Tumgik
persointraduzione · 3 years
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Looks like ISS main window..but with artificial gravity :-) Very nice artistic representation, poetic.
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by s1ef4n
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persointraduzione · 3 years
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Notturno
Come quel vestito che ti mettesti addosso la prima volta che ti vidi, con quel berretto di lana troppo grande e quella sciarpa nera troppo lunga. 
Come l'impressione che mi fecero quello sguardo, la piega delle labbra ed il tono della voce.
Come quella chiacchierata di sera vicino alla tua bicicletta, che non diceva niente ma che avrei voluto non finisse.
Come la sabbia d'estate che scivola tra le dita, passando come un sussurro solido, scegliendo con un soffio gli interstizi in cui posarsi, tiepida.
Come un sospiro che dilata le narici e ti entra dentro anche se non lo capisci.
Disteso sul letto nella penombra di una sera d'estate, rifletto sul fatto che i pensieri a volte sono circolari come il moto delle onde e come le onde si formano sotto la superficie, si alzano, si ornano di spuma e poi s'infrangono, più o meno dolcemente sulla riva, per poi rifluire e ricominciare, riportando a galla e sulla terra frammenti di riflessioni ed impressioni lontane, schegge di dolori, ciottoli minuscoli levigati e lucidati, ma non sempre digeriti e diluiti.
L'ombra di una pianta scivola nel buio tra la parete ed il soffitto mentre un'auto passa in strada e il suo rumore irrompe nel silenzio attraverso la finestra aperta, mentre la mia pelle si sposta sulle lenzuola pulite ed i miei occhi si riempiono degli sguardi incrociati senza perché. Isole.
L'ombra torna a nascondersi, come un vestito caduto ai piedi del muro. Gli abiti che indossiamo non determinano chi siamo, o forse sì, anzi in parte lo fanno che noi lo si voglia o no. L'idea che gli altri hanno di noi passa anche dagli abiti che scegliamo, un linguaggio di forme e colori, che può calzarci oppure no, ma che stabilisce un dialogo, scolpisce immagini, comunica dettagli e crea di noi un'idea in chi ci guarda. Anche non curarsi particolarmente del proprio abbigliamento trasmette informazioni, veritiere o meno che siano. Ho ritenuto per anni di non curarmi di come le persone si vestono e poi mi accorgo di ricordare tutto quello che indossavi ogni volta che ci siamo visti e che abbiamo parlato, mi ricordo tutto.
Mi ricordo tutto e non ho mai capito niente, non so ancora niente. Non ho mai capito l'ombra che sfiorava il tuo volto in modo impercettibile dipingendo emozioni diverse nell'arco di pochi attimi, non ho mai capito cosa realmente ci sia dietro il tuo sguardo, le tue parole ed i tuoi gesti. Ti ho sfiorata appena, abbiamo parlato lingue diverse, illudendoci di condividere qualcosa per piccoli frammenti di tempo. Non voglio cercare più di capire, certi sforzi sono vani, è meglio il sentire. Come un bambino, riesco solo a definire il mio sentire, il tuo no. Vorrei, ma non ci riesco. Immagino tu stia camminando in una strada fatta di ricordi aggrovigliati, di relazioni plurali, a ridere, a piangere, a sentirti sola, a percorrere mille pensieri, ad importi e ad afferrare le cose, ad accogliere corpi, pensieri, dolori, vite. Con la determinazione, l'ironia, l'intelligenza, la seduzione. Sei sempre stata lontanissima.
Ed io ti ho messo un vestito la prima volta che ti ho vista, con quel berretto di lana troppo grande e quella sciarpa nera troppo lunga.
Chissà cosa c'era scritto sulla tua pelle bianca quando la punta delle mie dita la percorrevano nel silenzio. Chissà quali trame erano intessute nei tuoi capelli neri e soffici quando li attraversavo come il pettine di un telaio. Chissà che sapori c'erano nella tua bocca oltre quelli che percepivo o credevo di percepire, percorso com'ero dalle mie inquietudini e dalle mie passioni impulsive. Chissà cosa c'era dentro e dietro quelle lacrime e nella profondità invisibile di quegli sguardi. Non ho mai capito.
Ho acceso la radio perché qualcuno scegliesse per me, ho abdicato dalla mia sovranità di ascoltatore. La mia attenzione coglie musica senza soffermarsi a comprenderla e le voci si avvicendano sostenendo e puntellando una strana insonnia. Non controllo l'ora e scendo piano i gradini di questa notte in cui il tempo e lo spazio cominciano a svanire. Di lontano un fischio di treno.
Afferro il cellulare e cerco tra i vecchi messaggi. Sì, eccolo. R mi dice “Transito nella tua vita? Ma cosa sono? Un Treno?” Sorrido, ma mica tanto. Non è che quando ho usato quel verbo ne fossi consapevole, ma l'immagine che ne è scaturita è davvero interessante. In fin dei conti alcune persone più di altre transitano nella tua vita, ci passano attraverso. A volte velocemente, a volte meno. E se ci si pensa la cosa non è ne banale ne scontata. La vita, noi stessi, siamo più cose. Abbiamo ed incarniamo più prospettive. Siamo noi stessi treni, stazioni, paesaggi, binari, locomotive o vagoni. A volte carichi merci o passeggeri. A seconda della nostra condizione anagrafica, sociale, di salute, culturale. A volte siamo materiale rotabile fermo su un binario morto. In attesa di riagganciarci al flusso della vita, dell'eterno movimento, dello scambio e della conoscenza. Possiamo decidere di fermarci, di essere solo un qualche elemento di questo mondo fatto di acciaio, elettricità e traversine, di polvere, odori, graffiti, orologi, tabelloni e ritardi...ma possiamo anche scegliere di essere fatti per conoscere.
R, sai cosa ti dico? Certi treni hanno la locomotiva in testa ed in coda. Percorrono lunghi tragitti, sostano a lungo in altre stazioni, ma poi ritransitano, possono sostare e poi ripartire. Questi treni portano vite ed esperienze avanti ed indietro. E se tu fossi un po' così? Nel tempo e nello spazio a percorrermi.. O sono io a percorrermi attraverso te o l'idea di te? E io chissà che elemento sono nel tuo “plastico” a dimensioni reali. 
Insomma, non so affatto che treno sei perché io le persone non le so capire molto bene, so cogliere solo pochi elementi e a volte sbaglio pure. Però il tuo itinerario mi piacerebbe seguirlo e mi andrebbe tu seguissi il mio. 
Le linee di te seduta, gli sguardi illuminati dalle risate, le parole calde, i ricordi di altre notti lontane, il sapore del caffè shakerato, la mano che scorre sulle pietre del castello, il viso accaldato rinfrescato da una fontanella, la solitudine tra gli amici, il bisbigliare della radio, le immagini di relazioni inesistenti, le fantasie su un mondo lontano, il pedalare nel buio o il camminare in centro lungo le ringhiere del canale....il sonno mi vince.
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persointraduzione · 3 years
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Facciamoci una camminata
Facciamoci una camminata
Il pomeriggio era stato caldo, lo avevo passato passeggiando svagato per le strade di quella città che sin dal primo attimo mi aveva stregato. La breve passeggiata lungo il fiume e poi sotto i platani, verso la chiesa a raccogliermi in un ambiente cattolico straniero e poi il supermercato ed il mio curiosare tra cibi tipici, libri, dischi, bevande. Senza sapere dove andare osservai le Poste Centrali, una gelateria italiana trapiantata, una pasticceria criminalmente attentatrice al gusto del più goloso.
Lasciai che il mio girovagare mi conducesse a quella meraviglia dell'umanità che è la Alhambra. Mi persi nei suoi giardini profumati, ombrosi, rigogliosi e gorgoglianti di fontane. Stucchi e finestre, colori e forme a frastornare lo sguardo in una estasi che si vorrebbe non finisse mai e poi a ridiscendere verso il palazzo di Carlo V ed un altro stralcio di parco dove incontrai, seduta su un muretto una splendida tedesca di Kiel intenta nello studio della lingua spagnola.
Ancora camminai lungo strade del centro, lontane dal transito dei turisti, tra cittadini in pigra attività, veicoli demodé e salite e discese fino a sbucare davanti alla facoltà di Lingue dove trascorrevo ore tutti i giorni e da lì imboccai strada conosciute verso il Genil, verso l'appartamento che condividevo con altri due studenti e con una amabile famiglia locale.
Determinato a percorrere il giorno seguente ogni angolo dell'Albaicìn, mi riposai sul divano, frugando tra gli lp del padrone di casa. Una curiosa selezione la sua, dai Clash ai Dire Straits, passando per Mike Oldfield e strane glorie del pià abrasivo punk spagnolo..quasi nulla di quello che sentii mi impressionava.
Me ne andai in camera e sedetti a quella finestra che si affacciava dall'ottavo piano e spalancava la vista sulla città nuova e sulle scabre montagne delle Alpujarras, punteggiate di paesini bianchi come neve. Di sotto, piccole, le persone e le macchine, nel loro flusso, tra sirene di polizia ed ambulanze, così diverse da quelle di casa.
Indossai le cuffie, accesi il walkman e le mie orecchie furono inondate di pop anni '80. Sospirai leggero mentre i miei occhi vagavano sui tetti e sugli alberi. Trascorsi un po' di tempo così e poi mi stesi sul letto a sfogliare vecchie riviste di automobilismo, sorrisi a trovare una recensione entusiastica della Fiat Tipo, una delle mie macchine di neopatentato. Non che si potesse gioire di quell'usato. Faceva letteralmente acqua da tutte le parti, ma tant'è.
Si fece quasi ora di cena e decisi di chiamare la mia fidanzata via internet (ah, l'epoca delle prime chat). Si chiamava Liliana e viveva in un sobborgo per ricchi di Caracas. Ci chiamavamo con tessere telefoniche internazionali. Dalle cabine o dal telefono di casa. Cosa molto tenera, ma surreale.
A tavola sedevamo in tanti. La padrona di casa, una castigliana prestata all'Andalusia, il figlio pompiere (di cui non ricordo il nome, tizio taciturno), la figlia commessa (di nome Maite), lo studente Alfredo (mi pare originario di Badajoz, ma non ci giurerei), un altissimo ed allampanato bancario londinese (Charles) ed il sottoscritto.
Consumammo una eccellente cena con tortilla di patate e cipolle, verdure, una specie di crema catalana, uno stranissimo frutto andaluso dalla polpa vanigliata e distillati prodotti
in casa.
Dopo il pasto vi fu un surreale interludio televisivo. Io e Charles non eravamo abituati ai ritmi televisivi spagnoli e trovammo tedioso assistere a una sorta di incomprensibile versione trash di Striscia La Notizia (sempre che questo fosse possibile). Quando la luce cominciò a calare, in quella fine di anni '90 in cui la dittatura dei telefonini era lungi dal manifestarsi, io e l'albionico giraffo ci recammo al nostro appuntamento.
Davanti alle Poste Centrali si era nel frattempo radunato una sorta di summit internazionale dei più improbabili personaggi. Io ed un tizio portoghese eravamo gli unici latini in un consesso altrimenti germanico scandinavo e britannico. Forti della nostra padronanza dell'idioma indigeno, comunque non ci sentivamo spauriti.
Un amabile svedese di nome Jasper o qualcosa del genere, con un sorriso d'avorio sotto i suoi capelli biondo scuro, nella penombra cospirativa propose di raggiungere una sorta di paradiso in terra. La curiosità del consesso fu unanime e seguimmo lo scandinavo condottiero attraverso strade, stradine, vicoli e budelli di una città sempre meno illuminata. La stanchezza per il lungo camminare ed l'apparente vuoto siderale in cui ci spingevamo senza scorgere luce, minarono progressivamente il morale della truppa e la fiducia nell'uomo che guidava i nostri destini.
Dopo un tempo incalcolabile, tuttavia, approdammo in un luogo che avrebbe potuto definirsi, con molta fantasia, una piazzetta. Una forte luce emanava da un locale sgangherato davanti al quale erano radunati in una improbabile fratellanza, scandinavi, anglosassoni e spagnoli. Senza quasi insegna e con pochissimi sgabelli, il locale non era definibile, sino a quando ci avvicinammo.
