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#Nelle pieghe della carne
giallofever2 · 1 year
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sololupojacksblog · 8 months
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Era fatta di istinti.Da ogni poro della pelle
trasudava una sorta malinconia mista a furore.
Nelle pieghe di quella carne morbida si celava
ogni sorta di promessa.🔥🐺
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la-novellista · 1 year
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Ci siamo ritrovati davanti ad una tazzina di caffè, la mia, e tu che mi guardavi. Ad un tratto hai esordito:"Fai l'amore con me. Qui adesso. Fammi vedere!" In un bar in pieno centro con altre persone ancora assonnate da buongiono stanchi. "Ok" pensai. Presi il cucchiaino e lentamente lo immersi nella schiuma del mio capuccino e altrettanto lentamente lo feci uscire in modo che le gocce lo attraversassero e lentamente finissiro di nuovo nella tazzina. Dopo un paio di volte iniziai ad aumentare la distanza in modo che ogni goccia potesse finire sulle mie labbra che colassero raccolte poi da un malizioso movimento della lingua. "Continua" mi dicesti. Feci scendere allora anche qualche goccia nelle pieghe del seno visibile dalla scollatura della maglia ed aspettai che fossi tu a seguirle con un dito raccogliendole e portandole alla bocca: " Sai di buono. Hai il sapore che ho sempre desiderato avere sulle labbra!" Le successive gocce sulle mie labbra le feci raccogliere a te e avida feci entrare subito dopo il tuo dito nella mia bocca dopo che avevi accarezzato le labbra. Il sapore della tua pelle sulle labbra, in bocca e a giocare con la mia lingua. Niente di più bello e mio! Fu la volta del cucchiaino con il quale giocai sfacciatamente davanti ai tuoi occhi. Lo leccai e succhiai senza ritegno vedendo che a te piaceva. "Così ti voglio. Mia!" Avevamo fatto fatto sesso, l'amore e quant'altro senza spogliarci. Avremmo potuto farlo lo stesso anche senza vederci perchè noi ci sentivamo. Io ero sua e lui mio. Noi ci appartenevamo oltre gli occhi e la carne. Noi ci appartenevamo nei pensieri.
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il-gualty1 · 2 years
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Esiste una sensualità nel proporsi per scritto che non ha nulla da invidiare a quella che vive nelle pieghe della carne…
Enzo Rasi
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Era fatta di istinti .
Da ogni poro della pelle trasudava una sorta di malinconia mista a furore.
Nelle pieghe di quella carne morbida si celava ogni sorta di promessa.
Era inconsapevole di quanta dannazione stavo divorando per ingoiarla tutta, per bere ogni stilla che sarei riuscito a spremere dal suo frutto caldo e succoso.
Affondai i denti e la sentii urlare in uno spasimo che assaporai fin in gola.
E poi mi chiese di farlo ancora.
Era dolce .
Era perversa.
E mi avrebbe condotto giù fino all'inferno.
Elisabetta Barbara de Sanctis
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ninfettin · 2 years
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È così comodo riversare tutte le colpe sul tuo corpo se non riesci a socializzare, ad avere una relazione, ecc ecc. Ti metti in testa che nelle pieghe della tua carne ci sia qualcosa di tossico, in cancrena, che allontana tutti come fosse un maleficio. E invece la persona tossica sei proprio tu, mica il tuo corpo 🥰🥰🥰
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macabr00blog · 3 months
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percorsi frammentati: 2017 (1)
La storia è lunga, ma arriva a congiungersi con sé stessa in modo veloce, è come un vizio che si prosciuga, è come la brace del legname ancora ardente: il suo fetore aspetta la carne. La storia è lunga, empietà che sorvolano la strada, è un miracolo silenzioso, cieco rimpianto.
Il dolore di aspettare la fine, scoprendosi inizio.
