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#Fotografie di Alberto Benedetti
iannozzigiuseppe · 5 months
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MOCK MOONS. Poesie e fotografie sulla luna bugiarda. Poesie di Massimo Grasso, fotografie di Alberto Benedetti - Fefè Editore
MOCK MOONS Poesie e fotografie sulla luna bugiarda Poesie di Massimo GrassoFotografie di Alberto Benedetti Prefazione di Paolo Camarri,  postfazione di Lucio Saviani Fefè Editore IL LIBRO DA TAVOLO porta le mock moons nella nostra vita quotidiana. Il primo libro da tavolo a spirale stand-up un libro-oggetto • un oggetto-libro un libro-oggetto-regalo poesia + fotografia + scienza. Le “mock moons”…
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fotopadova · 3 years
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Bella e senz’anima una città da salvare – La mia Venezia
di Gianni Berengo Gardin (testo raccolto da Andrea Plebe) dal settimanale Specchio
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                 Traghetto di Punta della Dogana, Venezia 1960 © Gianni Berengo Gardin/Contrasto
(Si tratta di una scena molto veneziana, un servizio di traghetto da Punta della Dogana a San Marco, che ora non esiste più. Ci sono due vogatori che frenano, che stanno fermando la gondola, e una serie di personaggi dell’epoca, in piedi e seduti, che mi affascinavano molto.)
 Mi sono sempre sentito veneziano anche se purtroppo la città di oggi non appartiene più ai veneziani e, quando mi capita di tornarci, cosa che avviene comunque abbastanza spesso, sento una stretta al cuore.
A Venezia ho dedicato otto libri fotografici: il primo, “Venise des saisons” realizzato in poche settimane e pubblicato nel 1965 con testi di Giorgio Bassani e Mario Soldati, è stato molto importante per me, una tappa fondamentale nella mia carriera di fotografo. In quelle fotografie ho raccontato la Venezia di tutti i giorni, e poi Burano, Murano, Torcello: Venezia dei veneziani, con l’acqua alta, la pioggia e la neve, con le sue cerimonie e i bambini che giocano. Oggi sarebbe impensabile fotografarla così, forse soltanto durante la stagione morta, quando i turisti si diradano, oppure durante questa pandemia, quando è apparsa anche troppo deserta.
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                         Neve in Piazza San Marco, Venezia 1960 © Gianni Berengo Gardin/Contrasto
(Questa fotografia è stata scattata dal Museo Correr, che ero andato a visitare. Era nevicato, e sul bianco della neve i colombi risaltavano di più. Volevo fotografare Piazza San Marco e la visita al Museo era in realtà una scusa per potermi affacciare dalla finestra. Poi ho avuto il colpo di fortuna della ragazza che è passata nella piazza, correndo, e ho scattato.)
Quando ero bambino, ricordo interminabili partite a calcio nella piazzetta dei Leoni, a fianco della Basilica di San Marco, che è chiusa su tre lati e quindi perfetta per il gioco: oggi non si possono più fare, occupata com’è dal turismo di massa. Non sappiamo quando l’emergenza sanitaria finirà, ma credo che dopo, gradualmente, torneremo alle abitudini che siamo stati costretti ad abbandonare nell’ultimo anno.
Dico sempre che sono nato per caso a Santa Margherita Ligure, perché è lì che mio padre Alberto, venezianissimo, incontrò mia madre Carmen, svizzera, che dirigeva l’Hotel Imperiale, un grande albergo di lusso. Lui era un vogatore della Canottieri Bucintoro ed era venuto in Liguria per partecipare a una gara: conobbe mia madre in albergo e scoccò il colpo di fulmine.
A Venezia, alla Giudecca, i miei nonni avevano una tintoria di pellame, poi hanno aperto un negozio di perle e di vetri di Murano, gestito da due delle sorelle di mio padre, Olga e Lina. I nonni abitavano dietro la bottega e la casa aveva un’altana, un terrazzino in legno, affacciato su San Marco, sul quale giocavo.
