Tumgik
lanimadellamosca · 3 years
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Donchisciottismo
Mi sono "disiscritto" (come dicono loro) dalla newsletter a cui la Banca Sella mi ha automaticamente iscritto al momento in cui ho chiesto una carta Hype, ed ho ritenuto di esprimere i motivi della "disiscrizione", dato che bontà loro mi chiedevano di farlo per avere la possibilità di migliorare. 
Ho scritto: "Troppo pressanti, troppo giovalistici e superficiali, a volte di cattivo gusto coi vostri slogan totalmente disallineati dalla realtà problematica che viviamo." Il loro tono, tanto per dare un'idea, è questo:
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Adesso mi aspetto che mi scrivano più o meno così: "Gentile Cliente, la ringraziamo per i suoi preziosi consigli. Ci abbiamo pensato a lungo e alla fine abbiamo deciso che lei ha ragione, effettivamente ci siamo comportati come una manica di stronzi. Il nostro buon proposito è prometterle che sarà un anno da parte nostra più sobrio e rispettoso."
Vediamo...
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lanimadellamosca · 3 years
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L’insostenibile leggerezza dell’essere siciliano
Un compagno di liceo che sta giù mi ha mandato un pacco pieno di dolci terroni, non torroni ma proprio terroni, non sono io che gioco con le parole, sono i pasticcieri, guardate:
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C’è scritto proprio nella ragione sociale, Dolci Te/orroni, in una sorta di linguaggio inclusivo.
Ebbene dicevo, un compagno di liceo che ho incontrato di recente… Incontrato in senso lato, perché il periodo non è propizio agli incontri, incontrato in senso virtuale, su whatsapp, la cosa è andata così...
Grazie o per colpa del confinamento dovuto alla prima ondata di epidemia, nella primavera scorsa si è costituito da qualche parte, magari, come dice quel rimbambito di Giuliani, in Spagna passando dalla Germania con soldi del Venezuela, un gruppo whatsapp dei miei compagni di classe ‘64-’69 del secolo scorso; e in estate, dopo un incessante lavoro di intelligence mi hanno trovato, come fosse nel film Commando, ricordate? Arnold Schwarzenegger che vive in montagna con la sua bambina, taglia alberi e se li carica in spalla, e un ex commilitone lo viene a scovare per costringerlo a una losca operazione. Ecco, una cosa così: ero in montagna con mio figlio, volevo andare sul Servin ma appena arrivati ai 1300 siamo entrati in una nebbia che non si vedeva niente e così siamo tornati indietro; siamo tornati non per paura di perderci, che come cantava Dalla dalla Vaccera al Servin non si perde neanche un bambino, ma perché non c’era spettacolo, e siccome mio figlio è un uomo di spettacolo, che coi tempi che corrono non lo auguro a nessuno, con la nebbia non valeva la pena portarlo sul Servin perché tanto non c’era spettacolo nemmeno lì. Stavamo tornando a casa e lui mi dice: i tuoi compagni di liceo ti cercano, ti vuoi fare trovare? E io gli rispondo: sì, certo! E così sono entrato in questa combriccola di compagni di classe in transito intorno ai settanta. Anni, no chilometri.
Dove ero rimasto? Sì, il pacco...
Uno di questi compagni, che oltre che compagno di classe è stato per qualche breve periodo anche mio compagno di banco, che non vedo da cinquantun’anni, da quando Neil Armstrong mise piede sulla luna, giorno più giorno meno, insomma questo compagno di classe avendo sentore che avessi un po’ di nostalgia di colori, odori e sapori siciliani, mi ha spedito un pacco pieno come si vedeva sopra di dolci terroni, torroni ma non solo. Un pacco quasi come quelli che mi mandava mia mamma, anche l’illustrazione è in pieno canovaccio, guardate:
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Quel carretto che è raffigurato nella scatola, pensate, mia mamma me lo spedì, una volta, lo conservo gelosamente, è fatto di cartone pressato, come fosse di cartapesta, ma guardate che meraviglia:
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E niente… volevo dire che nel pacco ho ritrovato un po’ delle cose che mi mandava mia mamma, non parlo delle prelibatezze, quelle va da sé che fa piacere e sono speciali che neanche Eataly, ma parlo dei sentimenti e delle sensazioni, la parte di gran lunga più importante di un pacco.
Per quella insostenibile leggerezza dell’essere siciliano che ci fa evitare i discorsi troppo pesanti e che ci fa essere discreti nella sfera dei sentimenti, non starò a perdermi in sdolcinatezze a fronte delle quali i dolci te/orroni sono amari; dirò solo che nel pacco c’era questa cosa qui:
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Questa l’han fatta a Modica, è torrone di semi di sesamo, e l’etichetta dice che si chiama cubaita, ma noi a Pachino, che è a poche decine di chilometri, la chiamiamo ghiugghiulena, con quel suono gh gutturale liquido che solo un siciliano madrelingua può pronunciare. Pensate un po’, a Modica la chiamano cubaita e a Pachino la chiamiamo ghigghiulena: poche decine di chilometri, tre o quattro, e non ci si capisce nemmeno sui dolci, per non dire sul senso della vita; e difatti per un pachinese essere modicano voleva dire appartenere a uno stadio inferiore nella evoluzione del genere umano. Non so cosa pensassero i modicani dei pachinesi perché con un modicano, io, credo di non avere mai avuto il coraggio di parlarci.
Che poi, a proposito di cubaita, mi ricordo di avere sentito usare da qualcuno una espressione tipo: “cubaita? Nènti!”, per dire che non c’era da scialare, che si era a secco, che non c’era da spassarsela. Un po’ come dicono i napoletani, mi pare di ricordare che c’era un mio amico napoletano che lo diceva sempre: “acqua nun ce n’è, paparella nun galleggia!” Espressioni che per una singolare coincidenza ben rispecchiano la situazione dopo le ultime misure per contenere l’epidemia in periodo di feste natalizie. Credo di non essere lontano dalla verità se penso che il sentimento più diffuso nel pianeta in questo momento sia come mancare di cubaita, come essere paperelle e non avere acqua per galleggiare. 
Ma io non mi posso lamentare: grazie a Corrado, è così che si chiama il mio compagno di classe ‘64-’69 del secolo scorso, grazie a Corrado cubaita ne ho, e per solidarietà non ne farò mancare un assaggio a figli, nipoti ed amici.
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lanimadellamosca · 3 years
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Trova l'errore
La cultura hip-hop invade le strade di New York, all'inizio degli anni 1980.
Così dice la didascalia della foto. Ma qualcosa non quadra...
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In effetti, il titolare dei diritti di riproduzione della foto, Alamy Stock, parla più correttamente di "tre rapper vestiti alla maniera degli anni 80", e nota che la foto essa stessa è del 2006 (qui).
More information: three rappers dressed in 80's fashion walk down Broadway Date taken: 20 September 2006 Location: Broadway, Manhattan, NYC
Com'era facile capire dalla signorina a sinistra e dal signore a destra che parlano allo smartphone. “Elementare, Watson”.
(Ahh..! Ho letto che intitoleranno una scuola a Sir Artur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes: la Elementare Watson.)