Una birreria, ma non una birreria qualunque, no. Era gestita da un norvegese che spacciava la VERA birra, quella oltre il baltico. Io e Charles con un sorriso maligno ci avventammo verso il bancone ed ordinammo una birra più nera del petrolio. Il padrone chiese quanta ne volevamo. Ridemmo ed indicammo il boccale più grande che un essere umano possa immaginare. Dopo aver pagato un giusto prezzo ci allontanammo. Ricordo come fosse ieri come i mei occhi luccicanti si soffermassero sulle goccioline di quel vetro gelato. Presi un sorso, sorrisi e poi un altro ed ancora. Charles stava entrando in uno stadio estatico simile al mio. Dopo dieci minuti la nostra percezione di appartenenza ad un gruppo di nostri pari (o presunti tali, ma la cosa non rileva ai fini di questa narrazione) si fece sempre più rarefatta. Trascorse un tempo che ne io né il britannico avremmo potuto calcolare, ma ci rendemmo conto, con quel che restava della nostra coscienza che il locale stava chiudendo e che Jasper e gli altri accoliti erano svaniti.
Il potere della fermentazione fece si che non temessimo in alcun modo l'idea dello smarrimento geografico, quindi ci avviammo verso quella che ritenemmo la via del ritorno. Percorremmo una infinita serie di strade, un labirinto male illuminato. Senza il filo di Arianna divenimmo argonauti verso la soglia dell'alba (che di per se non vuol dire nulla ma mi piace come suona) e durante quella infinita peregrinazione attraversammo la seconda fase dell'ubriachezza da birra: la sudorazione immotivata. I radi e biondi capelli di Charles lasciavano intravvedere (si fa per dire perchè ero più basso) perle di sudore e comunque io pure avevo capelli radi per cui perchè dileggiare quel povero sventurato?
La nostra odissea ebbe fine poco prima delle quattro del mattino ci trovammo chissà
come ad imboccare un sudicio vicoletto che portava alla via principale su cui si affacciava il condominio dove eravamo di casa, anzi proprio terminava a pochi passi dal portone. Quando fummo dinnanzi alla serratura, contemporaneamente entrammo nella successiva fase da ubriachezza da birra: una impellente necessità di minzione.
Mi frugai nelle tasche alla ricerca della chiave e non la trovai, chiesi a Charles, ma la cosa non produsse risultati. Opporcaputtanaeadessocomesifachemelafaccioaddosso? Cerca meglio Charles, cerca meglio!! Dopo un po' di incertezza il fidato biondo estrasse la chiave, anch'egli incapace di gestire la vescica per molto ancora. Ci fiondammo all'ascensore che, con la fortuna che avemmo, scese da uno dei piani più altri. Dovemmo salire fino all'ottavo.
Entrammo in casa e feci per accendere la luce. No ma sei matto? Disturbiamo tutti, dormono, sono quasi le quattro! Maledetta educazione inglese!! Forza, andiamo. Problema: occupavamo il secondo piano dell'appartamento, per accedere al quale occorreva salire una meravigliosa scala a chiocciola, la quale aveva la clemenza di possedere gradini larghi ed ampie volute, si trovava al centro del soggiorno, in una zona lontana da qualsivoglia fonte di luce.
Tentoni, avanzando in una oscurità esteriore quanto interiore, ci avvicinammo in quello che percepivamo come un accettabile silenzio (ma nessuno accese luci o disse nulla, per cui...) e inevitabilmente inciampammo nel primo gradino imprecando in un coro angloitaliano che tentammo di sussurrare a quelle fottute assi di legno. Afferrato il corrimano riducemmo il numero di inciampi e riuscimmo a guadagnare l'altitudine per poi fiondarci alla toilette dimostrando una capacità di controllo che forse non ci saremmo aspettati.
Andammo a letto e come sempre mi succede quando bevo, non riuscii a dormire veramente. Fluttuai in uno stato seminarcotico con la gola secca, gli occhi vitrei una stanchezza impossibile da recuperare.
Il mattino seguente, a colazione io e Charles eravamo seduti vicini e la padrona di casa ci guardava strana. Con una voce incerta il commensale chiese “puedo?” La donna non capiva, io lo guardai interrogativo “Puedes que?” “Puedo..” indico chiaramente il pane. “Ah si, puedo tomar el pan? Si, claro” risposi.
Con sorriso incerto e simpatico il ragazzone mi ringraziò. Ma per così poco? Era domenica e comunicai con Maite la mia intenzione di visitare il quartiere gitano. “Stai attento se ti guardano male fai finta di nulla, non parlare se ti provocano, nascondi i soldi...” Temendo un tuffo in un angolo di Colombia trapiantato in città, mi recai alla salita che conduceva a quel pittoresco quartiere. In effetti mentre salivo, un gitano taurino che stava con la fidanzata su una Vespa bianca mi guardò e mi disse qualcosa in un dialetto che non compresi. Proseguii la mia esplorazione e non accadde nulla. Fu piacevole.
Quella sera tutto fu normale ed ordinario. Mi guardai uno stralcio di Every Given Sunday doppiato in spagnolo (strano come sentire doppiaggi in lingue straniere sembri sempre surreale). Il fatto che il film fosse cominciato alle 22 e passa e che andasse su La Cinco non aiutò. La pubblicità non solo era frequente, ma addirittura soverchiante. Stufo, dopo
una sola ora di film spensi quella meravigliosa tv anni '80 e me ne andai a dormire.
Il giorno successivo, dopo le lezioni, non ricordo chi, ma uno dei ragazzi locali, invitò me ed altri stranieri ad un tour a suo dire imprescindibile. Avrei in seguito concordato, ma a priori non potevo saperlo.
Ci recammo dopo cena in una zona che conoscevo poco, una piazza di cui, criminalmente, non ricordo il nome. Da quella piazza si saliva ad uno degli ingressi dell'Alhambra, per cui non ricordarsi come si chiama mi fa davvero girare gli ammennicoli, ma tant'è. La prima tappa fu un caffè dove prendemmo churros con chocolate. Ora, per chi non lo sapesse i churros sono una specie di dolci spagnoli che in qualche modo ricordano da lontano i bomboloni come tipo di impasto, hanno forma longitudinale, estrusi a stella per lo più, sono belli unti e coperti da tanto zucchero quanto se ne possa immaginare. E a cosa li abbinano i spimatici “Spaniards”? Al cioccolato in tazza. Inutile dire che sia una libidine, ma a leggerezza lasciamo un po' a desiderare, specie dopo cena.
Dopo questa meraviglia ci spostammo verso un bar davvero carino a poca distanza. Eravamo tipo sei o sette e ci accomodammo ad un paio di tavolini. La nostra guida ordinò per tutti un giro di Tinto De Verano, un vino rosso freddo, molto vagamente imparentato con la Sangria. Il giro si protrasse ad un altra ripassata e poi uscimmo nella piazza caratterizzata da una vaghissima struttura ad anfiteatro. Qua e là si stavano formando gruppi di indigeni che ridevano e urlavano. Al nostro sguardo interrogativo la guida ci disse “Esto se llama Botellòn”. Cosaaa???
In buona sostanza la meglio gioventù cittadina si ritrovava con bottiglie di vino, sangria e simili e si ubriacava all'aperto. La cosa non suonava poi così male, ma non prendemmo parte a quel baccanale open air..nè allora né mai.
I miei giorni trascorsero tra assaggi di tapas il cui sapore ancora ricordo, come per esempio patatas bravas, patatas alioli, chorizo en caldo, queso manchego, vino, birra e via dicendo e poi quelle specie di canestrelli di frolla con datteri e miele...Dio mio! Camminai verso negozi di musica, tra decadenza di tossicodipendenza, locali brasiliani, cocktail e nomi di ragazze andaluse
Fu con grande malinconia che dopo un mese e mezzo dovetti lasciare quel posto. Salii sull'autobus per l'aeroporto ascoltando per radio Cadena Cuarenta e un trittico di Luis Miguel, Miguel Bosè e Shakira mi accompagno nel primo tratto. Dal finestrino guardavo le macchine, percorrevo i viali che tutti i giorni percorrevo a piedi.
Nessun posto era bello come quello. Certo c'era altro dentro di me, altri luoghi ed altri odori, altri sapori. Ma anche quella solitudine tra la folla, anche quelle parole superficiali con altri viaggiatori, sì, anche tutto quello era bello, anzi bellissimo.
Quando l'aereo decollò e si allontanò dalla città, pensai che Granada era stata una storia d'amore. Mi ripromisi che ci sarei tornato, ma questa è un'altra storia.
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persointraduzione · 3 years
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Coca-Cola
Il bagno della stazione. Mattino presto. Pungente odore di urina. Il buio interrotto da chiazze di luce gelata sul marciapiede grigio. L’altoparlante sbrodola avvisi e poi l’annuncio del mio treno. Osservo il binario, cerco i fari. Il grosso serpente d’acciaio apre i suoi fianchi ed entro in una luce intensa, mi accomodo e vengo trasportato di stazione in stazione, con brevi soste, vagamente consapevole dei tragitti che percorrevo vent’anni fa. Osservo le persone attorno a me, ciascuna nel suo mondo, dentro cellulari, giornali, musica e pensieri, mentre la campagna scorre fuori. L’alba mi sorprende poco prima dell’arrivo; il treno entra in città, rallenta, s’inclina e sussulta, si ferma ed apre le porte, vomitandoci fuori, nel viavai intenso dei pendolari e dei viaggiatori che si riversano nelle scale, nei sotterranei, verso le uscite o i binari dell’alta velocità. Sono confuso, pregno di anticipazione, inconsapevole e rapito dal mio sogno egoistico, non so decidermi ad uscire dalla stazione ed allora mi muovo verso l’atrio, mi infilo nel bar, in mezzo a una rumorosa folla e al profumo delle brioches e del caffè. Un cornetto ed un succo. Dovrei calmarmi. Esco in un mattino col cielo a chiazze, uno spiraglio di sole. Attraverso la strada su strisce incapaci di contenere il flusso di pedoni, imbocco i portici, sfioro l’edicola, i negozi chiusi, attraverso un piccolo parcheggio stracolmo, osservo gli autobus in coda e gli scooter che zigzagano. Più lontano, quel che resta di un vecchio parco, con alberi ingrigiti e chiome spogliate dall’inverno incipiente. Di colpo mi ricordo quello strano cappello verde e rosso, caldo, strano e comodo, lo indossavo anche su questa strada, nei miei giorni di ricerca, quando la città sembrava esotica e lontana. Cammino, mi soffermo davanti alle vetrine, guardo i passanti, un mendicante, un cane, una zingara, una bellissima ragazza diretta chissà dove, la bandiera del consolato greco che pende floscia e sporca sotto il portico. L’odore di pizza al taglio a quest’ora è un’offesa. Il sole si ostina a splendere tra le nubi. Ancora un semaforo, un negozio di dischi che non c’è più, una parete coperta di manifesti fotocopiati su fogli colorati, una coppia di studenti freak, una vespa malamente verniciata, Gli occhi profondi di una ragazza africana che mi incrocia con espressione impenetrabile, chissà cosa ci siamo detti. L’ingresso di un piccolo ristorante cinese, un kebab più in là. Ho voglia di Coca-Cola. Tremo e un fantasma del '98 mi attraversa. Mi sono fermato, sono sotto casa sua. Osservo il portone color bronzo, tremendamente anni ’60, col vetro scuro dietro cui s’indovina il piccolo ingresso. So che ci sono le scale sulla destra. Niente ascensore in questa piccola palazzina costruita sul limitare delle mura, a pochi metri dalla porta, tra edifici dissonanti. Sono trattenuto al marciapiede dalla forza della paura. Sto sbagliando, lo so. Il mio sguardo scorre i campanelli, non serve, so dov’è il suo...ma DEVO perdere tempo. Guardo l’ora, sono quasi le 8. E’ troppo presto, mi dico. Vigliaccamente decido che è meglio lasciar perdere. Non rischiare di incasinarsi la vita e di infastidire una persona. Proseguo lungo il marciapiede, raggiungo la porta, la osservo distrattamente e prendo per il viale, trafficato e rumoroso. Faccio un giro lungo, magari mi schiarisco le idee. Ho sempre più voglia di Coca-Cola. Imbocco un piccolo porticato moderno, senza fascino, cartacce a terra, colonne sudicie di smog, vetrine fitte. Suona il cellulare, un messaggio. Mi concentro nella lettura senza accorgermi di stare davanti all’ingresso di una panetteria. Un piccolo urto, una spallata. Alzo lo sguardo, sento una voce che si scusa, non sono attento, non rispondo, muovo gli occhi e mi pietrifico. Anche lei si pietrifica. In questo momento sono solo spaesato. Lei grazie a Dio inizia a sorridere e mi chiede come sto. Sto quasi per dirle che sono li per lei, ma non ce n’è bisogno. Lo sa. Per fortuna non ho citofonato. 
