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#scontri stradali
benzinazero · 2 months
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Per un automobilista quali sono le probabilità di *sopravvivere_senza_danni* a un incidente in auto a più di 50 km/h? Poche
I crash test delle case automobilistiche vengono normalmente fatti a 55 km/h e si calcola che sia molto difficile sopravvivere a un urto contro un ostacolo fisso a 80 km/h, anche se non è impossibile (per chi ha molta fortuna). Come si vede dal diagramma sopra, per chi è a bordo di un veicolo, mediamente probabilità di morte crescono quasi verticalmente sopra i 50 km/h, per essere quasi 100%…
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Agricoltura crisi globale?
Cortei di trattori, blocchi stradali, letame rovesciato davanti ai palazzi del potere. Persino scontri con la polizia, roghi, violenze e arresti. Gli agricoltori inferociti hanno letteralmente assalito una buona parte dei paesi europei. Dalla Germania alla Spagna, tanto per segnare gli opposti sulla cartina geografica. L’Italia, più sorniona si è limitata a qualche comparsata sulle strade con…
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curiositasmundi · 3 months
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“Un atto evidentemente elettorale” rimarca, sempre a LaPresse, Paolo Bellino, della stessa associazione, secondo cui “è stato dato il via libera alle parti peggiori degli istinti al volante”. “Un atto efferato, criminogeno” e per questo l’appello è: “Salvini ritira questa zozzeria”. “Noi chiediamo che la riforma si fermi, che venga riscritta ma tenendo conto di tutte le evidenze e i dati che mostrano come realmente incidere sulla sicurezza delle nostre strade” è la richiesta avanzata da Francesca Chiodi del “Movimento diritti dei pedoni”.
Infine, presente in piazza Santi Apostoli anche il deputato del Pd Andrea Casu: “Nel 2022 165 mila scontri stradali, 9 morti e oltre 100 feriti ogni giorno. Sono numeri da bollettino di guerra. È una strage nelle nostre strade”.Tra i manifestanti c’era anche il consigliere regionale Alessio D’Amato. “Bisogna fermare questa riforma che va nella direzione opposta all’obiettivo fissato dalle direttive europee di dimezzare il numero di incidenti entro il 2030 per arrivare a zero morti sulle strade entro il 2050 - ha detto in una nota - così le cose non possono funzionare, bisogna puntare sulla prevenzione, sulla responsabilità delle amministrazioni locali e sulle buone pratiche europee. Invece con la riforma del nuovo Codice della Strada piuttosto che proteggere gli utenti deboli della strada, pedoni e ciclisti, e mettere in sicurezza i luoghi nevralgici come scuole, ospedali e stazioni, si fa propaganda sulla vita delle persone. Sono mesi che ho presentato la proposta di legge chiamata 'Lazio Strade Sicure' al Consiglio regionale, volta a ridurre il numero di vittime sulle strade. Tuttavia, dalla parte della destra in Regione c'è un silenzio assoluto su questo tema cruciale". 
Obiettivo “zero morti” impossibile
RomaToday ha contattato Amedeo Trolese, responsabile mobilità di Legambiente Lazio e tra le persone che hanno preso la parola durante la manifestazione: “L’Europa vuole che, entro il 2050, ci siano “zero morti” sulle strade. Con questo “codice della strage” l’obiettivo sarà irraggiungibile – dice – si va nella destinazione contraria rispetto a quella verso la quale si dovrebbe andare, dando sempre più spazio all’auto privata e ai suv”.
Secondo Legambiente, la riforma diminuisce “la sicurezza stradale, boicotta la mobilità sostenibile e indebolisce i Comuni. Inoltre “rende più difficili i controlli per velocità e sosta abusiva, rende possibile l’aumento dei limiti di velocità e diminuisce le multe per i limiti di velocità e transito in ZTL e aree pedonali”. Per non parlare, poi, di Ztl, aree pedonali, biciclette e simili. Si “blocca la realizzazione di nuove piste e corsie ciclabili” rendendole poi meno sicure con l’annullamento della “clausola “salvaciclisti” del “metro e mezzo”.  
Sindaci mortificati
“Questa è anche una misura che mortifica e penalizza tantissimo i sindaci – riprende Trolese – specialmente quelli impegnati nella realizzazione di zone 30, piste ciclabili o spazi Ztl. Non saranno più loro a decidere cosa fare ma il ministero, per la felicità di tutti quei burocrati che torneranno a comandare. Con Pendolaria abbiamo denunciato che siamo indietro anni luce sulla mobilità sostenibile ed ora il ministro vuole  tornare a riprendersi quegli spazi pubblici che, con fatica, erano stati riconsegnati ai pedoni e a chi preferisce una mobilità alternativa. Spero che l'Anci prenda presto posizione su questo”.
