Tumgik
macabr00blog · 10 days
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being loved at fifteen
I tried to explain to someone how it feels to know that you loved me for so long: I joked about:
falling in love at fifteen.
And I cried. How foolish.
It's the sensation I feel when the sun burns me slowly, blushing my cheeks.
Like seeing your own dog after weeks.
Like the first plunge into icy water.
Like kissing you.
I joked about love at fifteen. Feeling loved at fifteen. You told me I'm a verbose poet. I vaguely
resemble Rimbaud. And you, vaguely resemble my mother when she was young.
I never wanted to know how the story ended.
Yet the story ended, and I found myself with an old love at fifteen.
Talking about you in moments when I hold back silent laughter, that boy my age whom I knew as
a child, whom I stopped knowing at fifteen. I was proud to declare myself reluctant to that feeling,
I hesitated, wondering what it meant to come to love you so closely without ever being able to
pull away.
One misstep after another, and it becomes a tango of mistakes where there were moments when I
didn't know how to keep quiet and moments of immense space where I stayed in the corner.
Moments when you slapped me, punched me, your hands gathering herbs, your hands with
delicate, seedless fingers, your grandmother used to say 'like a pianist'.
I never saw a pianist strike an instrument, but you were angry.
And then moments when you pulled my hair, short, very blond. And you were left with strands in
your hand. And you realized I was sick. My bones are syntax. My muscles tiny commas.
When I met you, you had a body of history and mathematics. Calculations and years.
I was just a thirteen-year-old.
I was happy to be in love at thirteen and to be in love with you, I could easily explain it as an
infatuation rising from my kidneys. When I tried to talk to them about young love, I joked about it.
It was fun for me to strive to find enough right words to describe our bond.
I said: I've known him forever, he could never hurt me. And I didn't think I could be serious in
saying that I: loved you. Because love was too adult to get in the way of my and your past,
because we were child-children and it was fine as it happened.
Later on, parentheses after parentheses, the punctuations now devastated by the memory I had
of our encounters, I created a new dictation for myself. Telling myself that I was strong enough
and could even joke about your love.
From the way you talked about it, long before our separation, it seemed like a meager seasoning,
salt under my tongue so as not to lose too much pressure, the minimum that drops below sixty
and then I think I have a problem.
And I cry.
And I cry as you say I did when I hit you, your poorly detailed account of an October evening, at
your mother's house.
It was accessible to everyone the idea that a body like mine lived thanks to a body like yours, that
my hands were the mirror of my twisted being, that I could only love you through my violence.
Because I had a body of a dry earth rock, there was nothing kind in me when I desperately sought
a faith. And in you, edges and tears of branch, there was a semi-solution.
You were believable.
You've always been more believable in the story, because you never heard of a branch abusing a
rock.
It's always been the other way around.
Because the branch can't hurt you, even if it has thorns, because I have tough skin, because I'm a
steady man now, but at the time of your love I was fifteen and I knew nothing about loving each
other. Now that I understand the nuances of your defense, and I feel stupid and I cry.
Because I didn't realize, that October evening, that the story was mine.
Once upon a time when my father threw my sister face down and started punching her on the
back.
She was eight years old. That story was mine.
And then, a story that repeats itself that I didn't want to know the ending to.
Yet the story ends.
The word becomes yours. And I was in the space of my still tight love in memories that were no
longer mine.
I tried to explain what it feels like to be in love at fifteen and how you stop loving, suddenly, when
you forget yourself.
And I felt strong.
And I started to laugh.
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macabr00blog · 22 days
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tassidermia
Dalla cima di ghiaccio brillante
osserviamo lungo la vallata l’accumulo di tenerezza
creatasi tra un nutrimento & l’altro
nelle ultime valanghe durate quattro anni. Le cinture della terra
sul campo di fiori, ho sognato un cimitero senza lapide,
senza il tuo nome, che era il mio cortile e che ora è
un cibo. Me lo porto alla bocca.
Quando io ti allungavo le mani
e tu bevevi da me sangue calmo
la sentivi la terra? La corona di uccelli che colonizzavano
il cielo e nella dissoluzione azzurra e rapida,
il ricordo del lago che precede la valle e la montagna
di ghiaccio, era ghiaccio?
Il tuo?
Sparpagliato e sottile come una scheggia, entrare dentro la carne
solo per il sangue, solo per assaggiare. La tua è
una bocca di una madre addolorata, cerchi
qualcuno da annaffiare.
Ma la sentivi la terra?
Dopo, ho sognato disegni di alberghi luminosi, senza il tuo nome,
che era la mia casa e che ora è
la mia lapide. Incise addosso coronarie di morsi.
Hai saputo che un cervo non ha canini?
Che sono morto per un misfatto? Per una valanga?
Parole sapide, quando siamo soli e
la muffa di una cantina sulla strada
curva della terza stagione,
tu sei in segreto fedele ma infelice.
La verità che prometti ora è un miracolo storto, ma è
per le sembianze da Falso Dio, culto di gole rosa e
la testa pettinata e custodita oltre la ringhiera.
Quando ti allungavo le mani e tu bevevi
l’acqua che passava dalla fontana
lo sentivi il sangue?
Era come ruggine dentro di me
caduto nel banchetto imbandito delle tue fandonie,
come se tu fossi una piccola serratura colma di polvere invecchiata
dall’amarezza e io fossi solo un’antica chiave che non
trova il verso giusto. Ti aspettavo trepidante con ogni
briciola avanzata, stavo raggomitolato sotto i tavoli
per amarti in assenza d'altro, mi hanno bandito dalle
tue cerimonie. Non sono piĂą il benvenuto
in un corpo che somiglia ad no scaldabagno in rame,
tutto fatto di ferro e durezze, completamente solo in quel seminterrato
annebbiato che chiamano bagno.
Riversato sul water come se stesse espiando un
esorcismo, pregando le sorgenti freddissime di
trovare contatto con la sua gola di alcool e fiammata.
Nei suoi occhi abita la mia carne
ferma come uno spillo macchiato di rosso, mi ha appeso
al muro come un vero trofeo di guerra,
le membra espiate di un giovane mandante ariano.
Spalanchi la bocca e attendi che esca fuori una melodia
ma è il rantolo della possessione che ti fa
vomitare addosso. I fili elettrici che si concedono ai giocattoli, ora
i bambini dai capelli bruciati hanno le dita pigre.
Hai smesso di chiederti se il ghiaccio fosse il tuo?
L’alba si concede come il dorso di un limone
inaridisce il tuo viso, io non voglio essere normale
ci sono troppi modi per essere uno scherzo della natura,
quando ti tagli il pollice ti dicono ti premere forte per
contenere l’emorragia,
tu hai pensato di premermi forte
quando sgorgavo fuori come un folle?
Se avessi ascoltato tua madre ora avresti pietĂ  per
questo me da fragili dettati, chierico che in tutte le pareti prega,
inginocchiato dietro i saluti dolci, e se io avessi ascoltato
mia madre ora avrei un po’ di monete in più, sepolte dall’affanno
dello studio, un chirurgo con abbastanza pesi alle caviglie per
lasciarsi morire.
Ho sognato le lacrime di un piccione selvatico, senza il tuo nome,
che era il mio essere ragazzo e che ora è il mio
essere uomo.
I fiori immacolati che prendono i colori dei metalli verdi,
l’angelo sorveglia. Mi chiedi: dove andrà a poggiare
le sue ali tenere?
Ma ti confondi la protezione con l’inverno.
Cade la valanga, la montagna viene invasa, passano ancora
due anni,
e poi?
La senti la terra?
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macabr00blog · 2 months
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STORIA DI UN PAPAVERO & DI UN TULIPANO
Negli occhi le ultime immagini di recinzioni, dita che strappano i fiori. E’ luglio ma coesistono due stagioni. L’una calda ma da brividi sul collo, l’altra estinta e allunata dove il sole ci scortica la faccia. Ti presenti il mattino, la tua decadenza corporale resa finta nelle smanie e nelle parole, finzione da paura che pulsa, cartografia della tua nudità sulla sdraio di iuta, e te ne vai quando cala il sole, la polvere della terra della strada in riparazione che si alza al contatto con la gomma scesa della ruota della tua bicicletta, gazzella a pedali che mangia tracce di catrame, selvaggia e intossicata. I miei scheletri di epidermide di arrossamenti sulle tue dita soffici, mi accarezzi una guancia ed è agosto, era mattino e la notte mi aveva avuto nelle sue mani, mi aveva avvolto in un foglio di spine. Ti ho detto che l'estate aveva l’aria di terra straniera, ma dimenticavo i carnevali di maturazione violenta spinto contro pareti di mattonelle fredde, il battito dell’infedeltà, ispezionavo lo spazio circostante. Sentivo ronzare la mia fatica nell’avvicinarmi ad una storia che mi facesse meno male. La sequenza era confusa e nel frattempo i fatti avevano surclassato le intenzioni e la riflessione non sussisteva dopo i cinquanta chilometri di distanza, non sapevo che tu dovessi andartene fino a quando non te ne sei andato, non immaginavo potesse esistere un mondo dove tornavamo orfani. L’indebolimento mi porta alle porte dell’inverno. Un anno di lamenti soffusi, non ricordo nient’altro, impressioni semplici e principi notturni, procuravo eccezioni per intrattenermi, era soltanto una parata silenziosa, non serviva a nulla tranne a convincermi del mio stato di adeguamento. Quando, realmente, non mi davo pace. La mia era una battaglia di retroguardia continua. Trovare radicali nello stabile, no insicurezze né dubbi, non c’è spazio per una nuova terra di esplorazioni, di una nuova carezza se poi prevedo l’allarme. Io lo sento, suona ovunque, è il canto di una sirena che mi conduce all’acqua.
E nell’acqua ti ritrovo.
Sono passati due anni e io sono padrone di niente. Freno la mia incombenza, il mio corpo rattrappito dal controllo, il tuo scavato dall’apatia, ci guardiamo in convinzioni uniformi, è una mattina ed è di nuovo estate. Parcheggio della villa a Malcesine, io diventato piromane dopo l’incendio che ha usurpato il mio corpo nel ghiaccio, tu naufrago per la troppa pioggia che ha creato una distruzione da alluvione. Siamo uno davanti all’altro, incapaci di gesti, forse deumanizzati, sicuramente spregevoli come eravamo tempo fa. Nella notte prime fughe, galleggiare come mosche in un contenitore di vetro, la costruzione del nostro rapporto consunta che si fa ciondolare da un filo, è un acrobata o è un suicida? Ci baciamo sulle scale, sulla porta, in auto, nei parcheggi, nelle spiagge, nelle retrovie, bocca su bocca come impronta su impronta, tra qualche mese svanirà, no fossili, no segni indelebili. Evaporiamo su diversi strati di temperatura, i pomeriggi tu sparisci d’improvviso, ti saldi nel ricordo e nessuno ti viene a cercare. Farti sapere, la notte, che io ti ho pensato tutto il tempo, tu mi dici che i pensieri d’evasione sono marciume, finiremo come corpi su una montagna di discarica, finiremo con la memoria delle zanzare che risalgono la baia, non c’è niente al di fuori di questa sorte e di questo silenzio di luna. Non posso aspettarti, non devo aspettarti, devo solo tastare la polvere, la terra, devo imparare a stare solo, la mascella stretta con i denti scheggiati, devo educarmi all’abbandono. Eppure la placca invisibile dell'aria mi sembra così buona sulle mie palpebre, la memoria della terra umida dove sono uscito, i piedi ancora sporchi di fango come quando nascere era soltanto nascere, come quando ero solo un bambino e desideravo solo esserlo. All’interno del mio corpo e del tuo, noi figure scure su uno sfondo blu notturno, disgregati i pezzi di magma delle memorie. Dalla villa divampa un incendio, è il falò estivo. Stiamo bruciando i resti delle bestie che abbiamo nella pancia. Il mio e il tuo animale. Perché non c’è più tempo per questo.