Avevo un sentimento leso che si faceva infetto, testimonianza di fisici ambulanti dei miei genitori, ero caro quanto la strada ghiaiata che si snoda, mia sorella cade e si sbuccia le ginocchia. Io mi sono fratturato un braccio, una volta, era troppo caldo per ricordarsene, era un tempo troppo distratto per il dispiacere. I fili del telegrafo, selciati dall’ennesima pioggia, e il colore dei capelli di Julian, pedala poco davanti a me. E’ il mio lato della provincia più puro, l’infanzia, quando ancora cercavo una qualsivoglia giustizia tra le pieghe delle dita, vieni qui, ti leggo la mano. Ero un fattucchiere senza magia, un ridicolo e vaporoso fiore reso giallo dalla muffa. In provincia, da me, piove sempre. Si spezzano i fili, si sciolgono gli argini, la pozza fa le carezze al cane che entra di fretta impaurito dal portone di legno sul retro. Ero un magnifico cadavere infantile, quando mi hanno trovato, ero come un relitto reso immobile dal tempo, quella volta in cui il mio corpo si scottò al sole e quella volta in cui la Sardegna mi fece dissanguare. E con questo sapevo che: Julian era sempre davanti a me. Dapprima come una speranza, perché lui lo sapeva, dove, quando, dopodiché come uno spettro violaceo, sordo come un macellaio nelle grida delle scrofe, la sua ombra era un’immagine granulosa sulle pareti piastrellate. Io ero sempre stato infetto, il vento non mi muoveva per miracolo, mi concedevo qualcosa che potesse diventarmi religione, volevo distrarmi, non avevo troppi misteri oltre a questo. La prima volta ho perso una scommessa per un bacio, la seconda mi sono lasciato trascinare controvoglia, la terza volta ho capito che mi piaceva anche vilmente, elogi sulle sue (chissà quali) cosce di muscolo. Julian era l’incontro dell’infanzia con quello che diventavo, nella sua esistenza nemesi trascinava allegria, io dietro di lui come un cane o forse una carcassa, non capivo più dove stessimo andando, dove mi stesse conducendo. Facevo so che sapevo di dover fare, camminare con lui alla luce del sole, sistemargli i capelli, avevo quattordici anni e nessuna voglia di un ragazzo come lui, non avevo idea di cosa fosse la cura e di cosa fosse il compenso, gli scivolavo accanto come un verme, lasciavo che il suo piumato bianco mi adombrasse. La seconda è accaduta qualche settimana dopo il nostro primo bacio, era inverno e portavo una sciarpa al collo, il viso liscio di gioventù e il sapore di menta tra gli incisivi, lui appariva e scompariva, dopo averlo quasi tramortito l’ho lasciato conoscersi da sé tra le quattro pareti della sua auto. Ne era soddisfatto, io non l’ho più ricontattato. Biancheggiavo nella luce di quel ricordo, pensavo mi bastasse, il sapore di Julian che addolciva la mia bocca, io ero fiele e carbone e la mia pelle bruciava e bruciava. Pensavo mi bastasse, ma la terza volta nel bagliore della sera, l’abbaiare di un cane sguaiato, sul retro del parcheggio comunale della chiesa, quella primavera stessa. Io ero una bocca ed ero una parola ed era il confronto a farmi debole, era la natura campestre dove avevo vissuto, la ricchezza della sua espressione mentre calava la testa all’indietro. La terza è capitata anche più volte. I miei polpastrelli ingiustificati dalla malizia, i suoi che avranno avuto il doppio delle mie espressioni, il corpo di un partito dimenticato, la peluria di un animale schiavo, ogni giorno tornare in silenzio come la crudeltà minore. Le mie miscredenze rese vili, la quarta è un sospiro sul mio orecchio, è il più vecchio di tutti, mi parla di un Nicola che voleva vivere e voleva morire, tiene stretta al collo la catenina dorata che era di suo padre, mi chiede dove sia il mio. E’ quasi estate, io maneggio qualche parola di condoglianza per me stesso, mi lascio consolare dal suo disgusto nel vedermi impolverato dalla mia stessa vergogna. L'estate arriva veloce e Julian mangia anguria seduto al mio tavolo in giardino, toglie i semi, lui non vuole strozzarsi.
(…)
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luigifurone · 3 months
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18. (Maggie)
"Maggie".
Appena entrato in casa: "Maggie". Forse era un pensiero sussurrato, o forse erano le labbra che s'erano mosse. Le stanze erano in penombra, con le tende tirate a metà. Era una bella giornata di sole. Gli stivali erano sporchi di terriccio e nella destra stringeva la pianta che aveva strappato. L'avrebbe messa a dimora più tardi. Era stato fortunato, quel pomeriggio, a trovarla. Prima di interrarne le radici, due o tre rose, le più fresche, sarebbero andate sul camino.
Margaret Swanson era la quinta di sette figli. A parte i capelli ramati e la tinta degli occhi, non aveva granché in comune con gli altri fratelli. Era nata nel Cheshire e si era trasferita lì, col resto della famiglia, quando aveva dodici anni. Era diventata amica di Anne, con cui condivideva aspettative irrequiete e lo stesso modo di guardare le cose. Anne era la cugina di George e così si erano conosciuti.
Era come un serpente, ciò che li aveva uniti. Una stretta difficile da districare, specie quando la loro carne era diventata quell'abbraccio.