Passiamo de tempo in giro, a fare la spesa, chiacchierando del più e del meno. Il passato è un campo minato e a nessuno va di camminarci sopra. Nella mano tengo una busta con verdure e formaggio. Andiamo a casa sua e varcare quel portone mi riporta alla mente contrasti, ma il suo sorriso mi sorregge e non cedo alla voglia di scappare lontano. Seduti al tavolo della cucina ci guardiamo negli occhi e lei mi richiede come sto. Come sto? Non lo so. Sono confuso e nella confusione è come se ribollissero emozioni inconciliabili. Ho tanta paura, tanta ansia, vergogna, ma anche affetto, simpatia, complicità, tanti ricordi piacevoli disseminati negli anni. Ancche desiderio. Non voglio che ci sia, o forse si, o forse c’è a prescindere dalla mia volontà. Purtroppo sono sempre stato un libro aperto per chiunque e non mi rendo conto che l’espressione del suo viso sta cambiando. Quando lo capisco è troppo tardi, sento una sensazione di disagio tremenda impossessarsi del mio corpo, sudore freddo, agitazione, tachicardia. Non riesco a parlare. Mi sento dire che non cambio mai, che sono sempre lo stesso, che sono un egoista. La guardo ma non sta parlando. Le chiedo se posso avere dell’acqua. Mi gira tremendamente la testa. Lei mi risponde che come mi sento è fuori luogo, che non c’è più quello che c’era un tempo. Lo so come mi guardi, lo sento: Lascia la cosa sospesa. DEVO bere, datemi da bere! La mia fronte è imperlata di sudore, il respiro veloce. Lei si allarma e mi fa alzare, apre la finestra e mi fa accomodare su una poltrona del suo tinello. Finalmente posso bere, mi porta dell’acqua che ingollo senza respirare. Ad occhi chiusi sento la stanza girare, cerco di calmarmi, di respirare l’aria fredda che viene da fuori. Lentamente scivolo nel sonno. Riapro gli occhi,  rumori sommessi, luce soffusa, non riesco a mettere a fuoco. Impiego un po’ per capire dove mi trovo. Mi sento svuotato, non so, non provo neppure la vergogna che sento che dovrei provare. Mi accorgo solo dopo che lei è seduta nella stessa stanza, sta leggendo. Appena si rende conto che mi sono svegliato mi chiede con apprensione come sto. Non lo so. Non so che dire, neppure farfuglio, mi limito a guardarla e poi le dico di voler andare via, di voler prendere il treno. Treno? Ma lo sai che ore sono? No, che ore sono? Sono quasi le 22.30, impossibile prendere l’ultimo. E adesso come faccio? Dove vado? Che casino! Lo sapevo che non dovevo agire d’impulso e fare sta cretinata! Lei mi porta un altro bicchiere d’acqua e mi dice che per quella sera posso stare lì. Troppo stanco per discutere e pensare accetto e poco dopo mi trovo steso scompostamente sul divano, nel buio, con le orecchie ad inseguire i rumori degli altri appartamenti, con gli occhi a scrutare le ombre di quel soggiorno. Il lungo sonno del pomeriggio ha tolto da me ogni stanchezza e la mia mente comincia a ricostruire sentieri contorti disseminati di immagini evanescenti, ricordi, aspettative, incubi e mi sembra impossibile riuscire a farla tacere o riordinarla. Insofferente mi metto a sedere, scruto l’orologio del cellulare. L’una e dieci. Sento che l’ansia potrebbe tornare a montare. Mi alzo per andare in cucina a bere. Cerco di non far rumore, non accendo luci. Bevo due bicchieri avidamente e mi siedo al tavolo, fissando il vuoto ed aspettando di essere più calmo. All’improvviso si accende la luce e lei entra con una piccola vestaglia bianca, i corti capelli spettinati, lo sguardo vigile. Non dormiamo questa notte eh? No, io no. Si avvicina, resta in piedi, mi fa coraggio. Mi abbraccia forte. Quando si stacca da me mi accorgo che la vestaglia si è aperta e lei sotto indossa solo un babydoll bianco. Con un gesto rapido e silenzioso fa scivolare la vestaglia, nel suo sguardo ritrovo il filo rosso di un tempo. Un lieve bacio sulle labbra, un sorriso. Il babydoll raggiunge il pavimento. Il mio sguardo percorre quel corpo leggermente morbido dalla pelle chiara, nella luce di quella cucina. Lei mi prende per mano e mi conduce nel suo letto. Tutto ritorna come fu, ed allo stesso tempo nuovo e diverso. Il piacere ci coglie, poi la pace. Il sonno reclama corpi e menti. Il mattino seguente il mio sguardo si apre nella penombra della camera da letto. Lei dall’altra parte che dorme. Mi alzo a sedere. Mi guardo intorno. Vado in bagno, tengo la testa sotto il lavandino, bevo, mi lavo. Quando ritorno in camera la trovo sveglia a fissare il soffitto. Mi avvicino, ci abbracciamo in silenzio. Ci guardiamo a lungo, sorridiamo. Una fame incredibile mi afferra, ci alziamo. Sono le 11.30. Scendiamo a fare un pranzo greco. Guardo il cielo. E’ nuvoloso. A che ora parte il treno? Le chiedo. Non me ne importa oggi. Non ti ci abituare. Forse hai ragione, ma sai che c’è? Ho una gran voglia di Coca-Cola!
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persointraduzione · 3 years
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Alina e la Luna
Cammini lentamente, avanti e indietro, in un sentiero di noia, in questa notte d’inverno che è appena iniziata e vorresti fosse già finita. Il cielo di nuvole basse riflette i lampioni bianchi e arancio di questa provincia operosa e straniera.
E’ una sera feriale e poche macchine percorrono la provinciale, con un suono sempre uguale, veloci, verso chissà dove, forse verso casa. 
Le mani nelle tasche di quel cappottino troppo corto e leggero per scaldare, la gonna troppo corta, gli stivali. I capelli biondi e mossi, resi umidi dalla pioggia delicata che sta cominciando a cadere.
La pelle del tuo viso, bianca e fredda, si tende in un sorriso forzato quando una macchina rallenta ma poi tira dritta, nel buio della strada che si perde nella campagna dietro di te.
I tuoi occhi, azzurri come il cielo di primavera, si posano sul cartello stradale a pochi passi da te, nella piena luce del lampione. Vedi il metallo lucido d’acqua, con tracce di gocce che scendono piano verso il bordo inferiore per cadere a terra. 
Sotto la pensilina dell’autobus starai più asciutta, Alina, tutta stretta in un angolo dove il freddo comunque non se ne va. 
D’improvviso ti accorgi di avere il viso bagnato e maledici quelle pensiline italiane, tenute male da questa gente arrogante ma barbara, e più di quanto crede.
La tua bocca scopre che l’acqua sulla pelle è salata, calda. 
Realizzi che non è pioggia e singhiozzando cominci un pianto che si indurisce presto in un colpo di tosse e i tuoi occhi allagati fanno scendere il trucco pesante sugli zigomi. Ti asciughi il viso e ti ricomponi, mentre vorresti scappare via ed un vuoto di angoscia ti scava una voragine dentro, serri i denti e l’umidità di questa pianura la odi, la odi, la odi!! 
Alina, perché?
Arriva una macchina scura, non molto grande, si ferma poco oltre. Si apre uno sportello e scende una figura non molto alta, ma è buio e non vedi bene. Dopo poco senti una voce giovane chiamare il tuo nome. E’ la voce di Elena, una ragazza della tua città, arrivata in Italia più o meno insieme a te. E’ giovane Elena, ha 32 anni, tu già 40 Alina…
Elena arriva sorridente e ti dice che stasera sta andando bene, ti guarda strana e ti rimprovera coi suoi occhi verde scuro. I capelli corti, tinti, i lineamenti non ordinari, la bocca carnosa, fanno del suo viso un quadro inconsueto. Elena è dura come la pietra, Elena esiste solo per Elena, Elena non ha nessun dio e nessuna illusione. Figlia di genitori operai, cresciuta in un enorme palazzo di proletari, nella provincia di quel grande mondo socialista utopistico, grigio, povero ed affamato aveva deciso di scappare e di prendersi il benessere delle cose, in qualunque modo. Elena non aveva compagni, non voleva figli, non aveva amiche, un po’ voleva bene ad Alina solo perché si conoscevano da tempo, ma erano diverse come il giorno e la notte. Alina faceva quel che faceva perché costretta e avrebbe voluto tornare indietro o persino morire. Elena no, Elena voleva sfruttare quella gente e fare i soldi, stare bene come non era mai stata. Nonostante fosse dura come la pietra Elena nell’amore era come miele, dolce e morbida, appassionata e calda, molti la cercavano. Disprezzava quella gente, ma non odiava, no. Ad Elena non importava di nulla, solo di sé.
Alina, adesso squadri Elena sentendoti in colpa per non saper essere attraente neppure per i disperati, anche se non lo sai quanto sei bella, anche con quel trucco colato attorno agli occhi, quella pelle fredda e bagnata e l’umidità che ti tormenta. Non sai quanto saresti bella con un paio di jeans e una maglietta. Non sai Alina quanto vorrei offrirti un panino ed una birra, al caldo e ascoltare quello che hai da dire. La strada non è il tuo posto Alina. Alina perché?
Sei bella Alina, e so che saresti bella anche senza vestiti, ma con chi ti ama e puoi amare. 
Si vede, sai, Alina che hai il sogno dentro, che sei viva. Ed è per questo che non ce la fai, che tiri il fiato, che hai paura, che vorresti disperatamente un altrove, che mettere un giorno dietro l’altro ti costa fatica. Elena ha dignità anche in questo, ha una forza che tu non hai. Elena è nata e cresciuta a 300 m da casa tua ma è di un altro pianeta. 
Ti accorgi che non piove più e con la coda dell’occhio vedi in cielo la luna, quella che guardavi da bambina e da ragazza dalla finestra di camera tua o nella campagna del tuo paese. Sei tanto lontana ora, ma la luna è sempre la stessa, anche sopra questa cittadina straniera di campagna, a questo incrocio tra campagna e zone artigianali. Guardi la luna e ti incanti, tanto da non vedere il furgoncino che accosta. Senti sbattere uno sportello, ti guardi intorno. Elena è andata ancora.
I tuoi occhi si fanno grandi di stupore alla luce bianca e grigia della luna, ai suoi contorni netti. Sei fragile come cristallo Alina, non appartieni alla razza dei più. Dentro di te chiedi alla luna di camminare con te e ti incammini nella strada che porta nei campi. 
Pian piano entri nel buio e non vedo più neppure la tua ombra.
Alina Perché?
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persointraduzione · 3 years
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Singolari Pluralità
Singolari Pluralità
I. Alessandro
Alessandro sedeva sul gradino in pietra alla base della porta a vetri, osservando il sole che lentamente scendeva oltre le colline dove il grano era stato mietuto da poco e dove i contadini bruciavano le stoppie. In quella luce calante che virava dall'arancio al viola ed al blu le lunghe linee ondulate di fuoco sollevavano una sottile coltre di fumo grigio e di lontano si poteva odorare lieve l'odore di bruciato. Una piccola radio a cassette, posata sulla panchina di fianco all'ingresso suonava rock anni '70. Qualche timida stella faceva capolino in alto, nel cielo che rapido si scuriva, mentre pigramente le dita della mano sinistra del ragazzo piluccavano more di gelso da una ciotola. Erano fresche, lavate con l'acqua della fontana al centro della villa pubblica. La lunga via davanti alla porta della vecchia casa di famiglia ospitava per lo più garages o rimesse. Alcune automobili erano parcheggiate sulla destra, mentre dal campetto da calcio giungevano le grida dei giocatori dell'ultima partita. 