E nel fuoco ti ritrovo.
Non riuscivo a distinguere l’altezza dei miei piedi, ero troppo leale per essere un adolescente, ero troppo adolescente per essere fedele, tu nel buio hai selciato la disgrazia con bastoni, tu sei uno scrittore, rivolta nell’essenza di ombra. Mi hai detto che mettere insieme delle parole trova la luce. Ti ho chiesto allora del senso di un Dio, tu hai detto che la religione è una casa per tanti, ma è una casa di cartone. Ed ora sul mondo piove, serve solo uno scevro poetico, uno straccio di luce, e la luce arriva e arriva e arriva. La poesia non ha acqua nella quale morire.
I nostri valori sono cresciuti su questo, dunque, perché non ci serve nient’altro. Dimentichi le nostre sagome deformi, dimentichi il bagliore che riflette sulla baia, dimentichi i rumori di riverbero, il caos delle nostre veglie abbuffate di baci, tutte quelle cose che sembravano stelle, sembravano galassie, ora sono solo luci. Si accendono e si spegnono. E tu dimentichi. Buio. E ricordi. Luce. E appunti. Luce. E scarabocchi. Luce. E accartocci. Buio. E te ne vai e te ne vai e te ne vai, e io me ne vado e me ne vado e me ne vado, e ti dico cosa abbiamo fatto a quelle povere bestie innocue che ci vivevano dentro? Ma tu non hai risposta per me, sembro uno sciocco, grido come un padre con i gomiti ruvidi, l’espressione che aveva il tuo e che hai cercato di rimuovere per la paura di tornare ad affogarci dentro, cosa hai fatto alla mia bestia?
Ci siamo lasciati nella luce, volevo che fosse chiaro. Era settembre e uscivo da casa tua con una vecchia valigia rossa.
Lazio e Emilia e Lombardia e…?
E nell’aria ti ritrovo.
Anni di terre mute, il mio dissapore nelle mani che impacciate si muovono, la mia lingua cerca di impossessarsene invano, qui c’è solo un campo coltivato e un colpo di stato e un altro campo coltivato e poi nulla per chilometri. Ricordo delle tue labbra asciutte del mezzogiorno, tutto questo deserto che si riempiva di suoni, crescevano dal nulla. L’abbandono insegna, occorre che io resti muto, senza fede, senza tonnellate di gloria inconcepibile, senza Dio nei crepuscoli. Offro l’idea della carne viva che brulica e che emerge dal fumo, intrattenimento becero, porto all’esterno i dettami dei miei sogni, agilità compatta di vecchi membri. Incido con potenza e graffio le ennesime parole senza suono. Mi sono educato a stare bene e stavo bene, ma era affondare nel perbenismo, io subisco la mia stessa felicità, il tempo mi rimane secco sulle dita.
Tu crei il virus per praticare il contagio e io sono sfinito dalla pestilenza, sono sfinito dall’incanto, dall’eco della malattia, e ti chiedo di farmi entrare. Fallo nella notte, dico, nei freddi tremori. Ma ho dimenticato che c’è stato del tempo in mezzo alle nostre vite, ora sei fiero, ora sei salvo, ti sporgi con le mani, hai smesso di morire ad ogni pezzo di nuova stagione, ti sporgi con la bocca e mi baci. In mezzo a quel mondo che ripudiavi, nessun senso di vergogna, sei una morsa affettuosa, la tua fatalità resa immagine. Perché mi hai fatto entrare solo ora?
Io sono un papavero. Ho trascorso l’infanzia da solo. Ero sempre da solo, soprattuto nei mesi estivi. Guardavo le schiene curve che sorreggevano le balle di fieno, le schiene che portavano tutto dappertutto, e in quel tutto io ero compreso. Mio padre con le sue mani tozze e indurite, è svanito nel rincorrersi delle voci attorno, tutte quelle voci su un mucchio di carne. L’acqua sporca e salata della sua bocca irrigava, i capelli schiacciati dal peso del grasso denso. Io ero in disparte, ascoltavo i discorsi, i monologhi, in quelle parole albergava sporadicamente quanto avevo bisogno di ascoltare: la distanza dall’obbedienza, dalle regole imposte, e intanto perdevo un pezzo di mio padre. Il mio lessico si faceva disturbante, antagonismo che si voleva deostruire, io non capivo di esserne sempre stato schiavo. E perdevo un pezzo di mio padre. Io sono un papavero, i miei petali sono troppo fragili per essere ancora intatti dopo che sono stati sfiorati. Non so dire cos’è reale per un padre, non so chiamarlo mentre se ne va.
E i tulipani sono i miei fiori preferiti, perché non sono i preferiti di nessuno, e assomigliano alle tue gambe accanto a me e all’incavo del tuo collo di petali morbidi. E tu resisti per pochissimo, ma rimani bello da morto, i tuoi colori ancora lucenti dopo mesi di solitudine, appari così dolce tra i molari. Perché ora hai smesso di averne paura.
Ero sempre da solo, soprattuto nei mesi estivi. Negli occhi le ultime immagini di recinzioni, dita che strappano i fiori, saranno piĂą belli domani, dentro un vaso a morire. Sarai piĂą bello domani, quando ti presenterai al mattino.
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macabr00blog · 2 months
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otto
Una settimana di cibo avariato
carne, piselli, aglio che si rotola nella culla
e lavare la biancheria dall’altra parte della sponda, sei
dall’altra parte della sponda, le tue vecchie camicie
da cerimonia appese in macchina.
Mi sterilizzano le tue enormi mani
- sciame carnivoro
sono una preda che ha visto lampade spegnersi, non
ci saranno mai seni troppo bianchi,
non ci saranno mai segni troppo viola,
i colori del mio corpo che si allunga come una lacrima
ingrasso come una vacca,
ingrasso come un vitello,
sono una figlia che ha fame. Tutto per
una settimana di cibo avariato,
le tue unghie senza sonno -
apro la dispensa dei dolciumi, per quanto tempo?
Quanto tempo è passato?
Dodici anni lungo lo sterrato, giocavano a
nascondino con i sessi scoperti, derubavano
l’infanzia dalle pietre senza pelli,
ora io attraverso i loro boccheggianti spiriti,
ancora fisso sulla tavola come una carne pregiata.
PapĂ , sono passati dodici anni
sono ormai avariato.
La conchiglia serrata a gabbia, guardo le mie ossa che si spiegano
si piegano per cedere. Con o senza bicicletta,
rotazioni dei pedali della bilancia, su e giĂą come una danza
tra un vitello e un toro,
umile la mia danza, da figlio a padre.
E’ buio come una cantina silenziosa
nella notte hanno portato la ciotola dove raccogliere
i pezzi della bambina. I ringraziamenti di una madre
e di alcune telefonate di conforto, ora che sono
in un corpo che consola non ci sono piĂą suoni.
La mia pelle si rimbocca le maniche -
ho gli avambracci scorticati dal terrore -
e la donna che mi ha partorito esita
ed esita
e sussulta
sua figlia è morta, suo figlio si è ammalato,
non sa piĂą cosa chiedere alla vita, svuota
un secchio di caramelle lungo la via, spera in un regno
di formiche volanti che potrĂ  chiamare figli.
Mia madre possiede il mio corpo purpureo -
rimane in un posto che
somiglia alla prossima dipartita, gli spazi tra i giorni che passano
e i giorni che passano sopra di me,
il cielo scuro e il dolore che avviene e si arresta.
Meglio una pelle suicida o uno spirito che ha fame?
Un paesaggio di uccelli gialli migratori,
aprire il cassetto delle meraviglie
-
quattro pastiglie bianche per assestare il corpo
venti mg sulle teorie del vetro tagliato,
lungo, singola magnolia sfiorita,
-
indomabile come un corpo che cade
e un dolore che si assesta.
Sono una bestia che desidera -
curvo nei tavoli di legno deformato,
parlo di architetture di rose dipinte, Gauguin e la sua scimmia
rossa, due tazze e una lattina dalla base che accoglie.
Il mio sangue è rosso come la gola di un macaco
languido come una vecchia storia di erotismi.
Mia madre mi accomuna alla simmetria di distanze,
ha un figlio adolescente
dopo la figlia morta,
mi riconduce al ghiaccio blu dell’ego, io le ripeto che il ghiaccio
non ha colore. La mia è solo assenza
mangiata a metĂ , io sto costruendo questo maschio
adolescente a base di bocca e ragione,
nel mio appartamento dipingo un erbario che sa
di una vecchia bugia. La mia prima di essere fame, prima di essere
uno stelo
spesso e scuro, è il naturale formarsi
di una bestia che desidera.
Mi si avvicinano gli occhi, mi si incurva
la mandibola sotto il lieve sonno dell’autunno, scivolo
come una sintesi lungo le lenzuola, vino bianco secco
o massive di scarabocchi
o quel sangue che mi ricorda da dove vengo.
Slaccio il primo bottone,
cenere scura, specchio, luna nuova,
disfaccio il suo secondo, terzo, quarto
ultimo pulsante, lui dice: sei una storia che continua
ad iniziare.
Il tempo che non ho, il tempo rimasto,
chiedere la strada di casa, indicazioni di frazioni appannate,
lenti scure degli occhi di mio padre, il nodo scorsoio nella
gola di mia madre. C’è la parola
che diamo a qualcun altro, lui la dĂ  a me con fatica, mani
da sudorazioni lente, e c’è la parola che teniamo per noi stessi,
e a volte le due coincidono. Come cava, come inseguitore, come afflizione,
o come stupro, che è la nostra parola iniziatrice.
Un uccello ad un altro uccello e l’orecchio che esorta,
la sua camicia intorno alle mie spalle, ci sono voci che
ci svegliano al mattino, dice. E ci sono voci che ci tengono svegli
tutta la notte, dico. Il membro defunto
di quello che avrebbe potuto essere la luce, filtrata,
dalla finestra, perché la finestra poteva essere aperta,
avrebbero sentito le ingiunte, le lodi, ciascuno avrebbe assistito
al canto di un passero.