Strage sulle strade di Roma
Quello dei morti sulla strada è, come detto, un'emergenza nazionale e che si avverte in maniera particolare nella Capitale d'Italia .Federico Pastore è solo l’ultima vittima delle strade di Roma. Il ragazzo, che viveva nella zona di Quattro Venti, è morto sulla via Flaminia alle 4 del mattino di sabato 2 marzo. Dall’inizio del 2024, a Roma, sono morte già diciotto persone per incidenti stradali. Lo scorso anno le vittime di incidente sono state ben193.
Il nuovo codice della strada
Il nuovo codice della strada del ministro Salvini, che dovrebbe entrare in vigore entro la fine del 2024, introduce novità importanti. Una di queste è l’ergastolo della patente, pensata per chi causa incidenti sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. I neopatentati non potranno guidare, per tre anni, auto con una potenza superiore ai 95 cavalli. Stretta anche su chi viene beccato a guidare in stato di ebrezza: per i recidivi ci sarà l’obbligo di installare sulla propria vettura l’alcolock. Colpiti i monopattini che dovranno essere assicurati, avere le freccia e la targa mentre per i conducenti sarà obbligatorio il caso. Provvedimento, questo, che non è stato preso anche per le biciclette. Salvini ha poi “dichiarato guerra” agli autovelox. L’installazione dei rilevatori sarà vietata su strade che hanno il limite di 50 km/h in città, nelle strade urbane, mentre nelle strade extraurbane sotto i 90 all'ora. Previste poi multe più salate per chi guida utilizzando il cellulare.
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kritere · 1 year
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In Israele è il  'Giorno della paralisi', nuove proteste contro la riforma
DIRETTA TV  Sit-in sotto le abitazioni di esponenti del governo, cortei, blocchi stradali, scontri con la polizia e arresti stanno segnando l’ennesima protesta nazionale in molte parti di Israele contro la riforma giudiziaria del governo di Benyamin Netanyahu. La tensione maggiore è a Tel Aviv dove, secondo i media, finora sono state arrestate 18 persone nell’ambito dei cortei con blocchi…
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lamilanomagazine · 1 year
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Lecce, il Comune ha deciso di sottoscrivere il “Manifesto per Città 30 e strade sicure e vitali”
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Lecce, il Comune ha deciso di sottoscrivere il “Manifesto per Città 30 e strade sicure e vitali”.   Il “Manifesto per Città30 e strade sicure e vitali – Insieme verso la vision zero contro la violenza stradale”, sarà sottoscritto anche dal Comune di Lecce. La giunta comunale ha deliberato giovedì 9 febbraio l’adesione della città all’iniziativa promossa da Fondazione Luigi Guccione e già sottoscritta dal Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile, ANCI, Vivinstrada, Legambiente, ACI – Automobile Club d'Italia, Streets for Life #Love30 – Inviato speciale del Segretario Generale UN sicurezza stradale, ASVIS – Agenzia italiana per lo sviluppo sostenibile, Kyoto Club, FIAB - Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta, AMODO – Alleanza Mobilità Dolce, Confindustria – ANCMA Associazione Nazionale Ciclo Motociclo Accessori, Il Muro della Memoria, Marco Pietrobono ONLUS, Fondazione Michele Scarponi. Il manifesto segnala per l’Italia, sulla scorta delle disposizioni in essere in altri Stati dell’Unione Europea, la necessità di “assumere anche a livello nazionale, a supporto delle scelte degli Enti locali, la politica delle ‘Città 30’, ossia della generalizzazione del limite massimo dei 30 km/h in ambito urbano almeno sulla rete viaria secondaria”. Una necessità che scaturisce da due dati: la stragrande parte degli scontri e investimenti stradali (il 73,3% per Istat, 2020) avviene sulle strade urbane, dove convivono nello spazio pubblico veicoli a motore, ciclisti, pedoni, bambini, anziani, disabili; la violazione dei limiti massimi di velocità è in assoluto una delle prime tre cause dell’incidentalità stradale in Italia (Istat, 2020). Il manifesto propone anche altre misure come mantenere il limite dei 50 km/h sulle strade urbane di scorrimento (tipo D) e promuovere invece quello dei 30 km/h sulle strade di quartiere e locali (tipo E e F), ferma restando l’autonomia dei Comuni nella classificazione delle strade; destinare ai Comuni, nell’ambito