenza domestica. Due uomini aggrediscono le compagne, ammonimenti del Questore
FERMO  Due provvedimenti di ammonimento emessi dal questore.  L’aggressioni Il primo dei due ha riguardato un italiano, quasi cinquantenne, il quale si è reso responsabile di una aggressione ai danni della compagna convivente avvenuta nel corso di un violento litigio domiciliare, scaturito per futili motivi. La donna, si è recata la sera stessa al Pronto Soccorso per ricevere le dovute cure e, in…
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crazy-so-na-sega · 3 months
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Che il "conosci te stesso" abbia assunto valore proverbiale è attestato da Teofrasto nell'opera "Sui proverbi".
Camaleone nell'opera "Sugli Dei", la attribuisce a Talete
i più assumono invece che questo detto sia di Chilone.
Ermippo a sua volta, nel I libro "Su Aristotele", dice che a pronunciarlo sia stato Labi, un eunuco di Delfi che era ministro del tempio.
Clearco, nei libri Sui proverbi asserisce che si tratti di un ammonimento di Apollo Pizio, trasmesso ccome un responso oracolare a Chilone.
Aristotele, invece, nei libri "Sulla filosofia", lo ascrive alla Pizia: già prima di Chilone, infatti, stava scritto sul tempio eretto a Delfi dopo il cosiddetto alato e dopo quello di bronzo.
Antistene, nelle sue "Successioni di filosofi", dice che il "Conosci te stesso" è di Femonoe (la prima Pizia) e che Chilone se ne sia appropriato.
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più o meno come i nostri...:-)
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lunamagicablu · 2 months
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“Gli animali hanno propri diritti e dignità come te. È un ammonimento che suona quasi sovversivo. Facciamoci allora sovversivi: contro ignoranza, indifferenza, crudeltà.” MARGUERITE YOURCENAR ******************** “Animals have their own rights and dignity like you. It's a warning that sounds almost subversive. Let us then be subversive: against ignorance, indifference, cruelty." MARGUERITE YOURCENAR 
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gregor-samsung · 10 months
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“ All’atto di redigere il testo di un parlato radiofonico si dovrà dunque evitare in ogni modo che nel radioascoltatore si manifesti il cosiddetto «complesso di inferiorità culturale», cioè quello stato di ansia, di irritazione, di dispetto che coglie chiunque si senta condannare come ignorante dalla consapevolezza, dalla finezza, dalla sapienza altrui. Questo «complesso» determina una soluzione di continuità nel colloquio tra il dicitore e l’ascoltatore, crea una zona di vuoto, un «fading» spirituale nella recezione. Ad ovviare la qual calamità radiofonica è in particolare consigliabile: a) in ogni evenienza astenersi dall’uso della prima persona singolare «io». Il pronome «io» ha carattere esibitivo, autobiografante o addirittura indiscreto. Sostituire all’«io» il «noi» di timbro resocontisticoneutro, o evitare l’autocitazione. Al giudizio: «Io penso che la Divina Commedia sia l’opera maggiore di Dante», sostituire: «La Divina Commedia è ecc.»; b) astenersi da parole o da locuzioni straniere quando se ne possa praticare l’equivalente italiano. Usare la voce straniera soltanto ove essa esprima una idea, una gradazione di concetto, non per anco trasferita in italiano. Per tal norma inferiority-complex, nuance, Blitz-Krieg e chaise-longue dovranno essere sostituiti da complesso d’inferiorità, sfumatura, guerra lampo e sedia a sdraio: mentre self-made man, Stimmung, Weltanschauung, romancero, cul-de-lampe e cocktail party potranno essere tollerati; c) evitare gli sterili elenchi dei nomi di persona quando non si possono caratterizzare o comunque definire le persone chiamate in causa. Meglio omettere dei «nomi da manuale», che infastidire l’ascoltatore citando nomi destinati a spegnersi appena pronunziati, come faville lasciate addietro per un attimo dalla corsa d’una locomotiva; d) operare analogamente con le date. In un esposto di carattere storico le date costituiscono opportuno ammonimento, gradito appoggio e gradita eccitazione per la memoria. Tali appaiono al viaggiatore le indicazioni chilometriche. Delle date si dovrà misurare il valore e l’intercorrenza più conveniente. Si dovranno gerarchizzare, distanziare le une dalle altre; e porgerle comunque con garbo all’attenzione di chi ascolta, quasi le richiedesse opportunità, necessità; e) astenersi dal presupporre nel radioabbonato conoscenze che «egli», il «qualunque», non può avere e non ha. Inibirsi la civetteria del dare per comunemente noto quello che noto comunemente non è. A nessun uomo, per quanto colto, si può chieder di essere una enciclopedia. I lemmi dell’enciclopedia rappresentano la fatica di migliaia di collaboratori; f) entrare subito o pressoché subito in medias res: non tener sospeso l’animo del radioascoltatore con lunghi preamboli, con la vacuità di premonizioni superflue che il valore cioè il costo del tempo radioparlato sono ben lontani dal giustificare, dall’ammettere. “
Carlo Emilio Gadda, Norme per la redazione di un testo radiofonico.