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lanimadellamosca · 3 years
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Montanari isolati
Le Monde le ha dedicato due intere pagine, tanto la vicenda assume i caratteri della straordinarietà: quattro abitanti di Castérino non hanno voluto lasciare la loro borgata e hanno deciso di passare l’inverno su. In questo preciso momento il loro isolamento deve essere appena cominciato, dato che la neve è arrivata abbondante in questo settore delle Alpi.
Castérino è una frazione di Tenda, in Val Roja in Francia, a 1500 m. di altezza all’imbocco della Valle delle Meraviglie. Località turistica per ogni stagione, escursionismo estivo a tutti i livelli ed esperienze invernali acchiappaturisti senza pudore, come portarli su slitta trainata da cani. Qualcosa come 50.000 turisti all’anno, che per una località montana senza impianti sciistici sono davvero tanti. Il fatto quindi che questo inverno anziché ricevere frotte di turisti da portare a spasso su slitta ed a cui offrire vin brulé sia lì ridotta alla sopravvivenza, potremmo dire, ha davvero il carattere della straordinarietà. Colpa di Alex, la tempesta che l’anno scorso nel giro di poche ore ha devastato la valle e che ha interrotto i collegamenti stradali.
Eppure, quello che oggi ci appare così straordinario, tale che può essere solo conseguenza di una catastrofe, fino a non molti decenni fa era realtà diffusa in montagna, una condizione associata all’idea stessa di abitare in montagna. Tanto per citare un caso, fino agli anni settanta Marianna passava l’inverno sola ai Faure, alla biforcazione tra val Chisone e val Germanasca, a 1000 metri di altezza: lei, il suo cane e i suoi animali da cortile. Niente strada e niente spalaneve, se c’era la neve bisognava aspettare che si sciogliesse prima che qualcuno potesse arrivare fin lassù a vedere come stava e a portarle qualche provvista. E senza televisione, reti mobili e collegamenti satellitari.
Al confronto, i nostri quattro eroi di Castérino, a cui peraltro va tutta la mia stima e simpatia, fanno ben magra figura, coi loro collegamenti radio con l’elisoccorso, coi loro smartphone e le chat per non sentirsi troppo soli.
È un po’ segno di come son cambiati i tempi e siamo cambiati noi, stravaccati sugli agi del nostro stile di vita e assolutamente non predisposti alle avversità.
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Ricordo la storia che si racconta abbia dato nome ad una località nel vallone di Massello, in val Germanasca, in quella che una volta era indicata come la val San Martino: Bâ Jouann, il balzo di Giovanni, una roccia esposta a perpendicolo sulla Germanasca da cui Jouann, si racconta, cadde giù nel torrente. Cadde ma non morì, perché era già morto: era morto durante l’inverno, ed era stato tenuto “al fresco” per dargli degna sepoltura coi primi disgeli. Quando fu il momento lo presero e lo portarono verso il cimitero di valle, solo che arrivati in quel punto del sentiero particolarmente esposto, che fino a quel  momento non aveva nome, uno dei portatori perse l’equilibrio e la salma di Jouann balzò giù nel torrente.
Per dire… Altro che chiamare il medico che arriva con l’elisoccorso: è inverno, ti ammali e muori. E come se non bastasse, in primavera ti portano al cimitero e la tua salma finisce malauguratamente nel torrente. In compenso però diventi toponimo, il che se permettete non è poco; anche se noi, per via dello stile di vita che ci siamo dato, stiamo non solo perdendo l’abitudine all’ineluttabilità di certe vicende umane, ma stiamo anche dimenticando i toponimi, ultimo affronto per il buon Jouann della val San Martino.
(La cengia al centro dell’immagine potrebbe essere il luogo in questione. Ho preso la foto qui. Ho raccontato la storia di Bâ Jouann come me l’hanno raccontata; qui, a pagina 71, potete trovare uno studio che Arturo Genre ha dedicato a questo toponimo in cui conferma la caduta della salma di un Jouann Pons mentre la portavano al cimitero di San Martino, ma non dà a Bâ il significato di balzo ma di basso o passo, e non fa cenno ad un suo precedente congelamento. Tuttavia questo particolare è assolutamente plausibile: il cimitero di San Martino, in cui era fatto obbligo di seppellire i morti, era distante anche dieci chilometri dalle borgate, e non è pensabile che le salme vi fossero traslate in pieno inverno. Proprio ad Arturo Genre è stato intitolato il sentiero, di recente rivalorizzato. Qui una scheda tecnica. )
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lanimadellamosca · 4 years
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Potenza del pollice (2)
Tre degli addetti dell’impresa di pompe funebri incaricata delle esequie di Maradona si sono fatti fotografare a fianco della salma nel gesto di mostrare il pollice in su, il famoso thumbs up degli americani. Le immagini hanno fatto scandalo ed hanno suscitato una diffusa indignazione, tanto da portare al licenziamento dei tre addetti e a trasformarli nelle ennesime vittime di molestia, odio e minacce in rete.
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Potenza della esibizione del pollice! Che sarà mai?
Sebbene il gesto sembri possa essere vecchio di secoli (qualcuno lo fa risalire all’uso nel mondo anglosassone di pattuire un accordo commerciale leccandosi e stringendo i pollici), la sua potenza simbolica sembra un fatto relativamente recente. Ho provato a fare una ricerca in rete associando il nome dei presidenti degli Stati Uniti d’America alla esibizione del pollice: è un diluvio con Trump, un discreto uso da parte di Obama, Clinton e di Bush figlio, mentre andando ancora più a ritroso il gesto tende a scomparire. Lo spartiacque, nella esibizione del pollice da parte dei presidenti degli Stati Uniti d’America, sembra essere stato Ronald Reagan, e non stupisce, anche perché il personaggio, i tempi e le tecnologie erano maturi per veicolare su larga scala immagini a forte contenuto politico simbolico. 
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Bisogna peraltro prendere nota di un fatto: fino a qualche decennio fa il gesto significava genericamente tutto a posto, ma con l’avvento di Facebook ha assunto il significato ben più preciso e leggermente diverso di like this, mi piace, ed ha assunto una sua valenza, espressività e comprensione planetaria, dato che si può tranquillamente affermare che ogni giorno nel mondo si scambiano miliardi e miliardi di pollici in su, la maggior parte dei quali indica gradimento. È probabile che sia stata questa particolare accezione di like this a scatenare il putiferio per i tre malaccorti addetti alle esequie di Maradona. Ma non è ragionevole pensare che sia stato proprio questo il significato che i tre intendessero dare al loro gesto...
