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#Moe Ferrara
queershipblog · 7 years
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Queeries: What does literary agent Moe Ferrara look for queer SFF?
Picture this: after hours upon hours of work, sweat, and way too much coffee, you’ve written the manuscript of your dreams. You’ve done your research, and now you’re ready to take the next step.
For many writers, the next step means looking for a literary agent to champion their work to editors in publishing houses. Connecting with agents means browsing submission pages and then crafting a query letter: a 200-300 word, 2-3 paragraph email meant to hook the interest of your future agent.
Distilling your novel into an intriguing query is tricky at the best of times and baffling at the worst. In order to help you demystify the agenting game, Queership hosts a monthly interview with an agent accepting queer speculative fiction.
Our Queeries series continues with Moe Ferrara of Book Ends Literary, here to talk about what she's looking for in her inbox.
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sportpeople · 7 years
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1968-2017. “È una vita che ti aspetto” recita un bandierone che sventola nel momento della festa spallina al Libero Liberati di Terni. A Ferrara la Serie A molti non l’hanno più vista; altri erano troppo piccoli per ricordarsela; alcuni sono stati sfortunati nel nascere dopo e andarsene prima. Non è poi così scontato nascere nella giusta epoca e assaggiare a piene mani il nettare di qualche istante di gloria.
La SPAL torna nel massimo campionato italiano e insieme fa riemergere con intensità ricordi perduti e poi ritrovati. Qualcuno ha riscoperto la fede (quella calcistica); c’è chi rievoca nomi mitici come Massei e Dell’Omodarme. Come sempre, il carro dei vincitori è troppo largo e in troppi vogliono salirvici.
Eppure io mi ricordo i 30 spallini presenti ad Arezzo nel campionato di Serie C1, in un pomeriggio freddo e plumbeo. Era il campionato 1998/99, se non erro. Unica occasione in cui ho avuto modo di vedere la tifoseria estense.
Partite come questo Ternana-Spal possono evocare dei frame al rallentatore in grado di ripercorrere, nonostante il fermo immagine, un’intera esistenza.
Il tema del ritorno a distanza di tanti, troppi anni è centrale in alcuni dei film più belli nella storia del cinema. Il mio ritorno al Liberati dopo quasi esattamente 10 anni di assenza, a bordo di una improbabile Matiz a GPL, non ha nulla a che vedere la New York di De Niro in “C’era una volta in America” o con la Sicilia di Jacques Perrin in “Nuovo Cinema Paradiso”.
Era il 28 Marzo 2007. Di Mercoledì. Ternana-Salernitana fu l’ultima partita professionistica italiana prima del Decreto Amato. Prima dei tornelli, dei biglietti nominativi, di tamburi e megafoni vietati, di striscioni autorizzati. Ero là, in campo. Un giorno simbolico, un’occasione mancata per le tifoserie dato il silenzio della curva ternana e l’assenza dei gruppi salernitani.
I chilometri scorrono sulla mitica E45, una delle strade extraregionali più percorse durante la mia vita. I suggestivi borghi come San Liberato e Nera Montoro accompagnano verso Terni me e i cinque pullman di tifosi ferraresi che sorpasso. Scortati da una volante in borghese con lampeggiante in evidenza.
Mio padre apparteneva a quella categoria di genitori che non riescono ad esprimere il loro affetto ai figli con le parole o con un abbraccio. Una persona introversa, come lo sono io oggi, ma che comunicava i suoi sentimenti in altre maniere.
È nato in provincia di Terni, quando mio nonno era medico condotto in quelle zone. Prima che la famiglia rientrasse a Roma, ebbe il modo di passare in Umbria una buona parte della sua giovinezza. Da lì la sua simpatia per la Ternana, rimasta intatta per tutta la vita.
Il suo unico figlio, casinaro, ribelle ed esaltato, viveva di calcio e, soprattutto di ultras. Recalcitrante, mi comprò i primi Supertifo, sviluppò i miei primi rullini di fototifo, sopportava le mie prime trasferte pregne di preoccupazioni. Però, vedendo la mia passione, seppe trovare un punto di contatto intergenerazionale, la sua maniera di dirmi “Ti voglio bene”. Mi portò al Liberati. Invece di reprimere la mia passione la assecondò. Di questo gli sarò sempre grato.