Ma il canto continua ad andarsene, la finestra era chiusa,
mi ha fatto un po’ male, poi è passato, -
la figlia è morta,
dico, la figlia è morta,
ho visto i suoi lembi nella ciotola,
ho separato gli indizi, i ponti, le ali,
dimenticato il sogno di volare, ora solo
cenere che tiene il sapore dei fumi amari
della legna.
I corpi hanno circondato i corpi fin dall’inizio,
il mio è un Dio che brucia nascosto da sempre,
ora la fiamma accende la libertĂ .
Quindi
bottone dopo bottone, fuoco che accende la schiavitĂą,
l’amore è una mano che ti tocca in un altro modo,
in un modo che tutti sapranno riconoscere.
Lo tatueremo sulle mani, dove e come, sapranno
come è facile renderci liberi, tempo dopo tempo, restituendoci
lo spazio del volo.
PapĂ , ho trovato un modo
per formare un petalo di fetori assemblati,
da bistecca a ombra radiosa,
indovinare i gusti dell’amore
carne, piselli e aglio che si rotola nella culla.
Non avrò mai figli, ma avrò un uccello
come un artista circense, un pensatore da appelli confusi e
Stop e Ancora. Nessun immortale, un viaggiatore con un
viaggiatore, amici che abbassano i rumori della notte,
e la sua lingua a metĂ  come quella di una serpe
che parla di doppia provenienza, sentieri scoscesi tra alleati e nemici,
il sogno di un rifugio perché ora dormo con l’immagine
di un cielo
a misura di santuario,
e ho dipinto un erbario
di desideri, perché sono una bestia
e ogni angolo del giorno
si mescola all’odore del suo corpo.
PapĂ , smettila di tirare ad indovinare:
di tutte le ore ramificate, verdi e ridondanti, ne ho fatto
poltiglia. Ora
io schiocco la lingua e assaporo le sue costole,
conosco con gli occhi piĂą di quanto il mio corpo sappia,
perché la finestra è aperta.
Mi stanno ascoltando tutti.
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macabr00blog · 2 months
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poema sul nuovo millennio
I suoi adepti, fuori,
a rotolarsi nel fango come porci, presto, molto presto
come un ambiente underground diventa un parco giochi
o un parco giochi che diventa
l’imitazione di un Paradiso. I suini
della performance, lui siede a capotavola:
noi, sulla luna, ci siamo giĂ  stati.
L’era dell’imitazioni, sfogliando la Settimana Enigmistica,
cercare soluzioni in mille amori,
c’è un bagno chimico alla fine della via che odora
d’estate. Dietro alla scritta Made In Vietnam c’è una
storia di venti stupri americani, io sono un agnello multiforme -
innumerevoli sono i tentativi di trasformazione,
sono troppo presto performante. Ho tredici anni di buchi
sulle mani, stigmate di sonno, mia madre che mi chiede
di tenermi in salvo. Stai attento, dice, credo che la sua bocca
sia un unico pixel, scavallo il palcoscenico dove un
politico di destra si erge a figura mitica, lo chiamavano Sansone -
si è rasato tutti i capelli per l’esecuzione di un impresario.
Si è fatto bello per la disfatta del mondo, suona ad un campanello,
lui è uno che conta. Mio nonno sostiene che il nero
edifica il divenire, perciò con nostalgia bacia la foto di vent’anni fa:
lui e il suo stemma del MSI tatuato a ricamo sulla divisa militare:
mi dice che sono troppo giovane per capire, sono troppo
dispari.
Gli spiriti dei deviati in un classico numero in serie
cinque cifre prima del precipizio, io sarei incatenato ad un letto
d’ospedale: grido il nome di mamma, il nome di Cristo, sono il figlio
cannibale di una nazione silenziosa. L’esercito di improvvisati
nazionalisti che pasteggiano con tacchino e lepre, i fucili ancora
a riposo. Dietro il nero, dietro le casacche, corpulenti strascichi demoniaci
il tempo di un tesseramento e il tenore di uno schiavo sessuale,
mi ricordo di uno di loro rimasto a bocca spalancata e una virgola
di sperma appena prima della ciglia del suo occhio celeste.
Dietro il nero, c’è una tenda che porta ad un giardino di memorie
appese, fotografie di vecchie madri chine a costruire una nazione,
la repubblica ancora giovane prima di inciampare sulle sue stesse
scarpe sfoderate, ero ancora troppo giovane, sono ancora troppo
dispari.
La Bibbia di me stesso resa universale, le mie mani che tendono verso
la fine delle sue carezze,
sono oltre le colonne, sono oltre la scuola elementare, voglio
che mi racconti della volta in cui ti hanno arrestato, perché
eri così giovane, così giovane, troppo dispari,
che fine ha fatto il labirinto? Sei troppo arrabbiato con me,
la danza degli oggetti diventa scema, il poeta senza laurea crepa,
il dottore mi apre la pancia, ci trova i resti di un disordine camerata.
Io te l’ho detto, lo ribadisco, rimarrò dispari
con questo disturbo da troppe lettere
che mi si inceppa in gola, i miei termini arcaici e la proprietĂ 
unica dimora privata - di linguaggio
che mi porta su Marte: sulla luna ci siamo giĂ  stati, eravamo
ancora americani, eravamo ancora nazisti travestiti
da pace, eravamo ancora rivoluzionari con la divisa della Nato,
venti minuti l’uno addosso all’altro, era estate e d’altronde
non potevamo essere altro. Amarti il mattino quando
nessuno ci vede: tende chiuse, luci spente, il sole
non è il sole nel cosmo del tuo pube
reso cieco dalle scorse
venti ore di marijuana e coca zero. Il film senza spettatori,
i padri che aspettano di ridere senza riferimenti colti alle disfatte dei
figli, ora sei gay di default, sopra alle isole sconosciute della mia pancia
aspetti un figlio che chiameremo Pier Vittorio, avremmo una
pensione come ce la meritiamo, e una serie tv sui vizi del Papa
da consumare come due clandestini. Meglio fingere
di credere, che credere e poi fingere di stare bene,
io con la dolcezza di un papavero, estraggo oppio per tornare a dormire,
tu con le mie carezze, i tuoi capelli margherita, cadono a fiotti.
E’ la malattia o la primavera?
E’ un sollievo temporaneo, almeno, tane come fossimo ai domiciliari,
io latitante nei tuoi sogni di porpora, fingere di credere, fingere di
credere, il figlio di un eroinomane
e il figlio di un democristiano, ti accarezzo le palpebre perché
so che non hai paura del buio. Hai paura di Dio, sai che se non
credi è peggio, da bambino volevi fare il prete poi
la religione ti ha fatto violentare, schiavo nell’abisso del nulla,
ci sei già dentro a piè pari, ne amplifichi il bisogno.
Il liquido che aveva santitĂ , me lo ha detto
un Angelo, nessun altro,
è urina lasciata scorrere nella gola,
mi aumenta il fetore. Così ti
lascio andare, come farebbe qualsiasi altro padrone benevolo,
come farebbe qualsiasi altro difettato senza speranza, sterile
amante dispari, come una trave di tempio al mare,
io soggetto, oggetto, forma, essenza
io mi ricordo di quella volta in cui assaggiai il sapore dell’estate
da solo
fu l’ultima, non ci voglio tornare più. Ora
il mare sa di lamponi salati, mi piace, ora il vento
sa di cenere, mi piace, ora tu di spalle di fronte alla libreria enorme
del tuo salotto,
io sto qui e immagino casa,
bene,
io sto qui e mi piace, e ora a quale autore ti impicchi
poeta?
In quale casa? Sopra quale libreria? La poesia
ti ha salvato la vita, Poeta, ora cosa ne sarĂ  del resto
della tua esistenza? Vivrai da Martire,
bruciato a vita, bruciato vivo, un cammello senza testa e con
le mani: sei ricoperto di sabbia. Stai invecchiando, Poeta,
cosa ne sarĂ  della tua poesia?
I vertici del tuo respiro chiusi dall’asma, le salme dei
tuoi antenati esposte a raffineria, domani succede
che fanno le primarie e io mi sparo, mi sparo in bocca,
vorrei che lo facessi tu in estrema divinazione da assenzio, ma
hai scelto la via sporca della sobrietà, ora non c’è nulla in te
che mi ricorda mio padre.
Mi rassicura ma mi uccide, mi protegge ma mi espone quando i miei
occhi indagano dettagli confusi. Io ero
dietro il nero,
io ero dietro il nero il nipote piĂą
dispari, la mia è la mano di un diavolo qualunque, tu volevi
una ragione, una sola ragione, penso di avertela data.
Il Messia ha scordato le chiavi di casa, ma non ha
mai scordato il nome di sua madre. Tipo il richiamo degli
uomini, tipo il libro sulla droga, tipo quella foto a vent’anni dove assomigli
ad un agnello.
Hai terminato la mutazione. Tu, almeno, ce l’hai fatta, Poeta.
La vita con te come due bracconieri dell’insonnia, trascinare
anima e corpo alle porte del Paradiso, noi nudi e distratti dalla stagione
peggiore. Mi fermo e ti dico: non so se ce la faccio ad andare oltre.
Noi dentro le porte del Paradiso, qui è pieno di Santi tristi e
Eroi di guerra con le mani sporche di interiora,
assomiglia ad una terra di promesse,
io e te non siamo fatti per questo.
I morti si amano come figli,
il tuo viso scavato dal freddo, il mio reso rosso dalla ricerca di dimora,
una volta al mese scavando morti casalinghe, senza uscire di casa,
arrestati per atti indecenti o per possesso di bocca. Io
detengo la voce addomesticata dalla campagna, tu hai
una penna affilata che usi come bisturi, siamo l’uno davanti all’altro
su un altare-sala operatoria-scrivania-letto
ad aprirci i costati, si voti per eleggere il Segretario!
Punto di ritorno e via del ripristino, la domenica le case
si svuotano per dare una pista da ballo ai topi,
e il tuo naso da ratto
e i miei capelli da pulce,
bugiardi performanti cadaveri
un giorno saremo un poema.
Per oggi, solo una penna
che si lascia rotolare nel fango del nuovo millennio.