NOTA: durante la sua collaborazione con la RAI (accettata per necessità e mal sopportata), presso i servizi di cultura del Terzo programma (1950-55), Gadda redasse un breve vademecum a beneficio degli autori radiofonici e destinato a circolazione interna (veniva allegato ai contratti per i collaboratori). La prima edizione delle Norme (ERI, Torino, 1953) apparve senza il nome dell’autore ma firmata in calce «IL TERZO PROGRAMMA»; seguì una seconda edizione (ERI, Torino, 1973), questa volta a nome di Gadda. Il testo fu quindi accolto nelle raccolte postume degli scritti minori dell’ «ingegnere».
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moonyvali · 1 year
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LA MALATTIA TERMINALE
"Sta muovendo qualche onda l'esclusione del fisico Carlo Rovelli dalla cerimonia di apertura della Fiera del Libro di Francoforte, cui era stato precedentemente invitato. La colpa di Rovelli è stata quella di contestare – peraltro in modo argomentato - le scelte del governo rispetto al conflitto tra Russia e Ucraina.
Avendo fatto parte Rovelli fino a ieri del novero degli “accreditati” dal sistema mediatico, questa volta si è inarcato persino qualche sopracciglio nella borghesia semicolta, nei lettori di corriererepubblica e fauna affine. Purtroppo a quest’influente fascia della popolazione sfugge del tutto la gravità di ciò che accade da tempo, come un andamento sotterraneo, continuo, capillare.
C'è una linea rossa continua che si dipana nella gestione dell’opinione pubblica occidentale da anni e che ha subito un’accelerazione dal 2020. È una linea che si lascia vedere in superficie solo talora, come nella persecuzione di Assange (o Manning, o Snowden, ecc.) fino a censure minori, come quella assurta oggi agli onori delle cronache. Il senso profondo di questo movimento sotterraneo è chiarissimo: perseguimento della verità e gestione del discorso pubblico in occidente sono oramai indirizzi incompatibili.
A Rovelli viene imputato qualcosa di imperdonabile, ovvero di aver tradito l’appartenenza alla cerchia degli onorati dalle élite di potere, mettendole in imbarazzo. Questo non può e non deve accadere. Oggi il discorso pubblico ha il permesso di oscillare tra due poli, a un estremo la polemicuzza innocua e autoestinguentesi sull’orsa o la nutria di turno, all’altro i rifornimenti di munizioni alla linea dettata dal capo, cioè dalla catena di comando a guida americana dietro al cui carro - sempre meno trionfale - siamo legati.
Per le verità più pesanti e pericolose vige l’ordine di distruzione, come evidenziato dal caso di Assange la cui vita è stata distrutta per segnare un esempio e un ammonimento a qualunque altro soggetto eventualmente incline alla parresia. Per le insubordinazioni minori (tipo Rovelli, Orsini, ecc.) basta la caduta in disgrazia presso i cortigiani, che si riverbera in censure, piccoli ricatti silenti, e poi in discredito, blocchi di carriera, ecc.
Tutto ciò si condensa in una sola fondamentale lezione, una lezione implicita che il nostro intero sistema di formazione delle menti, giornali, televisioni, scuole, università, ecc. consapevolmente o inconsapevolmente implementa: “Tutto ciò che è discorso pubblico è essenzialmente falso.”
Questa è la lezione che i giovani ricevono precocemente e da cui traggono tutte le conseguenze del caso, in termini di disimpegno e abulia. A tale lezione si sottrae solo in parte qualche parte della popolazione meno giovane, in cui si agita ancora l’illusione di aspirazioni passate (“partecipazione”, “democrazia”, ecc.).
La “realtà” in cui ci troviamo a nuotare funziona però secondo il seguente ferreo sillogismo:
1) Tutto ciò che abbiamo in comune gli uni con gli altri come cittadini, come demos è il discorso pubblico mediaticamente nutrito;
2) Ma quel discorso pubblico è oggi puramente e semplicemente menzognero (o schiettamente falso, o composto di frammenti di verità ben selezionati, funzionali a creare uno desiderato effetto emotivo);
3) Perciò non c'è più nessun possibile demos, nessun possibile discorso pubblico, e dunque nessuna leva perché un’azione collettiva possa cambiare alcunché. Mettetevi il cuore in pace, si salvi da solo chi può.
In questa cornice peraltro si staglia per interesse l’atteggiamento dei superdiffusori di menzogne certificate, dei mammasantissima dell’informazione e del potere, attivissimi nel denunciare ogni eterodossia sgradita come “fake news”. E così ci troviamo di fronte allo spettacolo insieme comico e ripugnante dove i comandanti di corazzate dell’informazione chiedono il perentorio affondamento di canotti social per non aver benedetto abbastanza l’altruismo di Big Pharma, o per essere stati teneri con Putin, o per non aver rispettato l’ultimo catechismo politicamente corretto, e così via.
Viviamo in un mondo in cui la menzogna strumentale è oramai la forma dominante della verbalizzazione di interesse pubblico.
C'è chi vi reagisce con mero disimpegno rassegnato; chi si chiude angosciato nella propria stanza tipo hikikomori; chi cerca paradisi artificiali in pillole; chi accetta il gioco cercando di usarlo per tornaconti a breve termine (perché nessun altro orizzonte è disponibile); c'è chi cade in depressione; chi impazzisce; c'è chi ogni tanto spacca tutto per poi tornare a battere la testa contro il muro della propria cella; e c'è chi sviluppa quella forma particolare di pazzia che sta nel lottare disarmato contro i giganti sperando si rivelino mulini a vento.