La mia prima partita con le Fere fu un Ternana-Treviso di Serie C2, in Curva Nord, stagione 1994/95. Rimasi folgorato dalla trentina di instancabili trevigiani ma, soprattutto, dall’entusiasmo di una Curva Est in grande spolvero: entrambe le squadre erano neopromosse dopo un duro periodo di dilettantismo.
Non diventai un habitué del Liberati, ma le presenze in rossoverde si moltiplicarono. Con la mia prima reflex, un’ottima Pentax MX, ci cominciammo a posizionare in tribuna; alcune partite, come Ternana-Livorno o Ternana-Pisa erano veramente delle sfide epiche. Eppure una delle partite più rimastemi nel cuore fu un Ternana-Fano con un freddo che ci faceva battere denti e piedi, ma quella fitta torciata dei Panthers Fano valeva (sicuramente per me, meno per lui) il sacrificio.
In quei 4 anni di condivisione familiare, nonostante alcune presenze persino in trasferta, la scintilla tra me e le Fere non scoccò mai: mi piaceva l’ambiente, mi piaceva soprattutto scattare foto alle tifoserie, ma non diventai mai tifoso, nonostante un’ovvia simpatia.
Come è successo a me, il calcio, al di là delle sue logiche e dei suoi tanti difetti, è spesso un ponte emotivo ed emozionale tra un padre e un figlio.
In nome di tutto questo, nonostante la partita importantissima per le due squadre, Ternana-Spal di oggi ha per me un’accezione decisamente superiore al valore della posta in palio agonistica. In questa bellissima giornata ci sono ricordi, sentimenti, radici, appartenenza.
In tutto questo intimissimo flusso di coscienza, penso di avere, in questa giornata, molto da condividere col tifoso spallino. Col nonno che ha portato il nipotino al Mazza ad assistere ad un anonimo Spal-Forcoli Valdera di Serie D; col bambino di decenni fa che oggi riscopre la sua passione cancellando rughe e i capelli bianchi dalla proiezione interiore di sé stesso; col tifoso della mia generazione che ha sempre seguito la SPAL in categorie infime senza mai pensare che, presto o tardi, avrebbe visto la propria squadra proiettata nell’Olimpo delle grandi.
Le squadre provinciali, in tutta la loro essenza, penso siano il valore aggiunto in questo calcio senza più identità né passato. È grazie ad una SPAL, ad una Ternana o ad un Frosinone (solo per citarne alcune) che quel legame inscindibile, quasi sacro direi, tra il territorio e il rito sociale della partita riesce ancora a resistere.
L’incontro di oggi è una dimostrazione lampante di tutto ciò: da Ferrara, dopo la delusione del pareggio casalingo a reti bianche contro la Pro Vercelli, 1.900 tifosi (dati ufficiali alla mano) giungono in bassa Umbria per dire “Io c’ero”. Certo, la promozione non è ancora matematica, ma, come dimostrerà il corso degli eventi, avere tre risultati su tre a disposizione infonde un certo ottimismo.
Dalla parte opposta, anche l’ambiente rossoverde è carico a mille: dopo aver convissuto per quasi tutto il campionato con la quasi certezza di una retrocessione diretta, la resurrezione nelle ultime giornate delle Fere, grazie anche alle scelte del neotecnico Liverani, ha riportato in massa i tifosi allo stadio.
La società di via Aleardi, contestata a gran voce da tutto l’ambiente, cerca di ricucire lo strappo offrendo i biglietti di tutti i settori al prezzo simbolico di 1 Euro. La risposta della città non si fa attendere e la presenza complessiva, tifosi ospiti inclusi, si attesta sui 10.000 spettatori.
De Niro – Noodles – inizia a rivedere il suo passato da una fessura dei bagni del Fat Moe’s. Il mio revival inizia in modo meno romantico e più lontano da quel vialone dove prima si parcheggiava in serie e dove io e mio padre lasciavamo la nostra vettura. Ora è ovviamente blindato e chiuso al traffico in nome della sicurezza. Pertanto, al primo parcheggio disponibile, peraltro accanto a quello destinato ai primi tifosi ospiti, lascio l’auto e mi incammino.
Invece di rivedermi il Bronx degli anni ’30 con gli occhi del genio di Sergio Leone, forse vedo qualcosa di ancora più avvilente: mezzi blindati e divise ad ogni angolo; le scalinate che portavano direttamente agli ingressi dei settori recintate e fortificate per permettere il prefiltraggio.
