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Lo stemma asburgico della chiesa del SS. Crocifisso di Latiano
Le pietre raccontano: lo stemma asburgico della chiesa del SS. Crocifisso
di Latiano, una traccia dell’architettura latianese del XVI secolo
di Marcello Semeraro
  Premessa
L’identificazione di stemmi anonimi raffigurati su dipinti, monumenti, edifici, chiese e altri manufatti è un’operazione molto utile nel lavoro di ricerca dello storico e dello storico dell’arte. Molto spesso, infatti, è proprio la corretta lettura di un’insegna araldica lo strumento che consente di restituire uno “stato civile” (una datazione, una provenienza, una committenza) al manufatto su cui essa è riprodotta. Eppure, nonostante queste premesse, le potenzialità dell’araldica come scienza documentaria della storia restano ancora oggi inesplorate o, peggio ancora, mal espresse, soprattutto nel Sud Italia. Il caso della stemma della chiesa del Santissimo Crocifisso di Latiano è esemplificativo di quello che può essere l’enorme contributo offerto dall’araldica alla ricerca storica. L’analisi di questo manufatto sarà oggetto di un mio più corposo contributo che vedrà la luce prossimamente sulle pagine della Rivista del Collegio Araldico. In questa sede mi limito pertanto a presentarne una breve sintesi.
Fig. 1. Latiano, chiesa del SS. Crocifisso, muro perimetrale, particolare dello stemma lapideo
  Lo stemma asburgico
Lo stemma è murato sul lato del muro perimetrale della chiesa del SS. Crocifisso prospiciente Via Colonnello Montanaro. Il manufatto, di chiare fattezze cinquecentesche, è delimitato da una cornice rettangolare scavata nella pietra e nobilita l’architettura anonima del lato dell’edificio su cui è collocato. Dai documenti di archivio si ricava che l’attuale chiesa, edificata negli anni 1603-1624, fu costruita sulla preesistente chiesa di San Sebastiano, sede dell’omonima confraternita, della quale tuttavia non sono note le vicende costruttive. La composizione araldica è particolarmente complessa e si caratterizza per la presenza di ben trentaquattro quarti, distribuiti sulla superficie di uno scudo semirotondo dalla foggia tipicamente spagnola (fig. 1). L’esemplare appare in un stato di conservazione non buono e si presenta con vistose carenze osservabili nella parte relativa alle ornamentazioni esterne dello scudo. Circa la sua attribuzione, l’opinione dominante fra gli studiosi locali vuole che l’insegna sia da assegnare all’imperatore Carlo V d’Asburgo (*1500 †1558). Di questo parere è, ad esempio, Salvatore Settembrini, uno dei più noti cultori di storia latianese, che considera la presunta arma carolina una prova importante della continuità storica fra la chiesa di San Sebastiano e quella del SS. Crocifisso. Tuttavia, l’analisi attenta dell’esemplare in questione dimostra tutta l’infondatezza di tale consolidata attribuzione. L’araldista esperto riconosce facilmente che sulla superficie dello scudo inquartato è rappresentata una combinazione di due differenti armi: quelle della Casa d’Asburgo-Spagna uscita da Carlo V (1° e 4° gran quarto) e quelle del Regno di Inghilterra (inquartato di Francia moderna e di Inghilterra), queste ultime rappresentate secondo la modifica apportata da Enrico IV nel 1405 (2° e 3° gran quarto) (fig. 2).
Fig. 2. Stemma del re d’Inghilterra Enrico IV. Armes, noms et qualités de touts les chevaliers du tres noble ordre de la Jartiere, qui ont esté depuis l’institution dudit ordre, faicte, l’an 1350, par Eduard 3, roy d’Engleterre, jusqu’à present 1647; par Charles Soyer, genealogiste et enlumineur du roy” (1601-1700), BNF, ms. fr. 2775, fol. 24r.