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macabr00blog · 2 months
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percorsi frammentati: 2017 (2)
Amarezza sulla mia gola bambina, mi tremano le fauci a vederli contorcersi, dietro i miei molari si apre il mio segreto più profondo, è lì che vi nascondo. E’ lì che smetto di pronunciare i loro nomi, tolgo via i semi, lascio che niente vada oltre. Mio padre mi viene a prendere, un pomeriggio di giugno, io e mia sorella andiamo in vacanza con lui. Ho quattordici anni, un telefono nascosto all’interno dei pantaloncini, i capelli corti ai lati, ci addentriamo nei peggiori hotel di villeggiatura, il mare è sporco come una palude, mio padre si addormenta a colazione. Julian, qualche giorno prima, mi consegna una lettera scritta al computer, non mi ama più, ha perso la voglia, non ha mai avuto desiderio. Come potrebbe, d'altronde, lui, io sono solo un comune schiavo. E’ spietato, non mi risponde per giorni, io nella stanza d’hotel inginocchiato sul tappetino del bagno fingo una convulsione. Mi hanno insegnato che con la bocca posso fare tutto, quella è la mia migliore arma, grido d’aiuto e la mia presunzione sollecita i soccorsi. Con il telefono nascosto chiamo mia madre, dall’altra parte d’Italia, le dico con la voce di un figlio che ha fame, con la stessa voce con cui ho parlato per mesi con decine di uomini che mi chiedevano dove fosse il mio cuore, con la stessa voce che mi ha portato al silenzio, di voler il suo aiuto. Pretendo di recuperare la strada, le dico che se non accorre con una scusa, potrei gettarmi dal balcone, lei non sa che siamo alloggiati al primo piano, mi romperei massimo un altro osso del braccio, è silenziosa per attimi interminabili, chiede pace. Chiede pace con la stessa voce in cui chiedo da anni pace a mio padre, ormai con il volto devastato dalle sostanze, occhiaie di un orco sonnambulo, è la stessa ombra sottile di quando Julian mi sta davanti al sole e mi tiene per mano. Chiede pace come solo una madre vorrebbe che il figlio tacesse per lei. Via, portatemi via. In meno di mezza giornata mia madre è ferma ad un autogrill lungo la strada di casa, io ho il volto caldo da uno schiaffo, la mano di mio padre che trema sul volante, mia sorella accanto a me piange mentre mastica una gomma rosa. Scendiamo dall'auto di papà, saliamo sull'auto di mamma, io so che mi sto lasciando una bambina alle spalle, quella bambina che tanto mi è somigliata in questi anni, io so che sto dicendo addio all’infanzia. Non riesco a dire altro che scusa, ma non sono per niente dispiaciuto, coloro un mandala lungo la strada di casa, quattro ore di autostrada nel silenzio. Al mio ritorno l’estate ormai inoltrata, il calore del disonore che mi pizzica la gola, mi sono chiesto parecchie volte se mi sono forzato a scopare nelle settimane seguenti, se il mio desiderio fosse soltanto frutto di un altro spazio e di un altro corpo che non ero io, e la risposta è stata sempre no. Non era un mio dovere, non era nemmeno un piacere, era un passatempo. I passatempi non sono passioni, non sono bisogni, sono il lungo spazio nelle ore, e d’estate in provincia è tutto troppo vacuo. Dall'auto di papà, all'auto di mamma, all'auto di un amico o un nemico o un animali dai sensi particolarmente affini. Il mare palude che diventa la ristretta bonifica di un terreno irrigato all’alba, gli alberi dopo la casa di Julian che si fanno stretti, il fico al centro del giardino che s’ammala. Mio nonno compra una motosega, lo sradica una mattina di luglio. Il fico si è ammalato, lo hanno ammazzato. Lo stesso giorno, i miei umili pretenziosi desideri adolescenziali si rendono odiosi sotto la mia lingua. Nel pomeriggio lascio scorrazzare il cane, gli lancio una vecchia palla di plastica sgonfia, lui nemmeno si alza dal giaciglio per rincorrerla. Disimpara in fretta. Nel pomeriggio salgo al piano di sopra per prendere un libro, mi siedo sull’asfalto del patio, sto aspettando qualsiasi messaggio da qualsiasi disgraziato che voglia ancora un po' di materia dolce, ma sono tutti emigrati lontani da questo pezzo di nulla.
Lui arriva scampanellando lungo la via. E’ un nitrito meccanico. Penso che non scorderò mai quel rumore senza risposta, quel modo di annunciarsi così acuto, il momento esatto in cui arriva davanti alle sbarre ferrose e arrugginite del cancello padronale, scende dalla bicicletta. Non ha niente a che fare con una preda, ma allo stesso tempo da lontano non è nient’altro che un cervo reso misero dall'assenza delle corna. Non c’è niente sul suo capo di capelli scuri, niente che parli di schiavitù, niente che parli di regalità, è solo una massa di pelle avvenente. Sento il suo odore per la prima volta quando, ormai sceso dalla bicicletta e lasciata alle spalle la via, si addentra dentro il cortile di casa mia, mi si avvicina per farsi spazio nell'apertura delle sbarre, io di sbieco riesco a percepire la sua dentatura da fumatore e l’unto della protezione solare e la fatica del suo addome di sudori fini. Non è mai esistito niente che mi facesse credere così tanto che il mondo è odore. Mia madre che mi mette al mondo, dentro di lei sono una massa di arrugginiti cordoli di sangue, un’appendicite si trasforma in infezione, ho reso il suo corpo una bara. Mio padre che mi tiene stretto al petto, una vecchia fotografia di lui in sala parto, bianco come un cencio, mi hanno raccontato del suo svenimento. Mia sorella che sbuccia il ginocchio, sulla ghiaia, si trascina la gamba insanguinata. Metallo, metallo, metallo, averlo vicino è come sentire il suo sangue, l’oro del suo crocifisso sulla lingua, lui è un cervo ed io sono un orso, sono un orso, sono un orso e sono appena uscito da un letargo durato tutta la vita. Apro la bocca come farei se fossimo umani, la apro poco per non destare sospetti, il mio sentimento si perde tra il non detto, qualche convenevole e scivola lungo il marciapiede, appoggia lo zaino sullo stesso tavolo dove Julian sputava semi, si sfila velocemente la maglietta e ricade nell’azzurro della piscina.
Le settimane seguenti torna come se si annoiasse davvero, arriva la mattina presto e resta fino all’imbrunire, all’incirca tre bagni e un pranzo, non parliamo mai davvero. Trovo, quindi, espedienti per attirare la sua attenzione, esche di carta, mi trascino tra le mani libri importanti, cammino lungo il bordo con Luminal di Isabella Santacroce, Pasolini sottobraccio, una volta cito Pavese a pranzo, lui coglie di sfuggita il verso. Sonnecchia su Celan, cosa ne sa lui di me? Sono un ragazzo da collezione, non smetto con gli appuntamenti, sono un ragazzo martire, non smetto con il grande cielo.
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macabr00blog · 2 months
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percorsi frammentati: 2017 (1)
La storia è lunga, ma arriva a congiungersi con sé stessa in modo veloce, è come un vizio che si prosciuga, è come la brace del legname ancora ardente: il suo fetore aspetta la carne. La storia è lunga, empietà che sorvolano la strada, è un miracolo silenzioso, cieco rimpianto.
Il dolore di aspettare la fine, scoprendosi inizio.
Avevo un sentimento leso che si faceva infetto, testimonianza di fisici ambulanti dei miei genitori, ero caro quanto la strada ghiaiata che si snoda, mia sorella cade e si sbuccia le ginocchia. Io mi sono fratturato un braccio, una volta, era troppo caldo per ricordarsene, era un tempo troppo distratto per il dispiacere. I fili del telegrafo, selciati dall’ennesima pioggia, e il colore dei capelli di Julian, pedala poco davanti a me. E’ il mio lato della provincia più puro, l’infanzia, quando ancora cercavo una qualsivoglia giustizia tra le pieghe delle dita, vieni qui, ti leggo la mano. Ero un fattucchiere senza magia, un ridicolo e vaporoso fiore reso giallo dalla muffa. In provincia, da me, piove sempre. Si spezzano i fili, si sciolgono gli argini, la pozza fa le carezze al cane che entra di fretta impaurito dal portone di legno sul retro. Ero un magnifico cadavere infantile, quando mi hanno trovato, ero come un relitto reso immobile dal tempo, quella volta in cui il mio corpo si scottò al sole e quella volta in cui la Sardegna mi fece dissanguare. E con questo sapevo che: Julian era sempre davanti a me. Dapprima come una speranza, perché lui lo sapeva, dove, quando, dopodiché come uno spettro violaceo, sordo come un macellaio nelle grida delle scrofe, la sua ombra era un’immagine granulosa sulle pareti piastrellate. Io ero sempre stato infetto, il vento non mi muoveva per miracolo, mi concedevo qualcosa che potesse diventarmi religione, volevo distrarmi, non avevo troppi misteri oltre a questo. La prima volta ho perso una scommessa per un bacio, la seconda mi sono lasciato trascinare controvoglia, la terza volta ho capito che mi piaceva anche vilmente, elogi sulle sue (chissà quali) cosce di muscolo. Julian era l’incontro dell’infanzia con quello che diventavo, nella sua esistenza nemesi trascinava allegria, io dietro di lui come un cane o forse una carcassa, non capivo più dove stessimo andando, dove mi stesse conducendo. Facevo so che sapevo di dover fare, camminare con lui alla luce del sole, sistemargli i capelli, avevo quattordici anni e nessuna voglia di un ragazzo come lui, non avevo idea di cosa fosse la cura e di cosa fosse il compenso, gli scivolavo accanto come un verme, lasciavo che il suo piumato bianco mi adombrasse. La seconda è accaduta qualche settimana dopo il nostro primo bacio, era inverno e portavo una sciarpa al collo, il viso liscio di gioventù e il sapore di menta tra gli incisivi, lui appariva e scompariva, dopo averlo quasi tramortito l’ho lasciato conoscersi da sé tra le quattro pareti della sua auto. Ne era soddisfatto, io non l’ho più ricontattato. Biancheggiavo nella luce di quel ricordo, pensavo mi bastasse, il sapore di Julian che addolciva la mia bocca, io ero fiele e carbone e la mia pelle bruciava e bruciava. Pensavo mi bastasse, ma la terza volta nel bagliore della sera, l’abbaiare di un cane sguaiato, sul retro del parcheggio comunale della chiesa, quella primavera stessa. Io ero una bocca ed ero una parola ed era il confronto a farmi debole, era la natura campestre dove avevo vissuto, la ricchezza della sua espressione mentre calava la testa all’indietro. La terza è capitata anche più volte. I miei polpastrelli ingiustificati dalla malizia, i suoi che avranno avuto il doppio delle mie espressioni, il corpo di un partito dimenticato, la peluria di un animale schiavo, ogni giorno tornare in silenzio come la crudeltà minore. Le mie miscredenze rese vili, la quarta è un sospiro sul mio orecchio, è il più vecchio di tutti, mi parla di un Nicola che voleva vivere e voleva morire, tiene stretta al collo la catenina dorata che era di suo padre, mi chiede dove sia il mio. E’ quasi estate, io maneggio qualche parola di condoglianza per me stesso, mi lascio consolare dal suo disgusto nel vedermi impolverato dalla mia stessa vergogna. L'estate arriva veloce e Julian mangia anguria seduto al mio tavolo in giardino, toglie i semi, lui non vuole strozzarsi.
(…)
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macabr00blog · 2 months
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dionea muscipula
L’inverno accade piano.
La vecchia sensazione della tua barba rada che graffia. Mi hai raccomandato che esistono delle sfumature del giorno in cui possiamo stare vicini, qualcosa di più, qualcosa di meno. Luoghi di sapori tenui come lo zucchero di canna mescolato al caffè prima sulla mia e poi sulla tua lingua. Le tue guance souvenir, le mie riempite di confetti, abbuffate battesimali di corpi in fesa, bomboniere dai colori tenui. La vecchia e nuova sensazione della tua barba che mi si strofina addosso, ora che è cresciuta, mi accarezza.