Si sedette a guardare le rose. Le osservava inebetito, come fossero qualcosa di più che un'erba. Maggie non c'era nella sala. No, non c'era. Dov'era? Forse stava facendo la toeletta, di sopra. O magari era fuori. Qualcosa di triste s'era infilato sotto la sua pelle, dalle mani fino alla testa e là era diventata una piena. Non poteva reggerla. Si alzò, cominciò a girare nelle stanze a piano terra, mentre i suoi pensieri giravano ancor di più e infine uscì, sconfitto. Il sole era calato, l'aria era buia e fredda e sperava che gli facesse male.
Maggie aveva uno strano modo di sedere. Teneva le gambe aperte, la schiena puntata in avanti e le braccia, poggiate sulle ginocchia, che si riunivano ai polsi. Poi si ciondolava e guardava il mondo dall'alto in basso. E quegli occhi sembravano così lontani, così lontani che la gente di solito non pensava nemmeno di esserci, lì dove guardava lei. Lui invece sì.
Maggie aveva fili di rame, gli stessi dei capelli, che s'affacciavano sottili nel grigio dell'iride, come se fossero stati acconciati proprio per quello. Si spegnevano solo quando aveva goduto. George era pazzo di lei.
Rientrò in casa che per le vie non girava più nessuno. Potevano essere le tre. S'avanzò nel pallore permesso dalla luna, riuscì a distinguere le tre rose bianche sul cornicione di legno. No, non era successo in questa stanza.
"Maggie."
Ebbe l'impressione che lei gli fosse dietro … eccola. La gonna verde scuro, le pieghe che fasciavano le gambe, il petto che premeva sulle falde grigie della camicia. Le avrebbe stretto la vita. Sentiva il profumo del fiato di lei formarsi appena sopra le sue labbra.
Margaret non aveva chiesto mai nulla. Lei prendeva, lo prendeva, come si prende una cosa che ci appartenga, senza riserve, senza particolari preoccupazioni. Sapeva, Maggie, sapeva tutto di lui. Sapeva dove abitavano i sogni, ad esempio. Dove cercare i segreti, sapeva, e conosceva gli angoli dei cassetti e le pietre del giardino da rivoltare. E quando lo portava in fondo a quella strada che lui non aveva ancora percorso, George scopriva stupito solo in quel momento quanto avesse desiderato esserci, in quel punto.
Sapeva quasi tutto, maledizione.
Fece le scale. Perché non c'era, Maggie? Il profumo di prima era un'illusione, come le pieghe della gonna. Una tremenda illusione, come quella dell'amputato che crede di avere ancora l'arto, il resto del corpo proteso a disegnare armonie impossibili, la mano assente a danzare nell'aria. Un taglio che non ha tagliato, ecco cos'era. La mano era rimasta, ecco cos'era, sinistra, intoccabile, vuota, eppure ancora piena.
Sì, era stato proprio qui.
Che l'aveva uccisa.
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thelastdinner · 9 months
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Nelle crepe della notte ho cercato di farti carne, sentirti sui palmi insanguinati dal giorno, fino a pulirmi l’anima con le pieghe della tua bocca. Ho cercato e ti ho cercato, in questi minuti spezzati e logori, di un tempo determinato, svenduto come la sua fugacità. E non c’è dio che possa miracolarmi dalla tua assenza, che come una scatola nel mio costato, vorrei sempre riempire del tuo infinito.
Azeruel
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“Il tempo non disperde” di Alfonsina Caterino: una cosmologia del dolore
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Il giorno 23 maggio c.m. sarà presentato il volume Il tempo non disperde di Alfonsina Caterino (Edizioni Frequenze Poetiche, 2021, pp. 80), al “Movimento Aperto” di Ilia Tufano, via Duomo 290, Napoli. Sarò presente anch’io in qualità di moderatore e responsabile di Frequenze Poetiche. Con me ci saranno i relatori Marisa Papa Ruggiero e Stefano Taccone, nonché l’autrice che leggerà alcuni passi dal suo volume. È stato un enorme piacere quando mi sono occupato nel 2021, in piena pandemia, di questo volume di Alfonsina Caterino, Il tempo non disperde, in accordo con l’autrice, dall’impaginazione alla correzione delle bozze, all’editing insomma, fino alla pubblicazione sotto la sigla di “Frequenze Poetiche”, la rivista di poesia internazionale che dirigo e che di tanto in tanto pubblica qualche volume con l’aiuto della piattaforma Youcanprint, la quale ci fornisce l’ISBN e la distribuzione negli store on line e nelle librerie. Nel mentre lo impaginavo, pagina dopo pagina mi resi conto di avere davanti una poeta che è un fiume in piena, con una scrittura per accumulo di significanti che prosegue ininterrottamente, quasi senza pause, dalla prima all’ultima pagina, con una parola – ci dice l’autrice nella Nota - «che nominando crea, muove, infiamma i silenzi, detona il costituito, con boati e schianti insorge energie insospettabili» (p. 9). Non ci troviamo di fronte a poesie singole (come ci si potrebbe