  Al centro dell’inquartato, nella posizione detta sul tutto, è collocato lo scudetto d’Austria, arma d’origine che sottolinea l’appartenenza del titolare dello stemma alla Casa d’Asburgo, mentre nella punta dello scudo è innestata l’insegna di Granada. Non è questa la sede per descrivere dettagliatamente i singoli quarti e le loro modalità aggregative nel corso del tempo, aspetti che verranno trattati in maniera approfondita nel mio saggio di prossima pubblicazione. Qui mi limito ad osservare che nel primo e nell’ultimo gran quarto, la disposizione dei quarti di Castiglia, León, Aragona, Aragona-Sicilia, Ungheria antica, Borgogna antica e moderna presenta vistose irregolarità sia nell’organizzazione delle singole insegne, sia nel rispetto delle proporzioni delle partizioni che le dividono. Mancano, inoltre, alcuni quarti che solitamente trovano posto negli stemmi degli Asburgo di Spagna: Fiandra, Brabante e Tirolo, per la parte asburgico-borgognona, e Gerusalemme, associata a Ungheria antica, per la parte relativa al Regno di Napoli. I restanti gran quarti mostrano invece i gigli di Francia correttamente inquartati con i leoni passanti inglesi, sebbene questi ultimi non siano rappresentati nella loro abituale posizione, cioè con la testa di fronte, ma di profilo. Lo stemma è completato da una serie di ornamentazioni esterne impiegate come insegne di dignità che alludono, come vedremo, a determinati status del titolare: una corona, mutila della parte relativa al rialzo, un’aquila accollante lo scudo, che si presenta acefala, e, attorno allo stesso scudo, il collare dell’Ordine del Toson d’Oro. Malgrado le irregolarità osservabili nella composizione dello stemma, dovute probabilmente a un errata copia del blasone da parte dello scalpellino, non ci sono dubbi sulla sua attribuzione.
Fra i sovrani asburgici che si succedettero sul trono di Spagna fino a Carlo II (†1700), infatti, solo uno può aver innalzato un’arma come questa: Filippo II (*1527 †1598), figlio e successore di Carlo V, re di Napoli dal 1554, re di Spagna e delle Due Sicilie dal 1556 e sovrano consorte d’Inghilterra dal 1554 al 1558 a seguito del suo matrimonio con la regina Maria I Tudor (†1558), dalla quale non ebbe figli.
Fig. 3. Oxford, cappella del Trinity College, vetrata con stemma Filippo II (periodo 1556-1558).
  Dall’osservazione dei numerosi esemplari araldici realizzati nel quadriennio 1554-1558 e riprodotti su supporti di vario tipo (monete, sigilli, monumenti, opere a stampa, vetrate e altri manufatti), emerge chiaramente che entrambi i sovrani solevano abitualmente rappresentare le rispettive armi sulla superficie di uno scudo partito (figg. 3, 4, 5 e 6).
Fig. 4. Arma reale di Filippo II e Maria Tudor scolpita sulla Mary Tudor Tower del Castello di Windsor
Fig. 5. Mezzo ducato d’argento di Filippo II, Napoli, 1554-1556.
  Fig. 6. Fig. Altro mezzo ducato d’argento di Filippo II, Napoli, 1554-1556
  La forma inquartata, attestata sull’esemplare latianese, costituisce da questo punto di vista una variante insolita che, tuttavia, nulla toglie alla riconoscibilità del titolare dell’arma. Un’ulteriore prova dell’attribuzione certa del manufatto latianese ci viene offerta dall’analisi delle insegne di dignità che completano la composizione dello stemma. Come si vede nell’illustrazione, l’aquila che accolla lo scudo appare acefala, ma il resto del corpo non lascia dubbi sulla sua natura. Si tratta della cosiddetta aquila di San Giovanni, di colore di nero, nimbata d’oro e munita della caratteristica coda a ventaglio.
