Tumgik
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La solitudine dei capitoli primi
1.
Entrò in quella stanza aprendo una porta marcia che nascondeva un tesoro. Un pavimento ricoperto di vecchie riviste e, soprattutto, di libri. Vecchi libri, tutti aperti come fossero farfalle appoggiate su un manto di foglie. Le copertine, ormai sconquassate, quasi tutte scollate dal resto delle cuciture in sedicesimi, erano così disordinatamente sistemate a terra a prendere polvere. Tutte quante accompagnate da un capitolo. Il primo di ogni volume, che ormai, da anni, non si sa per colpa di chi, giaceva per terra a ricoprire un pavimento di maiolica che ogni tanto, qui e là, emergeva boccheggiando. Un mare di libri, più che un tappeto, ché gli strati erano tanti. C’erano manuali, romanzi, saggi, raccolte di racconti e di poesie, qualche volume fotografico. Tutti insieme eppure tutti soli: la maggior parte scompagnati dal resto del libro a cui erano appartenuti. Alla fine forse tutti noi mostriamo la copertina, il frontespizio e al massimo il primo capitolo del nostro essere, del nostro stare con gli altri: cerchiamo di impressionare gli altri, mentre non cerchiamo mai una relazione con noi stessi, col capitolo 2, 3, 4… con l’epilogo della nostra vita. Conosci te stesso dicevano gli antichi greci. Ecco. Tuttavia, per rintracciare il capitolo 2, 3, 4… bisognava ripartire dal capitolo 1. “Chi siamo?” Sembravano interrogarsi quei libri per terra e intanto ostentavano il loro “Chi vorremmo essere agli occhi degli altri?”. Anche perché, diciamocelo, insieme alla copertina, il primo capitolo è tutto: è quello che in libreria, con il suo incipit, ci invoglierà o meno a portarcelo a casa il libro di cui fa parte. Cercando di appoggiare il piede sulle poche chiazze scoperte di mattonelle dipinte a colori ramati e ferrosi, verdi e rossi, si addentrò in quel marasma e, chinatosi, iniziò a leggere. – Capitolo 1.
“La solitudine dei capitoli primi” V. Cammarata ed. Chissà #100
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Il filo nel cuore di Milano
C’era una volta un filo.
Un filo fatto con tutti i colori dell’arcobaleno.
Era un filo fatto di luce. Per questo impossibile da tagliare. Difficile da spegnere.
Difficile, ma non impossibile.
Bastava che per un po’ di tempo quel filo non fosse più alimentato dalla vitalità delle persone che lo indossavano sottoforma di sciarpe, calze, maglioni... che questo filo a poco a poco si indeboliva: la fibra si sfilacciava, i sette colori di cui era composto man mano si desaturassero e diventassero sempre più smorti e grigi.
In breve tutto diventava infeltrito, sfibrato e trasparente. Anzi non trasparente, che almeno avrebbe lasciato scorgere un po’ di colore della pelle... no! Era proprio grigio!
Il filato di quel gomitolo lì diventava proprio come di cenere, ammantando così il corpo che copriva.
Ma un sarto si era dato una missione:
rammendare quei fili smunti e sostituirli con dell’altro filo arcobaleno, non prima di aver ridato vita alla persona che indossava quei capi così sdruciti e rovinati, che il sarto stesso trovava oltremodo demodè.
Per destare il malcapitato da quello stato apatico e di glaciale torpore, al sarto occorreva prima di tutto il suo ago. Un ago magico che se puntato, e appuntato, dritto al cuore, faceva sgorgare una sola goccia di sangue, di un bel vermiglio acceso, che spiccando su quel grigiume indossato, infondva nuova consapevolezza della propria esistenza, della propria vitalità, del fatto che da quel cuore potesse nuovamente nascere amore.
Ecco perché Milano porta ancora ben piantato nel suo centro un ago con un filo colorato che le corre dentro: perché si accorga sempre che ha un cuore e che il suo cuore, e quello dei suoi abitanti, è ancora capace di generare amore.
“Leggende immaginarie in città reali” Aa.Vv. Ed. Cittadine
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Libertà
Libertà
Non aveva mai riflettuto sulla parola libertà.
Quell’accento sulla “a”. Ad esempio.
Proiettava tutto in sù (come la “u” di sù per altro!) e rendeva leggera volatile una parola che in sé conteneva già un senso di... libertà appunto. Nessun legaccio, nessuna briglia, nessun nodo, che non precludeva la possibilità di creare legami, belli, duraturi e felici.
Anzi: più un legame lascia libero, e più un legame è forte.
Forse l’unico errore che fece era quello di considerare un legame libero, un legame immutabile nel tempo. Ma non è così, tutto cambia, tutto evolve e anche se non si comprende subito il senso, ad un certo punto scopri che in quella parola “Libertà” si nasconde la parola “Felicità” e allora tutto assume un senso. La “à” è il senso. La A di amore, A di amicizia, ma con l’accento. Che rende tutto molto più leggero. Più Libero.