Sul fondo fluisce la corrente della storia dove il nostro vascello occidentale ha preso un ramo digradante e con inerzia irreversibile accelera verso la cascata. Una volta che la parola pubblica ha perduto la propria capacità di veicolare verità, ridarvi peso è impossibile. Ogni ulteriore parola spesa per correggere le falsità del passato, se raggiunge la sfera pubblica viene per ciò stesso percepita come debole, logora, impotente. La società che abbiamo apparecchiato è una società senza verità e togliere la verità al mondo sociale significa condannarlo ad una malattia terminale. Quanto dureranno gli scricchiolii, quanto la caduta di intonaci, quanto le infiltrazioni d’acqua, quanto resisteranno ancora gli spazi abitabili sempre più ristretti, questo non è facile prevedere, ma un mondo senza verità è un mondo senza logos, e non può che sfociare in quella dimensione dove le parole sono superflue perché violenza e morte ne hanno preso il posto."
Andrea Zhok
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO TERZO - di Gianpiero Menniti
LA RELAZIONE
Il gioco della visione appartiene alla pittura: fenomeno ottico, l'anamòrfoṡi sorge sul proscenio dell'immagine per rammentarne la natura ambigua.
Già sperimentata da Leonardo nella sua "Annunciazione" conservata agli Uffizi, con Hans Holbein il Giovane (1497-1543) diventa figura che ammonisce: un teschio appare, di scorcio, osservandolo da destra, nel sorprendente "Ambasciatori", 1533, Londra, National Gallery.
Certo, è un ammonimento, il classico "memento mori".
Ma c'è qualcosa di più, un effetto che supera la tecnica e il significato.
Si tratta della "relazione".
Il dipinto è oggetto dello sguardo.
Il dipinto è oggetto.
Eppure, il dipinto osservato, a sua volta osserva.
Lo spettatore guarda.
E, improvvisamente, è guardato.
L'immagine non è più, solo, un oggetto: è espressione vivida.
Chiede attenzione.
Diventa soggetto.
Ci ri-guarda.
E ci riguarda.
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soldan56 · 11 months
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canesenzafissadimora · 11 months
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Se dunque al mondo tutti i grandi amori sono stati in eterno contrastati,
vuol dire che è decreto del destino;
e questa prova, cui siam sottoposti anche noi due ci sia di ammonimento che ci dobbiamo armare di pazienza, pensando ch’è retaggio dell’amore d’esser sempre impedito,
come lo sono i sogni, i desideri,
i pensieri, le lacrime, i sospiri
che fan corteggio all’amore conteso.
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William Shakespeare
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klimt7 · 1 year
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CI SONO REATI
E REATI
Chi tocca i bambini, muore
Riflessioni sulla nostra civiltà giuridica, raffrontata a quelle romane e greche.
Uno sguardo alla svolta violenta che è in corso nelle nostre società del 21° secolo.
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Chi tocca i bambini...
Come è successo in un parco giochi Francese, dove quattro bambini sono stati accoltellati... uno addirittura fin dentro al proprio passeggino.
Chi si macchia di questi abomini... Chi compie delitti di gravità inaudita come è accaduto di recente con l'assassinio di Giulia Tramontano.
Davanti ad assassinii di assurda crudeltà ed efferatezza come questi, io credo che sia necessario anche riconsiderare il valore "educativo" di un eventuale ripristino della Pena capitale.
Sì, sto proprio parlando della tanto vituperata " pena di morte ".
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Non tanto perchè credo che una Società debba vendicarsi sul singolo individuo ma proprio per comprendere umanamente, il valore intrinseco che alla pena di morte, attribuivano i Romani e perfino i Greci.
Non quindi come una vendetta della Società contro il singolo individuo ma come atto dovuto per educare tutti i restanti individui di una comunità a non uscire dai limiti di ciò che è "umano" e tollerabile.
E allora vediamolo da vicino il valore che le attribuivano i Romani, ( i Romani che, - ricordiamolo bene - sono riconosciuti unanimamente come creatori della civiltà giuridica, dalla quale si sono poi originati gli attuali Ordinamenti di nazioni come Francia, Spagna, Stati Uniti, Germania ed Italia).
Innanzitutto i Romani attribuivano un valore di "monito", di "pena esemplare" alla pena capitale, un valore quindi, perfino "educativo" erga omnnes, non tanto e non solo per chì la subiva sul proprio corpo, ma per tutti coloro che restavano ed erano chiamati ad "essere testimoni" di questo atto di giustizia.
Testimoni del fatto che un Ordinamento giuridico sancisca il massimo della pena: LA PENA DI MORTE, solo e soltanto in occasione di delitti di eccezionale brutalità ed efferatezza.
Quindi per i Romani ed i Greci vi era un valore di "dissuasione implicita" nella pena capitale da eseguirsi al contrario di ciò che avviene oggi negli USA,
non nel chiuso di un carcere ma proprio davanti alla collettività intera.
In piazza !