Fig. 7. Toledo, Escuela de Artes y Oficios Artísticos, facciata, particolare dello stemma dei Re Cattolici con l’aquila giovannita
  Fu questo un emblema caro a Ferdinando II d’Aragona e a Isabella di Castiglia (fig. 7), che in seguito fu adottato anche dalla figlia Caterina (regina consorte d’Inghilterra come moglie di Enrico VIII e madre di Maria Tudor) e dallo stesso Filippo II, pronipote per via paterna dei due Re Cattolici (figg. 8 e 9). Quanto alla corona che timbra lo scudo, si osserva che essa è abrasa nella parte superiore, limitandosi ad solo cerchio e a qualche frammento di fiorone: troppo poco, apparentemente, per descriverne l’esatta foggia. Tuttavia, l’osservazione attenta di quel che resta del rialzo permette di affermare che questa corona, simbolo del potere reale, dovette essere simile a quella impiegata da Filippo II nella monetazione napoletana coniata durante il matrimonio con Maria Tudor: una corona aperta o chiusa, formata da un cerchio rialzato da cinque fioroni (tre visibili), alternati a quattro perle (due visibili), sostenute da altrattente punte (figg. 5 e 6).
Fig. 8. Stemma di Filippo II con l’aquila di San Giovanni scolpito sulla facciata della Casa consistorial de Baeza
  Fig. 9. Scudo di Filippo II sostenuto da due aquile di San Giovanni. “Les Armories et enseignes du souverene et compagnions du tresnoble ordre de la Jarretiere, en nombre de XXV, come ilz sont par ordre au chasteau de Wyndsor, l’an 1572”, BNF, ms. fr. 14653, fol. 3r.
  Infine, la presenza attorno allo scudo del collare del Toson d’Oro indica chiaramente l’appartenenza del sovrano asburgico al celebre e omonimo Ordine cavalleresco istituito nel 1430 da Filippo il Buono, duca di Borgogna, ed ereditato dalla casa d’Asburgo in conseguenza del matrimonio fra l’imperatore Massimiliano I e Maria di Borgogna, bisavoli paterni del nostro Filippo, al quale in data 22 ottobre 1555 il padre Carlo V trasferì il Gran Magistero dell’Ordine. L’identificazione certa del titolare dell’esemplare litico latianese consente dunque di datarne la collocazione entro una forchetta temporale di soli quattro anni, limitata alla durata del matrimonio fra Filippo II e Maria Tudor (1554-1558). In questo lasso di tempo il feudo di Latiano apparteneva da più di un decennio a Francesco Antonio Francone (1542-1585). Settembrini, attribuendo erroneamente lo stemma a Carlo V, sostiene che tale manufatto era collocato originariamente nella cinquecentesca chiesa di San Sebastiano, ma questa tesi appare poco convincente se si considerano la tipologia di arma rappresentata e la natura dell’edificio che la ospita. Nel Regno di Napoli e nella stessa Terra d’Otranto, infatti, questo tipo di rappresentazione araldica del potere regale trovava quasi sempre posto su edifici o monumenti civili o militari di particolare rilevanza pubblica: porte urbiche, torri, bastioni, castelli, titoli confinari, sedili, luoghi deputati all’amministrazione della giustizia ecc., supporti privilegiati per la mise en scène di un signum attestante l’autorità regia. Numerosi sono gli esempi in tal senso, sui quali non vale pena soffermarsi. Ciò che è insolito, invece, è trovare una composizione come quella in esame su un piccolo edificio religioso, tanto più che nel corso di questa indagine non è emerso nessun tipo di legame diretto fra Filippo II e l’antica chiesa di San Sebastiano tale da giustificare la presenza del suo stemma. Pertanto, benché la tesi del Settembrini non sia da scartare a priori (e in tal caso lo stemma sarebbe un forte elemento datante), è più verosimile ipotizzare per l’esemplare litico in questione una sua originaria collocazione su una costruzione civile o militare, una costruzione evidentemente ancora in piedi negli anni 1554-1558. Se così fosse, la chiesa di San Sebastiano andrebbe fatta risalire alla fine del XVI secolo, come attestano del resto i più recenti studi sulla topografia cinquecentesca di Latiano. È evidente, comunque, che l’attribuzione dell’arma e la cronologia ristretta che essa sottende offrono agli studiosi di storia locale nuove piste di ricerca sulle quali sarebbe utile investigare in futuro. Com’è noto, dopo la morte di Maria Tudor, El Rey Prudente eliminò le armi inglesi dal suo stemma e a partire dal 1580 aggiunse lo scudetto del reame portoghese, collocandolo sul punto d’onore dello scudo (fig. 10). Nel corso del tempo il suo stemma fu soggetto a numerose varianti, la cui descrizione, tuttavia, esula dall’argomento oggetto di questo studio.