“Parole con l’accento” E.Però ed. words #98
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Cap.1 - Essere Bonsai
Un bonsai per crescere ha bisogno di cure.
È molto più fragile di un albero normale e il suo essere piccolo no ne sminuisce il valore, anzi lo accresce perché la sua dimensione è il suo valore.
Certo, l’ombra e il riparo per gli uccelli che genera un bonsai è proporzionata al suo essere piccoli. Ma questa dimensione va bene per una pianta che sta in vaso, spesso posta su qualche mensola o su qualche tavolino e che nella maggior parte dei casi non ospita uccelli ma al massimi qualche ragnetto.
A prendersi cura di “Ciccio”, era proprio chi le aveva dato quel buffo nome, Mel, la sua “levatrice” se così può definirsi la proprietaria di una pianta.
Lei, Mel, l’aveva fatto crescere sano, ma quel che conta di più non lo aveva fatto morire.
Mel aveva altri bonsai sulle sue mensole, nelle sue vetrine, sapeva come maneggiarli, come potarli, come parlargli e Ciccio che era un raro Baobab in miniatura, aspettava pazientemente che Mel si occupasse di lui.
Mel un giorno cambiò posto al vaso basso di maiolica che lo conteneva e lo pose davanti alla finestra, così per fargli prendere un po’ di aria e qualche pallido raggio di sole di primavera.
La casa di Mel confinava con l’Orto Botanico della città e lì, proprio lì vicino, c’era il settore africano dove troneggiava un grande e alto baobab: un albero magico proprio come Ciccio, ma grande cento, mille volte di più di lui.
Alla sua vista Ciccio scrollò le foglie, dilatò i suoi vasi linfatici, gonfiò un po’ il tronco e disse perentorio rivolto al suo orgoglio: “Io voglio essere grande come lui! Non voglio essere alto come tutti questo altri alberelli che mi circondano.”
Provò a mandare segnali a Mel, ma il risultato fu che iniziò a dare spazio alle sue radici e a soffrire costretto un quel vaso che ogni giorno diventava sempre più stretto. Mel si accorse che qualcosa non andava e provò a parlargli, o almeno così sembrava a Ciccio, visto che non capiva la voce degli umani. Il tono però lo capiva, era calmo, rassicurante e quando quei suoni rimbalzavano sulla sua corteccia risuonavano caldi dentro di lui e, per la felicità di tutto ciò, ne provocava un abbondante e incontrollato afflusso di clorofilla alle foglie facendole brillare ancora più verdi di prima.
Ma quando Mel non c’era guardava la finestra e il suo malumore, per non poter essere maestoso come un baobab normale, gli faceva cader giù quelle stesse foglie verdi che poco prima luccicavano.
Un ragno che albergava nei pressi dei suoi rami si era accorto del dolore di Ciccio e allora gli disse (lui era un ragno particolare, parlava la lingua delle piante sulle quali abitava):
“Non essere triste, tu sai che se ti misuri con un albero vero perderai sempre, ma guarda che bello che sei rispetto a tutti gli altri bonsai della tua padrona, sono tutti dei ficus, banali ficus, buoni da mettere fra i volumi di una libreria.
Tu invece hai una forma unica, sì forse un po’ grassoccia in fondo, ma hai il sapere delle tue origini africane che dalle tue radici risalgono il tronco e arrivano fino ai rami e alle foglie ricordandogli chi sei.
Tu sei speciale, sei il Re degli alberi!
E infatti stai qui, alla finestra!”
Ciccio risentì vibrare quelle parole dentro il suo tronco come facevano quelle di Mel quando gli accarezzava le foglie e gli parlava.
Ciccio capì che quel risuonare doveva essere un sentimento antico, ancestrale, annidato fra le sue radici sin dalla notte dei tempi. Quello che gli antenati chiamavano amore.
Ciccio guardò l’albero alla finestra e capì che alla fine lui poteva provare lo stesso vigore, la stessa fierezza, la stessa gioia di quel colosso. Non aveva uccelli che fra i rami gli sussurrassero amore, ma aveva un amore: Mel, che come un uccellino si prendeva cura di lui e lo faceva sentire importante.
Perché lui era un essere speciale.
Meraviglia.
“Il bonsai che voleva essere un albero” T. Gardner ed. Cipresso #97
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incipitproject · 6 years
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Il suo pezzo forte era la lettura.
Alternava un tono pacato e da narrativa per l’infanzia a quello solenne e profondo che, se come me riuscivi a seguire l’intricato filo del racconto, ti scuoteva, ti sconvolgeva, a volte ti imbarazzava, perché quella doveva essere sicuramente la voce di Gesù o, in casi estremi, quella di Dio.
Subito dopo quel pezzo di teatro, così eccessivo da far rimanere per qualche secondo il pubblico in attesa di una claque che facesse partire un applauso spontaneo, il tono cambiava.