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Mi spiego: il valore della pena capitale era visto in prospettiva di ammonimento ed insegnamento a tutti gli altri componenti della società.
In termini ancora più terra terra...
"Se tu, caro Cittadino, ti macchierai di crimini contro la tua stessa Umanità, se tradirai completamente la tua natura di uomo, sai fin d'ora che andrai incontro automaticamente la tua morte civile e fisica, proprio come individuo.
CONDANNERAI A MORTE CERTA, TE STESSO, PERCHÈ HAI RINNEGATO CON QUEGLI ATTI EFFERATI LA TUA STESSA APPARTENENZA AL GENERE UMANO.
Eccolo il valore educativo della pena capitale, in ambito classico.
Rendere certo il tuo destino.
Togliere qualsiasi alibi o speranza di farla franca, come avviene attualmente nei nostri Ordinamenti, in cui, dopo il Delitto, gli Avvocati della Difesa si arrampicano sugli specchi, pur di inventarsi una improbabile "impunibilità" per vizio mentale, per "incapacità di intendere e di volere", o durante la successiva vita dell'imputato, per ottenere assurde e ingiustificabili riduzioni della pena, per buona condotta o per benefici quali permessi premio o misure restrittive diverse dal Carcere [ arresti domiciliari].
Tutte misure - a ben vedere - atte a trasformare la vera vittima del reato, chi ha trovato la morte, nell'unico e solo colpevole.
Colpevole in modo definitivo per essersi trovata lì in quel preciso momento. Al posto sbagliato nel momento sbagliato. Colpevole di non essersi potuta difendere.
Mentre all'assassino si garantiscono tutta una serie di scappatoie giuridiche, alla persona uccisa (spesso assassinata "per futili motivi") resta l'incontestabile ruolo di vittima definitiva.
Perchè una donna o un bambino, una volta soppressi, è chiaro che non saranno più in grado di ottenere misure a proprio favore.
Divengono dunque oltre che vittime, colpevoli due volte.
Per assurdo che possa apparire, questi sono "colpevoli " per essere stati assassinati in via definitiva, mentre il vero criminale potrà giocarsi una infinità di carte e mosse processuali, per ottenere ingiustificabili benefici, rispetto alla pena originaria sancita dai Giudici riuniti in una Corte.
Se vi fosse la Pena di Morte per pochi e ben individuabili reati contro la persona, invece, Vittima e Colpevole verrebbero riportate su un piano di assoluta parità.
Nessuna furberia. Nessuna strategia processuale, nessuna abilità del proprio Avvocato potrebbe temperare la durezza della pena ricevuta.
I Romani in realtà, vedevano molto più lontano di noi, miseri e confusi eredi, di tale civiltà.
La pena capitale, secondo loro, aveva un valore di monito e di dissuasione per tutti i potenziali individui che volessero ripetete quegli assassinii abominevoli.
La pena di morte rendeva certa e definitiva la sanzione che una società civile ritiene di erogare per delitti di abnorme efferatezza.
È come se una Società dicesse al singolo individuo: un delitto di questo tipo non lo posso tollerare, per cui non solo ti sopprimo, in quanto hai voluto rinunciare di proposito alla tua natura umana, ma la tua esecuzione servirà per educare altri mille potenziali assassini, che sapranno con immediatezza che macchiandosi di tali delitti, condanneranno sè stessi in modo definitivo.
In due parole, l'effetto finale della Pena di Morte è il seguente: tu se uccidi o abusi un bambino sai fin da subito il destino che ti attende: se ti metti in quelle condizioni sai fin da subito, che per te la pena sarà senza "SE" e senza "MA".
Ed anche questo sarebbe un invidiabile progresso verso quella CERTEZZA DELLA PENA, sempre sbandierata in occasione delle decine di presunte, "RIFORME DELLA GIUSTIZIA" sbandierate dai nostri attuali e patetici politici e governanti
Sono solo spunti di discussione, i miei, riflessioni relative al grado di imbarbarimento raggiunto dal nostro attuale contesto sociale. Pensieri che nascono dal prendere atto che non abbiamo attualmente i mezzi per fronteggiare "la svolta violenta" delle nostre società.
Un fenomeno tipico di questo 21°secolo.
Pensieri che riguardano quell'inferno a cui diamo vita tutti noi, per il semplice fatto di esistere e interagine con "gli altri".
"L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."
ITALO CALVINO, Le città invisibili 
(Torino, Einaudi 1972).
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Letture collaterali:
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crazy-so-na-sega · 8 months
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La prima massima di virtù
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-Giambattista Tiepolo
della letteratura greca, si trova nel primo libro dell'Iliade, in quella scena che illumina di chiara luce la riflessione greca arcaica sull'azione umana. Quando Achille vuole, nella sua ira, affrontare Agamennone con la spada, Atena lo trattiene e ammonisce:
"Io vengo dal cielo per porre fine all'impeto della tua passione, al tuo sentimento eccitato, se mi vorrai ubbidire...Poni fine alla lite e non brandire la spada!"