Bisogna passare oltre lo schiacciante valore simbolico, tutto moderno, della esibizione del pollice per potere capire il reale significato di quel gesto, quello che probabilmente gli stessi interessati gli davano nello stesso momento in cui lo facevano: quel gesto non indica gradimento, accordo o consenso di sorta, ma  appartiene a tutt’altro genere di manifestazioni, quelle in cui il vivente trae motivo di autoaffermazione dalla esibizione del cadavere di una persona temuta o rispettata. I precedenti sono nobili. Si va dai cacciatori di taglie che si facevano fotografare a fianco dei cadaveri delle loro vittime (delle volte artificiosamente tenuti “in piedi” o legati ad una sedia), ai soldati dell’esercito del neonato Regno d’Italia che esibivano come trofei di caccia i cadaveri dei briganti dell’Italia meridionale, giù giù fino alla celebre esibizione del cadavere di Ernesto Guevara. E sono estremamente significativi, in quest’ultima foto, i gesti dei due militari, l’uno che sembra carezzare i capelli del cadavere, l’altro che indica con il dito indice l’oggetto della loro gloria ed affermazione, forse la ferita che ne ha causato la morte. 
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Maradona, nel suo (permettetemi...) goffo ergersi a campione dei diseredati che lo ha portato a farsi amico di Fidel Castro e di Hugo Chavez, s’era a suo tempo fatto tatuare sul braccio il volto del Che; ed è singolare che due miti così diversi si siano ritrovati accomunati, da morti, in un gesto di esibizione del loro cadavere dalla stessa valenza simbolica ma la cui potenza sembra essersi spostata dall’indice al pollice.  
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lanimadellamosca · 4 years
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Potenza del pollice (1)
Fino a qualche decennio fa la sua funzione non era altro che opporsi, anche se va precisato che questa opposizione è ciò che distingue i primati dagli altri animali, vale a dire, ad esempio, l’uomo dalla lucertola. Parlo del pollice della mano.
Gli abbiamo attribuito il potere di decidere nell’antica Roma della vita e della morte d’un gladiatore, ma è un’impostura: nel 1872 il pittore Jean-Léon Gérôme raffigurò in un quadro che titolò Pollice verso, quella che immaginava essere la scena finale d’un combattimento tra gladiatori in un’arena dell’antica Roma, o meglio in ciò che immaginava essere un’arena dell’antica Roma, con stucchi, marmi e drappi degni della corte del Re Sole. Il nostro attribuì alle vestali e alla plebe il gesto di rivolgersi al vincitore tendendo la mano chiusa a pungo col pollice proteso verso il basso nell’intenzione di incitarlo ad uccidere il suo avversario battuto. Qui il dettaglio in questione.
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Le fonti storiche sulla effettiva esistenza di un simile gesto nell’antica Roma difettano, pare che al massimo si trattasse di un pollice serrato nel pugno o esposto in orizzontale per simboleggiare la spada nel fodero o sguainata; ma questo non impedì che il mito del pollice verso si creasse, anche se per più di un paio di secoli non si vedeva bene in quale contesto, se non scherzoso, questo gesto potesse trovar posto.
Comunque, a parte quanto vedevamo nei film in costume che enfatizzavano a dismisura l’uso del pollice verso, per quelli della mia generazione il pollice non è servito ad altro che ad afferrare, a stringere nella leva della mano, e a pochi altri gesti simbolici: quello di portarlo verso la bocca col pugno serrato a simboleggiare l’atto di bere (avrà a che vedere con la suzione infantile? Col fatto che appena nato il bambino si porta il pollice in bocca per succhiare?), quello di passarlo rapidamente rivolto verso se stessi, sempre col pugno serrato, a simboleggiare un taglio; o infine il gesto subdolo di serrarlo nel pugno ma di mostrarne la punta tra l’indice e il medio, nel famoso gesto delle fica il cui uso ha una lunga storia che tocca, questo sì, l’antica Roma.
Negli anni sessanta il pollice salì alla ribalta per effetto della cultura alternativa americana e dello stile di vita “on the road”, quando fu usato per fare quello che imparammo a chiamare autostop, cioè per chiedere un passaggio in macchina a bordo di una strada: il pollice, esposto su un pugno serrato, serviva a indicare la direzione in cui si voleva andare e a chiedere di fermarsi, e non mancava chi sostenesse che oltre alla collocazione strategica era la perentorietà del gesto a fare il buon autostoppista. Fu una moda tutto sommato passeggera, durò in tutto forse un paio di decenni, e fu surclassata dalla diffusione della motorizzazione, da una diversa percezione della sicurezza personale, e in ultima analisi da uno stile di vita che prese in disprezzo il minimalismo del routard.
Ma il vero cambiamento della funzione del pollice lo si ebbe negli anni novanta, e fu un fatto di una tale portata che, per quanto mi concerne, posso dire tranquillamente che fu a causa di questo cambiamento che ho cominciato a diventar vecchio.
Negli anni ottanta giocavo tranquillamente coi miei figli impugnando i joystick del Commodore 64 o dell’Atari ST: certo, loro mi battevano in velocità ed abilità dei movimenti del polso della mano che muoveva la leva, e velocità delle dita dell’altra mano che azionava il pulsante del fuoco, ma lo strumento in sé non mi discriminava. Qui l’elementare joytstick della stessa Commodore.
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La rottura avvenne nel 1994, con l’avvento del joypad della Playstation. Fu un cambiamento radicale, di colpo il pollice divenne l’unico dito veramente importante per giocare, anzi essenziale: i movimenti venivano azionati articolando il pollice con scostamenti molto fini, ed il fuoco era azionato sempre dal pollice, per pressione; tutte le altre dita venivano relegate alla funzione di impugnare la tavoletta.
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Non fui in grado di riconvertirmi, e mi dovetti rassegnare a non potere più sfidare i miei figli: ogni tanto me ne stavo tristemente a giocare i miei arcade su Commodore o Atari, esposto alla derisione di quelli che una volta erano i miei avversari ad armi pari.
È stato un cambiamento tale che ancora adesso mi chiedo chi abbia potuto concepire l’idea che si potevano assegnare al pollice compiti ben più vasti ed articolati di quanto tutta intera la storia dell’umanità non avesse documentato nella nostra corteccia cerebrale. Come ha potuto costui pensare che il pollice poteva fare delle cose così? Da dove gli è venuta l’ispirazione? Avrà sviluppato una funzione nascosta in qualche nicchia della attività motoria del genere umano? O ha lavorato solo di genio e fantasia?
In ogni caso, da quel momento nulla ha potuto fermare la presa di potere del pollice: l’arrivo dei telefoni cellulari gli ha attribuito la capacità di comporre numeri di telefono e scrivere messaggi, ed il successivo avvento degli smartphone lo ha specializzato in una miriadi di applicazioni: quando osservo qualcuno che sa veramente come si usa l’interfaccia di uno smartphone, non come me che mi muovo goffamente con l’indice della mano, non posso che restare sbalordito dalla agilità dei suoi pollici.
E aggiungiamo a questo dilagante potere funzionale del pollice, l’uso devastante del gesto simbolico, tutto americano, del thumbs up. 
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Ma questa è un’altra storia.
(Nell’ultima immagine, l’attore inglese Sacha Baron Cohen nei panni di Borat ironizza da par suo sull’uso dilagante del thumbs up degli americani.)