Fig. 10. Stemma di Filippo II, dal Theatrum Orbis Terrarum di Abraham Ortelius (1603).
  Conclusioni
Arma di dominio attestante l’autorià regia nonché vero e proprio “ritratto sociale” del titolare, l’esemplare araldico oggetto di questa disamina rappresenta una delle più antiche testimonianze dell’architettura latianese del XVI secolo e, come tale, merita di essere apprezzato e valorizzato. È evidente che le condizioni in cui versa oggi il manufatto ne impongono con urgenza un recupero mediante restauro che lo sottragga agli effetti nefasti prodotti dalle ingiurie del tempo e dall’incuria dell’uomo. In una lettera del 24 febbraio 2005 indirizzata alla Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici, al Comune di Latiano e al parroco della chiesa di S. Maria delle Neve, Ilario Mosca (all’epoca giovane studente liceale), attribuendo erroneamente l’esemplare a Carlo V, auspicava “il recupero, il restauro, la valorizzazione e la preservazione di un pezzo di storia latianese che al momento passa inosservato ai più”. L’appello del Mosca restò lettera morta. L’auspicio è che questa mia ricerca possa spingere le istituzioni e le associazioni locali (fra cui la Pro Loco, che nel suo sito persevera nell’errata attribuzione dello stemma) a intervenire concretamente in tal senso.
  BIBLIOGRAFIA
Corpus Nummorum Italicorum, vol. XX, Italia meridionale e continentale: Napoli II, da Filippo II alla chiusura della zecca, ed. Colombo, Roma 1943.
Beni culturali di Latiano: le chiese e il patrimonio sacro (a cura della Biblioteca comunale), Manduria 1993, vol. 3, t. 2.
Borgia, Lo stemma del Regno delle Due Sicilie, Firenze 2002.
Fraser, The Lives of the Kings & Queens of England, Book Club Associates, Londra 1975.
Menéndez Pidal de Navascués, El Escudo de España, Real Academia Matritense de Heráldica y Genealogía, Madrid, 2004.
Parker, Un solo re, un solo impero. Filippo II di Spagna, Bologna 2005.
Semeraro, Propaganda politica per immagini. Il caso dello stemma carolino di Porta Napoli a Lecce, in “Il delfino e la mezzaluna”, agosto 2006, anno IV, nn. 4-5.
Settembrini, Il culto del SS.Crocifisso a Latiano: storia e tradizioni, Oria 1996.
Settembrini, La piazza, il centro storico, l’espansione urbanistica di latiano nei secoli XVI-XX, Latiano 2012.
Settembrini, Sindaci, notai e famiglie feudatarie di Latiano, Latiano 2002.
Willement, Regal heraldry. The armorial insignia of the Kings and Queens of England, from coeval authorities, Londra 1821.
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nubienebbia · 6 years
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Zipper e suo padre
La triade composta da Joseph Roth, Arthur Schnitzler e Robert Musil è passata alla storia per aver descritto liricamente il tramonto di uno dei più grandi imperi della Storia, l’Impero Asburgico. Un impero glorioso che si estendeva da Innsbruck a Leopoli, e che ospitava entro i suoi confini più orientali il floridissimo ebraismo dello shtetl. Il blasone della casata conteneva da secoli il motto AEIOU, ovvero Austriae Est Imperare Orbi Universo, spetta all’Austria comandare sul mondo intero. Ciò si verificò con alterne fortune fino alla fine della Grande Guerra (il cui casus belli fu come è noto l’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este a Sarajevo) quando l’Impero scomparve a causa delle molte contraddizioni che lo affliggevano ormai da tempo. La leggenda vuole che il simbolo più luminoso del regno, il baffuto e canuto Francesco Giuseppe, morì di crepacuore nel 1916 perché da un giorno all’altro vennero meno valori, usi e costumi che ormai erano plurisecolari e probabilmente considerati immortali.