attendere) ma di fronte a un poema di circa ottanta pagine, scritto con fervore e lucidità, nonostante l’argomento primario del volume si alterni tra sofferenze e ricordi, alla fine è l’amore per la vita e per la poesia ad essere sublimata fino a diventare fede per qualcosa di misterioso, quella poesia alta che dovremmo trovare in tutte le nostre azioni:                 Il dolore non dorme mai ustionato irrompe memoria la realtà dei papiri e allega ai distanziamenti che investiti da sassaiole ingorde spezzano gli affari raggruppano capacità e prospettive sulle pieghe alte degli alloggi    …                         …    Nell’impronta si raccoglie chiaro gelido abbacinato di specchi un principio verticale i cui punti rantolano pulsione un seme mai giunto a fioritura che urla arsura l’ebbrezza del risveglio fuori dall’esilio (p. 14) Possiamo affermare che la poesia di Alfonsina Caterino è solo la sua, nel senso che appare scevra da ogni condizionamento, movimenti, correnti che ormai appartengono al passato. E potrebbe incanalarsi nel solco del nichilismo alla Mario Luzi o alla Pier Paolo Pasolini, ma qui non ci troviamo di fronte alla nullità di una realtà nei suoi aspetti essenziali (valori etici, religiosi, morali), anche se traspare una metafisica del dolore che si eleva a nobile sentimento, giustapposto alla ricerca del divino, non in senso ideologico o tradizionale, ma in senso pratico, nella realtà che ci circonda, corredata da una inquietudine che dovrebbe essere il sale per un poeta, quella inquietudine che porta fuori il meglio di sé. Anche se spesso ci si imbatte in parole dal valore simbolico, quasi una polisemia, cioè una varietà di significati, è questo un libro sull’amore, l’amore universale o semplicemente sulla perdita, non già dell’amore stesso, ma di un qualcosa di caro e prezioso, per es. di un genitore, di un amico o di un figlio andato via un giorno e mai più fatto ritorno tra le braccia di una madre dal cuore lacerato e sanguinante: un dolore cosmico che in Alfonsina Caterino diventa “cosmologia del dolore”, una ricerca del meraviglioso attraverso la scoperta quotidiana della poesia, della propria scrittura: il tempo viaggia scolpisce trappole irride fili sbalza trapezi; furtivo strappa brughiere assottiglia gocce e pulsazioni al peso di essere –  Scorci come suoni, ho sbrinato alla carne messeinscena sui dirupi il cuore ho affamato nella gabbia dei leoni riversato la smania raccolta nei rigagnoli scrollando le croste in corpo cieche che resistano la navigazione senza resa e finale (p. 30) «Sgrovigliando il vissuto Il tempo non disperde è, dunque, un testo che nasce dentro come la gestazione di un figlio» (ibid.). Ma è anche un libro di gioie e dolori (più dolori che gioie come, d’altronde, lo è la vita di ognuno di noi), di quei sentimenti di cui si nutre poi l’amore, ovvero di una poesia che diviene terapia contro il dolore, i mali del vivere, fino a divenire allegoria del dolore, di stratificazioni psico-drammatiche (ma anche gioiose, abbiamo detto, se non altro per la devozione alla poesia, alla propria scrittura, un po’ come avveniva nell’animo di Giacomo Leopardi, ma per nulla pessimistiche), per un approccio non convenzionale ma rispettoso della realtà e dei suoi valori, attraverso il ricorso a un linguaggio dell’inconscio, onirico, contraddittorio con l’esistente, per toccare le corde dell’anima, una centrifuga di parole che, proprio attraverso la scrittura, ribalta il dolore e la sofferenza in un atto d’amore verso la grandiosità della vita. Read the full article
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Sergio Bergonzelli, Nelle pieghe della carne, 1970
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giallofever2 · 1 year
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edwige-fenech · 4 years
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In the folds of the flesh / Nelle pieghe della carne (1970) dir. Sergio Bergonzelli
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thechemistryset · 5 years
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Sergio Bergonzelli Nelle pieghe della carne 1970
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il-gualty1 · 2 years
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Esiste una sensualità nel proporsi per scritto che non ha nulla da invidiare a quella che vive nelle pieghe della carne…
Enzo Rasi
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serafino-finasero · 5 years
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Eleonora Rossi Drago and Pier Angeli (as Anna Maria Pierangeli) in a poster for the horror film Nelle pieghe della carne (In The Folds of the Flesh / Spanish title: Las Endemoniadas, Italy/Spain, 1970, dir. Sergio Bergonzelli)
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