delle risorse del PNSS 2030, fondi adeguati e vincolati per la realizzazione di interventi di gestione e controllo della velocità, adottando dal punto di vista progettuale ed esecutivo, tecniche consolidate come il traffic calming, l’implementazione di “zone 30” e “isole ambientali” per ridisegnare le città e progettare ambienti urbani e spazi pubblici sicuri, di qualità e con elevati standard di accessibilità e fruibilità, da parte di tutti gli utenti. “Nella nostra città nel 2022 la Polizia Locale di Lecce ha rilevato, complessivamente 746 sinistri stradali che hanno causato 375 feriti, di cui 4 morti e 11 in prognosi riservata – dichiara il vicesindaco e assessore alla Polizia Locale Sergio Signore – molti di questi incidenti si sarebbero potuti evitare se le auto avessero percorso le strade a velocità più limitata. Per questo è necessario intraprendere anche a Lecce il percorso verso una città 30, che garantisca sulle strade secondarie un limite più basso ed è necessario continuare a investire, come l’amministrazione sta facendo, su marciapiedi più ampi, protezioni per i pedoni, piste ciclabili in sede protetta, sulla promozione del trasporto pubblico, per fare in modo che i cittadini possano muoversi con sempre maggiore sicurezza”. “La città 30 è un obiettivo che dobbiamo raggiungere dotando le nostre città di adeguate infrastrutture a servizio della sicurezza stradale, finalizzate alla riduzione della velocità delle auto, alla protezione degli utenti deboli della strada, alla promozione della mobilità sostenibile e dei mezzi di trasporto alternativi all’auto – dichiara l’assessore alla Mobilità sostenibile Marco De Matteis – la città 30 è quella nella quale si riduce l’incidentalità, si mette al primo posto la sicurezza, si salvano vite umane, non a caso il Manifesto è sottoscritto da associazioni che nascono da esperienze tragiche e si battono per fermare la strage stradale”.        ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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3nding · 4 years
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"Questa è la fine di Hong Kong" >
“Mentre il mondo era distratto, Pechino ha riscritto le regole di Hong Kong a una velocità sorprendente”, titola un articolo di Mary Huy pubblicato su Quartz.
Infatti, appena l'attenzione è calata e le contestazioni dei manifestanti diminuite a causa della pandemia del nuovo coronavirus e del conseguente lockdown, le autorità cinesi hanno iniziato a muoversi per ottenere sempre più controllo su Hong Kong anche in previsione delle prossime elezioni di settembre per il rinnovo del Consiglio legislativo dell'ex colonia britannica che avrebbero potuto decretare la vittoria dei candidati pro-democrazia.
Appena dieci giorni dopo la revoca del lockdown di Wuhan, la città al centro dell'epidemia, la Cina ha iniziato a dirigere la sua attenzione su Hong Kong mentre il resto del mondo era alle prese con gli effetti devastanti del COVID-19. Ma qualche segnale era già stato colto prima.
Il 14 aprile tre dei giudici più eminenti di Hong Kong - che hanno mantenuto l'anonimato - hanno dichiarato alla Reuters che la magistratura indipendente era in lotta per la sopravvivenza.
Lo sforzo di Pechino di ostacolare la magistratura, secondo quanto sostenuto da vari giudici, avvocati e diplomatici di spicco di Hong Kong, avverrebbe su più fronti. La stampa controllata dalla Cina ha avvertito i giudici di Hong Kong di non "assolvere" i manifestanti arrestati durante le manifestazioni dello scorso anno.
Giudici e avvocati erano concordi nell'affermare che già da un po' di tempo Pechino stesse cercando di limitare l'attività dei tribunali di Hong Kong su questioni costituzionali fondamentali.
il primo passo “ufficiale” è stato compiuto il 17 aprile quando l'Ufficio cinese di collegamento a Hong Kong ha affermato di avere la piena autorità di intervenire negli affari della Regione.
In una dichiarazione, in cui confutava le accuse che stesse interferendo nelle questioni della città, l'autorità cinese più importante di Hong Kong ha affermato di avere la responsabilità e il diritto di "sorvegliare" il modo in cui il principio "un paese, due sistemi" - garantito dalla Cina al momento del passaggio dell'ex colonia britannica nel 1997 che consente l'autonomia di Hong Kong per un periodo di transizione di 50 anni - viene attuato.