Con fare paternalistico iniziava a rileggere raccontando passo passo gli accadimenti biblici appena recitati. Una voce accorata ma frenata, come quando si vorrebbe parlare forte ma al tempo stesso sussurrare una verità di cui solo tu possiedi l’unica chiave di lettura. Una narrazione pedissequa, dove una deliziosa retorica fatta di paroloni come “grazia”, “salvezza”, “benedizione”, “Parola”, “Peccato”, all’interno del suo contorto racconto di quasi un’ora, perdevano gradualmente di significato man mano che: i minuti passavano, l’attenzione calava e il caldo rendeva completamente vuoti quei poveri sostantivi ridondanti.
Così vuoti da riempire il vuoto di significato che si era creato alla fine della sua performance oratoria.
A fare da corona visiva, per coloro che riuscivano a tenere gli occhi aperti, di tutta la sua arringa, vi era una recitazione fatta da ampi gesti e da “eh eh eh” inseriti a all’interno del discorso a sottolineare e svelare il carattere ironico di ciò che stava per enunciare, così da ottenerne un effetto patetico privo di tutta l’ironia che esso poteva contenere.
Una recitazione così grossolana e falsa che era perfetta per alimentare l’aura attoriale in cui esso riponeva tutta la sua fiducia.
Fu così che dal primo istante che lo vidi e lo udii proferir verbo da quell’ambone lo iniziai a studiare e da lui illuminato, come Paolo, capii in seguito come seviziare maggiormente le mie vittime, che se potessero ancora parlare, ora a conti fatti, mi avrebbero senza dubbio implorato di procedere al più presto con gli arnesi di una più volgare, ma necessaria, tortura fisica, prima di gridare “Abbà” per guadagnare mondato da tutti i peccati la salvezza, la grazia e la benedizione.
La vita eterna.
“La Chiamata” S.Killer Ed. Ajutamicristo #96
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Ah! Eccoti Peppuzzo.
Siediti che ti conto una storia.
Mi senti? Ascolta bene...
Un giorno la nipote du Zù Vicè, una bedda picciridda con i ricci biondi, bella vispa, sempre allegra, trova a terra, davanti ai suoi piedi, un acidduzzu. Uno di chiddi piccoli, ancora quasi puddicinu. Era caduto dal nido, mischinazzo. E sembrava urlare per la paura:
“Mamma, mamma! Ca’ sugnu!”
Ma invece di attirare l’attenzione della sua mamma uccello, iddu, da cosa nica, fece tenerezza a sta bambina: ci parse piatusu va’... lei si chinò, lo prese con delicatezza e se lo portò al petto.
A lei gli pareva la cosa più duci del mondo: le piume erano morbidissime e lei non smetteva di accarezzarlo... Ad un certo punto lo prese fra le manuzze e l’uccellino, nicareddu, si fece spazio e si posizionò sul primo ditino della bimba.
A picciridda intanto correva emozionata dalla sua di mamma: “Guarda mamma... Ucci”... già questo il nome che gli aveva dato all’acidduzzu.
Ma a mamma non aveva di che vedere e a figghia nenti da mostrari.
Ma dov’è e dove non è... tanto succiriu ca nel correre verso la mamma, quella padduzza di piume, cariu e a picciridda, senza manco addunarisi lo schiacciò.
A picciridda si guardò intorno, taliò in basso dietro di lei e lo vide... lì, scafazzato sul marciapiede, con l’ala spezzata e stinnicchiato a terra.
Alla picciridda fece ancora più pena di prima... aveva ucciso Ucci, l’aceddu. Il suo primo omicidio. Pianse tutto il giorno, distrutta.
Ecco Peppuzzo, questo ti volevo dire:
tu puoi essere ‘cidda o picciridda, non importa, una cosa ci insegna questa storia... che chiamare “mamma mamma...” può fare male. Così ogni tanto bisogna anche cavarsela da soli, senza attirare l’attenzione di nessuno e soprattutto senza dare pensieri a noi che siamo la tua di madre.
Ora tu vai e ripara il quarantotto che hai combinato, senza chiedere aiuto a noialtri.
Vai Peppuzzo, o a rimanere scafazzato sul marciapiede è un attimo.
E nessuno si girerà a taliare.
“Piccola antologia delle minacce” Capone A. Ed Dell’Omertà #95v
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Avevo problemi, da piccolo, a pronunciare "Pierce Brosnan". Poi anche Alba divenne un'attrice famosa e al difficile Brosnan si aggiunse la contorta e arrotata Rowgrwrrdfgrjgrwaker (Rohrwacher).
Ma noi Palermitani, probabilmente per pigrizia, ci siamo abituati a storpiare le "palore" e così il wurstel diventa "wiustrel" (o qualcosa di simile) e i "Take That" per me sono sempre rimasti i "Tic Tac".