Storie di famiglie. I corsi delle vene deviati da qualche piccolo intoppo: deviati da qualche piccola massa: deviati da qualche piccolo insetto. L’ho sentito parlare di dipendenze. Portava una mano al petto, recitava?, pregava?, il suo volto si imbruniva nel tempo, l’ho sentito parlare di amore, recitava?, l’ho sentito parlare di violenza, pregava? Mi ha raccontato che la gente piange spesso ai funerali, Plutoni distratti, lui che si china sul feretro, lei non ha più il volto che aveva quando l’hanno trovata. E’ più bianca, è più lucida, sembra foderata di plastica. Un sacco biodegradabile sul suo cranio, un sacco biodegradabile dove andranno a morire le sue grida, nessuno ha mai urlato così tanto, nessuno ha mai sentito parlare dell’amore. E’ uscito dalla sua bocca, è suo figlio, nessun l’avrebbe mai amata così. Nessuno ha mai sentito parlare di violenza. Tranne quella volta che l’hanno tramortito dopo una festa, tranne quella volta in cui gli è toccata la seconda lavanda gastrica, tranne quella volta che ne ha presa una in più, e una in più, e due tre quattro in più, danni da prescrizione, è più bianco, è più lucido. La malattia non lo colpisce, prega?, la malattia lo benedice, recita?
L’inverno è un incubo che non porta a niente, uno spirito freddo senza scarpe, i suoi passi leggeri sulla ceramica del pavimento del bagno, piante di pelli bagnate dal cloro e dalla rugiada. Mi accorgo che settembre a Bologna è un leggero buffetto sulla spalla, complimento di una prozia che non vedevo da mesi, ma novembre sradica le sue ossa e le lascia scivolare nella marea dell’asfalto alluvionato. Ed era così forte che non ci ho creduto. Il suo corpo da Marte reso martire, guerra dei suoi canini sopra i miei, siamo due cani rabbiosi nel cortile, ci prendiamo a morsi le guance. Il suo corpo da Venere che inghiotte mosche. A lui piace sentire il sapore della carne sulla lingua, quando ancora sa di ferro, gli piace sentire che il mio sangue a contatto con il suo brucia.
E’ un deviato, nessuno lo amerà più così, sacco biodegradabile che è il mio addome, ricordiamo i lutti e i lumi passati, ci schiudiamo come su una stele. Le sue mani rese porpora dalle interiora, pensa che lavorare in una macelleria sia come fare un boia, io mi aggiro con la peste in corpo, non ho paura dei contagi.
Quando mi disse che c’era ancora spazio, che era rimasto come un confine disegnato a penna, immaginai quell’esatto momento del giorno in cui divento pazzo, gli incubi mi si incollano alle palpebre. Non guardarmi, dico, voglio farlo da solo. Ma la realtà è che ho pensato fin troppo alla compassione, alla cura, alle grazie di quest’annata di ostinazioni. Incredibilmente, la primavera mi porta sempre da te.
Scambiamo qualche parola che sa di futuro, ce ne dimentichiamo subito dopo, è una piccola particella in cancrena che ci ottura un’arteria. Lui ha tante cose da finire, lavori incompleti lasciati a prendere polvere, io sono ancora in tempo per imparare a distinguere i confini reali. Mi porto una mano sul petto, il candore della mia giovinezza reso vile dai peli, ora che ho un corpo simile al suo posso non avere vergogna di mangiare davanti a lui, ora che ho un corpo simile al suo posso portarmi una mano al petto, esce dalla mia bocca, è una parola di riguardo verso mio padre.
E ancora, storie di famiglie.
Sono sincero quando dico che vorrei fosse morto, quella sera. La malattia lo colpisce. La malattia lo benedice. Lui non muore mai. La sua testa sa ancora di ferro, gli aghi da cucito si tramutano in spilli, ci cammino sopra come un monaco sacrificale. E’ così difficile fare pace con il siamo insieme in questo, che più mi muta il mento, più gli rassomiglio in modo scabroso.
Io sono nato in mezzo ai drammi di un nido, ho assimilato giusto giusto qualche parola sulla violenza, la mia gola non è ancora abbastanza spaziosa per l’odio, tu cammini troppo veloce anche per me e ti sistemi la sciarpa tartan, mi dici che la primavera ti ha portato qui. E’ come un vento caldo che spera di scuotere. E’ come un’altra parola che fatica a venirci in mente, ce la inerpichiamo tra le lingue per ore, la rendiamo un batuffolo di salive che scivola rotolando lungo le strade. Baciarti dove avrei avuto più vergogna, sbigottito del mio stesso fervore, ho vent’anni e mi si è incollato addosso l’odore dell’idea che torni presto inverno.
Marzo mi porta le tue ossa. Aprile mi porta i tuoi organi. Maggio mi porta la tua voce, che è quella di una volta, che è uguale alla mia. Giugno mi porta la tua anima, la sagoma del tuo vecchio io sudato sulle mie lenzuola. E’ un anno che imparo a dormire con la tua metà del cervello accanto alla mia, tu mi ripeti che c'è ancora spazio per noi, quindi, dov’è?
Se io sono una falena resa sterile dalla luce e tu sei una pianta carnivora lasciata seccare, allora, dov’è? Nel mio e nel tuo modo di morire? O di volerci bene? O di entrambe le cose?
Cos’è quello spazio del giorno in cui divento pazzo se non l’inverno?
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macabr00blog · 2 months
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-90°-15°980 tot.
Il corpo di una bambina è un tempio, sacrifici di agnelli e grappoli d’uva agli dei. Mio padre mi vende per una coppia di cavalli e un tralcio di vite d’oro.
Sospiro nella notte scura, le pagine tetre della mutazione, mi chiedo cosa ne sarà del futuro. Gli chiederanno cosa ne è stato della figlia, lui risponderà di averla persa di vista. Gli chiederanno del corpo di una bambina, lui risponderà di averla sempre amata. E’ il respiro di mio padre quando sale le scale. E’ svenuto due volte nel pensiero di morire, è morto due volte nel pensiero di svenire, pesa la dose massima in un piccolo bilancino da taschino, è un vecchio intellettualoide consumato dal potere di podestà. La patria, la provincia, la pasta delle sue mani, sua madre che impasta e canta, lei cantava sempre, lui dormiva tra le sue braccia, lui non sa cosa sia una bambina, non sa cosa sia un corpo. Il suo è fatto di macchie rosse che si agglomerano salde. Mi vende per poco, una coppia di cavalli e un tralcio di vite d’oro.
Mi ha persa di vista, quel giorno, mentre camminavo negli spiazzi di campo. La campagna sembrava l’Anatolia, Frigia di pietra scheggiata, chiare beltà del grano, correvo. Mi ha persa di vista dopo avermi venduta, si è consolato in fretta, mio padre. Si è consolato nel ludico gioco delle scommesse, i cavalli li ha fatti slittare all’ippodromo, i loro denti di pregi ora scheggiati dalle briglie. Si è consolato in fretta, mio padre, il tralcio di vite lo ha fatto impegnare e si è comprato quattro dosi. Era felice, mio padre, quando mi ha persa di vista. Io mi ricordo che rideva, seduto sulla sedia in plastica, dorso nudo e sudato, rideva, rideva.
Ho conosciuto numerosi Rapaci dopo l’Aquila. Non mi sono mai fermato. Portavo a spasso il mio corpo che si faceva spesso, la pelle secca dal sole dell’ennesima stagione estiva, i lettini accanto alla piscina che si scontrano con il vento tiepido. E’ un altro giorno, è un altro anno, è un’altra vita. Di quell’Aquila ricordo solo il becco. Ci ha messo poco per avermi addosso. Dovevo essere un tempio, ma sono forse una tomba. Dentro di me il desiderio dei suoi figli, come ogni Dio curioso, come ogni Dio malsano. Lui si pulisce i denti su un fazzoletto, ha finito di banchettare. Io porto vino e doni alle feste, mi travesto da suddito, il mio ruolo di Coppiere tatuato sulle scapole. Prima un raduno, poi un matrimonio, ho incontrato tanti Rapaci dopo l’Aquila, non ho mai voluto che smettesse. Il mio ruolo consacrato, io sono un tempio, no, io sono una tomba, no, io sono un cimitero. Ora, dentro di me, si abbracciano carcasse andate a decomporsi.
Sono passati troppi anni per ricordare.
Cosa ne è stato di quel giorno? Sono diventato un pasto e poi una costellazione. Ero pericoloso d’affetto, ero tradizionalmente devoto, dovevo essere quel tempio. Un tempio dove si banchetta e si commercia. Un tempio per un Dio qualsiasi, un Dio che ama pulirsi le dita. Un tempio distrutto dal tempo, pietra erosa di Frigia che combatte l’estate, bianco e poi ingiallito come le pagine testimoni di una mutazione, ora dal centro si vedono le stelle.
Guarda che meraviglia il creato!
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macabr00blog · 3 months
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l’incontro surreale tra una cerbiatta e un daino in piena stagione di caccia — luglio agosto 2023
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macabr00blog · 3 months
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ADAMO E GLI SCORDATI
prima notte
Lo aveva caricato in auto un’ora prima, era stato prudente come una serpe, lo aveva caricato solo un’ora prima ed ora si trovavano sulla riva, il furgoncino parcheggiato poco più in là. L’acqua era lucida sotto la luna, specchiava lati del cielo increspati dal temporale di quel pomeriggio, si era ingarbugliata nell’aria l’idea di lasciarsi lì. Quando lo aveva fatto salire, come se davvero valesse presenziare l’uno accanto all’altro come due testimoni, glielo aveva messo in chiaro subito: io non voglio problemi. Era sottointeso che non volesse problemi con lui, con la baia, con le piccole verità che si sarebbero probamente confessati. Il ragazzo mansueto, gli aveva risposto ridendo, “con me di problemi non ne avrai” e si era soffiato il naso all’interno di un fazzoletto dove aveva spruzzato dell’essenza di menta, si era propagata per tutto l’interno dell’auto. Era stato prudente come una serpe. Come la pelle di serpe che si trascina sotto una luna, le squame che si schiudono nella luce, lo aveva caricato solo un’ora prima ed ora si trovavano sulla riva e non aveva il coraggio di toccarlo. Il ragazzo dalle gote ancora arrossate dal sole, piccolissime macchie scure intorno al naso, come quando lui aveva sognato di essere una lepidoptera che moriva assiderata dalla luce. Quel ragazzo che glielo aveva fatto sapere, gli aveva scritto una letterali aveva spedito una cartolina, la sua saliva sul francobollo, gli aveva detto: torna a trovarmi. E non era tornato. Quel ragazzo che aveva aspettato per mesi con le mani nella pasta del desiderio, gli si erano imbiancate le dita, gli si erano imbiancati gli occhi. Era svenuto subito. E quindi, si torna alla prima notte, quando lo aveva caricato in macchina e si erano diretti verso la riva, dove la luna incontra la fine del fiume, dove ci sono soltanto problemi. Si erano seduti, poi sdraiati, ma non aveva avuto il coraggio di toccarlo. Aveva solo parlato con lui, attimi difficili in cui la voce si trasforma in una preghiera, in cui una confessione diventa una sola parola e muore sulla bocca, muore nella gola, muore prima che possa chiedere scusa. Uno accanto all’altro come due fratelli, un pastore e un coltivatore, qualcuno dorme in casa, qualcuno sacrifica agnelli, qualcuno fa seccare il raccolto e Dio parla con gli assassini. Dice agli assassini: siete così devoti, vi darò tutto quello che mi chiederete. E il digiuno è superfluo, così come la carità, come le linee di successione, come gli occhi di due fratelli che dormono l’uno accanto all’altro e non sanno come parlare. Uno vuole chiedere perché, l’altro non sa il perché e vuole raccontare una bugia. Non si scuserà mai di aver mentito così, né con sé stesso, né con nessun altro, nemmeno con la persona che gli sta accanto e che ha il suo stesso corpo, nemmeno con chi lo ha amato così tanto da porre un sacrificio nella memoria. Tutti hanno una storia di tristezze accumulate, quel ragazzo sdraiato dalle gote arrossate, quel ricordo che gli esplode nella testa come un fuoco d’artificio o come uno sparo. Lo guarda, adesso, supino sulla spiaggia, un’espressione neutra, lui non ha niente da dire. Non ha più voce, quel ragazzo, ha perso le parole per strada. Tutti sono stati innamorati e poi sono morti, ora tutto quell’amore dov’è finito? Nella bocca di Dio.