A Venezia ho passato le estati tra il 1939 e il 1941, andando a fare i bagni al Lido, e poi ci sono tornato a vivere con i miei genitori, nel Dopoguerra: lì ho frequentato il liceo scientifico Benedetti, in Fondamenta Santa Giustina a Castello, e soprattutto il Cinema Pasinetti e il Circolo Fotografico La Gondola, dove ho fatto tante conoscenze importanti.
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                                   Acqua alta a San Marco, 1960 © Gianni Berengo Gardin/Contrasto
(Questa fotografia della piazza l’ho scattata dall’alto, dalla Basilica di San Marco. Mi ero sistemato in mezzo ai cavalli. Ci ero salito apposta, perché immaginavo che con l’acqua alta si sarebbero potute verificare delle situazioni interessanti. Così quando ho visto quelle due persone, da sole, camminare nella piazza, è nato quello scatto.)
 Abbiamo abitato in Campo della Guerra, dietro la chiesa di San Zulian, fino a quando mi sono sposato e sono andato a vivere con Caterina al Lido, dove ho abitato fino al 1965 prima del trasferimento a Milano.
Per un certo periodo, prima di dedicarmi completamente alla fotografia, ho lavorato anch’io nel negozio di famiglia: il nome era scritto sull’insegna, a mosaico. Il mosaico è rimasto ma il nome non c’è più: al posto della bottega c’è un bar. Allora c’erano tre negozi di quel genere in tutta Venezia, mentre oggi sono migliaia; il nostro aveva goduto una certa notorietà, anche perché lo scrittore inglese Frederick Rolfe, più noto come Baron Corvo, aveva scritto in un suo libro che lì si trovavano le perline più belle di Venezia. La casa dei nonni, invece, con il tempo è diventata un albergo.
A Venezia non ho più parenti, ma per fortuna ho ancora amici e, quando mi è capitato di tornarci per realizzare il libro “La più gioconda veduta del mondo. Venezia dalla finestra” sono stato ospite di Renato Padoan, per vent’anni Sovraintendente ai Monumenti di Venezia, all’ultimo piano di Palazzo Erizzo Bollani sul Canal Grande. Lì aveva abitato nella prima metà del Cinquecento Pietro Aretino, che così aveva raccontato ciò che vedeva, la Pescheria, il Ponte di Rialto che allora era di legno, il Fondego dei Tedeschi.
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Venezia, il Lido,coppia, 1959 © Gianni Berengo Gardin/Contrasto
(Era una domenica piovosa, molto brutta. Mi è capitato di incontrare questa coppia di sposi, lui in bici, lei con il bambino sul passeggino accanto. Lui e lei sono separati, ciascuno guarda il mare per proprio conto. Mi è sembrato il simbolo di un matrimonio che, con il passare del tempo, non va più bene, anche se magari non era così per quella coppia.)
 Se oggi realizzassi un altro libro su Venezia, dovrei farlo sugli aspetti negativi del turismo di massa, che ha ucciso la città. Negli anni scorsi mi sono già impegnato per documentare l’invasione delle grandi navi e il loro impatto su Venezia. Oggi i negozi sono pieni di oggetti che arrivano dall’altra parte del mondo, di maschere che non sono una tradizione veneziana, di frotte di turisti, scaricati dai pullman, persone che “devono” venire a vedere Venezia, ma che non la amano. Abitavo in una città di 145 mila abitanti, ora sono ridotti a 40 mila e quando si vota difficilmente riescono a ottenere quello che vogliono, perché pesano molto di più i voti degli abitanti della terraferma. I veneziani che hanno una visione diversa non riescono purtroppo ad avere voce in capitolo sulle scelte che li riguardano.
Oggi vivo gran parte del mio tempo a Camogli, in una casa nel verde che guarda il mare e, pur amando ancora molto Venezia, so che non potrei più abitarci.