Un cane di chissà chi sbucò dal vicolo e rallentò appena il suo passo per guardarmi. Nessuno dei due, probabilmente capì l'altro ed il quadrupede riprese il suo cammino verso le auto. I genitori ed i nonni del ragazzo avrebbero tardato, ma non importava. Lì in paese il tempo aveva un altro valore ed un'altra misura rispetto a quello della città lontana. Chiudendo gli occhi il ragazzino si lasciò pervadere dalla musica e sorrise piano, per il piacere di quelle sensazioni sonore, che gli tennero compagnia fino alla fine della cassetta.
Alzatosi entrò in casa, nelle ombre fresche del soggiorno e salì le scale verso la sera con il canto dei grilli che si alzava dalla siepi e dagli sterpi dabbasso.
II. LUISA
Luisa camminava per i corridoi della scuola senza far rumore, guardandosi intorno e si diresse al bagno delle ragazze. Si avvicinò alla finestra a la aprì cercando di non farsi sentire. Si frugò nelle tasche ed estrasse il suo piccolo spinello. Di nuovo diede un'occhiata in giro per vedere se ci fosse qualcuno. Era l'ultima ora. Con l'accendino diede fuoco alla strana sigaretta che teneva tra le dita. Inspirò con lentezza e pian piano si rilassò, guardando dalla finestra. Il cortile della scuola era verde di tigli, i motorini e le biciclette erano allineati lungo il muro sud dell'edificio. Di là dal cancello le macchine passavano ed oltre ancora il fiume scorreva verde ed opaco, verso ovest. 
Luisa chiuse gli occhi ed una spirale di colori si avvitò nel buio delle palpebre serrate. L'odore strano di quel fumo proibito pian piano stava scemando. La sigaretta era finita. Un vociare rumoroso riempì l'aria ed alcune ragazze si diressero verso il bagno. Luisa gettò il residuo del mozzicone nel wc, tirò l'acqua dello sciacquone e si chiuse dentro, aspettando che le altre andassero via. 
Trascorse un po' di tempo prima che tutto tornasse al silenzio. Seduta sul coperchio del water Luisa respirava piano, con un orecchio teso a cogliere cosa accadesse fuori, ma per il resto avviluppata in una sensazione di pace e di ispirazione. Con uno sforzo di volontà corse a sciacquarsi il viso con acqua fredda e scese le scale verso il portone. Ancora c'erano compagni che si attardavano nell'atrio. 
La sua vecchia bicicletta coperta di adesivi la aspettava nella rastrelliera. Luisa aprì il lucchetto, tirò un profondo respiro e salì, pedalando verso casa nel tepore primaverile. I suoi capelli neri e viola si muovevano piano mentre la bicicletta avanzava lungo il viale, sfiorata da un traffico costante. I suoi jeans larghi e tagliati erano slavati e vissuti e la maglietta nera col logo dei NOFX, ricordo di un concerto di qualche mese prima si stringeva sulle sue forme di diciassettenne. 
Arrivata sotto casa, davanti al portone del palazzo, mise la bici sotto la tettoia ed entrò in casa. I suoi non sarebbero tornati prima di quella sera. 
Con le sue mani bianche, le unghie con lo smalto viola, si grattò piano il naso col piercing nella narice destra. Aprì il frigorifero e si fece un sandwich freddo, poi andò in camera, infilò nello stereo una cassetta con le sue canzoni preferite degli Skid Row e si sfilò i pantaloni. Si mise nel letto a pancia sopra. Gli effetti dello spinello erano molto deboli, Luisa si sentiva strana, languida. La sua mano destra scivolò nel suo intimo e piano, delicatamente, si diede piacere, fino a tremare e a sospirare. Subito dopo si addormentò, la finestra aperta che portava dentro il monotono suono delle macchine, del traffico sulla strada.
III. Nima e Fokar
Il terreno umido e fresco su cui sedeva Nima profumava di autunno. Il sole del tardissimo pomeriggio scendeva verso le colline che si alzavano sparse dalla enorme pianura erbosa. Il modesto rilievo su cui la ragazzina si era fermata ospitava anche qualche albero dal tronco scuro, coperto di muschio dal lato che guardava a settentrione. Le foglie, in quel tramonto senza vento, erano immobili, nelle loro sfumature tra il giallo, il rosso e il marrone. A terra diverse di loro erano morbidamente planate ruotando piano, chissà quando. Una falce di luna, in alto, brillava lattea ed intensa nel silenzio del cielo. 
Mentre il disco solare iniziava a sparire all'orizzonte, l'aria si tingeva di colori sempre più cangianti, ma la luce era ancora abbastanza intensa da consentire di vedere con chiarezza. 
L'aria cominciò a rinfrescare. La ragazzina frugò nel suo tascapane di fibre naturali, estrasse un piccolo involto di tela grezza dentro la quale si trovavano tre gallette aromatizzate alle erbe selvatiche. Con le mani leggermente screpolate le estrasse una per una, sgranocchiandole. Quel rumore sembrava essere l'unico in quei dintorni, l'unico percepibile al suo orecchio almeno. 
Terminato lo spuntino Nima si alzò e con le mani si pulì alla bell'e meglio i pantaloni color caki, si stirò la schiena e prese a scendere il modesto rilievo passando tra i radi alberi ed immergendosi nell'enorme mare erbaceo, in direzione di casa. Non ci avrebbe messo molto, al massimo una quarantina di minuti, pensò.
Mentre il suo avanzare produceva il fruscio familiare causato dal movimento nella prateria. Ora il cielo si era fatto scuro ed era piuttosto freddo. La ragazzina strofinò le mani sulle braccia coperta dalla leggera camicia estiva, ma non serviva a molto.
Dopo una camminata abbastanza agevole, Nima arrivò a casa sua. L'edificio semplice a pianta circolare, sviluppato su due piani appariva grigio scuro nella sera. Le luci della cucina erano accese. I nonni dovevano essere già a tavola, erano abituati alle escursioni della nipote ed al fatto che i suoi orari erano piuttosto imprevedibili.
La porta si aprì e nonna Dema guardò la nipote dodicenne e le sorrise indicandole il piatto con lo stufato di borgel e funghi. La piccola sedette sulla sedia di materiale sintetico e salutò nonno Tarus, che sedeva davanti al proiettore olografico fumando il suo tabacco preferito, che si levava dalla pipa in legno rossastro, disegnando deboli volute ed aromatizzando l'aria della cucina.
Al termine della cena Nima salì in camera e si mise seduta alla finestra, guardando la notte, nel cielo povero di stelle. Il sistema di Nerod si trovava ai confini più estremi della galassia. Verso oriente si poteva ammirare il fiocco rossastro della nebulosa di Rotar, uno degli oggetti più luminosi del nero cielo di Kuoner, il pianeta della ragazzina. Kuoner era una grande fattoria, popolato da indigeni e coloni di un altro mondo lontano. 
D'improvviso un suono simile ad un tonfo attirò lo sguardo di Nima verso il cielo occidentale. Una strana sensazione la colse, come se il cielo scorresse da una parte all'altra, ruotando rapidamente. La vertigine se ne andò così come era arrivata e finalmente la giovane capì cosa fosse successo. Nel cielo si era materializzata una nave di classe V che si dirigeva verso la fattoria. 
Il velivolo scese a circa cento metri dall'edificio e si aprì il portellone anteriore, dal quale scesero tre persone. 
I nonni di Nima uscirono e chiamarono a gran voce verso i nuovi venuti. Nima scese le scale di corsa e si gettò a capofitto verso uno dei tre. 
Dopo una lunga assenza il cugino Fokar era rientrato dai suoi viaggi commerciali, insieme ai suoi compagni.
Sotto il pergolato all'aperto i viaggiatori consumarono un pasto veloce e parlarono a lungo con Nima ed i nonni dei loro viaggi e dei loro commerci. La notte si faceva sempre più fredda ma Nima non ci faceva più caso. I suoi occhi vagavano nel cielo a cercare rotte invisibili. Avrebbe voluto seguire il cugino, ma era ancora troppo giovane. Una vita in un posto come Kuoner non era la sua massima aspirazione. 
Quando fu tornata nel suo letto il sonno la colse subito, senza che la sua immaginazione potesse perdersi verso lo spazio lontano. 
Fokar si affacciò alla porta della sua stanza immersa nel buio e la salutò a bassa voce. Il mattino successivo, di buon'ora sarebbe dovuto ripartire. Camminare nel corridoio della casa in cui era cresciuto gli diede una fitta al cuore. La vita del mercante gli piaceva, ma l'effetto della nostalgia a volte era forte e quello che avrebbe voluto era tornare a fare il contadino e l'allevatore in quella grande prateria.
Nonna Dema era già tornata a dormire, mentre Tarus sedeva nel buio a fumare. Sentì il ragazzo scendere silenziosamente gli ultimi gradini e si voltò a guardare la sua sagoma. Il vecchio si alzò ed abbracciò il nipote, per poi dargli una pacca sulla spalla ed augurargli un buon viaggio. Fokar aveva gli occhi umidi di pianto e la sua mano li asciugò prontamente, mentre come un film nella sua mentre scorrevano immagini, suoni e parole di quasi trent'anni di vita in quel posto. 
Era tardissimo e il ragazzo si stese sul divano, mentre il nonno saliva in camera.
Il sonno arrivò lentamente, a singhiozzo, fino a dare a Fokar l'illusione che il tempo non fosse passato e che lui ancora vivesse lì.
IV. Angela e Carmen
La sera del paese in festa era tutta una luce. Bancarelle, famiglie, anziani, bambini che sciamavano caotici lungo le vie, capannelli di persone che parlavano davanti ai bar o alle panchine lungo le vie.
Nel piazzale antistante la scuola i ragazzi ascoltavano musica dance e pop mixata da un Dj improvvisato ma dal buon fiuto. Il volume assurdo si abbatteva su quella distesa di asfalto illuminata dai lampioni pubblici e da un set di luci da palco piuttosto approssimativo. Tanti ballavano, molti si scambiavano sguardi, alcuni sparivano sul retro dell'edificio. C'era chi beveva qualcosa e chi rideva come matto a chissà quali battute. 
Angela se ne stava con un gruppo di amici a parlare del più e del meno. I suoi capelli biondi, mossi, incorniciavano un viso simpatico, su cui poggiavano degli occhiali piuttosto fini. Angela ebbe un sussulto quando i suoi occhi incontrarono quelli di Carmen. Era successo ancora, ma in modo molto lieve. Un qualcosa le blocco stomaco e respiro, la schiena tremò. Carmen ricambiò lo sguardo. Magrissima, capelli lisci, castani, a caschetto, grandi occhi verdi. 
Angela era una ragazza molto semplice, nata e cresciuta in una famiglia di lavoratori poco istruiti, un ambiente povero di stimoli, mentre Carmen era figlia di un medico e di una insegnante, figlia unica, coccolata ma non viziata. Carmen leggeva molto, sentiva molta musica, viaggiava coi genitori. Era una delle più evolute del paese.
Durante la serata le due ragazze si persero e si ritrovarono più volte, fino a che sedettero vicine su un muretto. Si conoscevano e si misero a parlare del più e del meno, fino a quando Angela, con una fasulla nonchalance chiese a Carmen se avesse dato già il suo primo bacio. Sicura l'amica le disse di sì, più di uno ad un paio di ragazzi. Angela abbassò lo sguardo sentendosi sfigata. Carmen le disse, che non c'era problema, come amica lei c'era. Angela sgranò gli occhi e la guardò. Carmen annuì sorridendo. Le disse di andare verso la fontana fuori dal paese seguendola a distanza.
Gli occhi di Angela seguirono la figura di Carmen che usciva dal complesso scolastico e che imboccava la via che usciva dal paese. Col cuore che batteva all'impazzata la seguì con la testa che faceva mulinare mille pensieri e paure. Così nervosa non era stata mai. Quando entrò nel buio percorse qualche decina di metri cercando di trovare l'amica, ma senza vederla. Di punto in bianco la voce di Carmen la chiamò ed Angela la vide. Le due sedettero su un muretto in mezzo alla vegetazione. Carmen carezzo le spalle dell'amica e cercò i suoi occhi nel buio. I due volti si avvicinarono. Angela, inesperta sbattè un labbro sui denti di Carmen, che sorrise e che poi unì le sue labbra a quelle di lei, per poi schiuderle piano ed iniziando una dolcissima danza di lingue e respiri. Il bacio fu breve. Le due si guardarono ed Angela ringraziò Carmen...una cosa piuttosto stupida da fare, pensò.