Quest'arte mi fu trasmessa da mio nonno, Vincenzo, buon anima e genio incompreso della linguistica sicula. Lui risolse tutto chiamando le cose con nomi diversi o onomatopeici. Così "passami l'olio" diventava "passami il discorso" e "prendi lo sciu sciu" stava per "prendi lo spray contro gli insetti" alias il "ddt" anche se credo che nonostante fossero solo i primissimi anni ottanta, tale prodotto fosse già fuori produzione grazie a un qualche editto ambientalista dell'OMS.
Mio nonno poi è famoso nella storia della mia vita, perché quando nacqui, ultimissimi anni settanta, in mia sorella rimase impressa la visione — la cui narrazione mi è stata da lei reiterata almeno un migliaio di volte —, di lui e del suo cappello pieno di neve.
Sì che era il 6 gennaio, ma pur sempre a Palermo, in Sicilia, eravamo. E a Palermo è sempre un po' esotico vedere la neve.
Nascere con la neve. Vorrà dire qualcosa.
Avrà influito in qualche modo sul mio carattere. Penso. Se poi è così che è andata a finire.
“Mi piaci, ma non ti preoccupare” V.Cammarata ed. Biobio #94
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incipitproject · 6 years
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Vi è mai capitato di soffermarvi ad osservare il perlage di una coppa di champagne appena riempita?
Osservare quel bianco, così leggero e denso di anidride carbonica che sembra quasi un accalcarsi di bambini all’uscita della scuola, l’ultimo giorno di scuola.
A me capita spesso. Sì ogni volta che bevo champagne, penso all’ultimo giorno di scuola.
A com’era bello farsi scoppiare nell’aria ancora tiepida d’inizio estate quando, liberi, si mettevano da parte i libri e i quaderni e i compiti e si pensava solo a quando, si sarebbe andati a giocare al mare.
Ma l’ultimo anno, in terza, non fu così. Bello, intendo.
Quell’anno a sostituire il prof di scienze che l’anno precedente decise di trasferirsi in Polinesia credo, venne chiamata una giovane professoressa proveniente proprio dai possedimenti d’Oltremare, dalle Isole Marchesi del Pacifico. Virginia il suo nome. Sembrava provenire da un quadro, uno di quelli di Gauguin.
Un nido di capelli ricci e folti che facevano da contorno ad un sorriso che, per usare le parole di Neruda, si espandeva sul suo volto come una farfalla.
Fu un anno pieno di scoperte, di chimica, di biologia, di alchimia soprattutto. Ogni volta che entrava in aula si faceva a gara per farsi interrogare. Io incrociai una volta il suo sguardo e sentii dentro di me, come un moto, di felicità e di frizzantezza: una cosa che non avrei provato più per molto tempo.
Quell’estate, un brivido di freddo mi percorse la schiena, quando dietro di me lasciavo la mia infanzia, le medie e il mio primo batticuore.
Se lo champagne è felice, il perlage è fine, persistente, intenso. Quell’anno non lo era.
Quell’anno io ero l’ultima bollicina a voler rimanere attaccata triste e disperata al bicchiere.
Fin quando non esplose anch’essa.
Cinque anni dopo, ormai diciottenne, incontrai quei ricci, quella farfalla, proprio al bistrot sotto casa, in rue de Montparnasse 92.
— Salut.
“Alchimia” V.LaChat ed.Brut #93
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Ecco la storia di Re Pino, Ambra e Feltro. E della Grotta dei Baci.
Lei era l’unica figlia di Re Pino. Re Pino era un Re buono ma severo, geloso della sua amata Ambra.
Ambra, approfittando del sonnellino pomeridiano del padre, riusciva però a sgattaiolare e concedersi, in quelle ore calde dell’estate, un ora di bagno... nuda, lunghi capelli castani e pelle dorata dal sole, un giorno decise di raggiungere a nuoto una insenatura, una grotta.
La grotta era tutta per lei: uno specchio turchese creato per nascondersi dal mondo e soprattutto da quel padre così protettivo.
Un pomeriggio, stanca della nuotata, uscì dall’acqua e si sdraiò un attimo per riposare.
Ma un attimo non fu. Caduta in un sonno profondo, Ambra riaprì gli occhi dopo due ore. Ancora assonnata si guardò intorno e non si rese subito conto del tempo che era trascorso, a quei tempi nn c’erano orologi resistenti all’acqua...
Però si accorse che un giovane pescatore, di nome Feltro, la stava guardando dalla prua della sua barca: era rimasto allocchito, imbambolato, pietrificato (anche un po’ infeltrito), dalla visione di quella pelle brunita e da quei capelli che al sole assumevano riflessi miele.
Ambra ancora con i moccioli negli occhi per il sonno profondo da cui si era appena destata, lo fissò, incurante della sua pelle nuda, completamente esposta alla vista del marinaio.
I due furono magicamente attratti l’uno dall’altra e lui iniziò a baciarla ovunque... E quando si fermava e riprendeva fiato baciandola sulle labbra, Feltro e Ambra sentivano delle scosse e tutta la grotta s’illuminava.