Già nell'antichità si sono interpretate queste parole come un ammonimento alla moderazione, ma a questo fatto "morale" Atena non accenna. Essa invita Achille a frenare il suo impulso, e a non far uso della spada, com'era sua intenzione. E, infatti, Achille segue questo ammonimento. Si presenta qui in germe un fenomeno che possiamo chiamare "freno morale" e che Omero, anche in altri luoghi, definisce come "moderazione" o anche "raffrenamento" dell'organo eccitato dell'anima o della sua funzione; ma, parlando di "freno", mostra di concepire l'emotività come qualcosa di selvaggio, di bestiale, e quindi la facoltà di trattenerla, di frenarla, è veramente qualcosa che eleva l'uomo al di sopra dell'animale. Atena impedisce il male più che proporre una meta positiva; e così, ogni volta che una passione viene "raffrenata", è male l'azione positiva, e bene astenersi da essa. A queste situazioni si riferiscono i comandamenti o meglio i divieti: "non uccidere, non rubare, non commettere adulterio".
Atena non formula un vero e proprio divieto, sebbene l'elemento naturale e originario in questa scena (come accade spesso presso i greci) sia proprio l'intervento della divinità, che col suo superiore potere, impone un limite all'uomo. Ma qui Atena non fa valere il suo potere, non dà soltanto il suo recido comando, bensì permette ad Achille di riflettere, e, in questo appello alla sua opinione, affiora qualcosa che avrà molta importanza per la morale dei Greci, che però qui non ha ancora nessuna relazione con la morale.
Atena continua: "Poiché io questo ti dico, e quanto ti dirò si compirà: splendidi regali tre volte maggiori di questo, otterrai in compenso all'offesa. Ma tu ubbidisci e sappi rattenerti".
Se dunque Achille ubbidisce alla dea, se frena la sua passione, lo fa perché così gli sorride la speranza di un bene maggiore. E' una ragione, questa, che non ha nulla a che fare con la "morale", e tuttavia, anche secondo la concezione omerica, Achille avrebbe commessa una grande ingiustizia se avesse affrontato con le armi il capo dei Greci. L'astenersi dal farlo, era dunque un atto morale. La causa determinante di un atto che è indubbiamente morale, si restringe dunque a tal punto che il bene è raccomandato in quanto utile: questa concezione è largamente diffusa nei Greci dei primi secoli.
Il verso-tipo: "ma gli sembrò più vantaggioso" interviene spesso in Omero a concludere la riflessione. Senza dubbio l'argomento morale acquista maggior efficacia quando è possibile presentarlo sotto la veste dell'utile, come fa Atena con Achille, anzi, questa è la forma specifica per rendere accetta un'azione. L'idea dell'utile ritorna con notevole frequenza presso i Greci dei primi secoli, anche in massime di carattere più generale, dunque non soltanto in quelle che si riferiscono a una situazione determinata. E anche qui il fattore morale non è accentuato in un primo momento, come tale. Del resto i Greci non amavano dare ammonimenti in forma minacciosa e tonante, né far valere il potere e la sua facoltà punitiva.
-Bruno Snell - La cultura Greca e lo origini del pensiero europeo
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lunamagicablu · 1 year
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“Gli animali hanno propri diritti e dignità come te. È un ammonimento che suona quasi sovversivo. Facciamoci allora sovversivi: contro ignoranza, indifferenza, crudeltà.” MARGUERITE YOURCENAR ******************************** “Animals have their own rights and dignity like you. It's an admonition that sounds almost subversive. So let's be subversive: against ignorance, indifference, cruelty." MARGUERITE YOURCENAR
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romanticrota · 2 years
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"Adesso metto fine alla mia vita perché un bucomane porta arrabbiature, preoccupazioni, amarezze e disperazione a tutti i parenti e amici. Egli non distrugge soltanto se stesso, ma anche gli altri. Grazie ai miei amati genitori e alla mia nonnina. Fisicamente sono uno zero. Essere bucomani vuol dire essere l'ultima merda. Ma chi spinge all'infelicità quanti arrivano al mondo giovani, pieni di voglia di vivere? Questa vuole essere una lettera di ammonimento per tutti quelli che si trovano di fronte a questa decisione: che faccio, ci provo? Stupidi: guardate me. Adesso non hai più nessun problema. Simone, vivi felice". (Andreas W., detto Atze. Christiane F., "I Ragazzi dello Zoo di Berlino").