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lanimadellamosca · 4 years
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Di come l’ultima azione di Diego sia stata una parata
Alle 17 e 40 di oggi il sito dell’ANSA titolava in apertura con la notizia della morte di Maradona, facendola seguire da un condizionale concernente la causa della sua morte. Titolo: “È morto Diego Maradona”, sottotitolo “Sarebbe morto per…”
Così com’è formulato, il sottotitolo instilla il dubbio sul titolo che lo precede: non è evidente che il condizionale si riferisca alla causa della morte, sembra che invece da un lato si annunci la morte del calciatore, e subito dopo si manifesti qualche dubbio sul fatto stesso che sia morto. Io, a dire la verità, non ci sono arrivato subito, a capire che il condizionale si riferiva alla causa della morte.
Una più corretta formulazione avrebbe voluto che il sottotitolo non ritornasse sulla morte ma si incentrasse sulla sua causa, come poteva essere ad esempio: “La causa sarebbe...”
Ma non è l’unico increscioso “incidente” in cui è incorsa l’ANSA alle 17 e 40 di oggi a proposito della morte di Maradona. Guardate, vediamo se lo trovate, l’altro fatto quanto meno increscioso.
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Già..! La morte sarebbe dovuta ad una “parata cardiorespiratoria”. Dato che stiamo parlando di un giocatore di calcio, l’errore è grottesco e un po’ lugubre.
Credo che l’espressione sia la traduzione (probabilmente ad opera di un traduttore automatico) del castigliano “parada cardiorrespiratoria”, che vuol semplicemente dire arresto cardiaco.
Colpa quindi di questi utilissimi ma pericolosissimi marchingegni che sono i correttori e i traduttori automatici? Solo in parte.
Ricordo che anni e anni fa, agli albori dei correttori automatici di Word, quando ancora i traduttori non erano usciti dai laboratori di ricerca delle università, mio figlio portò dalla scuola un comunicato in cui le famiglie venivano informate che era in programma una gita scolastica a San Giorgio Canadese. Si trattava ovviamente di San Giorgio Canavese, ed era comprensibile che Word sapesse di canadese e non sapesse di canavese; d’altronde, errori di questo tipo sono difficilissimi da trovare prima di aver fatto la frittata, ne so per esperienza diretta, porto anche io le mie responsabilità di quando titolavo un mensile del sindacato. 
Però..! Come si fa..! Non possiamo lasciare governare la nostra comunicazione da questi stupidi algoritmi, atteso che finora non sono arrivati alla perfezione, e non so se mai ci potranno arrivare. Personalmente mi sono convinto che occorre disattivare tutto, traduttori e correttori, ed usarli caso per caso, verificandone il risultato a mente vigile. A costo, per tornare all’ANSA, di non arrivare per prima con la notizia, ma arrivandoci però sana e salva.
E quindi sì, colpa dei traduttori e dei correttori automatici, ma colpa soprattutto di noi che dopo avere inventato questi bei marchingegni ne abbiamo fatto le nostre prigioni.
Sotto, la notizia corretta alle 18 e 31. Anche se sempre col condizionale un po’ fuorviante. Bah..!
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lanimadellamosca · 4 years
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Trouvailles archéologiques de la Vallée du Pelis. 
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Ancien godemiché vaudois.
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lanimadellamosca · 4 years
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I calzini e l’orgoglio
Ieri, complice il confinamento, mi sono applicato a rammendare qualche paio di calzini: è una cosa che evoca un passato di stenti e povertà, ma è utile e necessaria, allunga la vita del calzino, e adesso sappiamo che questo, se permettete, fa bene anche al pianeta.
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È una attività a cui mi dedico di tanto in tanto con compassione ed orgoglio.
Compassione per tutti i ricordi di fatti reali o immaginari del mio passato a cui è associata: le donne che quando ero bambino passavano parecchio del loro tempo a farlo (e lo facevano per bene, non come me: mia suocera cuciva le calze più fini coi capelli, si strappava un capello, lo infilava nell’ago, e ne ricostruiva la trama); le vecchie che disfacevano i calzini laceri per recuperarne il filo e farne altre (e noi bambini attendevamo questo momento per recuperare un po’ di filo per i nostri aquiloni); e mio padre, che immagino rammendare accuratamente i suoi calzini bucati, lui che ha praticamente vissuto tutta la sua vita da solo, vuoi soldato e poi impiegato in Africa Orientale Italiana, vuoi prigioniero in Inghilterra, vuoi emigrato in Venezuela.
Nella compassione ci sono pure io, certo: perché comunque il rammendo dei calzini è una delle necessità della mia vita da solo a cui faccio fronte come posso e come so.
Ma quando mi metto a rammendare calzini provo anche una forma di orgoglio, più ancora che se mi rammendo una canottiera o una maglia, perché l’attività è una sorta di rivincita contro qualche stereotipo e luogo comune legato appunto all’uomo che vive da solo.
“Non crederai mica che un giorno mi metta a rammendare i tuoi calzini?”, mi chiese anni fa una signora che sbadatamente mi trovai a corteggiare. Non m’era nemmeno balenata l’idea che lei potesse fare una cosa del genere per me, ero uscito da un matrimonio in cui non era mai successa una cosa del genere, e da che i miei calzini non me li rammendava mia madre (dai miei vent’anni, voglio precisare) me li rammendavo tranquillamente io, come penso che abbia fatto mio padre in quasi tutta la sua vita.
E così, ieri, mi ritrovavo a rammendare e pensare: no, grazie, i miei calzini me li rammendo da me.
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lanimadellamosca · 4 years
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Insulta e traduci
La situazione è banale, ma è proprio la sua banalità che dà la dimensione delle cose: cerco un lettore di codici QR senza pubblicità (ricerca impossibile?), e l’algoritmo, non so in base a quale nesso, mi propone un traduttore simultaneo. Nonostante l’immagine del suo logo appaia piuttosto minuscola nello schermo del mio telefono mobile, mi accorgo che qualcosa non quadra: fotografo la schermata e con l’ausilio di un apposito visore di immagini ingrandisco il particolare.
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Non c’è dubbio: la signorina è piuttosto arrabbiata; non sta parlando, sta insultando, e il fumetto che con lettera “S” che le viene attribuito non può che voler dire una cosa: “Stronzo”.
Non oso immaginare quale situazione abbiano voluto rappresentare gli autori di questo logo: la traduzione simultanea implica che si stia parlando con una persona di cui non si conosce la lingua, uno straniero, quindi...
È uno dei mille esempi quotidiani della “liberazione della parola”, dell’uso corrente dell’insulto nella comunicazione interpersonale, a cominciare dalle trasmissioni televisive che proprio sulla liberazione della parola, e del suo più prezioso feticcio, l’insulto, basano il loro successo; e dal dibattito politico, che praticamente in tutto il mondo è improntato non più alla demonizzazione dell’avversario ( ah..! i bei tempi in cui i manifesti della Democrazia Cristiana mostravano i cosacchi con falce e martello che bivaccavano a San Pietro!), ma alla sua distruzione attraverso l’insulto, la calunnia e la più spudorata menzogna. Salvo una ritrattazione di cui non si accorge nessuno.
Come è potuto avvenire un cambiamento così veloce e generalizzato, in tutto il mondo?