seconda notte
Era stato abbastanza coraggioso da toccargli l’orecchio. Lo voleva fare da tempo, la distanza gli aveva mozzato le dita, si era ritratto come un bruco che non ha più fame, come quella lepidoptera che era nel suo sogno, come quando si era assiderato con la luce. La sua pelle sa di sapone, mughetti sotto venature chimiche, il suo orecchio sa di zucchero, di miele, di latte, come tutta quell'acqua dolce del fiume, come la luna di roccia che lascia che la sua luce venga accompagnata dallo scorrimento dell’acqua.
Avanti e indietro. La prima volta che si erano incontrati non lo aveva visto, lo aveva solo lasciato, il ricordo di quel pomeriggio, a marcire. Il marcio aveva dato vita ad una colonia di insetti colorati. Si nutrivano di speranza. Quel ragazzo aveva avuto fiducia in tutto quello che la foresta lascia decomporre, lo aveva maneggiato tra le sue mani, aveva riconosciuto il corpo. Era il corpo di uno Scordato, uno di tanti che erano venuti prima di lui e uno dei tanti che era morto per un bacio, ed era per questo che si era preso il fardello, quella sera, di dargli un bacio. Solo per quello, aveva detto, solo per un bacio. Un bacio solo per un bacio. In lui non c’erano soldati, non c’erano gli occhi defunti di madri e padri, non c’erano ponti di distanza da una riva all’altra, la parte peggiore era l’adolescenza della quale si sarebbe presto pentito di non aver consumato più velocemente, ma era solo un bacio. Poi le lettere, i francobolli con la sua saliva densa, aspettare ancora, torna a trovarmi, una lezione da bocca a bocca, pensare più velocemente, sette mesi dopo, otto mesi dopo, quando lo ha caricato sul furgoncino. L’ultima volta che si erano incontrati era stato per un bacio. Era sempre per un bacio.
Indietro e avanti. Succo della sua bocca calda, non sono parole, non si tratta di orare ad una folla un frammento filosofico. Succo della sua bocca calda, gli aveva chiesto perché non avesse mai risposto. Io so che mi manchi ma non so cosa mi manchi, scriveva, capisco che tu possa non comprendere. Succo della sua bocca calda, il sapore delle more selvatiche che si erano affrettati a raccogliere prima che l'estate finisse, le macchie scure ancora sui vestiti e sulle dita, le macchie scure di quando si erano divorati arbusti interi di frutti maturi. Un corpo e un corpo, succo della sua bocca calda, descriveva come fossero simili da sempre, da come lo avesse notato da sempre, dalla prima volta che si erano visti. Io lo sapevo, scriveva, ma capisco che tu possa non comprendere. I sogni, guardando fuori dalla finestra da bambino aveva pensato fosse Dio, il ragazzo dei sogni che è solo un ragazzo, la gioventù senza nome tatuata sulle pellicine di sangue attorno alle sue unghie, aveva pensato fosse Dio, quel ragazzo, ed in effetti aveva creato cose soltanto da sé stesso. La sua costola asessuata che traspare dall’addome, è tutto ben esposto quando si parla di quel ragazzo, quando si parla di Adamo. E’ il primo ragazzo, il primo uomo, la prima morte sulla terra. Io capisco che tu possa non comprendere.
L’ultima volta che si erano incontrati lo aveva aspettato, pieno di risentimento, alla stazione ferroviaria. E lo aveva, ovviamente, baciato di nuovo. Per quello aveva perso la voce. Era lì che era stato caricato in auto e portato al fiume.
terza notte
Dio parla con gli assassini. Ha la voce di un padre, esattamente quella voce di padre, ha la voce del fango sull’argine, il motore del furgoncino che si spegne e l’acqua del fiume che scorre mansueta. Ha la voce della terra e del cielo, lui ha creato tutto, lui può. No, lui ha dato il permesso di creare. Ha dato la voce e il corpo ad Adamo, ora addormentato, ora sveglio, ora schiavo, ora padrone. Adamo tutto può. E Dio da allora parla agli assassini. Ha compassione per loro, lui che ha creato un figlio dalla mente, lo ha elaborato con coscienza, e lo ha solo ucciso. Lo ha ucciso, Adamo, lo ha buttato in mezzo alla melma. Si tratta di essere pronti al sacrificio, dice. Si tratta di essere devoti, sempre. A Dio piacciono gli assassini che piangono, quelli che si disperano per la vittima, per la patria devastata, per i corpi che un tempo avrebbero potuto essere loro. Lo aveva caricato in auto, due giorni prima, Adamo. Suo padre gli aveva insegnato a sparare. E aveva sparato.
Era nato da figli di Dio, sua madre senza volto e sfregiata dalla vecchiaia che si lamenta per un antico dolore alla schiena per cui ha iniziato a prendere forti antidolorifici e suo padre che carica una carcassa di cervo sulle spalle, è sempre stato abile con i fucili, è sempre stato abile con le donne. Suo padre che carica sua madre sulle spalle, la porta a letto, lei non si muove più da anni. Suo padre che scuoia il cervo nella cascina in campagna, l’odore stantio del sangue che fuoriesce dall’entrata e che si trascina anche a casa, quando con gli stivali intrisi di macchie cammina per il salone. Sul pavimento impronte porpora di una vita fa. Era nato da figli di Dio, i suoi genitori erano devoti, gli avevano sempre insegnato cosa significa la parola di Dio per delle persone come loro. Quando aveva incontrato Adamo, aveva saputo fosse lui dal modo in cui era devoto a suo padre. Adamo che suo padre l’aveva visto perire, Adamo che suo padre l’aveva visto incosciente, furioso, Adamo che era già stato ucciso dai genitori, Adamo che viveva in un mondo di pietra giallo, un pianeta sconosciuto dove esistono soltanto uomini con le costole esposte che vogliono vedere costole di altri uomini come loro. E Adamo amava l’amore, amava pensare di aver creato amore, anche se l’aveva visto perire, Adamo amava aver ucciso suo padre nei modi in cui solo un figlio può farlo. Adamo aveva perso la fede, aveva perso la devozione, era uomo ed era innamorato di essere uomo, ed era fedele a sé stesso come un gatto randagio, ed era tutto quello che un figlio di Dio ha dimenticato di essere, ovvero, figlio di un padre che lo ha abbandonato per un peccato. Adamo che era nato dalla passione e dalla fede e dall’estrema purezza, ora vagava insiemea dannati qualsiasi, ora che lui non si scomponeva, ora che lui non stava in silenzio, perché Adamo parlava come un maestro, ma tutti erano impegnati ad ascoltare Dio. Era di Dio l’ultima frase. Era lui che chiudeva il sipario.Non si era degnato nemmeno di farsi vedere in volto.
Prima di caricarlo, lo aveva ammazzato. Prima di caricarlo, quando Adamo gli si era sporto sulla bocca e lo aveva baciato, quando gli si era avvinghiato addosso come un bambino, cercava forse quello che non aveva saputo dargli la vita, dopo, lo aveva ammazzato. Prima di caricarlo, quando lo aveva amato solo come un Uomo può amare Dio, come un Uomo può amare un Padre, quando lo aveva baciato come un traditore, lo aveva ammazzato.
quarta notte
Prima di ammazzarlo, lo aveva caricato. Era sempre stato così. Prima di ammazzarlo, lo aveva caricato, lo aveva amato. Erano stati al fiume. Lo aveva amato come si ama l’estate e senza convenienze, lo aveva amato perché era l’unico al mondo che potesse amare così. Perché era il primo uomo, perché era Adamo, lo aveva cercato per tutta la vita. Oppure, come si voglia dire nella leggenda, lo aveva ammazzato, caricato, portato al fiume, dove Adamo era tornato ad essere fango. Lo guardava e non riusciva a toccarlo, lo guardava e pensava solo a quanto si somigliassero ora che era morto, non si era mai guardato così, sdoppiato nel corpo di qualcun altro. La sua bocca che aveva il sapore caldo. Riavvolgere il nastro della memoria, i tempi in cui il bacio sarebbe rimasto solo un malinteso. Riavvolgere il nastro della memoria, i tempi in cui il suo corpo si sarebbe intonato sulla panchina del giardino verde. Riavvolgere il nastro della memoria, i tempi in cui Adamo lo avrebbe preso in braccio come suo padre faceva con sua madre, quando non riusciva ad alzarsi in piedi per il dolore. Perché era un uomo, solo un uomo, non si sarebbe perso niente della vita, non si sarebbe perso niente dell’amore se solo avesse avuto abbastanza voce e fortuna. Ma era un destino distinto dalla realtà.
Non esistevano insetti colorati, non esistevano speranze sull’Aldilà, non esistevano mondi in cui Adamo non sarebbe tornato fango. In cui il fiume non se lo sarebbe ripreso. Non era figlio di corsi d’acqua, di un Dio, era solo il figlio di suo padre. Un padre comune, un padre come tanti altri padri, che aveva una voce troppo alta e un corpo troppo robusto e il gomito scivoloso nei bar, e qualcosa che ricorda l’odore stantio del sangue quando si accende la luce.