Però è indubbio il richiamo che la città continua ad esercitare: Venezia è di una bellezza unica e appunto piena di contraddizioni. Nel corso dei secoli ha affascinato scrittori, poeti e pittori, lì ho cominciato a fotografare, tra calli e campielli, spazi brulicanti di vita e angoli nascosti e silenziosi, e non posso sottrarmi al suo potere. Per questo invito chiunque voglia visitarla per prima cosa a rispettarla e a cercare di entrare in sintonia con la sua vera anima, quella che si stenta a vedere dietro la cortina del turismo mordi e fuggi. Venezia va rispettata, curata e amata per poter essere consegnata alle nuove generazioni: non possiamo sottrarre loro una simile bellezza.
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Il maestro del bianco e nero Gianni Berengo Gardin, nato a Santa Margherita Ligure il 10 ottobre 1930, è cresciuto e ha studiato a Venezia, la sua vera città d’origine. Inizia a dedicarsi alla fotografia negli anni ’50 del ‘900. Con i suoi scatti in bianco e nero ha raccontato la società italiana del dopoguerra.
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giancarlonicoli · 4 years
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13 FEB 2020 18:15
GIAMPAOLO PANSA, ONORE AL PIÙ GRANDE CRONISTA - RACCONTAVA QUELLO CHE VEDEVA, IMPLACABILE. FACEVA OPINIONE CON I FATTI. ATTACCARE PANSA OGGI, DA MORTO (TOMASO MONTANARI), È QUASI MARAMALDESCO. NON HA DIFFUSO FAKE NEWS, HA RACCONTATO UNA PARTE DI STORIA D’ITALIA CHE SI VOLEVA OCCULTATA – STRAORDINARIO PEZZO DI MARCO BENEDETTO CHE, ATTRAVERSO LA VITA DI PANSA, RIPERCORRE LE VILTA' E LE IPOCRISIE DI QUESTO DISGRAZIATO PAESE
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Marco Benedetto per Blitzquotidiano.it
A un mese dalla morte di Giampaolo Pansa la polemica che fu molto accesa in quei giorni sembra evaporata, come accade in Italia quasi sempre. Ma non vorrei lasciare ai self appointed tutori della ortodossia laica democratica e anti fascista, come Tomaso Montanari e Paolo Flores d’Arcais, l’ultima parola. Non conosco Montanari, ne leggo articoli interessanti, ne diffido come giusto si faccia con quel mondo di intellettuali, di sinistra come di destra, che ti giudica prima ancora di processarti.
Significativo il fatto che la sua urticante stroncatura professionale morale e politica di Pansa non abbia trovato ospitalità sul Fatto, come di solito accade per le sue denunce ma su Micromega, la rivista che Paolo Flores d’Arcais ha fondato 34 anni fa.
Conosco Flores da quando fondo Micromega, lo stimo e lo ammiro. Lo considero intellettualmente onesto anche nei suoi momenti di faziosità estrema. Ed è una delle rare persone che quando sbagliano lo ammettono, come nel caso dell’innamoramento grillino.
A volte non lo sopportavo, ma gli sono sempre stato vicino con affetto. Credo che anche lui mi ricambi, ancora oggi, nell’oblio obliterante del mio tramonto.
Significativo che l’articolo di Montanari sia stato pubblicato su Micromega: segno di una totale apertura di Flores a tutte le opinioni, di una sua adesione assoluta al l’imperativo categorico della libertà di manifestazione del pensiero come da articolo 21 della Costituzione. Libertà garantita su tutti i mezzi possibili, 50 anni prima che internet fosse di massa.
Forse dipende dallo scarso interesse che provo nella lettura dei giornali, ma non mi pare di avere trovato interventi in difesa di Pansa da parte di chi forse aveva un dovere morale per farlo.
Così ci provo io. Qualche anni fa mi ero procurato le copie di una serie di vecchi articoli di Pansa sulla Stampa. In questi giorni ne ho riletti scavando nell’archivio storico del quotidiano, che affonda la memoria fino al 1867. Vi consiglio l’esperienza. Se l’editore ne facesse un libro, penso che avrebbe un buon successo.