Alzatesi dal muretto, le ragazze tornarono alla festa. Per qualche strano motivo, da quel momento in poi il loro rapporto divenne assolutamente ordinario e quelle grandi emozioni che Angela aveva provato furono archiviate nella cassettiera dei ricordi. Perfino il sapore di quel bacio scomparve, nessuna delle due lo ritrovò mai.
V. Stefano
Il letto sfatto era illuminato dalla luce proveniente da una finestra su cui la pioggia si accaniva con violenza in quel mattino d'estate. Guido si faceva una doccia fresca ed era assetato. Stefano, il suo giovane compagno, dormiva pesantemente, ancora. 
Uscito dalla doccia Guido andò a svegliare il ragazzo. I due si scambiarono un leggero bacio e si diressero in cucina a consumare una colazione a base di succo d'ananas ghiacciato, yogurt e frutta. Poco dopo Guido uscì per andare ad un appuntamento di lavoro. Stefano si lavò e si vestì. Mentre stava mettendosi la camicia il suo cellulare suonò con un numero sconosciuto. Il suo sguardo indugiò sullo schermo ma poi decise di non rispondere, salvo cambiare idea all'ultimo, ma la linea cadde. Con uno sbuffo il ragazzo si disse che con ogni probabilità era pubblicità.
Una volta pronto fece per uscire ed andare a lavoro, quando il telefono squillò nuovamente e questa volta rispose, ma dall'altra parte solo silenzio, poi la linea cadde di nuovo. 
Senza pensarci troppo, Stefano si incamminò sotto i portici e si diresse al negozio che gestiva col fratello. Un negozio di musica vintage, dai dischi, agli strumenti, alla memorabilia. Al suo arrivo il fratello maggiore Gianni lo rimproverò per il ritardo, ma la giornata andò molto bene ed il battibecco fu presto dimenticato. Al momento della chiusura Guido chiamò per invitare Stefano a cena, ma il ragazzo rifiutò. Era stanco, quella sera avrebbe solo fatto un aperitivo con il fratello e la cognata, poi sarebbe andato a casa. 
Dopo essere entrato nel suo piccolo appartamento in centro, Stefano si spogliò ed accese l'aria condizionata. 
Gettatosi sul divano accese la tv, ma proprio in quel momento squillò ancora il telefono con quel numero sconosciuto. Innervosito Stefano rispose che lo scherzo non gli piaceva. A quel punto una voce giovane di ragazza si fece sentire, era Giulia, la sua ex. Il giovane cercò di mantenere una tono neutro ma lo sforzo fu vano perchè Giulia manifestamente cercava di ottenere le attenzioni di Stefano, il quale le ribadiva gentilmente di avere chiarito definitivamente il proprio orientamento sessuale.
Sentire il dolore di Giulia, tuttavia, gli provocava grande dispiacere. Erano stati non solo fidanzati ma anche molto amici e complici per anni. Un rapporto così non si cancellava con un colpo di spugna, doveva ammetterlo. 
Durante la conversazione una pausa cadde improvvisa. Quella finestra di silenzio creò un inatteso inciampo. Giulia trattenne il respiro, mentre Stefano percorse i contorni del viso di lei, nella sua memoria. Non si vedevano da più di un anno...i suoi capelli chiari, lisci, a caschetto, i grandi occhi nocciola ed il fisico magro e minuto. Giulia era una ragazza dal carattere complesso e contraddittorio, frequentarla era stato piacevole, ma molto impegnativo, forse anche perchè Stefano sentiva sempre più intenso il desiderio verso figure maschili. Combattere con quella cosa non era stato facile e quando si decise a parlarne apertamente con lei le cose erano scoppiate, un intero mondo era andato in pezzi, schegge dolorose si erano sparse ovunque e si erano conficcate dentro entrambi.
Guido era arrivato qualche mese più tardi e la loro relazione era cominciata in modo difficile e stentato, ma poi si era assestata e Stefano aveva ricominciato a vivere in modo sereno.
Giulia, con quella chiamata, era ricomparsa in modo inaspettato e francamente Stefano non capiva il perchè visto come si erano lasciati. Durante quella pausa, quel silenzio lungo ed inatteso, mentre i ricordi riaffioravano, gli occhi di Stefano si inumidirono e lui deglutì, per poi asciugarsi le lacrime. La conversazione riprese con Stefano che chiese “Giulia, perchè? Perchè hai chiamato?”. La ragazza non rispose subito, poi disse “Mi manca...come mi facevi sentire...tanto”.
Stefano sospirò e rispose “Giulia, lo sai..dai..io sono diverso. Abbiamo avuto una storia molto intensa, ma io sono, ormai lo so...omosessuale. Non è che non pensi ai nostri tempi insieme, tu sei stata importantissima nella mia vita, per quasi nove anni, non è poco. Non è stato facile per me capire...capire tutto quello che sono, voglio dire, non solo l'orientamento sessuale, anzi forse quella è la cosa più semplice da accettare. Ho trascorso molto tempo a capire quali fossero i miei limiti, i miei desideri, i miei talenti. Ho ingoiato molte cose amare, mi sono odiato, ferito. Forse, anzi, sicuramente non sono stato il solo, non ho la presunzione di avere avuto l'esclusiva in questo senso. Ho avuto la fortuna di avere un fratello come Gianni ed una cognata come Deborah ed un nipote come Franco...loro sono sempre stati con me, colmando l'assenza dei miei genitori. E poi ho incontrato Guido, non lo hai mai incontrato e....è un uomo straordinario. Mi ha aiutato moltissimo a ricomporre i pezzi della mia vita, ad affrontare le implicazioni interiori ed esteriori della mia omosessualità. Guido mi tiene per mano, mi dona passione, sicurezza, tenerezza e poi è una persona ricca e profonda. Sono stato molto fortunato ad incontrarlo”.
Seguì un'altro piccolo silenzio e poi Giulia biascicò un “Vaffanculo!” appena udibile ma comprensibile e poi riprese la parola “Allora è vero...che sei solo...irrimediabilmente....”.
“Cosa?” chiese  Stefano “Un frocio? Sì, lo sono, è quello che sono. Sei contenta? E' chiaro adesso?”.
Giulia eruppe in un pianto dirotto. Stefano non seppe né che dire né che fare. “Giulia, dai, non fare così..cosa...cosa pensavi...voglio dire...non è stato facile neppure per me. Non credere che solo perchè ho chiarito il mio orientamento sessuale il resto..voglio dire … la vita di prima sia scomparsa via, sparita nel nulla. Io, sono sempre Stefano, lo stesso che ha vissuto per anni con te, lo stesso che hai conosciuto e con cui hai condiviso tanto. Tu per me sei stata una delle persone più importanti della mia vita, non rinnegherò mai neppure un secondo della nostra vita insieme, neppure un secondo, fosse anche di dolore. Ti ho amata come mai avevo amato nessuno prima ed in un certo senso come forse non amerò nessuno mai. Quello che … quello che è successo, il fatto di comprendermi, accettarmi, la forza di prendere la mia strada è stato doloroso, te l'ho già detto. La fine della nostra storia mi ha disintegrato, credevo che nulla più sarebbe successo. Non mi importava essere gay o etero o qualunque altra cosa. Prima di tutto ero, sono, sarò una persona e...sprofondai in una depressione tremenda”.
Giulia sospirò “Stefano...scusa...io...mi dispiace, sono stata egoista, io...volevo solo..speravo che forse avremmo potuto in qualche riprovarci. Sono una cretina. Tu ormai sei lontano. Io non ho più avuto nessuno, ho sempre pregato che saresti tornato, che ci saremmo ritrovati ed avremmo messo a posto i pezzi di tutto quello che eravamo. Non ero sicura che tu fossi davvero...dai...hai capito. Pensavo fosse una cosa passeggera, una...curiosità, diciamo”.
Stefano sorrise ma Giulia non poteva vederlo “Sì, beh...pure io ci ho pensato alcune volte, ma è stato un pensiero ozioso, dettato da una nostalgia, dall'affetto evocato dai ricordi, ma no...non è più possibile. Quella che chiami curiosità me la sono tolta ed ho capito che non era tale. Vedi Giulia, non è che essere gai significa solo andare a letto con altri uomini, voglio dire...non è solo sesso. Io, noi, siamo persone e ci innamoriamo come tutti. Ci sono gay, cosi come etero, che desiderano una vita da single, in cui la componente sessuale non si lega ad un solo partner, così come esistono gay monogami o poliamorosi...è esattamente come per tutti. Io e Guido non condividiamo solo una mutua attrazione sessuale, ma anche sogni, progetti, guardiamo al presente ed al futuro...insieme. Siamo una coppia”.
Giulia abbassò lo sguardo verso il tappetino scendiletto, si passò una mano tra i capelli e mosse la testa in un lento sì “Ho....ho capito Stefano, ti prego, scusami. Sono stata inopportuna, avrei dovuto lasciare i ricordi dove stavano”.
“Non ti preoccupare, forse, al tuo posto avrei fatto lo stesso. Giulia, non dimenticarlo mai, io ti ho amata tanto e di voglio bene ancora. Se in qualche modo pensi che potremmo essere vicini, in un modo diverso...beh...io sono, sarò sempre qui per te”.
Giulia salutò Stefano e si stese sul letto, svuotata, con gli occhi fissi sul soffitto.
Stefano guardò lo schermo del cellulare. Lo appoggiò di fianco a se, si alzò ed andò in bagno, infilando la testa sotto l'acqua del lavandino, fredda.
Era l'ora dell'aperitivo, avrebbe fatto tardi.
VI. Raùl
Quella notte di fine settembre non sembrava voler portare con sé il sonno. Raùl spense la televisione, ne aveva guardata troppa. Era già mezzanotte passata. Si alzò dal divano ed andò alla finestra. La strada in cui abitava era illuminata da lampioni accesi alternativamente, per via del risparmio energetico. In giro non c'era nessuno, perlomeno non lì di sotto.
Meglio provare a prendere un po' d'aria, aria metropolitana. 
Raùl indossò i suoi jeans neri, gli stivaletti in pelle piuttosto vissuti, una maglietta dei Deep Purple ed un vecchio gilet nero in pelle. Uscì dall'appartamento e prese l'ascensore. Il condominio era più buio e silenzioso di una maledetta tomba. I passi lungo il corridoio dei garage risuonavano con una eco amplificata. La porta metallica si aprì verso l'alto con un modesto cigolio e Raùl entrò, alzò la moto dal cavalletto e la spinse fuori, richiuse il garage, salì, accese il motore e uscì fuori nella notte. Il rumore rombante della sua custom arancione prese a martellate il silenzio e la coppia di acciaio e carne si diresse verso la Avenida Carlos V, ancora percorsa da molte auto. Raùl guidò per un bel po' senza meta, zigzagando tra le luci dei fari e dei lampioni fino a che non si fermò davanti ad un locale chiamato la Bodega Asturiana. Una volta ci lavorava un suo amico che adesso abitava in Austria. Non aveva mai capito come mai un latino avesse potuto infilarsi nel cuore del mondo germanico. Bah, affari suoi.
La moto si fermò davanti all'ingresso, il locale era ancora aperto. Raùl scese ed entrò per un piccolo spuntino di formaggio, prosciutto e vino rosso. Gli avventori, a quell'ora non erano tanti anche perchè la chiusura era imminente. 
C'era un uomo sulla sessantina, coi capelli brizzolati. Sovrappeso, dallo sguardo perso in chissà quale pensiero, c'era una donna intenta a creare un piccolo origami con un fazzoletto di carta. Aveva i capelli biondi, era piuttosto magra, occhi azzurro slavati, indossava un vestitino piuttosto leggero, color carta da zucchero. Non aveva nulla che non andasse, ma nel complesso Raùl la trovava incongrua e fastidiosa.
Ad un tavolo lontano c'erano due ragazzi sulla trentina, probabilmente amici, che bevevano e scherzavano rumorosamente.
Terminata la sua consumazione, il motociclista uscì, sperando di trovare un'aria più fresca, ma quella notte la città non voleva lasciare che il vento la penetrasse e scorresse in lei, l'unico modo di respirare era guidare, senza sosta. 