I sociologici attribuiscono il fenomeno alla rapidità della comunicazione, all’incredibile quantità di messaggi, e allo strumento che usiamo: lo schermo del nostro telefono mobile. I nostri interlocutori non ci appaiono come persone ma come entità astratte, colpirli ed insultarli non ci espone al rischio di vedere i danni che provochiamo, le conseguenze delle nostre parole: siamo perfettamente immuni, anzi non ci rendiamo nemmeno conto che le nostre parole possano effettivamente arrecare pregiudizio, danno fisico, dolore.
Gli esempi di come questo possa finire in dramma sono quotidiani, dai massimi livelli della nostra cronaca (a livello di Presidenza degli Stati Uniti d’America, voglio dire), fino a quelli più modesti della nostre vite (i nostri figli vittime di molestie a distanza orchestrate tramite le comunicazioni in rete).
Mi trovo d’accordo con chi sostiene che tutte le piattaforme che pubblicano messaggi debbano essere regolamentate e moderate, che così come perseguitare su carta stampata una persona è reato, altrettanto deve essere se lo si fa su internet. Ma da qui a dire se e come questo sia possibile…
Qualche giorno fa un quotidiano è incorso in un “incidente” che ha scosso molto la sua direzione e la sua redazione: non si sono accorti del gioco di parole che sottostava ad una pubblicità a pagamento, che pure era una pubblicità di libri. Lavorando sull’idea che “i libri non c’è un cane che li legga”, la casa editrice ha pensato bene di proporre un messaggio adeguato ai tempi che corrono, sullo stile insultante-blasfematorio che va per la maggiore, pensando ovviamente di rendersi moderna e simpatica. Il suo manifesto mostrava un cane con gli occhiali a lato di uno scaffale zeppo di libri, e informava che il cane si chiamava Okane; poi scriveva qualcosa tipo “dicono che i libri non li legge nemmeno un cane”, e concludeva chiedendo: “Ma secondo voi, questi libri, di chi sono?” Il direttore del giornale s’è accorto solo a cose fatte che la risposta alla domanda dava per risultato una bestemmia.
Certo che se uno deve guardarsi anche dalla pubblicità di una casa editrice..!
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lanimadellamosca · 4 years
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La vacca che vola
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In basso nella foto, una grigio alpina che pascola. Siamo nel vallone del Cruello, in Val Pellice, un ambiente ostico, con un versante che già di questi giorni non  vede il sole.
La grigio alpina della foto sta pascolando nel versante del vallone esposto a sud, che vanta una migliore esposizione: alle quattro del pomeriggio di oggi c’era ancora il sole, anche se non saprei dire quando arriva al mattino, impossibile prima delle dieci, forse le undici. Nel vallone c’è una piccola bergeria sui 1200 metri di quota: gli animali non sono ancora transumati a valle, mi chiedo se passeranno l’inverno lì, mi pare dura, forse con la prima neve faranno una breve transumanza un po’ più giù, a Bobbio.
Oggi avrò contato poco più di una dozzina di vacche al pascolo, ed ogni cosa era al suo posto: il filo elettrificato con batteria a pannello solare, il cane da bergé di guardia, di quelli che quando passi ti sorridono con l’aria di dire “vedi come sono bravo?”, le mucche tranquille con piccoli campanelli al collo, il minimo indispensabile per allontanare le serpi e per farsi sentire, non i pesanti e assordanti campanacci.
E poi loro, le grigio alpine, tenere, non nel senso di tenere da mangiare, ma nel senso di tenere di viso e di espressione: con la loro zazzera ben disposta sulla fronte e le orecchie bianche impellicciate, delle specie di peluscioni da portarsi a letto quando si ha bisogno di affetto.
A turbare l’armonia, ciò che si può vedere in primo piano nella foto: cosa sono quelle cose sospese ai rami degli alberi? Oggi, quando son passato, ho creduto che fossero ammassi di foglie rimaste lì, in via di marcescenza; ma m’è sembrato strano e mi sono avvicinato ad osservare. Ebbene, erano buse, merde di vacca. I rami erano ad oltre un metro da terra, diramazione di tronchi non flessibili, che non avrebbero potuto per un qualche motivo essersi poggiati per terra: caspita, mi son detto, come fanno quelle buse ad essere lì?
Ho fatto delle ricerche su internet: Wikipedia non recensisce buse sugli alberi, e non ho trovato siti che parlino di fenomeni del genere anche tra quelli più arrischiati, quelli che son capaci di parlare di autocombustione dei corpi umani come se ci credessero veramente.
Alcune settimane fa il mio amico Giancarlo, abile fotografo naturalista, mi disse che aveva fotografato nel litorale laziale a nord di Roma una nutria che cercava di accoppiarsi con una tartaruga, gli pareva senza risultati. Aveva mandato la documentazione fotografica ad alcune università e, mi disse, era stato incaricato di monitorare la situazione. Per quanto so di lui, in queste ore potrebbe essere lì appostato ad aspettare la nutria che vuole accoppiarsi con la tartaruga. Credo che sia la persona che fa per me, e poi voglio offrirgli un diversivo: Giancarlo, se leggi queste righe, vieni a fotografare le buse delle grigio alpine sugli alberi del vallone del Cruello, e fanne un reportage ad uso degli studiosi. Magari diventiamo famosi, tu come quello che fotografò per la prima volta una nutria che si accoppiava con una tartaruga, io come quello che scoprì che le grigio alpine volano.
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lanimadellamosca · 4 years
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Senza corpo e senza volto
È un titolo difficile da capire, ma bisogna riconoscere che era un titolo difficile anche da fare: come dire in poche parole chi era questa Marge Champion, il cui nome con ogni probabilità non ci dice niente, ma di cui invece abbiamo tutti una certa speciale conoscenza che ce la fa essere quasi familiare?
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Bisogna leggere il dettaglio della notizia per capire che, morta alla veneranda età di 101 anni, Marge fu la ballerina che gli animatori di Walt Disney presero a campione per animare Biancaneve. E in effetti, Biancaneve si muoveva per l’appunto come una ballerina, cosa che... mi ha presto reso insopportabile quel genere di film animati. Peraltro, Marge fu presa a campione anche per animare la Fata dai capelli turchini di Pinocchio, e fin qui passi, ma erano “sue le movenze”, come scrive il titolo ANSA, dell’ippopotamo di Fantasia e dell’elefante Dumbo. Poverina... Se dovessimo darle un corpo, oltre che quello di Biancaneve e della Fatina dovremmo darle il corpo di un ippopotamo goffo e d’un elefante citrullo!
Ricordo di avere visto a suo tempo un breve documentario in proposito, prodotto sempre dalla stessa Walt Disney e diffuso con ogni probabilità nei primi anni sessanta all’interno della trasmissione televisiva Il club di Topolino...
Il club di Topolino..! Aveva un unico cliché: un vecchio cartone di Topolino ogni tanto, un cartone di Paperino alle prese col suo imborghesimento oppure di Pippo borghese imbranato che vuole adeguarsi all’american way of life ma finisce sempre col fare inenarrabili casini, un documentario sul parco di Yellowstone con quel tipo di commenti fuori campo che è poi diventato un classico del genere: “Mentre l’orso si gratta la schiena contro il tronco dell’albero – effetto musicale sega-che-taglia-legna –  la volpe attende la sua preda…” Tutto sempre uguale!