Intanto il padre di lei sveglio da almeno un’ora, non trovò Ambra in camera sua, al Castello e iniziò a cercarla ovunque.
La sera si avvicinava e le ricerche dalla terra si spostarono in acqua, per mare, scongiurando il peggio.
Ad un certo punto, la barca reale fu attirata da delle strane luci... fulmini che ogni tanto arrivavano da una grotta poco lo tano dal Porto. Re Pino, attirato dai lampi, si diresse lì e scoprì quello che i suoi occhi non avrebbero voluto vedere: i due amanti che abbracciati e ancora nudi si scambiavano baci che al buio scintillavano.
Per niente incuriosito dallo strano fenomeno, accecato dalla gelosia, dalla vergogna e dal disonore che la figlia le aveva arrecato, prese i due amanti nel loro ultimo abbraccio e li scaraventò in acqua... dove morirono e ancora oggi colorano l’acqua con dei riflessi azzurri di luce intensa... Feltro abbracciando Ambra la trascinò per sempre nel blu.
Re Pino per il dolore, straziato dalla scelleratezza del suo gesto, si tramutò in albero, che annaffiato dalle sue stesse lacrime, non smise più di piangere, tanto che dalla sua corteccia iniziarono a sgorgare gocce di resina color del miele, anzi di un colore più brillante del miele, un colore che col passar del tempo, la gente di Porto Pino iniziò a chiamare con il none della giovane, bellissima e sensualissima principessa. Ambra.
“D’Amore e di leggende. Nuova Mitografia dei luoghi Italici” M. Fiaba ed. Sardina #92
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Nacqui Settimino.
Gracile, leggero come un pulcino che non ha ancora finito di nutrirsi del suo uovo.
Sono sempre stato il più basso dei miei compagni di giochi e di scuola. Mia madre e mio padre ormai non speravano più in una febbre improvvisa che mi avrebbe fatto superare il metro e mezzo a cui ero condannato.
Un nano. Ma senza esserlo.
Giunto il momento di cercare lavoro, l’unica cosa che potevo fare in città, senza ripiegare sulla condanna a vita dentro il giallo di una miniera di zolfo, a sudare sangue, era quella di puntare sulla mia destrezza. Da ragazzino ero diventato bravissimo nel saltare da un muretto all’altro scavalcando ostacoli e arrampicandomi per scale improbabili, nate per essere tali o improvvisate, aiutato anche dal mio peso settimino che mi faceva spiccare balzi gatti, quasi come se volassi.
All’età di quattordici anni, infatti, fui assunto al Monte di Pietà. Anche se di Monte si parlava, le uniche montagne che si scalavano erano quelle fatte di tessuti, materassi, lenzuola, coperte, tovaglie e vestiti, che la povera gente impegnava lì in cambio di qualche soldo per poter continuare a mangiare qualcosa o, sempre più spesso, per racimolare il necessario per fare il grande salto, a bordo di una nave, verso il Nuovo Mondo.
Si entrava la mattina con il buio e si usciva la sera che già il sole era tramontato: vivevo, pallido, in un completo stato di penombra per il maggior tempo della mia vita.
All’interno di un vecchio palazzo nobiliare a cui era stato tolto il pavimento che separava il piano nobile da quello della servitù, in questo modo si era creato un enorme magazzino suddiviso nelle varie stanze altissime con alle pareti enormi impalcature e scale e scaffali numerati. Il tutto in legno di risulta, così da essere rapido da montare come un’impalcatura ed economico soprattutto.
Ma era tutto così fragile che per arrampicarsi bisognava essere come me: bassi, leggeri ed agili, senza paura per le altezze soprattutto.
Avevamo una speciale indennità, noi che ci occupavamo di riporre gli effetti, gli affetti e i ricordi di quella povera gente che al cappio dello strozzino aveva preferito affidare a noi i suoi averi, poveri, ma preziosi.
Eravamo gli “uomini scimmia”. Così fra i dipendenti di quel Palazzo, venivamo chiamati.
Questo quello che eravamo.
Ma un giorno qualcosa andò storto.
“La paura degli uomini scimmia” P.Branciforte ed.Pietraperzia #91
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Qual è la cosa che desideri di più?
Soldi, una moto, fama, essere il più bravo, essere il migliore, la bellezza, affascinare, sedurre, avere tanti amici, innamorarti, avere qualcuno accanto, qualcuno che ti renda importante, qualcuno che ti renda felice, qualcuno da rendere felice, viaggiare, vedere posti incredibili o incontrare persone incredibili, fare qualcosa che non avevi mai fatto prima, raccontare storie... la libertà? Forse.
È la vita. La cosa che dovremmo desiderare più di tutto: solo e soltanto la vita. Una vita da vivere. Con dignità, con responsabilità, con consapevolezza.
Questo pensava di solito, quando stava solo. Quando, una volta solo, pensava.
Anche pensare però è una bella cosa.
Da desiderare.