Conoscevo Giampaolo Pansa dal 1972. Lavoravo nella redazione di Genova dell’agenzia Ansa (2 professionisti, 1 “abusivo” e 3 fotografi), punto d’appoggio degli inviati dei grandi giornali del Nord che in quegli anni di grande nera e terrorismo nascente scendevano spesso facendo il percorso inverso di Paolo Conte.
Era morto sul traliccio di Segrate Giangiacomo Feltrinelli. Pansa, che con Piazza Fontana aveva fatto il salto da inviato speciale di provincia a grande reporter di terrorismo e trame nere, piombò a Genova per raccogliere sul terreno gli elementi per i suoi articoli.
Mi chiese di aiutarlo e accompagnarlo, lo feci con entusiasmo e interesse nonché beneficio per i miei resoconti per l’Ansa, con accumulo di punti per la mia tappa successiva a Londra.
Per me, cresciuto in quella angusta provincia, fra Castelletto e piazza De Ferrari, andare a cercare notizie con Pansa,  fra Questura e Procura, avvocati, fu come un master alla Columbia University.
Per un lungo tratto di tempo Pansa (e a un livello un po’ più locale Camillo Arcuri del Giorno), fu un modello per il mio lavoro di cronista anche se impossibile da eguagliare. Mi consolavo pensando che facevo fino a quattro articoli, per Ansa e Stampa ( di cui ero corrispondente locale) nel tempo in cui Pansa stendeva la prima versione del suo, che avrebbe riscritto all’alba del giorno dopo.
Poi capii che non ero così bravo a scrivere come Pansa e anche come tanti altri bravi e bravissimi giornalisti e imboccai un’altra strada che mi portò maggiore fortuna.
Le nostre strade si sono incrociate più volte in questo mezzo secolo.
Decisiva per fare conoscere al pubblico italiano di sinistra la tragedia della Fiat fra sindacalismo estremo all’inglese e terrorismo fu l’intervista a un capetto di Mirafiori che Pansa pubblicò su Repubblica nel 1979.
L’intervista si svolse nel mio ufficio in corso Marconi a Torino. Lasciai intervistatore e intervistato soli, nessuno interruppe, nessuno chiese notizie, nessuno ne seppe nulla fino al mattino dopo. Tanto era il rispetto che portavo per Pansa. Tanta era la fiducia nella sua onestà di cronista.
Quando l’intervista uscì su Repubblica, fu come una bomba anche per i vertici del Pci. Anche se una parte di loro (come il torinese Adalberto Minucci) erano consapevoli della situazione vera della Fiat, e il Pci fosse fra i partiti quello più aperto (torinesi a parte) per i più la conoscenza della vita in fabbrica si arrestava ai muri esterni di Mirafiori.
Pansa, nato socialista ma che ai tempi del Corriere aveva flirtato intensamente con i comunisti, per loro era un profeta. Il suo articolo fu un salutare choc. Seguì un intervento su Rinascita di Giorgio Amendola che diede l’altolà alle ambiguità rispettto all’estremismo sindacale e politico e la sua debolezza verso il terrorismo e per nostra fortuna la storia d’Italia prese un’altra piega.
Quello era Pansa, un grande cronista. Raccontava quello che vedeva, implacabile. Faceva opinione con i fatti. Come opinionista era uno dei tanti e non dei più bravi.
All’opposto c’è un altro grande, Giorgio Bocca. Bocca guardava, capiva, intuitiva, sentenziava e di rado sbagliava. Avevo rapporti affettuosi anche con lui. Mi chiamava col cognome, come a scuola o sotto le armi. Quando Carlo Caracciolo e Eugenio Scalfari vendettero le loro azioni Espresso alla Mondadori all’epoca di Carlo De Benedetti, Bocca mi telefonò per chiedermi cosa ne pensassi (ero all’epoca consigliere delegato del vecchio Espresso) poi sentenziò, mezzo in piemontese (era di Cuneo): “La verità è che a l’an avuto nen i cuillon”.