Dicevo che avevo visto un documentario in cui spiegavano la tecnica con cui avevano “catturato” le movenze di Marge: le avevano messo delle lampadine alle braccia e alle gambe, l’avevano fatto ballare al buio, e ne avevano tratto un film. Nel film le lampadine avevano lasciato delle scie, che erano state tratteggiate per disegnare la sequenza dei movimenti.  
In questa rete che per semplice fame di notizie e curiosità storicizza tutto, anche la data a cui Marty di Ritorno al Futuro venne catapultato, Marge non è l’unico caso che ci viene proposto per fare notizia di cui bellamente abbiamo fino a ieri ignorato la presenza, almeno a livello cosciente. A molti altri è successo di accompagnarci nelle nostre vite pur continuando a restare anonimi, anzi più che anonimi irriconoscibili, senza corpo e senza volto potrei dire. La radio era proprio questo, una voce senza volto che ti accompagna: come Marge era le sue movenze senza corpo, così Enrico Ameri era la sua voce roca senza volto.
E a proposito di voci senza volto vorrei qui parlare della signora Tom-Tom, la voce del primo navigatore satellitare. Credevo che si trattasse di un prodotto di sintesi, ma il mio amico Giancarlo, fonte affidabilissima, mi ha detto che ha avuto modo di conoscerla, la signora che ha prestato la voce al Tom-Tom. Pensate..: l’hanno reclutata per farle registrare migliaia di brevissimi messaggi, vai di qua, vai di là, prosegui dritto, fra cento metri gira... E come se non bastasse glieli han fatti registrare con toni di voce diversi, dal tranquillo a perentorio. Ricordo, la prima volta che mio cugino mi portò in giro per farmi vedere questa meraviglia (lo stava sperimentando col suo taxi per conto della sua centrale): scegliemmo l’itinerario e partimmo, ma lui per mancanza di abitudine, a un incrocio mancò di girare. La signora Tom-Tom s’incazzò, gli intimò di invertire il senso di marcia appena possibile e poi, quando fu di nuovo a pochi metri dall’incrocio, gli urlò: “Girare!” 
Che s’ha da fa’ pe’ campa’..! Voglio dire, non il lavoro della signora Tom-Tom, ma quello di mio cugino tassista: farsi sgridare dalla sua macchina. 
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lanimadellamosca · 4 years
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L’ironia è un lusso
Una volta una cosa così mi avrebbe fatto ridere, e mi avrebbe fornito ispirazione per qualche battuta salace sul cattivo gusto. Adesso no: mi commuovo, e mi viene da pensare a quante povere vite si arrabattano dietro cose così.
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È il decoro di un regalo senza ambizioni, quello che si dice “un pensierino”; una cassetta di legno che conteneva all’origine qualche piccola zucca e dei mazzetti di peperoncini gialli, verdi e rossi: una specie di composizione autunnale. L’insieme, con quei colori vivi, non era male, ma certo l’idea, l’ambientazione è stucchevole. Cosa vuole essere? Una fontana in un giardino? Il colore dà l’idea della pietra di Luserna, probabilmente sì, è un baciàs, come li chiamano qui, una di quelle vasche di pietra che raccolgono l’acqua di una fontana. Ma potrebbe anche essere... una tomba in un cimitero di montagna.
È costruito in estrema economia, utilizzando legna di pallets, ma è costruito con cura, direi con scrupolo. Non mi viene proprio da ridere, e nemmeno da sorridere: quale povera persona, mi domando, si mette a costruire questi manufatti che serviranno a un fioraio per qualche composizione? E quanto possono rendergli?
Dietro questa composizione temo che si nascondano stenti e difficoltà, un estremo sforzo di fantasia per fare qualcosa da cui poter trarre un qualche euro: non riesco a vederci una attività imprenditoriale, meno che mai una fiorente produzione. Credo che qui siamo vicini alla soglia della sopravvivenza. Ed io mi trovo dall’altra parte, dalla parte di chi è lontano da quella soglia, e che può permettersi il lusso di eccepire sul gusto, di ridere e di fare dell’ironia.
Anni fa un amico mi regalò una curiosa automobilina costruita con latta di scatolette varie. Chissà perché mi feci convinto che venisse dall’Africa, che fosse il prodotto di uno di quei tentativi di creare una microeconomia in un qualche paese povero. Poteva essere.., ma poteva anche essere opera di uno dei tanti nostri soggetti in difficoltà, come li chiamiamo talvolta, insomma uno dei nostri poveri. Fu allora che imparai ad osservare queste cose con occhio diverso: non riuscii a vedere una curiosa e simpatica automobilina, ma vidi una donna, un ragazzo, o un adulto africano che per qualcuno dei nostri centesimi ritagliava e piegava la latta delle scatolette che andava a raccogliere in una qualche discarica. E che in quello che faceva ci metteva cura e scrupolo, per dare dignità al proprio lavoro.
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lanimadellamosca · 4 years
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L'algoritmo che riporta all'ovile
Sasà mi ha consigliato l’ascolto dell’Inno dei Cherubini dalla Liturgia di San Giovanni Crisostomo di Tchaikovsky; lo ha fatto in un modo un po’ ruffiano, perché, ha detto, conosce la mia sensibilità. Sasà è stato mio compagno di scuola al liceo, a Noto: ci siamo persi di vista nel luglio del 1969, e ci siamo “ritrovati” poche settimane fa, quando qualcuno di quegli ex compagni di scuola è riuscito a contattarmi per invitarmi a una chat di gruppo riservata appunto a quella “3^A del 1969”. La chat è nata in periodo di confinamento da pandemia di coronavirus: si son fatti molta compagnia, mi han detto. Io ho aderito volentieri, devo riconoscere che li ho molto cercati nei ricordi, sarà stato l’effetto dell’emigrazione, non so…
Comunque Sasà, che come tutti gli altri compagni di classe non mi vede da cinquantun anni, non può conoscere la mia sensibilità: la conosceva, ma non la conosce, perché sapesse cosa hanno ascoltato le mie povere orecchie in questi anni, non avrebbe osato propormi dei cherubini cantanti.
youtube
Però mi ha fatto piacere e mi ha interessato, e quindi ha fatto bene; tanto che stamattina ho ascoltato questo inno dei cherubini, e che adesso sto ascoltando tutta intera la liturgia di quel gran filibustiere che era “san” Giovanni Crisostomo, la “bocca d’oro” che ha sputato le più grandi atrocità all’indirizzo degli ebrei, e che continua a nutrire l’antisemitismo dei tradizionalisti cattolici. Mi presi la briga a suo tempo di leggere le sue “Omelie contro gli ebrei”: fatelo, capirete qualcosa di ciò che ha reso possibile l’Olocausto.