“Quella volta che iniziai a pensare” V.Rossi es.Cogito #90
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incipitproject · 7 years
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“La pelle bianca e lucida messa in evidenza da una cornice di capelli lisci e lunghi che le scivolavano ai lati dell'ovale e adornata da due labbra rosso vermiglio, quasi vinaccia che si abbinavano con il fondo di un vestito castigato a fiori, roselline, rosa chiaro. Le mani, orfane di uno smalto che già si prevedeva di una qualche qualità di rosso scuro, si muovevano alternando momenti in cui si accarezzavano sfregando l'una con l'altra a momenti in cui gesticolavano a fare quasi da contrappunto ad un discorso tranquillo, pacato, reso dalle oscillazione dei due fusi bianchi, se possibile, ancora più aggraziato. Ogni tanto teneva il bicchiere pieno per metà di birra rossa, tanto per rimanere ton sûr ton, in modo da afferrarlo così da non usare il palmo della mano. Adoperando la mano come fosse una tenaglia, un po' antipatica come presa, quasi che l'ampia distanza fra il palmo e il bicchiere potessero fare intuire un approccio languido e un po' schizzinoso alla vita e all'altro, un po' come la presa scialba di chi ti saluta porgendoti una mano già chiusa e poco incline alla stretta partecipata ed energetica di un buon amico. L'arrivo improvviso di un messaggio, la trasformò in volto, irrorando ai capillari del volto un rossore diffuso e ben amalgamato con la sua palette naturale.”
"Vermiglio" R.Porpora ed.Pompei #89
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incipitproject · 7 years
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L'Isola è fra le più antiche dell'arcipelago. È un'Isola vulcanica, come le altre, ma a differenza di Lussuria e di Superbia che sono la parte sommitale emersa rispettivamente di uno e due vulcani, questa si formò in tempi antichissimi come la summa di 14 crateri, tutti ormai erosi dalla loro stessa attività: il continuo confrontarsi fra loro a colpi di colate laviche e di attività piroclastiche. Questa competizione continua fra elementi naturali, fuoco, terra, vento e mare, si ritrova nei suoi abitanti. Non importa se indigeni. Nati lì o altrove, non importa, bastava anche solo passarci qualche ora e l'aria di sospetto, di perenne confronto e di insano “rivugghio” interiore verso il prossimo, s'impossessa dell'avventore, così come del fugace turista. Due pescatori, tre supermercati, otto locali di ristoro – fra i quali quattro pizzerie, due ristoranti, un albergo stellato, un bar specializzato in pre e after dinner – un lido attrezzato e una discoteca. Quest'ultima in inverno si trasforma in centro sociale, interna all'Isola, funge da snodo fondamentale per le la striscia di asfalto che raggiunge i quattro angoli di quel piccolo e nero sbuffo di terra emersa. Non c'è un barbiere ma c'è la farmacia e d'inverno una piccola ma attrezzata ferramenta: attività estiva di un figlio d'arte nel settore della brugola residente nella vicina terra ferma. D'estate l'Isola si riempie di artisti, scrittori, giornalisti, musicisti, politici e di turisti stanziali, ormai da anni divenuti residenti. La prima cosa che ho imparato sullo scoglio, imparato a mie spese, è quella di parlare a voce bassa. — Shhh! Mi dissero. “Il nemico ti ascolta!” Mi venne subito in mente l'ammonimento bellico che invitava alla riservatezza in difesa della Patria. Ed in effetti mi ritrovai dopo poco a sussurrare anche io e, cosa peggiore, a ragionare con i miei vari interlocutori della vita e degli affari degli altri abitanti dell'Isola. Finanche Mustafa, il venditore di cappelli marocchino che si era trasferito lì con la sua famiglia, sapeva tutto di tutti e sicuramente tutti sapevano tutto anche di me: fu lui a mettermi in guardia sull'indole degli isolani. Artisti che parlavano con sufficienza di altri artisti, pianisti di scrittori, ristoratori di baristi… e così via. Da un paio di giorni, fra il porto turistico e il lido è ritornata una coppia di Napoli che ha una casa sul mare: perfetta per cenette romantiche al tramonto. Ora i ristoranti sono tre. È riaperto dopo otto anni di chiusura l'Invidia. Sicuramente con un nome così non durerà molto. Chissà chi si credono di essere.