Prima di ammazzarlo, doveva ricordarsi come fosse solo un ragazzo. Un ragazzo che gli aveva chiesto di tornarlo a trovare. Un ragazzo che cercava una fede e che trovava in lui le parole per una preghiera. Lo caricò sul furgoncino, cantarono poesie della radio, passarono quattro notti su una riva di ghiaie, parlarono a confessioni, non ebbero paura di baci e adulteri. Perché questa non è una storia terribile, non è una storia di terrori, di sangue e di morte, non è un racconto di vessazioni. E’ la storia di due uomini dalle costole esposte, come tanti uomini dalle costole esposte che sono rimaste nei loro addomi a fiorire, non hanno creato niente al di fuori dal loro corpo, nessuna Eva a fare da contorno, hanno creato qualcosa dentro il loro corpo.
E quel qualcosa è una leggenda che non ha bisogno di finali.
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macabr00blog · 3 months
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Ti vedo e ti attraverso ma non ti capisco
Passo dopo passo, lo spazio negligente dell’accoglienza. Quando ho tempo passo ore chino sulla scrivania come un vecchio scriba, non ho nulla di bello da fare, nulla di pronto da dire, messaggi e conversazioni lasciate in archivio ed io con una penna in mano ad annotare strascichi di quello che é già successo. Tipo: tu appoggiato al termosifone del mio salotto. Tipo: mangiare una mela ammaccata dal davanzale e guardarti scomparire sul retro, luci soffiate via dalla nebbia, il tuo capo che appare e scompare. Tipo: i miei piedi pallidi sulla sabbia. Tipo: l’odore della tua schiena al sole. Non ho nient’altro. Mi concedo qualcosa di più forte, camminare lungo l’argine, ritagliare pezzi di stoffa e rammendare colori su una coperta usurata, atti di incoscienza del venerdì sera quando scambio qualche tenerezza in preda ad una delle più cupe nostalgie di questo mese. Sono uno che si accontenta, ho aspettato tanto, perché non ancora?
(Perché adesso non ce la faccio più.)
Mi sembra di non avere piĂą tempo.
Tieni conservala bene
Questa è una stella polare
Era per la crudeltà della montagna, per dovere della cronaca aguzza, io dicevo: io e te non ci possiamo incontrare in questo mondo. E poi aspettavo un segno di vicinanza, un fumo di pace, i colori bruni dei nei sulle tue spalle quando ti cade il sole addosso. Non siamo fatti per la pasta di sale dove ammollano i fiori d’acqua, non siamo fatti per il calore di questo spazio di terra, io sono un arbusto aggrovigliato e forse ho sbagliato luogo. Si, ho decisamente sbagliato luogo. La testa recisa per un pomodoro di troppo, il velenoso sapore metallico sui denti, non c’è niente di più libero di quello che ci imponiamo di non fare. Tu dici? Appigli di poco spessore, camminare oltre la linea gialla alla stazione, zaino che mi lascia un alone bagnaticcio sulle scapole, è estate e perché sento così tanta stanchezza? Dovrebbe essere la mia stagione di riposo, dovrei accoccolarmi e accontentarmi di un pregio di una donna, di un difetto di un uomo, sconosciuti, frammenti dei loro pensieri sulle mie pareti, ma sono tragicamente investito dalla nebbia.
Tu mi avevi avvisato. La provincia non si lascia.
Dai, ti porto a ballare
Ti porto a ballare
Musica brasiliana
Parlare dei vecchi templi erosi dagli incendi, un cambiamento climatico che trascina Venere in collisione, tu con le ciglia impastate dal sonno sembri un delfino che ha smesso di respirare. Un tempo saresti stato una sirena. Un tempo saresti stato un pirata. Il mare è quello che più mi fa pensare a te, anche se non ti ho mai visto immergerti in acque salate. Ci siamo io e te, più avanti degli altri, accostati a qualche metro di distanza, camminiamo insieme sul lungomare di un lido che non conosco. Tu mi parli di un faro, io ti dico che non ho paura del buio, sprechiamo altre conversazioni in modi maledetti. Ho capito quel giorno che in te esistevano due realtà amiche. Una era la forma del figlio di Dio che avevo visto camminare a gambe leggere lungo il patio, il telo mare sulla spalle e i capelli ancora umidi, reggevi in mano un frutto roseo, parlavi di sistemi oratori, di letterature, avevi una croce argentea che ti si esponeva sul petto e credevi ancora che solo Dio ti potesse fare cosi tanto male. L’altra era il corpo di un cane randagio, spelacchiato dopo una grandinata, le sue gambe erano diventate pesanti dal gonfiore, i suoi occhi si erano nascosti sotto il pelo scuro, si sedeva all’ombra e aspettava che qualcuno lo scambiasse per un ramo e lo portasse via. Aspettava che il vento lo scambiasse per un detrito e lo lasciasse fluttuare.
Lascia stare gli inglesi, la trap, i cassoni
Non fanno per te
Ho appoggiato il tuo nome per un po’, l’ho lasciato alla portata di tutti ma io non l'ho più maneggiato. Nella mia bocca c’era altro da masticare, altro su cui far arrancare i molari, ero così apparentemente devoto, e mi stava bene. Sono andato a convivere, ho pensato a famiglie e ad essere adulto, ho fatto regali e ho lasciato mille baci su cinque o sei bocche diverse, mi piaceva pensare che più mi impegnavo a dedicarmi ad altro, più mi sarebbe bastato avere messo tutto in ordine. Mi sarebbe bastato pensare che c’era un posto che ci avrebbe regalato accoglienza, ma che quel posto non era qui ed non era ora.
Mi ricordo che quando eravamo ancora ghettizzati e provinciali ti chiesi se dopotutto, qualsiasi cosa fosse accaduta, saremmo rimasti amici. Avevo una concezione puramente astratta di quello che poteva essere divenirti amico dal nulla, quando per mesi interi ti avevo visto come una creatura a sé stante, dopo che ti avevo iperanalizzato, diviso in piccoli frammenti di realtà, dopo che ti avevo conosciuto senza conoscerti. Tu mi dissi che forse non avresti saputo come rimanermi amico, che non eri capace, che i tuoi amici si contavano sulle dita di una mano, che ti avrebbe fatto troppo male.
Mi ricordo di aver pensato: troppo male? Esiste un troppo? Non ne vale la pena?
Che sei nata e cresciuta Catania
Hai dei capelli troppo belli, troppo belli
Come si chiama il vento quando fa troppo caldo per prendere aria? Quando ti si chiude la gola per allergie non medicalizzate? Come si chiama quando non ti vedo più attraversare il patio di una casa che ha smesso di essere mia tempo fa, in pieno agosto, le ciabatte di gomma che ti ho prestato la prima volta e che non mi hai mai più restituito perché le volevi tutte per te? Come si chiama l’inverno caldo? L’inverno quest’anno mi ha distrutto le speranze di tornare a galla con un po’ di fiato quest’estate. Io so che, come tutte le volte che ripercorro i ricordi, finirò per scoprire cose che non voglio scoprire.
Tu non sei un figlio di Dio, sei corroso quanto me, sei marcio quanto me, sei così ignorante nella tua posizione da Messia, sei così bello quando ammetti debolezze, ma non sei un figlio di Dio. E non sei un cane randagio, non sei una vecchia cagna che si trascina le zampe, sei molto di più di ispidi peli grigiastri, il tuo corpo mi accarezza le gambe, ti sei inginocchiato per una preghiera?
Sei la punta di un iceberg
Sei la pensione che non avrò mai
Siamo il teorema che non capisco
Io ho smesso di saper scrivere per conto mio, ora è tutto una chiara memoria di verità diverse. Di quando sono arrabbiato, di quando i giorni felici mi si attaccano ai polpstrelli, di quando quelli tristi me li scottano, non c’è niente di più grave di questa mia situazione, io continuo ad appuntarmi immagini che mi colgono sprovvisto nei ricordi, ma non so come trattenerti per qualche ora in più. Non ho ancora imparato a dirlo per intero, il tuo nome, me ne vergogno.
Ma è perché adesso non ce la faccio.
Perché mi sembra di non avere più tempo.
Il futuro che avanza dentro a un fosso
Dentro a un fosso
Su un tappeto rosso
Ti vedo e ti attraverso, ma non ti capisco
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macabr00blog · 3 months
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OSSERVAZIONI ANNUALI - feb. 2024
Ciao,
avviso: questo non è un lamento, per fortuna. Avviso: è letteralmente l’unico modo che mi è venuto in mente per dirti qualche cosa che ho tirato fuori da tempo da una vecchia cassapanca. Avviso: non piangerai, non riderai, non avrai niente da dire. Avviso: mi andrà bene anche così.
Mi sono chiesto spesso cosa nascondevi nelle tue visioni salde, forse me lo sono domandato così a lungo che lentamente le mie hanno perso di senso. Tu sai di cosa parlo, sempre, ed è questo che inizialmente mi fa arrabbiare. Tu sai di cosa voglio parlare, sempre, mi precedi e sei cauto nell’affrontare i discorsi futuri. A te spaventa come spaventa me, forse pure di più considerando le diverse prospettive sul mondo, e quindi lo dici spesso per favorire la mia memoria, mi dispiace molte volte mordermi la lingua per non darti una certezza che tempo fa avrei liberato come una colomba. Ma lo sai, sono così, un giorno mi diverto a seppellire, l’altro a disotterrare, mi chiedo cosa sia questo vento che viene dalla tua porta e che mi dice che ora ho paura. Ho paura ma non ti temo, la tua presenza è lieve, mi riporta indietro a quando ero soltanto una sagoma d’ombre giallastre su un muro. E’ una di quelle cose che io ricordo vividamente, il sapore che avevano le stagioni prima che non notassi i loro repentini cambiamenti, ero così distratto ai tempi, il mio corpo non voleva nient’altro che il terrore e disprezzavo la poesia. Il che ora mi sembra surreale, ma sono mutate tante cose, hanno trasformato forme in planisferi di incontri. Quella volta che ti ho chiesto quanto ti mancasse e tu mi hai dato tra le mani la tua montatura degli occhiali, così leggera, e io ti ho guardato gli occhi come se la mia cecità si fosse resa nulla, come quando tu ti sei provato i miei e ti ho detto che sembravi un cyberterrorista o uno che frequenta fiere di fumetto. Abbiamo riso e abbiamo riso e ancora mi stupisco di come conservi questo ricordo così gelosamente, di come renderlo pubblico anche solo a te mi renda profondamente debole in una gerarchia personale di vulnerabilità, ma è il prezzo che si paga quando ci si dice le cose, no? Io ti dico le cose perché tu le possa tenere vicine al corpo quando le cose futili diventano vane, quando non hai altro a cui pensare che annoiarti con i miei ricordi, e tu mi dici le cose perché spesso sai di dimenticartele, affinché io possa stendere veli di tessuti immaginari, conservarle perché tu possa riaverle nel momento in cui le vorrai con te. Io sono una cassaforte o il tronco scavato di un albero o l'anta verde del mio armadio, quella dove c’è abbastanza spazio per sederci e rimanere al buio. Non siamo mai stati così ciechi e così felici, ma per davvero, perché il buio dice tante verità a chi non riesce a leggere bene tra le righe. Ma tu sai di cosa voglio parlare, è come se in questo buio ci nuotassi, è per questo che spesso ti rifiuti di indossare gli occhiali? Me lo chiedo da sempre. E’ per questo che me lo stai nascondendo, temi che io possa trarne una conclusione prima del dovuto? Vuoi lasciarmi con i denti stretti sullo stipite, giusti giusto prima delle spine?