Una delle cose indubbiamente belle della rete, è che vai su Youtube, metti “Tchaikovsky cherubini” e ti ascolti l’Inno dei Cherubini dalla Liturgia di San Giovanni Crisostomo di Pyotr Ilyich Tchaikovsky nella versione che ti aggrada. Io l’ho fatto, dicevo, stamattina appena sveglio, alle sei, ed è stato, appunto, bello. Per, immediatamente dopo, incappare in una delle cose indubbiamente brutte della rete: l’algoritmo di Youtube mi ha riportato all’ovile, e mi ha proposto di ascoltare, nell’ordine, Jimi Hendrix in Voodoo Child, gli Herman's Hermits in Something Is Happening, che poi sarebbe la versione inglese di Luglio (col bene che ti voglio...) del nostro Riccardo Del Turco, e i Rammstein in Deutschland. Cosa che non ho resistito alla tentazione di fare, col che confermando all’algoritmo che ci aveva azzeccato in pieno, tre su tre.
E’ sconvolgente e inquietante quanto siano diventate potenti queste cose. Proprio ieri una amica leggeva sul suo tablet un articolo sull’ennesimo disastro ambientale, in questo caso in Kamčatka, non so se avete presente dove si trova la Kamčatka.., tanto per dire.., quando leggete di un qualche posto dove la natura sarebbe incontaminata, ecco, pensate al disastro ambientale in Kamčatka, serve per ricordarvi che non è vero, non ce ne è più di posti con la natura incontaminata.
Dicevo di questa amica che leggeva un articolo de ilPost.it sulla Kamčatka, e s’è vista comparire questa pubblicità, mi son fatto fare prontamente una cattura schermo e me la son fatta mandare, guardate.
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È vero, l’algoritmo anche in questo caso ci ha azzeccato in pieno: questa amica, diciamo, è tendente a un certo pessimismo esistenziale, capirlo non deve essere stato difficile.
Però la cosa, ammettiamolo, è sgradevole. Già proporre all’ascolto i Rammstein, è di per sé sconveniente; voglio dire che per buona parte dei miei amici che pure conoscono la mia “sensibilità”, il fatto che io ami i Rammstein è un lato un po’ oscuro ed incomprensibile della mia personalità, e quindi il mio amore per i Rammstein è una cosa che io sono disposto ad esibire solo a persone scelte, e vedermelo comparire così a schermo… insomma, meno male che ero solo. Quando poi entrano in ballo cose più profonde, come può essere un certo approccio alla vita, il fatto che un algoritmo ti proponga alla lettura quanto può costarti un funerale, può essere non solo sgradevole, ma anche delicato. Che ne sai tu, cretino d’un algoritmo? Magari uno potrebbe pensare che è il momento giusto per fare questa spesa, non ti pare?
Trovo molto inquietante la potenza e la perfezione a cui vanno pervenendo gli algoritmi. Mi viene da pensare all’oceano vivente di Solaris, il pianeta creato da Stanisław Lem; a quell’oceano capace di materializzare il subconscio dei componenti della missione spaziale. È la stessa cosa che fanno gli algoritmi, se ci pensate; e non è detto che sia utile e bello. Tuttaltro..! Difatti, su Solaris finiva che tutti impazzivano.
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lanimadellamosca · 4 years
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Duelli
Le Monde ha ripubblicato questa vecchia fotografia, vecchia anche se è stata scattata tre anni e mezzo fa, il 14 maggio del 2017, a Parigi, all’Eliseo, il giorno del passaggio dei poteri tra François Hollande presidente in carica, e Emanuel Macron, presidente neoeletto.
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È vecchia perché di acqua ne è passata tanta sotto i ponti, e il Macron di quella fotografia non è più il Macron dei nostri giorni; e ripensare alla Francia di quei giorni dà l’impressione di un salto all’indietro nel tempo di ben di più di tre anni e mezzo.
Per singolare contrasto la foto è stata riesumata a corredo di un articolo su un dibattito in corso in Francia che concerne l’ipotesi di allungare la durata del mandato presidenziale; cinque anni, si dice, è troppo poco, passati i primi due anni si pensa già alle nuove elezioni, e la politica del presidente finisce col puntare alla rielezione più che “al bene della Francia”. Più o meno qualcosa del genere, ma col suo solito stile tranchant, ebbe a dire non molto tempo fa l’ex presidente Sarkozy, in un simposio organizzato dall’emiro del Qatar suo grande amico: lo invidiava, disse, per il suo mandato a vita, che gli dava tutto il tempo che voleva, ben diversamente dalla situazione in cui si era trovato lui.
La foto di Hollande e Macron è stata scattata da Philippe Wojazer per AFP, io l’ho presa dal sito del giornale. Ho cercato altre foto del servizio che il fotografo fece quel giorno, ed ho scoperto che era stato molto abile. Questo ad esempio è il saluto di Macron a Sarkozy: si noterà la postura rigida e piuttosto sospettosa del vecchio presidente, opposta all’approccio empatico, quasi invadente di Macron.
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Per conto suo, quello di Hollande e Macron, così come fotografato da Wojazer, appare non come un passaggio di poteri, ma come un duello; mi ricorda un fotogramma di West & Soda di Bruno Bozzetto.
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L’idea del duello, se effettivamente su questa idea ha lavorato Wojazer, così come mi sembra, non era affatto artificiosa: Macron era stato “scoperto” e voluto da Hollande stesso, il fatto che a un certo punto se ne fosse andato per la sua strada, e che questa strada lo avesse portato ad uno scontro diretto col suo mentore, era stato visto da molti, Hollande compreso, come un tradimento. Di questo possiamo forse intuire qualcosa in quello che sembra un sorriso forzato, una mascella dura di Macron che si avvicina a Hollande: si intuisce che quell’avvicinamento non è solo l’avvicinamento alla massima responsabilità dello Stato, ma anche l’avvicinamento a un amico di cui si sono tradite le aspettative, e che non si è incontrato da tempo. Nell’ottica del duello, possiamo dire che Macron è in difficoltà.
Ma per sua fortuna la mano di Hollande non ha niente della mano artigliata del pistolero di Bozzetto. Hollande si direbbe depresso, le braccia allungate inerti, i palmi rivolti all’indietro come in una forma di rifiuto di un approccio.
Un duello, quindi, tra un quasi ex-presidente vinto, non più combattivo, e un quasi neo-presidente provato da un combattimento a distanza.
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lanimadellamosca · 4 years
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Tra clic e tap
Ho chiuso una chat di gruppo che avevo creato anni fa, attorno ad una serie di ritrovi a tavola. L’avevo chiamata Amici di merende, con un pizzico di umorismo nero, dato che questa locuzione è entrata nel linguaggio comune tramite le udienze del processo Pacciani, il processo per “il mostro di Firenze”, il serial killer che imperversò tra anni settanta e ottanta. Ma nonostante il richiamo raccapricciante a quella combriccola di guardoni che si ritrovava tra le splendide colline toscane all’insegna di pane, salame e osservazione di coppiette, l’unione tra amicizia e merenda rappresentava degnamente questo gruppetto di persone che avevo riunito, ed i rituali che ci eravamo dati; cinque amici in tutto, niente grandi numeri, ché i grandi numeri a questa età mi son diventati antitetici all’amicizia, al nutrimento dell’amicizia direi, nutrimento di cibo e di chiacchiere.
L’ho chiusa perché le cose sono cambiate, il gruppo non esiste più nei fatti: relazioni affettive che si sono spostate, affinità che non ci sono più. È così, è la vita..: le cose durano un stagione, sono pochissime quelle che durano di più, ed a prezzo di rinunce e compromessi.