L’incontro, dopo tanti anni, con Marco – altra colonna di Sport People – avviene proprio in bilico tra lo slancio nostalgico e i primi sintomi di depressione post-contatto con la realtà. Le prime birre in un caldo quasi estivo danno il giusto sapore ai ricordi, singoli o condivisi, e aiutano ad alleggerire il presente. È giusto che ci sia lui, oggi, con me, avendo un po’ partecipato anche lui alle vicende di cui ho parlato innanzi.
In realtà il tempo si dilata nella percezione e si accorcia nella realtà, e ci rendiamo conto di quanto sia tardi solamente quando vediamo la gente intorno a noi diradarsi. Rischiamo seriamente di perderci l’inizio di partita, ed entriamo appena in tempo per vedere spiegato il bandierone copricurva della Est con una fera incazzata come soggetto principale, seguito, poco dopo, da un altro copricurva più piccolo.
Lo spettacolo (e la parola non è usata tanto per dire) negli altri due settori caldi dello stadio, la Nord Rossoverde e la Ovest degli ospiti, inizia subito dopo. In Curva Nord lo spicchio ultras agita delle bandierine rosse e verdi e innalza lo striscione “Noi volemo 11 fere!”, mentre, più in alto, i club fanno calare un mega-drappo con un messaggio d’amore: “…quei colori magici più belli non ce n’è”.
Gli spallini non fanno nessuna coreografia perché la coreografia sono loro con le sciarpe alzate a centinaia, così come decine e decine sono le bandiere alzate, i bandieroni, gli stendardi a due aste. Qualsiasi soggetto venga immortalato dall’obiettivo diventa una piccola opera d’arte: l’amore di un popolo, i colori della festa, il sentire collettivo diventano un’installazione artistica open-air in cui ognuno è un performer per sé stesso e gli altri. Insomma, è vero che con la Serie A ad un passo è tutto più facile, ma è altrettanto vero che tanta passione non nasce né per caso e né per gioco. È, semplicemente.
La partita del tifo vive di animi distinti rispetto a quella del campo. Gli spallini, indipendentemente dal punteggio favorevole o sfavorevole, fanno un tifo perfetto e coordinato. Si badi bene, non è assolutamente scontato trascinare un settore così numeroso. Anzi, il più delle volte, gli esodi di massa offrono una qualità di tifo decisamente inferiore rispetto ad altre partite in cui il in numero è sì ristretto ma compatto, motivato e deciso. Poche volte ho visto una sinergia così alta tra il tifoso occasionale, quello di tribuna e gli ultras della curva. L’unione è la forza di una tifoseria, come ripeto sempre da un po’ di tempo a questa parte.
La Curva Est è, mi rincresce un po’ dirlo, l’ombra sbiadita di ciò che fu fino a qualche tempo fa. Non tantissimi gli effettivi, un tifo buono e continuo solo nella prima parte del primo tempo, una sciarpata poco fitta e poco più. Certo, questo settore è un pezzo indiscutibile e primario della storia del tifo ternano, ma c’è da chiedersi come mai gli equilibri si siano spostati così fortemente negli ultimi anni.
Curva Nord, negli anni’90, per me voleva dire Nord Kaos, Pionieri Rossoverdi e altre sigle, talvolta divertenti. L’elemento politico (il settore era controcorrentemente più schierato a destra) ha giocato un ruolo fondamentale nel fallimento di quel progetto comunque non privo di un certo coraggio.
Oggi la Curva Nord, per numeri e continuità, è l’uomo in più della Ternana. Nuove leve, nostalgici ed elementi attivi convinti di un nuovo modo di vedere e vivere il tifo stanno raccogliendo i loro frutti. Oggi vedo per la prima volta all’opera questo gruppo, e ammetto la positività della mia impressione.
Il tifo rossoverde accanto alla San Martino (dove per anni hanno trovato posto gli ospiti), coreografia a parte, ha subito ingranato la quinta trascinandosi dietro l’entusiasmo ritrovato della propria gente. L’unica parte in cui ho registrato un po’ di calo è stato verso la fine del primo tempo, ma per il resto, nonostante la lontananza tra la nostra tribuna e il settore, il sostegno offerto mi è sembrato veramente buono.