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Nel 1928 Joseph Roth pubblicò Zipper und sein Vater, in italiano Zipper e suo padre, sublime romanzo che racconta la disillusione e le difficoltà materiali e spirituali di una famiglia ebraica viennese all’indomani della sconfitta e della scomparsa dell’Impero. Roth è un narratore impareggiabile che riesce nelle pochissime righe dell’incipit ad incuriosirci e a creare un enorme empatia verso l’intera famiglia Zipper, vera ed impareggiabile protagonista del romanzo.
“Io non avevo un padre – cioè: non ho mai conosciuto mio padre – ma Zipper ne possedeva uno. Ciò conferiva al mio amico un particolare prestigio, quasi avesse posseduto un pappagallo o un sanbernardo. Quando Arnold diceva: «Domani vado sul Koblenz col mio papà», provavo il desiderio di avere anch’io un padre. Un padre lo si poteva prendere per mano, si poteva imitarne la firma, da lui si potevano ricevere rimproveri, punizioni, premi, percosse. A volte ero tentato di indurre mia madre a risposarsi, perché perfino un patrigno mi appariva desiderabile. Ma le circostanze non lo consentivano.”
La famiglia Zipper era composta dal capofamiglia, il vecchio Zipper, dalla moglie Fanny e dai due figli maschi: Arnold e Cäsar. Quest’ultimo inizialmente rinnegato dal padre per il suo essere uno scioperato, morirà in stato vegetativo a causa delle ferite riportate in guerra. Lo scontro epocale, il frastuono dell’artiglieria e le notti trascorse all’addiaccio in trincea avranno delle conseguenze imprevedibili anche sulla voce narrante e Arnold Zipper, i quali dopo alcune iniziali incertezze decidono di arruolarsi per difendere l’aquila bicipite nera, per difendere lo stemma Asburgico.
“Credo che la guerra ci abbia rovinati. Confessiamolo: abbiamo avuto torto a ritornare. Noi ora ne sappiamo quanto i morti, ma dobbiamo fare finta di nulla, perché, per puro caso, siamo rimasti in vita.”
Le sensazioni di inadeguatezza e di estraneità alla società causate dalla drammaticità dell’esperienza bellica sono centrali in tutto il romanzo. Arnold Zipper e il protagonista devono ritrovare il loro posto nel mondo e all’interno della società. Impresa non soltanto non facile ma titanica. Paradossalmente l’eclissarsi consapevolmente potrebbe rappresentare una soluzione a questo dilemma.
“Arnold non giocava, ma stava volentieri a guardare. Per parecchi giocatori era diventato, con il tempo, un indispensabile «angolista». In un certo senso ci si riposava dalle emozioni del gioco se alzando gli occhi dalle carte si guardava Zipper. La perenne malinconia del suo volto – della quale nessuno sapeva il motivo, tra l’altro, e che probabilmente solo io capivo, perché conoscevo casa Zipper, cioè la culla di quella malinconia -,  l’inalterabile passione con cui partecipava a quell’altalena di disdetta e di fortuna, il suo concentrato mutismo, il suo sguardo vigile che seguiva ogni gesto, ogni movimento delle mani e delle carte, dovevano avere sui giocatori lo stesso effetto rassicurante e appagante che ha, su un autore che da lettura della propria opera, un ascoltatore attento e partecipe. I giocatori si sentivano lusingati quando Zipper li guardava. Era come se tributasse loro un tacito applauso.”
Roth è riuscito a rendere immortali i dubbi e le ansie di una generazione fatalmente ritrovatasi senza una guida. Il confortante impero era scomparso in un fiat, la morte aveva falciato in battaglia migliaia e migliaia di giovani vite, non c’era più nulla in cui credere. Il tempo scorre inesorabilmente senza che gli Zipper se ne accorgano. Emblematica e degna della migliore letteratura mitteleuropea l’immagine dell’orologio che conforta i giocatori nel caffè abitualmente frequentato da Arnold Zipper.