Ritrovai Pansa a Repubblica negli anni ‘90, prima che passasse all’Espresso di Claudio Rinaldi come vice direttore (aveva collaborato con Rinaldi a Panorama, era poi passato all’Espresso di Giovanni Valentini, sempre come editorialista quando entrambi gli editori dei due settimanali erano azionisti di Repubblica).
Poi a Repubblica arrivò direttore Ezio Mauro, che volle la firma di Pansa come un adulto nato povero vuole cose che l’infanzia gli ha negato. Fu un errore, anche mio, che resi possibile la collaborazione, ma è sempre stata una mia regola assecondare il più possibile i direttori nell’arricchimento del loro giornale.
Per Mauro come per me Pansa è un mito di gioventù. Quando si recava a Torino da Milano dove risiedeva dai tempi della Stampa (fu prima redattore alle cronache provinciali della Stampa, poi inviato speciale del Giorno, poi di nuovo alla Stampa e poi al Corriere della Sera di Piero Ottone, infine a Repubblica), Pansa si appoggiava alla Gazzetta del Popolo dove Mauro faceva i primi passi. Avere Pansa nostro “dipendente” credo fosse per Mauro e per me e per le nostre umili origini come per Guglielmo il Conquistatore diventare re d’Inghilterra.
L’esperienza di Pansa a Repubblica è raccontata con sostanziale aderenza alla verità nel libro “La Repubblica di Barbapapa”. Volevo proporvene ampi stralci ma i giudizi su di me sono troppo lusinghieri perché li possa riportare senza vergogna.
Ormai però Pansa non era più quello degli anni ‘70 e nemmeno Mauro e il rapporto fini come è finito. Come tutti i giornalisti Pansa aveva un sogno. Scrivere editoriali e influire sulla politica. Il modello era Eugenio Scalfari. Vi piacciano o meno l’uomo le sue grandezze e i suoi difetti, i suoi errori e comunque giudichiate gli effetti del suo giornalismo sulla storia d’Italia, su una cosa non vorrei ci fossero esitazioni: che è stato il più grande giornalista della storia d’Italia.
Albertini e Frascati operarono su giornali già affermati, forse il confronto è retto da Alberto Bergamini. Non da Montanelli. Ne fa testo l’eredità. Confrontate il Giornale con Repubblica e quello che c’è attorno. Scalfari nel mestiere è stato tutto: reporter (e che reporter), direttore di Espresso, fondatore e direttore di Repubblica, editore.
Pansa non era Scalfari. Più bravo come scrittore ma la superiorità si ferma lì.
Penso che Pansa il meglio di sé lo abbia dato sulla Stampa di Alberto Ronchey dei primi anni 70. Poi è stato sempre bravissimo ma come Manzoni dopo i Promessi Sposi o Norman Mailer dopo il Nudo è il morto.
Per una serie di ragioni la visione dell’Italia di Pansa si è modificata negli anni, non diversamente da milioni di italiani. Se pensate che nel 1977 i giornalisti della Stampa impedirono l’uscita del loro giornale perché il direttore Giorgio Fattori non volle togliere di pagina la notizia che in cinque righe annunciava un prossimo comizio a Torino dell’ex repubblichino Giorgio Almirante. E che ancora nel ‘93 la candidatura a sindaco di Roma dell’ex fascista e missino Gianfranco Fini faceva urlare di indignazione e rabbia, al limite della crisi di nervi, Scalfari.
Pronti poi tutti a trasformare Fini in un martire di Belfiore quando si ribellò a Berlusconi.
Pansa non ha mai trasformato Fini in un maitre à penser della democrazia post moderna. Non credo che cambiò mai idea. Da cronista, che poi sarebbe anche da storico onesto, cercò di capire le ragioni degli altri, sollevando il coperchio che per decenni aveva impedito una auto analisi nazionale. O meglio di quella parte della nazione, il Nord, che visse sulla sua pelle occupazione tedesca, lotta di liberazione e repressione nazifascista.