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lamilanomagazine · 3 days
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Venezia, stalking: un arresto e un divieto di avvicinamento
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Venezia, stalking: un arresto e un divieto di avvicinamento Prosegue incessante l'impegno della Polizia di Stato di Venezia sempre in prima linea nella prevenzione e contrasto agli episodi di violenza di genere. Nei giorni scorsi, infatti, i poliziotti del Commissariato di Polizia di Stato di Marghera, hanno dato esecuzione ad un'ordinanza di applicazione della misura cautelare del divieto di comunicazione e avvicinamento alla persona offesa e ai luoghi frequentati dalla stessa, emessa dal Tribunale del Riesame di Venezia, nei confronti di un soggetto indagato per il reato di stalking ai danni della ex compagna. Alla misura è stata data esecuzione grazie anche al supporto degli operatori del Commissariato di Polizia di Stato di Chioggia i quali, d'intesa con gli agenti del Commissariato di Marghera, hanno rintracciato l'indagato a Cavarzere (Venezia). Nello specifico, a seguito della denuncia resa dalla parte offesa, la squadra investigativa del Commissariato di Marghera ha effettuato diversi approfondimenti in merito agli atti persecutori che l'uomo avrebbe posto in essere nei confronti della vittima per i quali, inoltre, il Questore di Venezia in passato aveva disposto la misura di prevenzione dell'Ammonimento. L'attività di indagine, diretta dalla Procura della Repubblica di Venezia e delegata al Commissariato di Polizia di Stato di Marghera, ha consentito di raccogliere gravi indizi di colpevolezza nei confronti dell'uomo che ha portato all'applicazione della misura cautelare. Inoltre, sempre nei giorni scorsi, gli uomini della Squadra Mobile della Questura di Venezia, con l'ausilio dei poliziotti della Sezione Ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico (U.P.G.S.P.), hanno arrestato in flagranza differita un soggetto ritenuto responsabile di atti persecutori nei confronti della ex compagna. Nello specifico, nella mattinata di domenica 19 maggio, le Volanti sono intervenute a seguito della segnalazione di una donna alla quale era stata gravemente danneggiata la propria autovettura. Gli agenti, dopo aver constatato il danneggiamento dell'auto della stessa, avvenuto presumibilmente tramite materiale pirotecnico, sono venuti a conoscenza che l'ex compagno della donna, in numerose occasioni, le avrebbe rivolto minacce telefoniche. Gli elementi acquisiti grazie all'attività degli uomini della Squadra Mobile e delle Volanti, hanno fatto emergere un grave quadro indiziario a carico dell'uomo il quale, pertanto, è stato tratto in arresto e posto a disposizione dell'Autorità Giudiziaria. All'esito degli accertamenti di rito, il giudice ha disposto nei suoi confronti l'arresto per atti persecutori in flagranza differita e la traduzione presso il carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia. Per combattere il problema della violenza di genere, nell'ultimo anno la Questura di Venezia ha intensificato i rapporti di collaborazione con gli enti e le istituzioni che ad ogni titolo si occupano di violenza domestica con la consapevolezza che essa vada contrastata secondo una strategia di rete (interessando, a titolo esemplificativo, Tribunali, Procure, centri antiviolenza, anche per il recupero degli uomini maltrattanti, strutture comunali, organizzazioni di volontariato ed organi di stampa). Sul fronte della prevenzione di tutti quei comportamenti ed atteggiamenti che possono sfociare in violenza e talvolta anche in femminicidio, come purtroppo dimostrano i recentissimi episodi di cronaca, l'Ammonimento del Questore assume ancor più un'importanza strategica nell'ottica di prevenzione a tale fenomenologia di reato. Tale strumento, infatti, è un provvedimento di carattere amministrativo (non penale) che può adottare il Questore nei confronti di soggetti considerati, a vario titolo, socialmente pericolosi. Ne esistono di due tipi: per atti persecutori e per atti di violenza domestica. Nel primo caso il Questore può emettere il provvedimento di ammonimento solo a seguito di richiesta della vittima, nel secondo caso, invece, qualora sussistano i presupposti individuati dalla legge, può procedere ad ammonire il soggetto violento anche di propria iniziativa. L'Ammonimento, pertanto, mira a prevenire e contrastare il fenomeno prima che l'attività della Polizia di Stato si concretizzi nell'arresto di chi arriva a compiere un atto del genere, essendo l'intervento repressivo un atto necessario solo laddove gli strumenti preventivi non abbiano avuto efficacia. Nell'ambito dell'attività posta in essere dalla Divisione Anticrimine della Questura di Venezia per la prevenzione e contrasto a tali tipologie di reato, nel periodo compreso tra gennaio e maggio 2024 sono stati adottati complessivamente ben 108 provvedimenti tra Ammonimenti ex art. 3 L. 119/2013 (violenza domestica) ed Ammonimenti ex art. 8 L. 38/2009 (atti persecutori). In particolare, con riferimento agli Ammonimenti ex art. 8 L. 38/2009 (atti persecutori), nel periodo compreso tra gennaio e maggio 2024 si è riscontrato un netto incremento degli stessi, con ben 34 provvedimenti adottati dal Questore di Venezia a fronte dei 23 emessi nel medesimo periodo dell'anno 2023. Tra gli strumenti adottati a tutela delle donne ed in generale a difesa di tutte le vittime vulnerabili, si