“Per chi sedeva lì dentro il tempo si era fermato. Sopra la cassa, in verità, era appeso un orologio, ticchettava perfino, tutte le sere veniva ricaricato dal capocameriere Franz, ma non aveva lancette. Poteva esserci qualcosa di più terrificante? Quell’orologio camminava e camminava, nelle sue recondite profondità il tempo seguiva il proprio corso regolare, ma non lo si vedeva. Si sapeva solo che le ore passano, ma quante – questo non lo si sapeva. Eppure le persone sedute lì alzavano ogni volta gli occhi a quell’orologio, probabilmente si figuravano di vedere così che ora fosse. Il ticchettio che udivano li rassicurava, a quanto pareva.”
All’inizio del quarto capitolo Roth scrive: “Dove vive tanta gente, ne muore anche tanta”. Rendere immortali queste vite è il fine ultimo della storia e della letteratura. Roth è riuscito in un centinaio di pagine a farci sentire parte della famiglia Zipper. A condividere con loro gioie e dolori, tormenti e momenti felici. In cambio ha ottenuto la gloria eterna e un posto di primissimo piano tra i Giganti della letteratura europea. Grazie Joseph, ci reincontreremo nell’eternità di un caffè a bere slivoviz circondati da “angolisti”.
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clarettaalcor · 6 years
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Cento anni fa stava ancora infuriando la Prima Guerra Mondiale. Al termine erano deceduti, tra militari e civili, circa diciassette milioni di uomini su tutti i fronti, a cui vanno poi aggiunti i morti per le pandemie verificatesi dopo la guerra, come le vittime della influenza detta “spagnola”. Come sono stati sepolti i Caduti sul campo qui in Italia? Al termine della Guerra venne istituita la Commissione Nazionale per le Onoranze ai Militari d’Italia e dei Paesi Alleati Morti in Guerra, il cui comando era affidato ad Armando Diaz, e l’Ufficio Centrale per la Cura e le Onoranze alle Salme dei Caduti di Guerra. Quest’ultima Organizzazione suddivise il fronte italo-austriaco in cinque settori: Gorizia, Udine, Treviso, Trieste e Trento, ed iniziò a setacciare le linee del fronte in cerca degli anche più sperduti cimiteri e tombe singole per dare una “degna sepoltura” ai nostri soldati: le salme raccolte in 2.876 cimiteri vennero concentrate in appena 349 ossari (di cui 64 costruiti appositamente). Le salme in “eccesso” vennero tumulate in cimiteri civili ampliati ad hoc. Naturalmente l’intera operazione non venne gestita bene sin dall’inizio: gli appezzamenti dove sorgevano molti dei cimiteri erano privati e l’alto affitto costrinse il Governo a cercare una soluzione definitiva. Venne così creata una nuova carica: il Commissario straordinario per le Onoranze ai Caduti in Guerra. Questa figura venne introdotta nel 1927, ad “appena” 9 anni dalla fine del Conflitto, ciò significa che, dopo quasi un decennio, molte salme venivano ancora spostate da un cimitero all’altro. Durante il Governo fascista vennero costruiti i giganteschi sacrari e ossari per “celebrare quei giovani che avevano difeso la Patria”: saranno inaugurati: l’Ossario del Pasubio (1926), quindi quello del Cimone (1929) che accoglie circa 5.200 salme e il Sacrario di Redipuglia (1936) che ospita oltre 100.000 caduti. Poco lontano v’è un piccolo cimitero austroungarico, che naturalmente passa in secondo piano rispetto a quello di Redipuglia. Questo luogo di Riposo ben incarna cos’era l’Impero (Austria-Ungheria). Nomi di soldati polacchi, dalmati, magiari, slovacchi e tedeschi. Cimiteri di questo tipo sono sparsi su tutti i fronti in cui ha combattuto l’esercito di Franz Conrad. Su tutte le croci v’era, almeno inizialmente, una tettoia lignea e una targhetta in ceramica smaltata che riporta il nome del soldato sepolto e lo stemma del casato asburgico: in virtù di ciò si può desumere che, nonostante l’Impero sia caduto nel 1918, le salme erano già state sepolte degnamente già durante la guerra e nell’immediato periodo post bellico, senza essere rimbalzate da un cimitero all’altro. Forse la caduta dell’Impero ha impedito la monumentalizzazione di questi luoghi che oggi sono in larga misura abbandonati e trascurati; di molti si sono addirittura perse le tracce.
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