Credo che la trasformazione di Pansa sia stata più in sintonia con una parte degli italiani.
Dopo la guerra solo i tedeschi hanno fatto peggio di noi, spolverandosi dalle spalle la quasi generale e entusiasta adesione al nazismo come con semplice colpo di spazzola.
Capire meglio la natura e la capacità e la sottomissione di quel popolo non sarebbe male oggi che siamo loro colonia, sottomessi due volte, nella politica europea e nella produzione industriale. Ma anche noi in Italia abbiamo ibernato i precedenti 50 anni, spaventati dall’idea di aprire il vaso.
Per paura di capire quanto di fascismo ci sia nel nostro Dna abbiamo imbalsamato l’infame ventennio come un male alieno. E per paura di capire le vere cause dei nostri mali presenti, avendo esorcizzato il fascismo, abbiamo anche innalzato a religione i dogmi fondanti della nostra Repubblica. Abbiamo preferito accettare la tesi della guerra civile piuttosto che analizzare le componenti della Resistenza e la sua trasformazione da rivolta di popolo a una brutale occupazione militare (definizione del partigiano Giorgio Bocca) a tentativo di instaurazione di una Repubblica popolare stile jugoslavo da cui ci salvò solo Yalta.
Così è stato possibile che Flores e se non proprio lui tante altre persone a lui vicine di grande valore ma un po’ troppo assolutiste definissero la nostra vigente Costituzione la più bella del mondo, rifiutando di vedere in essa gli effetti di un compromesso, inevitabile senza dubbio, fra componenti politiche opposte, in un Paese occupato dagli americani, con l’Armata Rossa al confine orientale o poco più in là, con un esercito rosso armato fino ai denti e un esercito nero sconfitto ma non domo.
Se prendete in mano i libri di quegli anni sul “caso italiano” (Cavazza, Levi e un po’ anche Ronchey) vi rendete conto che tutte le analisi prescindono dal dato di partenza: un Meridione contadino che poco ha patito dalla guerra, un Nord, industriale ma anche contadino, che aveva rimosso i feroci ricordi di un ventennio nell’euforia della ricostruzione e del boom. Ma che nella pancia teneva i germi di una grande infezione. Fino a quando non ci guarderemo dentro, ben poco capiremo dei nostri mali di oggi.
In questi 70 anni, io allora infante sono diventato vecchio e l’Italia è diventata un’altra cosa.
I fascisti non ci sono più (e questo è un merito che prima i poi dovremo riconoscere a Berlusconi).
Se a uno che conoscevate per comunista gli chiedete della sua fede passata lui vi risponderà: mai stato. Molti di loro, che oggi godono vantaggi e privilegi del mondo capitalista, penso che vivano fra i loro incubi peggiori sogni di un’Italia costituita in repubblica popolare. Inconsciamente vorrebbero portarci ancora lì ma speriamo che gli vada male.
Il Pci ha subito già due mutazioni e oggi è nel mondo simbolo di stabilità e moderazione. Se il mix di post-comunisti, cattolici, liberali e ecologisti che oggi lo guida non si fa irretire dal richiamo della foresta può essere baluardo contro e alternativa di buon governo a una Lega oggi sporcata dall’ombra della subordinazione agli interessi del grande gioco zarista della Russia.
Attaccare Pansa oggi, da morto, in questa Italia ricca, sì ricca come solo chi ha conosciuto la povertà può misurare, è quasi maramaldesco.
Lo è un po’ anche tacere da parte di chi lo ha amato e ammirato.
Pansa, cantore in gioventù del più puro antifascismo, onesto cronista degli anni di piombo, portatore di notizie e non firmatario al buio di manifesti, aveva tutti i titoli per guardare anche dentro l’altra parte.