Mentre davo il fatidico clic per cancellare il gruppo (anzi il “tap”, questa onomatopea che è uscita dal limbo dei fumetti per assurgere all’olimpo dello smartphone), non ho potuto fare a meno di pensare che adesso può capitare che le fasi della vita siano segnate da gesti come questo, da un clic o da un tap. Un tempo, il gesto equivalente sarebbe stato bruciare un fascio di lettere, o metterle via in una cassetta per conservarle. Io le avrei conservate.
Continuo ad intrattenere relazione con gli amici della chat, ma queste relazioni si esprimeranno in forme diverse che ritrovarsi tutti insieme a tavola; potrà avvenire separatamente, o insieme ad altri amici.., ma non saremo più gli stessi attorno a un tavolo. Non nego che mi faccia un po’ di malinconia.
Ma forse la malinconia mi deriva anche da un’altra circostanza fortuita: ieri sono andato a comprare una automobile, perché quella che avevo ha esalato l’ultimo inquinante respiro. Io non ho legato alcuna fase della mia vita ad una automobile, cosa che per quanto so è diffusissima; per me le automobili sono un ignobile ammasso di ferraglia e plastica. Epperò, con questa avevo fatto il mio trasloco qui, questo mio esodo fuori dalla pazza folla; eccetto un paio di viaggi col furgone del mio amico-compare per le cose voluminose. Da soli, io ed essa automobile. Questo nella foto sotto è stato il nostro ultimo viaggio di trasloco, in compagnia di Valentina Crepax. C’era anche il culo di “Roberta lo slip”, ma non si vede, e non è romantico. Il resto della nostra vita in comune, non ricordo, non ho bruciato neuroni per farlo.
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Quello che invece ricordo ancora di essa automobile è che concluso quell’ultimo viaggio di trasloco insieme, feci una veloce doccia nelle condizioni precarissime in cui potevo farla qui, all’epoca un rustico appena appena agibile, e le chiesi di portarmi a sentire un concerto di Marco e di Ru, ciascuno con la sua rispettiva band: mi feci portare a più di 100 chilometri di distanza, su in alto per i boschi del biellese, a Bornasco, dove per qualche anno si è tenuto un happening giamaicano niente male. Tra l’uno e l’altro concerto mi addormentai di brutto, tanto che un ragazzo venne a sincerarsi che non avessi qualche problema. A notte fonda le chiesi, ad essa automobile, di riportarmi a casa, ed essalei lo fece, praticamente da sola.
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lanimadellamosca · 4 years
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Un milione di colpi, anzi due
 Il mio occasionale vicino francese mi ha regalato una porta; non è la prima volta che lo fa, non capisco come mai abbia tante porte in soprannumero, da che ha aggiustato la sua casa. O meglio, lo capisco… Nella ristrutturazione ha adottato standard moderni, tipo porte a scomparsa per recuperare spazio calpestabile; una scelta discutibile, per me che ho adottato un criterio diametralmente opposto, quello di riportare la casa indietro nel tempo. Certo, non posso dire di averlo fatto con rigore, perché è fuori discussione ritornare ai gabinetti e alle cucine d’una volta, ma non c’è dubbio che la mia casa al visitatore trasmette passato, storia, mentre quella del mio vicino trasmette standard borghesi, da villetta unifamiliare, che snaturano la sua originale natura di casa di povera gente.
Ad ogni buon conto, il mio vicino mi ha dato quella che doveva essere la porta del croutin, della cantina, una bella porta in noce, che io intendo utilizzare come… portoncino d’ingresso: ho preso le misure, con qualche aggiustamento si può fare.
Il fatto è che questa porta ha subito mani e mani di biacca e l’unico modo che ho trovato di metterla a nudo, senza rovinarne la superficie, è… bocciardarla. Per chi non lo sapesse la bouciarda, nel piemontese tipico di queste luoghi di cave di pietra, è quell’arnese che serve a chi lavora la pietra per scalfirne la superficie e renderla… grotoluta, che sempre per i piemontesi vuol dire ruvida, anzi più che ruvida aspra. La vera pietra di Luserna, sappiate, non ha da essere liscia, ha da essere bouciardé, bocciardata. Questa è una versione dell’arnese in questione, ve ne sono altre, io ne ho una, da qualche parte, ma le punte ormai non mordono.
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Ah… Chiaro che la parola bouciarda deriva dal francese boucharde,  qui ne troverete la voce su Wikipedia francese, da dove ho preso l’immagine. Il testo spiega che la boucharde serve a togliere le asperità alla pietra, sappiate che l’uso corrente è esattamente opposto, tutt’al più toglie le asperità per renderle omogenee.
Ad ogni buon conto, non è con questo arnese che potrò scalfire la mia vecchia porta per riportare alla luce la superficie di legno; l’operazione è quella tipica dei bouciardìn, che sono quelli che bouciardavano la pietra, che da questa loro attività finirono per acquisire il nome, Bouchard, e che una volta, qui a Luserna, lavoravano in una località che si chiama tuttora appunto I Bouciardìn, l’operazione che devo fare è dicevo la bocciardatura, ma l’arnese sarà un piccolo scalpello largo 5 mm: dovrò assestare piccoli colpi per fare saltare via lo strato di biacca, scaglia dopo scaglia, un millimetro alla volta. Ho fatto un calcolo grossolano: ogni scaglietta sarà lunga come lo scalpello, 5 mm, e larga non più di 1 mm, il che in rapporto alla superficie della porta vuol dire che dovrò assestare un milione di delicati colpi di martello sullo scalpello. Quindi, conoscendo la mia scarsa precisione, ho cominciato a pulire la porta che mi ha dato il mio vicino sapendo che dovrò dare all’incirca due milioni di colpi, uno dopo l’altro. Un altro rapido calcolo mi ha informato che mi ci vorranno più di duecento ore, che vuol dire due mesetti di lavoro, con settimana lavorativa di legge. Insomma…, dovrei restare all’interno della mia residua aspettativa di vita.  
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Un amico mi ha detto che il tutto è molto zen: concordo! Certo, bisogna avercelo, il tempo, e la mia condizione di pensionato è molto utile allo scopo, ma diciamocelo francamente, non è solo questione di avere tempo, è anche questione di concezione del tempo e di approccio. A me, prendere scalpello e martello, mettermi al tavolo e dare qualche migliaio di colpi, non mi stanca, non mi spazientisce; anzi, mi fa bene, perché intanto delle volte penso, delle volte invece mi svuoto la testa dai pensieri, delle volte mi sembra di riposarmi altre invece mi sembra di fare qualcosa per non stare a far niente.., e intanto il tempo fluisce, lento ed armonioso, ritmato da quei colpetti di martello toc-toc-toc e scandito dai mucchietti di scaglie che a cadenze regolari raccolgo e butto nella spazzatura, per evitare che il vento le disperda.
Provateci, vi farà bene, vedrete! E se non avete una porta a disposizione, venite qui, che per un po’ di mesi, per non dire anni, ve ne potrò fornire una.
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