“L'Isola d'Invidia” in “Atlante geografico del Mare dei Vizi” di V.Pecoroni ed.Eoliche #88
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incipitproject · 7 years
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Io, Santino Rando, non imparai mai a fischiare come i veri professionisti del settore. Eppure pastore lo ero. Anche se la nostra era pastorizia da isola. Anzi da isoletta. Intendiamoci, per me Filicudi era e sarà un'Isola con la “I” maiuscola, ma non troppo grande da potersi permettere pascoli verdi tutto l'anno, visto che Irlanda non è. Ed io aiutavo mio padre Elio, figlio di Gino, unico carnezziere dell'Isola, in questo che per noi era divenuto più uno sport estremo che un'attività di cui vivere. In pratica noi eravamo gli unici al mondo a combinare allevamento e pesca. Sì perché noi le pecore le pescavamo. Vi spiego. Eravamo pastori ma non c'era un solo ovile in tutta Filicudi. Era Filicudi stessa ad essere un enorme ovile e, insieme, un discreto pascolo. Le pecore infatti, non venivano “allevate”. Venivano lasciate scorrazzare sull'Isola. A loro davamo piena fiducia. Loro trovavano autonomamente qualcosa da brucare, soprattutto nella parte disabitata, quindi selvaggia dell'Isola. Per bere, erano in grado di trovare fonti d'acqua anche meglio di noi. Pecore selvagge, allevate non come ora in loculi microscopici dove le bestie stanno ammassate, ma lasciate brade, ruspanti, e un po’ anche all'avventura, come tutti quei frikkettoni forestieri che negli anni 70 praticavano campeggio libero e che furono all'origine della nuova colonizzazione dell'Isola e, forse anche della scomparsa di questo tipo di allevamento. Libere insieme a qualche capra che ancora sopravvive sulla costiera nord. Libere. Almeno fino a metà marzo. Poi c'era la chiamata. Puntuale come ogni anno, una settimana prima del primo plenilunio di primavera, avveniva tutto. Non si era ancora fatta luce in cielo, lì, dietro la sagoma di Salina, che già ci arrampicavamo lì dove il sole sarebbe tramontato, fino ad arrivare ai bordi della sciara. Il nostro compito, il compito di noi ragazzini, era quello di radunare — con l'aiuto di Ciro, Sam e Ugo, fedelissimi colleghi che ogni primavera ricordavano di essere pure cani di mannara —tutto il gregge sparso, quasi come se si giocasse a nascondino o ad acchiapparello. Si stanavano anche le pecore che stambeccavano a 700 mt, fino in cima al monte. Trovati tutti i capi, si costringevano verso un alto punto della scogliera a strapiombo sul mare, Punta Perciato. Poi, una ad una si stendevano le pecore su di un fianco. Io le tranquillizzavo accarezzandone il vello, mentre mio zio ne legava le zampe. Poi giù. Nel Blu. In acqua stavano per pochissimo tempo, perché era già pronta la flotta dei “pescherecci”, barche basse che recuperavano i lanuti esseri che ormai avevano capito che qualcosa nella loro monotona vita, stava cambiando. In anni di tuffi, nessuna pecora è mai annegata. In fondo, qualche giorno dopo, veniva la Santa Pasqua. Fui io a dare la notizia da Elio: “Papà l'anno prossimo ci correte voi appresso alle pecore!” Stavo diventando grande e correre per andare a pecore non portava niente di buono solo storte alle caviglie e il rischio di cadere giù al posto delle pecore. Fu così che decretai chiusa la stagione della pesca alla pecora sull'Isola. Eravamo gli ultimi. Qualcuno ancora più creativo praticò per un po’ un'altra disciplina, che però, questa volta, mescolava pesca e caccia: Il tiro alla capra. Praticato dalla stessa barca con la quale veniva recuperato l'ovino impallinato. Ma questa è un'altra storia.
“Saluti dall'Isola” D.Rando ed"Aeolie #87
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incipitproject · 7 years
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Un tatuaggio. Anzi due. Ma come fosse uno. Su entrambe le scapole. In realtà un po' più sopra. Non le classiche ali da angelo o da demone. Qualcosa di molto più semplice ed espressivo al tempo stesso. Due coppie di virgolette, all'inglese, come ad aprire e chiudere un discorso. Un pensiero. E tutto quello che c'è in mezzo è un concetto: la curva delle spalle, il collo, il ciuffetto di capelli che le adorna la nuca, la testa. Il suo cervello. Ho ripensato a quelle "virgolette" e al loro significato. Perché, sì la punteggiatura ha un senso, ma va contestualizzata. In questo caso conta quello che sta fuori da ciò che racchiudono. Non è mica sempre detto indichino le parole di qualcuno, qualcosa di detto. Chi parla in questo caso? Non sta scritto. Ma soprattutto potrebbe non essere un "discorso". Potrebbe racchiudere una parola che diventa una metafora, un'antonomasia... quell'odioso gesto molto "americano" che si fa alzando le mani mentre si parla sottolineando visivamente con una veloce ripetizione di indice e medio che curvano per un paio di volte verso il basso... Potrebbe essere lei stessa una metafora. In tutta questa serie di pensieri grammaticali — anche i suoi pensieri possono essere contenuti da quelle virgolette, anzi lo sono sicuramente — mi sto accorgendo di aver fin qui trascurato tutti gli aspetti tipografici. Imperdonabile se come me avevi studiato grafica. Garamond Simoncini Bold il font usato. E le virgolette tipografiche e, come dicevo prima, "all'inglese": vale a dire, apertura con la punta delle virgole che vanno verso destra in alto e, viceversa, chiusura con virgole puntate verso il basso e verso sinistra. Chissà se è stata lei ad aver scelto font o il suo tatuatore. La voglia di farla girare toccandole due volte la virgoletta sulla spalla destra e dare soluzione alla mia curiosità si fa sempre più forte.