Come incrinando un leggero strato di ghiaccio il pensiero del lavoro aprì una crepa nella coscienza di Raùl. Il giorno dopo avrebbe dovuto alzarsi presto ed avrebbe avuto a lezione alcuni ragazzi difficili della scuola. Un tonfo di disagio gli si tuffò nello stomaco ed una imprecazione uscì dalle sue labbra mentre avviava la moto. Doveva tornare tornare a casa e dormire, a costo di ingollare qualche pasticca. Imboccando la grande rotatoria di Plaza De La Independencia, la moto sfrecciò verso Avenida Carlos V e poi verso Calle Pedro Antonio de Alarcòn, dove viveva Raùl.
Quando il centauro rientrò nel suo appartamento disordinato erano quasi le due. Non era stato via molto. Buttò i vestiti sulla poltrona, senza accendere le luci e poi si recò in bagno, prese una pastiglia di tranquillante e si mise a letto. Dopo un po' il sonno arrivò e fu una benedizione.
Il mattino dopo, alle 7.00, la sveglia prese a schiaffi l'aria della stanza e Raùl si alzò a sedere col cuore che batteva forte. Ma che cavolo...
Occorsero alcuni secondi per capire cosa, dove, come, quando e perchè (soprattutto), ed alla fine una doccia fresca riuscì nell'intento di riavviare i processi cognitivi dell'insegnante, il quale si vestì nel modo più decente possibile, scese dabbasso e prese la metro diretto alla scuola, con lo sguardo che saettava nel vagone a tracciare una mappa dei viaggiatori, tutti apparivano diversi, a giudicare dai loro volti, nel loro piglio mattutino.... Raùl scosse la testa e si disse che quel mattino, per lui almeno, non sarebbe stata proprio cosa. 
VII. Darmon
Darmon camminava sfinito col suo zaino carico di cristalli di Puron, il sentiero polveroso sembrava non finire mai. La miniera penitenziario si estendeva a perdita d'occhio, in ogni direzione, le enormi macchine per la escavazione erano attive tutto il giorno e tutta la notte sul fondo di quell'enorme cratere. Infinite teorie di minatori percorrevano sentieri come quello su cui camminava lui. Uomini di tutte le età, alcuni vigorosi, altri macilenti, ma tutti stracarichi, avanzavano in fila verso i punti di raccolta per poi ripercorrere il tragitto in senso contrario, più e più volte al giorno.
Il cielo era color del rame, il respiro pieno di polvere, così come tutto il corpo ed i vestiti mezzi laceri.
La sera venne tardi, troppo tardi, così come tutti i giorni. Darmon ed i suoi compagni si radunarono fuori dai cancelli di ingresso in attesa dei trasporti che li avrebbero condotti ai loro alloggi, situati a circa venti km dal posto di lavoro. Si trattava di grandi palazzi popolari, composti di piccoli appartamenti. Nello stesso complesso si trovava un edificio che fungeva da refettorio ed ospedale.
Quando il trasporto arrivò, Darmon ebbe la fortuna di trovare un posto vicino al finestrino. Non c'era molto da vedere in realtà. Tutta quella regione era sostanzialmente desertica ed il paesaggio era di una gran monotonia, specie se si era distrutti dalla fatica.
Arrivato al centro dormitorio, il trasporto si fermò di fronte al grande refettorio e tutti gli operai sciamarono fuori. Darmon entrò nel luogo che tutto era fuorchè accogliente. Illuminato con neon verdastri, arredato in modo estremamente spartano, offriva una scelta di cibi assai limitata e spesso la qualità era quella che era. 
Entrato nell'atrio del palazzo dormitorio, prese l'ascensore e salì fino al quindicesimo piano, dove si trovava il suo piccolo monolocale. Buttò la spesa sul tavolo e si fece una rapida doccia, poi guardò la olovisione, un piccolo lusso consentito ai detenuti. I programmi erano di una monotonia incredibile. Darmon non si interessava di politica, veniva da un piccolo villaggio lontano, così lontano che quasi ormai arrivava a pensare che la sua esistenza forse era frutto di un falso ricordo. Nonostante questo il giovane non si sentiva così rassegnato a quella vita, anche se la conduceva da molti anni. L'ologiornale costantemente magificava le opere del governo federale ed i risultati delle grandi compagnie industriali che trainavano l'economia del paese. Annoiato da tutta quella propaganda il minatore spense l'apparecchio e si stese crollando in un sonno profondo, troppo stanco anche per vomitare all'idea di un altro giorno alla miniera.
Il mattino dopo una pioggia insistente infradiciava i sentieri che divenivano stradelli di fango mentre le pareti della montagna si riempivano di rivoli che trascinavano acqua e graniglia. I vestiti zuppi erano fastidiosi e rendevano più scomodo il lavoro, così come le scarpe piene d'acqua. Una vera tortura. 
Piovve quasi tutto il giorno e la pausa pranzo avvenne sotto una delle tettoie che fungevano da riparo per i macchinari, curioso..i macchinari avevano un riparo dedicato ed i minatori no, questo la diceva lunga..ma molti suoi compagni, per non dire tutti, accettavano a testa bassa quello che reputavano un destino ineluttabile, un ordine naturale delle cose. Darmon no, non sopportava oltre di scontare quella pena. Un paio di volte aveva sentito alcuni compagni lamentarsi a bassa voce. Erano due minatori più anziani di lui, stranieri. Non aveva idea di chi fossero, né di dove e da quella volta li aveva incrociati raramente e sempre da lontano.
Mentre stava consumando il suo pasto a base di riso, verdure, spezie e carne, i suoi occhi incrociarono quelli del vecchio Sabad, forse il più vecchio del suo turno. Darmon non avrebbe saputo dire quanti anni avesse, ma quell'uomo era incredibilmente forte in rapporto alla sua corporatura esile. Aveva due enormi occhi neri, luminosi, ed una folta barba bianchissima. Indossava un turbante scuro, un po' consumato, ma era l'unico tra tutti quelli che il ragazzo avesse visto lì dentro, ad indossare qualcosa di simile. Il vecchio ingoiò un boccone e poi sorrise coi suoi denti bianchissimi ed il ragazzo ricambiò. Senza sapere perchè, Darmon si alzò e lo raggiunse.
“Sabad, come stai? Credo che sia la prima volta che parliamo, vero?”.
L'uomo assentì con un cenno del capo ed invitò il ragazzo a sedere. 
“Ti chiami Darmon vero? Di dove sei ragazzo?” chiese con voce dolce.
“Vengo da...Terleg..Terleg è un villaggio molto lontano da qui, così lontano che non saprei neppure trovare la via di casa se mai potessi tornare. Ci ho passato tutta l'infanzia e l'adolescenza. Era una vita molto diversa...da questa intendo. La mia era una famiglia povera ma mio nonno era insegnante e mi ha detto molte cose...tante cose...ma ho dimenticato quasi tutto, ormai da quasi dodici anni sono qui alla miniera, e solo per avere rubato qualcosa da mangiare. So, credo, che fuori di qui ci sia qualcosa, forse qualcosa di meglio intendo. L'olovisione mostra un mondo che credo non sia esattamente quello in cui viviamo. Ho questa sensazione ma non ho la minima idea di come poterne essere certo. Forse non importa, la mia vita credo che sarà sempre qui”.
Alle spalle di Darmon un minatore dalla pelle bruna fumava una sigaretta aromatica e prestava molta attenzione alle parole del ragazzo. La sua mano sinistra, nodosa, passò tra i capelli neri e bagnati. Ed i suoi occhi neri si chiusero per un momento, mentre dentro di sé un senso di ribellione si affacciò in silenzio. 
Sabad mise una mano sulla spalla sinistra di Darmon e disse “Figliolo, come dici tu, fuori di qui c'è qualcosa, molto più di qualcosa. Io vengo da un posto lontanissimo, chiamato Cerlon, una grande isola nell'oceano orientale. La mia famiglia era piuttosto ricca, eravamo allevatori di bestiame e io stesso ho condotto una parte della mia esistenza nei campi, con gli animali. E' stato il periodo più felice della mia vita. Vivevo con i miei genitori ed i miei fratelli ed avevo persino una promessa sposa...pensa”. L'uomo aveva uno sguardo sognante guardando al suo passato.
“Come sei finito qui?” chiese il ragazzi
Sabad annuì “Hm, ragazzo, io sono qui perchè al mio paese fui coinvolto in uno scontro tra proprietari terrieri per un furto di bestiame e ci uscì il morto, ecco perche la giustizia mi ha gettato in questo buco. Ormai sono vecchio ed accoglierò la morte come una benedizione. Prego tutti i giorni e cerco di essere in armonia col mondo. E' l'unica cosa che posso fare”.
Una sirena avvisò del termine della pausa ed i minatori ripresero in spalla i propri carichi, dirigendosi faticosamente al punto di raccolta, sempre sotto una pioggia fitta e pesante.
Quella sera Darmon era sfinito e si sentiva un inizio di febbre. Mentre attendeva il trasporto si sedette su una pietra al margine della strada. Dopo poco lo raggiunse un minatore bruno, dal fisico asciutto ma muscoloso. Era l'uomo che aveva origliato la conversazione con Sabad.
“Ti chiami Darmon, giusto ragazzo?” chiese l'individuo dall'accento strano.
Il ragazzo lo guardò distrattamente, troppo stanco per pensare “Sì è il mio nome, tu chi sei?”.
L'interlocutore si presentò “Mi chiamo Uliruy e vengo dalla regione occidentale di Natoly, molto lontana da qui, è una regione di splendide montagne e boschi. Lavoravo in una fabbrica di legname laggiù. Il lavoro era duro, ma non come qui e per fortuna c'era una paga, ero un uomo libero, avevo persino una famiglia, una moglie, dei figli. Non li vedo da quasi sette anni, sai? Sono finito qui per una questione di debiti. Non è una storia molto interessante ne allegra. Ma tu come mai sei qui? Sei uno dei più giovani. In questo posto ci finiscono persone con pene severe, cosa hai combinato alla tua età?”.
Darmon si passò le mani sporche sul viso umido di pioggia e rispose “Al mio villaggio c'era una grande povertà, non c'erano prospettive di lavoro e mio padre aveva problemi di salute. Io e mia sorella Jeela abbiamo dovuto lasciare casa per cercare possibilità di sopravvivere. Io sono finito qui per qualche furto, Jeela lavora come infermiera in un ospedale più vicino a casa. Beata lei”.
“Capisco” disse l'uomo. “Pensi di restare ancora molto in questa topaia? Sei giovane per condannarti a questa vita...avrai circa l'età di mio figlio Ahmet...”. Il minatore scosse la testa piano e imprecò qualcosa che Darmon non comprese.
“Darmon, ragazzo, quando scade la tua pena?” chiese Uliruy.
Darmon rispose “Tra un paio d'anni mi pare, perchè?”. Il minatore bruno lo guardò e disse “Cosa ne diresti di andare via un po' prima?”.
Darmon sbarrò gli occhi e disse “Prima? Ma come...non si può, non è possibile, non...”.
“Preferisci vivere in questo schifo per altri 24 mesi? Accomodati, io no. E non solo io. Tra i minatori si è formato un gruppo che cerca di migliorare le condizioni di vita qui dentro. Non siamo riusciti ad ottenere quasi nulla nel tempo ed allora abbiamo iniziato a pianificare una fuga. Quando prima ti ho sentito parlare con Sabad, ho pensato che volessi tornare fuori ed ho pensato a mio figlio...a cosa avrei fatto per aiutare lui. Ecco perchè ti chiedo se ti va di unirti a noi”.
Quella sera Darmon si recò nell'alloggio di Uliruy, dove si trovavano altri cinque minatori. Assistere ad un piano di fuga era la cosa più strana cui avesse mai pensato, anche perchè continuava a considerare la miniera una prigione da cui fosse impossibile fuggire.
Nel corso della serata, Uliruy ed i suoi compagni presentarono a Darmon un piano ben congegnato ed apparentemente molto solido. Pur parzialmente riluttante, il ragazzo accettò a prendervi parte, il suo desiderio di uscire nel mondo esterno era forte. Pochi giorni dopo, in piena notte, il gruppo si ritrovò al confine settentrionale delle proprietà della compagnia. Anoty, uno dei fuggiaschi, era un tecnico elettronico molto tempo prima di essere imprigionato per un grosso furto diversi anni prima, grazie alle sue abilità era riuscito a disattivare i braccialetti di controllo che ognuno di loro indossava. La cosa non sarebbe stata risolutiva, ma avrebbe concesso loro qualche ora di vantaggio nella fuga. Il gruppo superò il confine calandosi con difficoltà un canalone di scarico rifiuti che si snodava per un po' nel territorio desertico che divideva il complesso minerario dalla regione del grande lago salato di Smeder, qualche decina di chilometri a nord. 