ricorda l'app Youpol, un'app realizzata dalla Polizia di Stato inizialmente per segnalare episodi di spaccio e bullismo ed estesa in seguito anche ai reati di violenza che si consumano tra le mura domestiche. L'app Youpol è caratterizzata dalla possibilità di trasmettere in tempo reale messaggi ed immagini agli operatori della Polizia di Stato; le segnalazioni sono automaticamente georeferenziate, ma è possibile per l'utente modificare il luogo dove sono avvenuti i fatti. È inoltre possibile dall'app chiamare direttamente il N.U.E. - Numero di Emergenza Unico Europeo – e, dove non ancora attivo, risponderà la sala operativa 113 della Questura. Per chi non vuole registrarsi fornendo i propri dati, è prevista la possibilità di fare segnalazioni in forma anonima. YouPol può aiutare le vittime ed i testimoni di atti di violenza domestica a chiedere aiuto anche per l'emersione del "sommerso", con l'obiettivo di aiutare le donne a difendersi da violenze fisiche, psicologiche, verbali ed economiche.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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giancarlonicoli · 13 days
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21 mag 2024 17:26
“LA MORTE DI FALCONE? È STATA STESA UNA COLTRE INACCETTABILE SULLE RESPONSABILITÀ DEI SUOI COLLEGHI MAGISTRATI” – L���EX MINISTRO CLAUDIO MARTELLI RICORDA IL GIUDICE UCCISO DALLA MAFIA (INSIEME AL QUALE HA LAVORATO AL MINISTERO) – “ERA IL MAGISTRATO PIÙ FAMOSO AL MONDO. AVEVA FATTO CONDANNARE LA CUPOLA MAFIOSA. MA IL CSM LO DEGRADÒ, LO DELEGITTIMÒ. LO ESPOSE..." – LA STORIA DEL FALLITO ATTENTATO ALL’ADDAURA E LA STRAGE DI CAPACI: “L’AUTO VOLEVA SEMPRE GUIDARLA LUI, ERA LA SUA MANIA. È MORTO ANCHE PER QUESTO. SE..." -
Francesco Verderami per il Corriere della Sera - Estratti
Quando ne parla lo chiama «Giovanni», «perché passammo dal lei al tu in poco tempo». Claudio Martelli ricorda i giorni trascorsi al ministero di Grazia e Giustizia con Giovanni Falcone. Rammenta la consuetudine che divenne ben presto familiarità. «Succedeva quasi tutte le mattine: veniva nel mio ufficio, si sedeva di fronte a me, prendeva fiato come faceva lui, tirava fuori il suo blocchetto di post-it e li attaccava sulla mia scrivania.
C’erano spunti sugli argomenti più diversi. Da riforme complesse a piccoli grandi problemi di cui veniva a conoscenza: “In questa Procura in Sicilia c’è un giovane sostituto procuratore che lavora da solo con un computer che si porta da casa. E lui dovrebbe fare la lotta alla mafia? E con che cosa? Con un computer e due carabinieri di supporto, mentre Cosa nostra ha centinaia di uomini armati?”».
Di «Giovanni» gli tornano in mente «le mani delicatissime, la voce piana, leggermente querula. E il suo fare sornione. A lui piaceva fare scherzi. Per esempio toglieva la chiave mentre guidava l’auto. L’auto voleva sempre guidarla lui, era la sua mania. È morto anche per questo a Capaci: se si fosse seduto dietro, si sarebbe salvato. A volte la sera uscivamo a Roma. Ci mettevano d’accordo, licenziavamo le scorte e andavamo a cenare in ristoranti fuori mano. Da soli. Mi diceva: “È molto più sicuro così, Claudio. Tranquillo”. Facemmo viaggi in giro per l’Europa e per gli Stati Uniti. Una volta mi fece anche preoccupare».
(...)
Lei chiamò «Giovanni» a Roma il 2 febbraio del 1991, appena diventato Guardasigilli del settimo governo Andreotti.
«Sì, lo nominai direttore degli Affari penali, il ruolo più importante al ministero. Non aveva ancora preso l’incarico quando una sera ci fu una sparatoria davanti alla mia casa sull’Appia. I due fermati dissero di essere dei cacciatori. Si scoprì dopo che erano due mafiosi di Alcamo, che intanto erano stati rilasciati. Comunque, la mattina seguente Giovanni volle venire a vedere. Osservò i proiettili nel muro e commentò: “Non è un attentato, è un ammonimento”. Forse gli sembrai deluso e allora aggiunse sorridendo: “Non si preoccupi, se continua così un attentato prima o poi glielo fanno”».
Ancora vi davate del lei e lui non le ingombrava la scrivania con i post-it.
«Credo non sia mai stato così felice in vita sua come in quell’anno e mezzo a Roma. Era rasserenato, presentava progetti ogni giorno. Poteva fare il lavoro che aveva sempre sognato... (si ferma, si incupisce, smette di parlare di «Giovanni» e inizia a parlare di «Falcone»). È stata stesa una coltre inaccettabile sulla storia di Falcone e sulle responsabilità dei suoi colleghi magistrati per la sua morte.
Nessuno ricorda mai le parole pronunciate da Paolo Borsellino un mese dopo l’assassinio di Falcone e venti giorni prima di essere a sua volta assassinato: “Nel ripercorrere queste vicende della vita professionale di Falcone — disse Borsellino — ci accorgiamo di come il Paese, lo Stato e la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a far morire Falcone nel gennaio del 1988”».
Cosa accadde nel gennaio dell’88?
«Il Consiglio superiore della magistratura doveva decidere chi sarebbe subentrato ad Antonino Caponnetto come capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Caponnetto era il magistrato che aveva costituito il pool antimafia. E il passaggio di testimone a Falcone era considerato naturale, ampiamente giustificato dal fatto che nel dicembre del 1987 aveva vinto il maxi-processo: il primo grande processo a Cosa nostra, che aveva portato alla condanna di tutti i boss, a partire da Totò Riina e Bernardo Provenzano».
Falcone quindi non sembrava aver rivali per quell’incarico.