"Tatootelling" M.Skin ed.Signs #86
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incipitproject · 7 years
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Tutti i giovedì mattina si compiva il rito: si celebrava la riunione. Tutte noi commesse dello store ci si riuniva al bar dell'angolo prima dell'apertura e si parlava. Si parlava. E si riparlava. Con un mood a metà fra un'incontro in stile alcolisti anonimi (mattinieri) ed una comoda fucilazione di gruppo, la riunione seguiva una ben precisa sequenza di accadimenti. Dopo un breve discorsetto entusiasta di Rossella, la figa delle HR, bionda, bel viso sempre sorridente, trucco acqua e sapone, che quel giorni toccava lo scottante tema “i segreti della vendita degli smanicati in lino” e dei “codici colore” usati da noi ragazze per palleggiarsi i clienti e supportarsi a vicenda senza far brutte figure, si passò ad un giro di opinioni e di consigli vari ed eventuali. Cosa vorresti migliorare? Come ti trovi? Un aggettivo per descrivere il team? Queste erano le domande con cui a turno attuavamo il nostro “minuto democratico”. Tutto sommato gli aggettivi che venivano recitati durante la riunione erano sempre positivi: solare, energetico, magnifico, affiatato… ad un certo punto Anna, il capo’ delle commesse, guardandomi, parla del magazzino. La odio. Ma io sono più forte e fissandola negli occhi parlo. “Grazie. Trovo la tua osservazione molto utile alla mia crescita.” Un abbraccio così vero e sentito da sembrare autentico, suggellò il tutto. Eravamo tutte ottime attrici. Ad hollywood dovevamo andare, per gli scaffali eravamo sprecati. Seguirono pillole di saggezza di Rossella: “Quando avete qualcosa da dire, ditela, così, apertamente… brave! Sento tanta energia positiva…. ora posso dichiarare la riunione sciolta! Vi libero, resto a parlare con Anna.” Seguono due minuti e quaranta di baci e saluti. Paghiamo. Trovo ingiusto, forse poco elegante, meglio, che nel budget della HR non ci fosse spazio per dieci euro di colazione, ma tant'è. “Ecco gli splendidi sì, ma solo fin quando non si toccano i soldi…” pensai. Ultimi saluti e mentre ci avviamo verso l'apertura del negozio, mi sento richiamare al tavolo dove stavano parlando Rossella e Anna. Ad aspettarmi al tavolo con loro c'era pure Valentina. Quella falsa aveva preso alla lettera il consiglio. Aveva parlato. Spia!
“Ma stai proprio benissimo!” B.False ed.Diseguali #85
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incipitproject · 7 years
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Bisognava solo accelerare il metabolismo. Solo quello. Così gli dissero. Il documento recitava: cinque pasti al giorno. Del resto, senza benzina, il motore non brucia. Poi continuò a scorrere sul display del suo smartphone il pdf inviatole dalla dottoressa. Pizza: una volta a settimana. Meglio evitare. Di colpo realizzò che non poteva più mangiare pizze. Anche se al trancio. Ma soprattutto non avrebbe più rivisto lei. Occhi grandi su di un viso piccolo, da topina. Una treccia nera che si srotolava da sotto un, da lei odiatissimo, berrettino color vinaccia, simile a quelli che indossavano i garzoni dei panettieri una volta e quello dei fattorini dei grandi hotel di lusso… in stile Grand Budapest Hotel. Ma la cosa che più lo aveva colpito fin da subito era il modo di comunicare con le mani, con le braccia, che aveva. Tutto quello che diceva, veniva accompagnato da gesti eloquenti che spiegavano chiaramente il messaggio che lei voleva trasmettere, un po’ come fosse un bambina sicura di ciò che vuole e che, al contempo, cerca di accattivarsi il suo interlocutore adulto. Graziosa. “Benissimo” pensò: “la dieta impone almeno un litro e mezzo di acqua giornaliero. Passerò da chiedere due tranci di pizza ai quattro formaggi, a fare la fila per una bottiglietta d'acqua. E magari qualche volta una macedonia.” La sua metamorfosi iniziava quindi quel giorno. Ma la sua cara nutrizionista non aveva previsto che proprio quel cambio di abitudine alimentare, avrebbe dato inizio a qualcosa di più. Era chiaro che la visita quotidiana non reggeva più la scusa del “nutrimento giornaliero”, era piuttosto diventata un piacere: un reciproco augurarsi buon giorno, raccontarsi le attività giornaliere, conversare di tutto, di argomenti fra i più disparati. Un'amicizia. Del resto per uno come lui, che era tutto, fuorché misogino, non era difficile immaginarsi che sarebbe andata a finire proprio così.
“La dieta” di L. Pesa, ed.Tesoro #84
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