Era una notte senza luna, fredda e buia, il cielo era trapunto di stelle. Il gruppo di fuggiaschi, silenzioso, avanzava in mezzo ai rifiuti più velocemente che poteva, considerando la stanchezza del giorno e le scarse calorie dei magri pasti che si poteva permettere normalmente.
La notte trascorse veloce ed all’alba un lieve lucore cominciò ad illuminare appena l’orizzonte orientale. Quando il sole si fu levato, la temperatura cominciò a salire e nel breve volgere di un’ora il gruppo di fuggiaschi si trovò a sudare e a faticare di più nella fuga. Uno degli uomini propose di ripararsi all’ombra ed a proseguire di notte. Procedere di giorno sarebbe stato faticoso e debilitante, ma la sua proposta venne rigettata dalla maggioranza, desiderosa di mettere più distanza possibile tra loro stessi e la miniera.
Darmon condivideva la posizione del prudente compagno, era sensato ripararsi e riposarsi, erano tutti sfiniti, ma alla fine proseguì anche lui nella fuga diurna.
Alla miniera gli addetti al recupero ed al controllo dei detenuti si accorsero dell’assenza dei fuggiaschi sin dal primissimo mattino e mandarono una squadra di ricerca, la quale pattugliò i dintorni dell’area mineraria, ma senza risultati. Il capo della sicurezza intuì che la fuga avrebbe potuto svilupparsi lungo il canalone dei rifiuti ma non sguinzagliò i suoi uomini lungo un percorso tanto accidentato e pericoloso, piuttosto decise di mandare una sonda volante armata alla ricerca di quei detenuti. L’ordine era quello di trovare ed eliminare. 
La sonda percorse in volo rapidamente la maggior parte del percorso ed individuò il gruppo nei pressi della fine del canalone, a pochi km dal confine con la Repubblica Teocratica di Valistan, che si affacciava sull’enorme lago salato di Smeder. 
Darmon si era fermato all’ombra di una roccia per urinare e godere di una leggera frescura, mentre i compagni avevano iniziato la risalita dal canalone, dirigendosi a nordest, verso il lago.
Un bagliore nel cielo azzurro attirò l’attenzione del ragazzo. Soffermandosi ad osservare con attenzione, Darmon si rese conto che una sonda era sulle loro tracce. Urlò ai suoi compagni di tornare nel canalone e di trovare riparo, ma nessuno parve sentirlo, erano tutti troppo lontani. Il giovane urlò ancora ma proprio in quel momento la sonda aprì il fuoco sul gruppo. Con precisione i colpì freddarono tutti gli uomini emersi dalla fossa dei rifiuti. Darmon rimase di sale e si rintanò ancora di più sotto le sporgenze rocciose, col cuore che batteva all’impazzata; il giovane aveva persino paura che il battito cardiaco potesse tradirlo attirando l’attenzione della sonda. Un silenzio irreale parve riempire la zona. 
Darmon pensò di dover sbirciare per verificare se la sonda fosse ancora in zona, ma la paura di venir ucciso lo trattenne tra le rocce. Passarono le ore e le ombre si allungarono sempre di più, la luce scemò e la notte venne, fredda. Il ragazzo decise di rischiare e si sporse dal suo riparo, perlustrando con lo sguardo il cielo vicino e la zona buia del canalone. Non gli parve di vedere nulla di particolare e si avviò verso l’uscita di quella fessura infernale. Dopo poco si imbattè nel cadavere di uno dei suoi compagni. Risalendo oltre il bordo trovò anche gli altri e rabbrividendo si mise a correre verso nordest. Quella notte trascorse in uno stato semiconfusionale. Darmon era rimasto turbato dalla morte dei suoi compagni e temeva di essere raggiunto da quella maledetta sonda, divenendo anch’egli un cadavere abbandonato tra le rocce sparse di quel terreno riarso.
Il suo sguardo febbricitante saettava continuamente tutto intorno a se, sudava copiosamente e negli occhi gocce salate scivolavano bruciando la vista. Il respiro era affannoso, La milza doleva e la gola era in fiamme. Una sete divorante lo tormentava. Avrebbe dovuto rallentare, ma no, doveva scappare, sempre più veloce.
Le ore passarono e l’oriente cominciò a schiarirsi. Darmon era sempre più allo stremo, si sentiva una febbre tremenda e la testa cominciò a girare, una vertigine cominciò a salire al capo e quando il sole si alzò la luce lo accecò. In quel momento avrebbe accettato persino la morte…non ce la faceva più. D’improvviso tutto divenne confuso, poi nero e poi più nulla.
Un rumore confuso entrò nelle orecchie, una luce rosata entrò attraverso le palpebre chiuse. Un dolore generalizzato si fece acuto, il corpo chiedeva aiuto e la gola riarsa bramava acqua. Le mani deboli si mossero piano e toccarono un tessuto ruvido e grezzo. 
Darmon, con un grande sforzo, aprì gli occhi, ma la vista era annebbiata e la testa gli girava. Si sentiva ancora febbricitante. Un tocco freddo sulla fronte lo sorprese. Si rese conto che qualcuno doveva avergli messo una pezza bagnata. 
Rendendosi conto che stava riprendendo conoscenza, un uomo seduto accanto al ragazzo disse qualcosa che Darmon non comprese. Era convinto di essere in condizioni tali da non comprendere nessuno, in realtà era una lingua straniera. Aprì di nuovo gli occhi e si sforzò di dire qualcosa, ma non si sentiva la lingua e doveva bere, la testa girava. Una mano gli sorresse il capo da dietro e qualcuno gli avvicinò una borraccia alla bocca. Darmon bevve avidamente l’acqua fredda di sorgente e riprese conoscenza a sufficienza. Si guardò intorno e vide tre uomini vestiti di scuro, con abiti di lino, il volto coperto, esclusi gli occhi. A giudicare da quel poco che si poteva intuire erano persone di mezza età. 
Una luce entrava da una finestra. Darmon con poca voce domandò ai tre dove si trovasse. Nessuno di loro parve comprenderlo. Il suo sguardo andò oltre la finestra e mille barbagli di luce a breve distanza lo sorpresero. Occorse qualche attimo fino a che una consapevolezza facesse capolino attraverso la febbre e le vertigini.
Con un filo di voce ed indicando oltre la finestra chiese “Smeder”?
Uno degli uomini mostrò uno sguardo sorridente ed assentì. “V…Vali..Valistan?” domandò ancora stentatamente Darmon.
Lo stesso uomo assentì rispondendo qualcosa di incomprensibile ma dal tono gentile. Una mano del ragazzo passò sul volto sudato ed egli si stese, sospirando di sollievo e piombando in un sonno ristoratore.
VIII. Il Tuffo
La stanza era immersa nella penombra. La lampada sulla scrivania illuminava le copertine di alcuni manga ed un cd di Bob Marley. Filippo trovava che il reggae fosse interessante a dosi omeopatiche, ma che alla lunga risultasse di una monotonia sconvolgente. Non era mai stato interessato dalla filosofia rastafariana e da tutte quelle cose lì. 
Silvia invece ci andava matta, ascoltava solo quel tipo di musica, si faceva le canne e la menava in lungo e in largo con l’essenza religiosa del reggae vero.
L’attenzione di Filippo non era centrata su questi pensieri, non in quel tardo pomeriggio invernale. Pioveva da ore, era buio..potevano essere quasi le 19.00, forse sì, un orario lì attorno con ogni probabilità. La bocca di Silvia non si staccava dalla sua, gli divorava il respiro, mentre i loro corpi si stringevano su quel letto un po’ stretto.
Le mani di Filippo entravano ed uscivano dai vestiti di lei e gli unici rumori in quella stanza erano i loro sospiri e respiri, il fruscio dei vestiti e qualche parola detta sottovoce.
Dopo un tempo indefinito la ragazza trovò il piacere e si strinse forte all’amico baciandogli il collo. Lui non aveva raggiunto lo stesso risultato, almeno non del tutto. Quando si ricomposero un poco Filippo sedette e controllò l’ora sul cellulare che stava ai piedi del letto. “Cazzo, sono le 20.30!!!” disse allarmato. Meno di un’ora dopo avrebbe dovuto suonare al Diagonal Pub, un locale un po’ strano, piccolo e frequentato da gente di tutti i tipi. Doveva ancora andare a casa, lavarsi, cambiarsi, prendere la chitarra ed andare per il soundcheck. Si alzò, prese il giubbotto, si mise gli anfibi e salutò frettolosamente l’amica. Silvia tentò di trattenerlo, ma Filippo corse via, salì sulla sua Peugeot 205 Diesel blu e corse (si fa per dire) a casa, dove si fiondò sotto la doccia, indugiando in una pulizia inutile che però era sintomo psicanalitico del fatto che Silvia non gli piaceva poi molto. Si rivestì indossando una maglietta nera e dei jeans mezzi strappati e gli anfibi. Aveva una fame assurda ma non poteva cenare, era in ritardo. 
Con la custodia della chitarra nella mano sinistra scese le scale e corse in macchina, sotto la pioggia. In pochi minuti giunse davanti al locale e vide che era il primo ad essere arrivato. Sospirando scese, prese la chitarra dal bagagliaio ed entrò nel locale. A quell’ora gli avventori erano molto scarsi, non c’era quasi nessuno. 
Filippo salì sul piccolo palco, estrasse la chitarra e l’accordò. Guardandosi intorno notò una ragazza non molto alta, coi capelli biondi e corti. Lei lo guardava. Il ragazzo scese dal palco e la raggiunse presentandosi. La ragazza fece lo stesso. Si chiamava Nicole ed era una studentessa. Prendendo l’iniziativa, Nicole offrì da bere a Filippo, ordinò un cocktail che lui non conosceva e brindò al suo concerto. 
Il ragazzo diede un primo sorso e quella roba gli sferrò un cazzotto nello stomaco. “Porca puttana ma che cos’era!?!?”. In quel mentre arrivarono gli altri ragazzi del gruppo ed il chitarrista li raggiunse per un brevissimo soundcheck durante il quale il locale si riempì velocemente. Quando furono le 21.45 le bacchette di Roberto scandirono l’attacco del primo brano e tutti si misero in moto con energia. Alla fine del primo pezzo gli occhi di Filippo incrociarono quelli di Nicole e poi si spostarono sul bicchiere ghiacciato appoggiato sull’ampli. La mano destra l’afferrò ed il ragazzo trangugiò il contenuto con imprudente rapidità.
All’avvio del secondo brano Filippo mancò il tempo e perse il ritmo sotto lo sguardo feroce del cantante Alberto. Filippo cercava di rimediare, ma quello che usciva dalle casse era solo un pastone sonoro distorto.
La mano di Claudio, il bassista, lo afferrò per un braccio ed il compagno gli urlò all’orecchio “Filo, ma che cazzo fai?!?!”. Il chitarrista si voltò con espressione assente. Si sentiva di gomma, quel cocktail era troppo forte…lo aveva capito tardi. Ora si trovava a ciondolare mentre la chitarra andava in feedback e la band si era fermata tra i fischi del pubblico. Alberto prese una bottiglietta di acqua fredda e gliela versò sulla testa. Filippo sussultò sbarrando gli occhi e scuotendosi. Il resto del gruppo riprese a suonare con Guido, alle tastiere, che cercava di coprire le parti di chitarra. Il chitarrista non si muoveva, restava come un’idiota sul palco, ciondolando con la chitarra a tracolla. Nicole si avvicinò al palco e gli urlò qualcosa che non lui capì veramente, ma interpretò quelle parole come una incitazione a riprendersi. Passandosi una mano sul viso Filippo si girò ad afferrare una bottiglia di acqua fresca. Dopo averla scolata, riprese con forza la chitarra ed entrò nel pezzo con sufficiente sicurezza. La testa girava ancora, ma almeno le mani davano retta. I riff uscivano bene e Filippo si sentì uscire dal corpo..l’alcol faceva brutti scherzi a volte. Guardandosi dal soffitto del Diagonal il ragazzo vide come il suo corpo si era tuffato finalmente nel flusso della musica. In quel momento lo spirito non aveva intenzione di scendere giù, ma andava bene così, si disse.