Non ha diffuso, come si dice ora, fake news, come non lo ha fatto quando ricordava gli eccidi fascisti. Dice che nei suoi libri non c’erano note a sufficienza. Perdonatemi: ma quella è roba da professori, quegli stessi o i loro eredi che nel ‘68 inveivano contro i baroni e che in questo mezzo secolo hanno poi ridotto scuola e università come possiamo constatare (le eccezioni e le eccellenze confermano la regola).
Pansa ha raccontato con l’ossessione del cronista una parte di storia d’Italia che si voleva occultata. Invece è giusto che lo si sia fatto e che a farlo sia stato uno di sinistra.
Quelli della mia generazione, nati entro cinque anni dalla Liberazione, nel Nord Italia, tante storie le hanno sentite. Percepivi, nei racconti dei vecchi, che costituivano il grande popolo non schierato di quella Italia proletaria anche se non fascista di cui siamo figli e nipoti, odio e paura per i tedeschi, disgusto per i fascisti, disprezzo per quei partigiani che avevano infangato l’onore della Resistenza.
È bene che questa particella di memoria sia stata conservata. Aiuterà, spero, i giovani a capire che mai il bene e il male stanno da una sola parte, anche se le porzioni di bene e di male da assegnare non sono uguali. E che la politica non è espressione di idee sublimi ma incontro scontro e mediazione di più o meno ampli e profondi interessi di classe. Si, di classe: non sono forse più quelle di una volta, ma la società senza classe è una scemenza.
A Pansa, invece di lapidarne la memoria, va riconosciuto questo merito.
Ha fatto cadere un dogma, che per essere di sinistra devi essere “organico” e seguire il pensiero dominante anche se ormai senza fonte autentica o comunque adeguarti al conformismo. Sinistra è libertà anche di dire quello che ai più non piace.
Io non avrei scritto quei libri, anche a esserne capace. La pancia mi avrebbe detto di no. Ma sono stato e sono sempre un buon cronista, di quelli che in ciclismo chiamano “routier”. Non un grande cronista tutto maiuscolo.
E ho letto solo uno o due di quei libri perché il genere non mi va.
Ma quella parte di me che si è alimentata nella fede della libertà, testimoniata nella sua umile dimensione da una famiglia sempre coerente nel suo a-fascismo e anche, per quanto ho potuto, dalla mia stessa vita, mi dice che Pansa ha avuto ragione.
Ha esagerato? Lo ha fatto per avidità di denaro? Perché no? Chi gli nega questo diritto mi fa paura come Robespierre. Nessuno è stato obbligato a comprare o leggere i suoi libri. Il buon gusto è un metro soggettivo che varia nel tempo. Internet amplia la possibilità di dialogo e polemica e anche questa è una bellissima cosa.
La fake news? Ci sono sempre state, leggete Manzoni. La storia è stata deformata? Livio, Tacito, Svetonio, per stare nei miti laici, sono tre grandi imbroglioni per citarne sono tre. Haters e….? Pensate all’ostracismo greco o alle bocche veneziane.
Meglio oggi dove tutto si stempera, gli insulti sono pubblici e non ti svegliano le guardie per una denuncia anonima e segreta.
Sono per la libertà assoluta. Abbiamo gli anticorpi per distinguere il vero dal falso.
Sono il conformismo e l’intolleranza i morbi che uccidono la libertà e la democrazia, quella di oggi, popolare e populista, da tenere d’occhio ma sempre meglio delle finte democrazie greche o romane.
Non è un libro di Pansa sui misfatti di alcuni esaltati criminali ai danni di chi non fu certo pecorella smarrita a mettere in gioco i nostri valori. E non ci riusciranno nemmeno Salvini o la Meloni. Calma e barra al centro.
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iannozzigiuseppe · 5 months
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MOCK MOONS. Poesie e fotografie sulla luna bugiarda. Poesie di Massimo Grasso, fotografie di Alberto Benedetti - Fefè Editore
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