Con il tempo ho fatto pace con gli enigmi, con la scelta di tenerci parzialmente in ombra, giusto per non rendersi totalmente visibili dall’esterno, ho fatto pace con i via vai del tuo viso schiacciato, io te l’ho detto, non sono qui per aspettare un treno, una corsa, un genitore, un amante, sono qui per rendere noto a me stesso che posso andare via quando voglio. Io sono qui, solo, parzialmente, come avrei dovuto essere qui dall’inizio. Tu con la bocca asciutta che mi chiedi dell’acqua, io che so di volertela seccare per una sola supplica. Io l’ho imparato da te. Mi hai insegnato a fidarmi di quello che dico a me stesso, di deporre le mie armi, questa è solo una città, mica una guerra. Mi hai insegnato a non illudermi, la mia parola vale più di mille bugie, la mia voce non è stata resa tale per rimanere zitto. Mi hai insegnato che una supplica è qualcosa che appartiene ai devoti e la richiesta di supplizio tale deriva solo dai sadici. E allora io ti vorrei dire che odio il fatto di essere sadico con te. Perché tu sei andato avanti, hai amato, hai fatto pace, hai congiunto le mani. Perché tu non hai più paura di dirmi che hai paura che l'amore svanisca, che hai paura che torni una luce violenta, che sai, in cuor tuo, che io potrei smettere di aspettare e salire sul primo treno. Mi dispiace di averti dato la certezza di poterlo fare, mi dispiace non aver atteso, ma l’ho fatto per me, in quel momento era importante per la mia bocca continuare a parlare la lingua dell’odio. Non è stato il tuo viso che ho cercato per anni tra gli spazi delle mie dita, era la tua smania da creatura affamata, i tuoi canini ben esposti, mi aspettavo che tu me li mostrassi come quelli della mia stessa specie. Ma non avevo capito che non era un fattore di predomini. Tu sei sempre stato un cerbiatto, hai perso tempo nell’abbeverarti nello stesso stagno,aspettavi la primavera dopo il disgelo, ma non è più arrivata, tu eri un cervo, sembravi così potente dall’esterno, nell’attendere un nuovo posto dove procurarti sostentamento. Sembravi così attento. Io ero così feroce, così feroce, ho trascinato il tuo ricordo come una carcassa lungo la montagna, volevo mi parlassi di amore e di lotta e di bambini che hanno fame, volevo che mi torcessi nella mia stessa realtà ma sei rimasto a guardarmi, perchè sapevi già cosa chiedevo. Sapevi già che la mia era una natura di supplica, sapevi che il mio mento era fatto per incastrarsi ovunque, in qualsiasi roccia, pur di ricevere una carezza, seppur rude, seppur gelida. Sapevi già che non mi avresti fatto cambiare idea, parentesi su ruscelli dove mi avresti accompagnato a risanarmi, perciò sei rimasto in silenzio e hai tracciato linee per il prossimo enigma. Ma io, come ho detto, ci ho fatto pace. Probabilmente se ci visualizzassi ancora come due creature, ci proiettassi all’interno della loro realtà, finirei per dimenticarmi che la tua testa è finita a decorare il soggiorno di una famiglia di cacciatori e il mio corpo è stato sacrificato nel nome della purezza di uno Stato. Le nostre nature di amore e lotta messe da parte per fini superiori, per qualcosa che né io né te possiamo controllare che c'entra con il resto. Ci siamo tormentati così a lungo da dimenticare che non siamo noi il fulcro della conversazione. E' qualcosa che prescinde dalla nostra natura attuale, è qualcosa che parla sicuramente del modo in cui ci hanno cresciuti. Da ognuna di queste parti è nata la cancrena, il nostro modo cieco di accorgerci di essere al buio da sempre. E’ così che ci siamo adattati.
Questo è il punto, questa è la fine, sapere che io e te abbiamo perso tempo, abbiamo divagato lungo la strada di casa, abbiamo parlato molto, abbiamo anche parlato pochissimo, a tratti siamo rimasti in silenzio ad attendere, ma così facendo abbiamo sbagliato strada decine di volte e il percorso si è allungato sempre più. Questo è il punto, questa è la fine, ti ho detto che avevo paura che il sole mi sbiancasse le ossa, odiavo l’estate, passavo ore sotto la veranda a leggere, ero abbastanza codardo da sembrare schivo, ma ero solo impaurito, come lo sono sempre stato. Ora mi piace averti intorno, anche se questo spesso interrompe il racconto, mi piace molto toccarti le braccia senza combinare metafore di vergogna, averti in un punto dove non ti avrei immaginato. I miei e i tuoi occhiali da vista disposti vicini sul comodino. Tu che mi dici che ora posso aprire gli occhi, ha smesso di essere un mistero tempo fa. Proiezioni personali, residui, nessuna leggenda, nessun eroe, nessun racconto epico. Siamo io e te, vicini come i nostri occhi, e le luci sono così tanto sfuocate quando si impara a vedere.
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macabr00blog · 3 months
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( un’idea che è diventata un intero manoscritto )
SOYBOY, 11:12: I had a dream.
BIBI, 11:12: I want to know more.
SOYBOY, 11:12: We're there, inside a house, but it's not my house, not entirely at least. There are still the furniture from my house but it has a different layout, sort of. Anyway, we're there inside the house (I assume it's our house) and we call it the realm. My mother keeps calling me repeatedly and asking me to leave because she feels like there will be a fire outbreak, and I tell her she's paranoid and she needs to stop nagging (lol) and then I don't know, you turn towards me and tell me that this realm where we've come together over the years has never been seen by anyone and so we could separate in a few minutes without any effort, and then you vanish into nothingness, and the dream ends.
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macabr00blog · 3 months
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(da una vecchia traduzione del mio primo manoscritto, frammenti)
(…) For a few days, Sebastiano and I built an untouchable universe, atop a land of clothes and red orange juice. I remember myself wearing his mother's miniskirt. Him in his jeans. The two of us on the couch after longing for each other for hours, and the sweetness that was there, warm like a sunbeam. I remember the music, Cherry Blossom Girl, that Sebastiano knew by heart and sang to me. I remember dancing on the bed, with half-closed eyes, imagining swans on the sheets, Prèvert's words impressed on the walls, on the pillows, and then the naturalness of kisses. Watching the King Kong movie, imagining ourselves with him on the Empire State Building. We squeezed between his paws and instead of planes, the stars. Smoking cigarettes talking about impossible trips, about an apartment to live together. Maybe tiny, but far from things, far from everyone, far from the world, suspended among the clouds. We fantasized among kisses, sitting on the windowsill with our legs dangling in the void.
(…) We travel to a service area to refuel. There's no one there, just the desert, only a lamppost light accompanying our eyes. We set off again, after not saying anything. I remember patches of time, Sebastiano handing me a joint and me smoking it, ashes falling onto the floorboards. I remember loud music, the Muse. "Love is our resistance. They'll keep us apart, and they won't stop breaking us down." I remember Sebastiano yelling to open the window. I remember my hair tousled by sweaty hands, me drawing a fluorescent star on my shoes with a Uni Posca pen.
(…) Who are we? Kids inside a flying house, you're a man, I'm still a little one, but who knows, when it falls, maybe it will be evil that dies. After all, we don't even know why we're doing what we're doing, do we? Or do we? There's a hurricane everywhere. We can't see anything. But what do we win if we stop, you and me? Do we stop kissing, stop smoking, stop running away? A return to the days before, a one-way ticket, a hotel room? Was it beautiful when Nicòlas collapsed on a bench? Sebastiano cutting his arms? Were families beautiful? The two of us are forty-seven years old, all cut up. So it's better to stay here, take the run-up, spreading our wings. In such a sweet way, so sweet. You're Milan, smells like honey. The concrete like the mirror of my room. We reflected like animals up there, wounded and untouchable.
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macabr00blog · 3 months
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[THE BOWL]
Minotaur, labyrinth. Straight and cunning, of magpie and swift foot, a flexible cannula, a snippet of straw, the insensitive man. He doesn't speak. He sits on this creaky, red wicker chair. He's in front of me. There's a bowl at the entrance, red, round, of medium depth, and he sinks his canine into it, sinks his muzzle. A bowl, red, red against freshly repainted white walls. It's filled with boredom, work, nonsense handed down by rascally mobsters. He scares me. Terror darkens my face and blinds me. Minotaur, labyrinth, speaks like an intellectual bourgeois and is a cunning galloper, dodging in his deadly race what he lacks, what he lacks on the roll call. It's a prison, the house, yet it remains white. White and with bright, reflective windows. It's my house and he sits across from me. Minotaur, labyrinth. That madman from the top floor, he screamed everything he had in the cellar and now he dangles, dangles, and dangles. He used to be a nice lad, facing things fearlessly, but for some time now he hasn't been himself, they had possessed him. The media, the riffraff, his father's mafia has eaten him up too. He lights a cigarette. It turned him into a specter of smoke, a chimney with legs, straight and cunning. Yet he scares me, with that black fear like injections. It's a jubilation of gargles, strong mint that freezes the tonsils and then mouthfuls of very fresh air that seem like snow bullets in the mouth, all after sessions of alcoholic jets. He sits in my house, I haven't seen him for months. He has a pirate smile and looks at me like one looks at withered flowers, with that sorry yet indifferent look. The road of life is stony, of simple suburb, of the first neighborhoods, I think. I think and I look at him, disdainful. He goes out on Saturday night and doesn't get confused. Metal against thighs, rough fabric of gym suit and continuous noise phrases in pierced ears. A gesture, a sign of fingers, Adam and God, God and the aniconism he carries with him; stupid intellectuals, stupid old drooling men who don't know shit about how the world turns. Only the first man, almighty over God, capable of temptation and evil. Picky and fearless, who goes down the stairs hopping on himself with one foot only, a bit lame and a bit buffoon. I sleep little at night and then I sleep whole days. He doesn't know, he looks at me and doesn't ask me anything. There's no pause in his looking at me. He lights another cigarette. Minotaur, labyrinth. A gravel path leading to the house in the countryside, and then another flaming and rural one leading to his house. He's slimmed down, he's thin, minute, thin like I've never seen him. Sunken cheeks, dirty hair falling in rain on his sweaty forehead. He has a terrible smell. Putrid, sewer-like. I recoil. But his gaze is what scares me. The sunken eyes dug between blood and dirt on his face, shiny, insensitive. Eyebrows almost furrowed, sorrowful. He doesn't speak, just smokes. One cigarette after another. One, two, three. The minutes are endless. I stop counting the cigarettes at some point. He sits in my house, but doesn't say a word.
He's my father. Typical of my father.
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