«Era il magistrato più famoso al mondo. Aveva fatto condannare la cupola mafiosa. Aveva sviluppato la cooperazione giudiziaria internazionale con l’Fbi, la magistratura francese, quella tedesca. Ma il Csm gli preferì Antonino Meli. Fu una manovra decisa dai magistrati a tavolino per tagliar fuori Falcone, perché Meli puntava a un’altra carica. Fernanda Contri, che era uscita sconfitta dalla battaglia nel Csm, ricevette una telefonata da Falcone: “Avete capito che mi avete consegnato alla mafia?
Ora possono eseguire senza problemi la sentenza di morte già decretata da tempo, perché sanno che non mi vogliono neanche i miei”. Insomma, il Csm lo degradò, lo delegittimò. Lo espose».
E la sua frase fu profetica.
«Ad agosto dello stesso anno subì l’attentato all’Addaura, una zona di mare vicino a Palermo dove in quel weekend era andato insieme alla giudice svizzera Carla Del Ponte. Trentotto candelotti di dinamite vennero trovati dalla sua scorta sul vialetto che dall’abitazione portava alla spiaggia. A vigilare c’erano anche due poliziotti su un canotto. L’indagine non approdò a nulla, anche perché a distanza di pochi mesi i due poliziotti testimoni furono assassinati. Non si seppe mai da chi. Falcone disse che la regia dell’attentato era stata “opera di menti raffinatissime”».
A chi si riferiva?
«Chiaramente non alla mafia, ma a pezzi delle istituzioni. Poi si candidò alla Procura di Palermo ma non venne selezionato. Poi si candidò al Csm e ottenne appena 101 voti su 7.005. Intanto Borsellino era andato a fare il procuratore a Marsala. Lui era solo e isolato».
E lei lo chiamò.
«E lui venne a Roma. Gli dissi che avrei voluto trasformare in leggi dello Stato le esperienze che lui aveva maturato con il pool antimafia. “È quello che voglio fare anch’io”, mi rispose. In realtà abbiamo fatto molto di più».
In che senso?
«Era uno specialista della collaborazione internazionale. Un giorno venne chiamato dal procuratore di Mosca: pare che il suo collega russo avesse un fagotto di carte nelle quali ci sarebbero state le prove di come il Pcus rubava i soldi allo Stato per finanziare i partiti amici in Europa, compreso il Pci. Eravamo nel periodo del crollo verticale del regime, il periodo di Boris Eltsin, e il procuratore di Mosca voleva raccontargli come il flusso di danaro non si fosse fermato. Falcone chiese la mia autorizzazione. Non fece in tempo a usarla».
Ma non doveva fare il direttore degli Affari penali?
«Visitammo tutte le procure più esposte in Calabria e in Sicilia. Ricordo un viaggio a Bonn, dove incontrammo il ministro dell’Interno tedesco. Eravamo nella sede della Volkswagen e il mio collega disse: “In Germania non abbiamo segnali di infiltrazioni mafiose”. Allora Falcone gli chiese: “Quanti siciliani lavorano alla Volkswagen?”. Il ministro s’informò subito: “Cinquemila, sono cinquemila”. “Allora la mafia c’è”, concluse Falcone. In questo commento c’era il giudizio disincantato, quasi disperato sulla sua terra, “dove regna una cultura di morte”».
Con quei post-it cosa faceste?
«Costruimmo l’Fbi all’italiana: da una parte la Direzione nazionale antimafia e dall’altra — insieme al ministro dell’Interno Vincenzo Scotti — la Direzione investigativa antimafia. Strutture nuove, con basi in tutta Italia e il vertice a Roma. Scrivemmo anche la legge antiracket per dare coraggio ai commercianti e indurli a denunciare la mafia che li obbligava al pizzo. E nel gennaio del 1992 istituimmo la Procura nazionale antimafia».
Contro la quale scoppiò un putiferio.
«In Parlamento si scatenarono i fascisti e i comunisti, questi ultimi impegnati a tutelare la loro longa manus nel Csm. I magistrati per la prima volta dichiararono lo sciopero nazionale e lo condirono con attacchi personali a Falcone: “Falcone non dà più garanzie di indipendenza, perché lavora per un ministro”. E ovviamente si misero di traverso per la sua nomina alla Superprocura. Ingaggiai una dura lotta con il Csm perché Falcone ottenesse l’incarico. Ma il 23 maggio del 1992 venne ucciso a Capaci insieme a sua moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e agli agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Dopo la sua morte tutti vennero a chiedere scusa».
E Borsellino?
«Lo chiamai il giorno della strage. Non ci facemmo le condoglianze: c’era sgomento e voglia di lottare. Poi parlai con Gianni De Gennaro. Mi disse: “So che siamo animati dallo stesso sentimento...”, “Di odio”, lo interruppi.  “Non solo. Credo ci sia anche un certo rancore personale”.
(resta a lungo in silenzio) .
Questa è la storia di Falcone.
Giudicate voi».
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alonewolfr · 16 days
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"Da quando abbiamo smesso di credere nell'aldilà, dove ogni rinuncia sarà ricompensata dal soddisfacimento, il Carpe diem è diventato un ammonimento serio
|| Sigmund Freud
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