IX. Acfrido
I guerrieri capeggiati da Acfrido erano un gruppo sparuto ed avanzavano a cavallo in un’area boschiva ad est del Reno. Era un autunno freddo e piovoso, ma tutti gli uomini eccetto il capo erano vestiti solo di una leggera tunica. Lance, scudi e framee erano gli equipaggiamenti dei guerrieri. Solo Acfrido indossava un’armatura, un elmo e possedeva una spada in ferro, arma molto rara presso i germani.
Quei boschi scuri e silenziosi sembravano una sorta di cattedrale ombrosa, resa fredda dall’incessante pioggia di quei giorni. Il terreno era zuppo e fangoso ed anche procedere a cavallo era disagevole. 
La folta barba rossa del capo era fradicia d’acqua, così come le sue vesti poste sotto la corazza e come i capelli che uscivano dall’elmo. Acfrido aveva una lunga e folta chioma rossa come il rame e due luminosi occhi azzurri. Non era molto più alto dei suoi, ma era dotato di una muscolatura possente ed era un guerriero indomabile e letale, nonostante la giovane età. 
Durante gli anni precedenti aveva posto sotto il suo dominio qualcosa come dieci clan, creandosi un piccolo regno, proprio oltre le zone controllate dai romani. 
Quegli uomini bruni provenienti da una terra lontana avevano costruito un impero sterminato e disponevano di un esercito enorme ed invincibile. Per quanto li odiasse in quanto nemici dei germani, ne ammirava le capacità belliche e la spietata determinazione. Personalmente non si era mai imbattuto in qualche distaccamento delle loro forze, ma la necessità di controllare i propri confini lo spingeva spesso ad occidente, in una sorta di terra di nessuno. Non temeva quelle genti, questo no, ma sapeva di non avere un esercito numeroso e coeso, questo lo impensieriva. Era probabile che di fronte ad una operazione pianificata dai romani i suoi avrebbero ceduto in breve tempo. Era difficile tenere disciplinate le sue genti.
Nel pomeriggio il manto di nubi si aprì parzialmente ed un sole timido si affacciò sulla foresta, disegnando ombre nel sottobosco. Acfrido comandò ai suoi di fermarsi per una sosta. Gli uomini scesero da cavallo e consumarono un pasto frugale composto da carne secca, acqua fredda e focaccia. Subito dopo risalirono a cavallo per percorrere l’ultimo tratto del percorso perlustrativo prima di tornare a casa. Mentre avanzavano, un sibilo acuto ruppe il silenzio, uno dei guerrieri emise un suono strozzato e cadde da cavallo. Gli uomini si fermarono di colpo scandagliando con lo sguardo il bosco. Un altro sibilo ed un cavallo cadde in ginocchio disarcionando il guerriero. “Giù al riparo dietro gli alberi!”  urlò Acfrido. Gli uomini reagirono con prontezza. Il nemico era da qualche parte alla loro sinistra, ma non era visibile, nel fitto della vegetazione. La ventina di guerrieri al comando di Acfrido si scambiavano occhiate interrogative, mentre il loro capo estraeva la spada con uno sguardo determinato. Il buonsenso, tuttavia, gli impedì di lanciarsi all’attacco senza un obiettivo preciso e senza sapere quali forze si nascondevano aldilà della macchia. Questo dubbio fu parzialmente fugato da una voce perentoria che si alzò da quella parte della foresta.
Una frase del tutto incomprensibile, ma dal tono minaccioso giunse all’orecchio dei guerrieri, che si guardarono con sguardo interrogativo.
Acfrido comprese subito che doveva trattarsi di romani, anche se non ne conosceva la lingua. Non sapeva come agire, in quel momento si sentiva spiazzato, ma non fece trapelare nulla ai suoi uomini e rispose a quella voce gridando “Sono Acrfido, re di questa regione, uscite dal mio territorio o sarà guerra!”. Ci fu un breve attimo di silenzio, poi dalla parte dei romani si sentì ridere a voce alta ed una voce, diversa, rispose “non temiamo i vostri guerrieri, molti ne abbiamo vinti e di più ne vinceremo. Lasciate questa terra o non vivrete!”
Stupefatto Acfrido si chiese chi potesse essere a parlare la sua lingua tra quelle genti, certamente un traditore o un prigioniero. Di rimando rispose “Questa terra non è vostra e combatteremo fino alla fine. Non passerete!”.
Il germano rispose “Il centurione Armenius non ha tempo da perdere! Arrendetevi o vi schiacceremo”. Un sibilo, questa volta diverso, attraversò l’aria ed un urlo acuto si levò alle spalle del capo. Uno dei suoi uomini era stato trafitto ad una spella da una freccia.
Una rabbia furiosa si impadronì di Acfrido, che abbandonò la prudenza e ordinò ai suoi uomini di attaccare allargandosi ai lati, presunti, dello schieramento romano. I germani giunsero rapidamente in contatto col nemico, ma si trovarono di fronte ad un distaccamento piuttosto numeroso di fanteria romana e di ausiliari. Armenius dava ordini con comandi secchi e decisi ed i fanti romani disarcionarono quasi tutti i guerrieri, finendoli rapidamente.
Acfrido riuscì ad uccidere parecchi nemici e decise di puntare contro Armenius, anch’egli a cavallo. I due comandanti ingaggiarono uno scontro con le spade e combatterono a lungo, nonostante i germani fossero stati trucidati. Con gli occhi verdi iniettati di sangue Armenius combatteva furiosamente, con una energia inesauribile. Era un veterano di molte battaglie. Originario della lontanissima Armenia, aveva servito l’Impero in molti teatri di guerra ed ora, in terre barbariche, si trovava a combattere nemici molto diversi da quelli mediterranei o asiatici. Determinato a finire quel combattente, non dava tregua al nemico ed i suoi colpi erano sempre più intensi e gli attacchi serrati.
Acfrido, per quanto forte e capace, stava iniziando ad accusare fatica e questo lo esponeva sempre di più alla furia del nemico. Era sempre più difficile mantenere l’attenzione, era sempre più complicato rispondere agli assalti ed attaccare. Dopo un tempo che parve infinito, la lama di Armenius colpì in un punto scoperto della corazza di Acfrido, penetrando in profondità. Il guerriero germanico sussultò tentando di prendere fiato, ma sputò sangue e la barba ramata si striò di rivoli rossi. Un dolore lancinante si irradiava attraverso il suo possente corpo.
Armenius fu tentato di finirlo colpendolo alla gola, ma poi abbandonò quel pensiero. Acfrido cadde da cavallo e stramazzò sul suolo fangoso. La sua pelle divenne grigiastra, i suoi occhi azzurri si appannarono guardando le cime degli alberi scuri. I rantoli dall’agonia lo scuotevano, mentre nelle orecchie risuonavano gli insulti dei legionari e qualche sputo lo colpiva.
Armenius urlò qualcosa e zittì i suoi uomini, poi si chinò sul nemico, gli strappò la spada dalla mano ed ordinò a tutti di andare, lasciando Acfrido ai suoi ultimi respiri.
Un ultimo pensiero balenò nella mente pervasa dal dolore dello sconfitto..le porte del Valhalla.
X. Portatemi con voi
Il sole era sorto già da un’ora e stava cominciando a fare caldo. Eufrem imprecò, doveva alzarsi prima. Estrasse una pesca succosa dalla bisaccia e la addentò affamato ed assetato, guardando la sua cavalla che brucava erba legata al ramo di un albero vicino. La familiare sensazione di pericolo si riaffacciò nella mente del ragazzo. Quella incessante paranoia lo tormentava da anni e lo aveva logorato molto. Le guerre separatiste avevano infuriato per ben otto anni ed avevano trascinato nel loro gorgo di morte, dolore e distruzione, milioni di persone, moltissime città e villaggi. Tutto il mondo che Eufrem aveva conosciuto da piccolo era stato spazzato via, in nome di una lotta per le identità. L’istinto di sopravvivenza aveva spinto il ragazzo ad una continua fuga. Fuga dal dolore per la perdita dei suoi, fuga dalla sua città, dalle sue terre d’origine. Non si era mai aggregato a gruppi di profughi o di partigiani, ma aveva imparato a sparare ed aveva sempre trovato il modo di procurarsi armi, cibo, acqua. Era dura, tutti i giorni erano un ricominciare daccapo anche se, col tempo, il ragazzo aveva notato che le presenze dei militari si erano diradate, così come quelle dei civili. Aveva pensato ad evacuazioni, deportazioni, chissà…non sapeva che fine stessero facendo tutti e neppure come stesse andando la guerra o se ancora si combattesse. 
Da un po’ di tempo non incontrava nessuno. Stava percorrendo da molti giorni sentieri di montagna, tra boschi e valli senza presenze di villaggi o di persone. 
Indossando i suoi abiti di lino, i suoi scarponcini estivi e il suo copricapo con visiera (una accozzaglia di uniformi ed abiti civili), salì a cavallo fissando la bisaccia, la grande borsa da viaggio e sistemando il suo fucile al plasma. Aveva avuto forse armi migliori e piu recenti, ma soggette al problema della necessita di essere ricaricate. Il fucile al plasma, sebbene ampiamente in disuso, non aveva questo problema. Era un residuato delle guerre repubblicane, combattute qualcosa come trent’anni prima. Quel secolo era stato troppo insanguinato. 
Per proteggere quell’arma preziosa trovata qualche tempo prima, Eufrem ne aveva avvolto la canna con strisce di stoffa, e lo stesso per il calcio. Il potere distruttivo di quel coso ingombrante era notevole, così come la sua velocità, ma non era un’arma perfetta. Comunque era utile per la caccia. 
Eufrem aveva combattuto raramente e sempre soltanto per potersi dare alla fuga o difendersi. Non era un soldato, ne nulla di simile, era un fuggiasco, perennemente determinato a lasciarsi alle spalle, dolore, morte, distruzione. Non riusciva mai completamente a sentirsi al sicuro, neppure durante quel periodo.
Quel giorno il suo cammino lo portò attraverso un sentiero in salita che da un bosco di acacie si inerpicava lungo un fianco della montagna. Durante la salita finalmente la vegetazione si diradò e d il viandante fermò il cavallo. Estraendo il binocolo elettronico dalla borsa da viaggio si mise a scandagliare la valle sottostante e trasalì quando, in lontananza, vide alcune macchie chiare, con tutta evidenza si trattava di edifici. Una parte di sé accese un campanello di prudenza, mentre un’altra lo spinse a scendere a valle. Poteva essere un luogo dove trovare provviste ed acqua.  Eufrem decise di scendere. Con lentezza il cavallo proseguì tra bosco e prati, fino a raggiungere il fondovalle, dove un torrente trasparente, di acqua ghiacciata scorreva tumultuoso. 
Avvicinandosi all’abitato Eufrem notò che un silenzio tombale pareva coprire il luogo. Una sensazione di scoramento lo attraversò. Perlustrando le strade, si accorse che non c’era nessuno. Tutto sembrava ovviamente in rovina per colpa della guerra, ma non c’erano cadaveri, nulla. Ad ogni modo frugando qua e la il viaggiatore trovò parecchie provviste e riempì le borracce d’acqua fredda. Su una panchina sbrecciata si sedette sospirando e mangiando qualcosa. La piazza del paese era piena di polvere e calcinacci. 
improvvisamente uno strano ronzio proveniente dall’alto gli fece alzare lo sguardo e con grande stupore vide un oggetto ellittico, color metallo opaco, scendere e posarsi sulla piazza. Le dimensioni potevano essere circa quelle di un autobus. A bocca aperta ed occhi sbarrati osservò la scena. Lentamente si aprì un portellone da cui uscirono cinque uomini che indossavano abiti grigi, simili ad uniformi. Uno di loro, dai tratti mediterranei, si avvicinò prudente e si guardò lentamente intorno per poi rivolgersi al giovane “Salve, siamo in volo da giorni e…ovunque è così. Dove sono finiti tutti?”.
Eufrem guardò a terra e poi fissò i suoi occhi in quelli interrogativi dell’uomo che aveva di fronte. Sospirando rispose “C’era..c’è stata una guerra, ma…devo avere vinto, credo”. 
L’uomo uscito dall’oggetto guardò i suoi compagni con sguardo interrogativo, poi di nuovo la sua attenzione si spostò sul ragazzo, il quale riprese la parola “per favore, vi prego, portatemi con voi..”
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