Alla fine ha vinto la squadra con più bisogno di punti, ovvero la Ternana. È successo tutto nel primo tempo. Passa in vantaggio la Spal dopo 12 minuti con Antenucci, ma 6 e 21 minuti dopo Pettinari firma pareggio e sorpasso per i padroni di casa. Tra una foto e l’altra noi facciamo fatica a renderci conto dello scorrere del cronometro. L’antitecnologia di entrambi non ci permette di sapere in tempo reale gli altri risultati in ottica promozione e salvezza. Al termine della prima frazione è un simpatico tifoso umbro a metterci al corrente della situazione, favorevole ad entrambe le contendenti.
Nella ripresa gli occhi sono più puntati sulle tifoserie anziché sul campo. Ma, col passare dei minuti, alcuni punteggi maturati nelle altre partite creano un incredibile clima di euforia generale, accentuatosi col passare dei minuti. Non ci servono connessioni wi-fi per sapere che la Spal sta andando in Serie A e che la Ternana ha notevolmente aumentato le sue quotazioni in chiave salvezza.
Trapani-Cesena 1-2 e Cittadella-Vicenza da una parte, Benevento-Frosinone 2-1 dall’altra portano una carica di gioia ed ottimismo intonsa di decibel e braccia alzate in segno di trionfo.
A fine partita, mentre la Est saluta Rambo e invita tutti ad Ascoli per l’ultimo sforzo per la permanenza nella categoria, la Curva Ovest diventa il centro del calcio italiano. I festeggiamenti sotto il settore ospiti di squadra e dirigenti iniziano immediatamente dopo il triplice fischio e continuano per una mezzora abbondante. C’è chi si abbraccia, chi si commuove, chi ride, chi non ci crede ancora. Ogni scatto di numerosi fotografi diventa una cartolina da tramandare ai posteri.
Il calcio ha ancora il potere di generare emozioni e di farti credere, di tanto in tanto, che la vita è veramente bella. La forza di questo sport – il motivo per il quale forse è ancora popolare – è la magia di quei pochi istanti in grado di cancellare disillusioni e delusioni.
Io e Marco ci intratteniamo fino all’ultimo a scattare. Poi si continuerà a parlare e a viaggiare in nome di tanti ricordi.
Testo di Stefano Severi. Foto di Stefano Severi e Marco Barcarotti.
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Ternana-Spal 13.05.2017
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Galleria Barcarotti:
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Ternana-Spal: Da padre a figlio 1968-2017. “È una vita che ti aspetto” recita un bandierone che sventola nel momento della festa spallina al…
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nianekochan · 7 years
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dorcasrempel · 5 years
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System helps smart devices find their position
A new system developed by researchers at MIT and elsewhere helps networks of smart devices cooperate to find their positions in environments where GPS usually fails.
Today, the “internet of things” concept is fairly well-known: Billions of interconnected sensors around the world — embedded in everyday objects, equipment, and vehicles, or worn by humans or animals — collect and share data for a range of applications.
An emerging concept, the “localization of things,” enables those devices to sense and communicate their position. This capability could be helpful in supply chain monitoring, autonomous navigation, highly connected smart cities, and even forming a real-time “living map” of the world. Experts project that the localization-of-things market will grow to $128 billion by 2027.
The concept hinges on precise localization techniques. Traditional methods leverage GPS satellites or wireless signals shared between devices to establish their relative distances and positions from each other. But there’s a snag: Accuracy suffers greatly in places with reflective surfaces, obstructions, or other interfering signals, such as inside buildings, in underground tunnels, or in “urban canyons” where tall buildings flank both sides of a street.
Researchers from MIT, the University of Ferrara, the Basque Center of Applied Mathematics (BCAM), and the University of Southern California have developed a system that captures location information even in these noisy, GPS-denied areas. A paper describing the system appears in the Proceedings of the IEEE.
When devices in a network, called “nodes,” communicate wirelessly in a signal-obstructing, or “harsh,” environment, the system fuses various types of positional information from dodgy wireless signals exchanged between the nodes, as well as digital maps and inertial data. In doing so, each node considers information associated with all possible locations — called “soft information” — in relation to those of all other nodes. The system leverages machine-learning techniques and techniques that reduce the dimensions of processed data to determine possible positions from measurements and contextual data. Using that information, it then pinpoints the node’s position.
In simulations of harsh scenarios, the system operates significantly better than traditional methods. Notably, it consistently performed near the theoretical limit for localization accuracy. Moreover, as the wireless environment got increasingly worse, traditional systems’ accuracy dipped dramatically while the new soft information-based system held steady.
“When the tough gets tougher, our system keeps localization accurate,” says Moe Win, a professor in the Department of Aeronautics and Astronautics and the Laboratory for Information and Decision Systems (LIDS), and head of the Wireless Information and Network Sciences Laboratory. “In harsh wireless environments, you have reflections and echoes that make it far more difficult to get accurate location information. Places like the Stata Center [on the MIT campus] are particularly challenging, because there are surfaces reflecting signals everywhere. Our soft information method is particularly robust in such harsh wireless environments.”
Joining Win on the paper are: Andrea Conti of the University of Ferrara; Santiago Mazuelas of BCAM; Stefania Bartoletti of the University of Ferrara; and William C. Lindsey of the University of Southern California.
Capturing “soft information”
In network localization, nodes are generally referred to as anchors or agents. Anchors are nodes with known positions, such as GPS satellites or wireless base stations. Agents are nodes that have unknown positions — such as autonomous cars, smartphones, or wearables.
To localize, agents can use anchors as reference points, or they can share information with other agents to orient themselves. That involves transmitting wireless signals, which arrive at the receiver carrying positional information. The power, angle, and time-of-arrival of the received waveform, for instance, correlate to the distance and orientation between nodes.
Traditional localization methods extract one feature of the signal to estimate a single value for, say, the distance or angle between two nodes. Localization accuracy relies entirely on the accuracy of those inflexible (or “hard”) values, and accuracy has been shown to decrease drastically as environments get harsher.
Say a node transmits a signal to another node that’s 10 meters away in a building with many reflective surfaces. The signal may bounce around and reach the receiving node at a time corresponding to 13 meters away. Traditional methods would likely assign that incorrect distance as a value.
For the new work, the researchers decided to try using soft information for localization. The method leverages many signal features and contextual information to create a probability distribution of all possible distances, angles, and other metrics. “It’s called ‘soft information’ because we don’t make any hard choices about the values,” Conti says.
The system takes many sample measurements of signal features, including its power, angle, and time of flight. Contextual data come from external sources, such as digital maps and models that capture and predict how the node moves.
Back to the previous example: Based on the initial measurement of the signal’s time of arrival, the system still assigns a high probability that the nodes are 13 meters apart. But it assigns a small possibility that they’re 10 meters apart, based on some delay or power loss of the signal. As the system fuses all other information from surrounding nodes, it updates the likelihood for each possible value. For instance, it could ping a map and see that the room’s layout shows it’s highly unlikely both nodes are 13 meters apart. Combining all the updated information, it decides the node is far more likely to be in the position that is 10 meters away.
“In the end, keeping that low-probability value matters,” Win says. “Instead of giving a definite value, I’m telling you I’m really confident that you’re 13 meters away, but there’s a smaller possibility you’re also closer. This gives additional information that benefits significantly in determining the positions of the nodes.”
Reducing complexity
Extracting many features from signals, however, leads to data with large dimensions that can be too complex and inefficient for the system. To improve efficiency, the researchers reduced all signal data into a reduced-dimension and easily computable space.
To do so, they identified aspects of the received waveforms that are the most and least useful for pinpointing location based on “principal component analysis,” a technique that keeps the most useful aspects in multidimensional datasets and discards the rest, creating a dataset with reduced dimensions. If received waveforms contain 100 sample measurements each, the technique might reduce that number to, say, eight.
A final innovation was using machine-learning techniques to learn a statistical model describing possible positions from measurements and contextual data. That model runs in the background to measure how that signal-bouncing may affect measurements, helping to further refine the system’s accuracy.
The researchers are now designing ways to use less computation power to work with resource-strapped nodes that can’t transmit or compute all necessary information. They’re also working on bringing the system to “device-free” localization, where some of the nodes can’t or won’t share information. This will use information about how the signals are backscattered off these nodes, so other nodes know they exist and where they are located.
System helps smart devices find their position syndicated from https://osmowaterfilters.blogspot.com/
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