Il 18 aprile, quindici personalità di spicco del movimento democratico - tra cui l’81enne Martin Lee, uno dei padri della Legge fondamentale di Hong Kong - sono state arrestate per le attività svolte durante le proteste dell'anno scorso.
Nel giro di cinque giorni le regole di ingaggio tra Pechino e Hong Kong sono state completamente riscritte.
Il 15 aprile scorso, l'Ufficio di collegamento del governo centrale ha sollecitato il governo di Hong Kong ad adottare una legge sulla sicurezza nazionale alla luce del fatto che forze straniere "stavano interferendo profondamente" negli affari della città. Va ricordato che tutte le richieste di democrazia che la popolazione di Hong Kong ha espresso negli ultimi anni sono sempre state viste da Pechino come manipolazioni da parte di "forze straniere".
Ora la Cina ha in programma l'approvazione della legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong durante l'annuale Congresso Nazionale del Popolo che si è aperto venerdì 22 maggio. Questo consentirà alle autorità cinesi di aggirare l'opposizione locale.
Il provvedimento prevede, tra le altre cose, l'istituzione di agenzie di sicurezza nazionali a Hong Kong, la promozione dell'educazione alla sicurezza nazionale e la presentazione periodica di relazioni al governo centrale, non sarà infatti vagliato dal parlamento locale. La risoluzione che darà ufficialmente il via all'iter legislativo sarà votata oggi 28 maggio per poi passare al Comitato permanente dell'Assemblea nazionale.
«Questa è la fine di Hong Kong. Questa è la fine del principio “un paese, due sistemi”.Pechino, con il governo centrale, ha completamente violato la promessa fatta al popolo di Hong Kong. Sta compiendo una totale marcia indietro rispetto ai propri obblighi».
Per gli attivisti dei diritti umani "la preoccupazione è dovuta al fatto che abbiamo visto come la "sicurezza nazionale" e questioni correlate come la "lotta al terrorismo" siano usate in Cina come scusa per ogni sorta di violazione dei diritti umani, inclusi l'arresto arbitrario e la reclusione di dissidenti”.
Australia, Gran Bretagna, Canada e Unione Europea hanno espresso unanime preoccupazione per la decisione di Pechino.
Gli Usa ieri sera hanno deciso di non riconoscere più Hong Kong come regione autonoma.
Intanto le proteste a Hong Kong non si fermano. Domenica scorsa migliaia di manifestanti sono scesi nuovamente in strada nei quartieri più trafficati di Hong Kong cantando, ripetendo slogan, costruendo blocchi stradali, mentre la polizia sparava gas lacrimogeni e faceva anche uso di spray al pepe e di un cannone ad acqua per disperdere la folla in quella che è stata la più grande mobilitazione degli ultimi mesi.
La protesta, la prima da quando la Cina ha annunciato l'intenzione di rafforzare il suo controllo su Hong Kong con l'adozione della legge sulla sicurezza, era stata organizzata come marcia pacifica che si sarebbe tenuta nei quartieri di Causeway Bay e Wan Chai. Ma quando la polizia ha bloccato il percorso, lanciando gas lacrimogeni in rapida successione, i manifestanti si sono immediatamente divisi in gruppi più piccoli, dando il via a più di sette ore di scontri.
Ieri, mercoledì 27 maggio, ulteriori proteste massicce sono state organizzate in concomitanza con la seduta del Consiglio legislativo durante la quale si è proceduto alla seconda lettura della proposta di legge sul vilipendio dell'inno nazionale cinese.
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corallorosso · 5 years
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IL FUOCO UMANO 47 Uomini 11 Donne I numeri non mentono e non nascondono la realtà. Sono i numeri di chi si é dato fuoco. Alcuni sono morti bruciati, gli altri porteranno, per sempre, sul corpo i segni dell'atto drammatico della denuncia. La Tunisia non smette di bruciare. Lo fa attraverso il gesto più sconvolgente e doloroso. La Tunisia brucia i suoi Uomini e le sue Donne nelle piazze del Paese, immolandoli a vittime nel sacrificio di una disperazione taciuta e nascosta. Ma, ripeto, i numeri non tacciono. L'ultima vittima é un ragazzo di 25 anni. S'é dato fuoco nella tragica piazza di Sidi Bou Zid, laddove parti' un rogo umano che diede il via alla Rivolta dei Gelsomini nel 2011. E' morto tra le fiamme illuminando la sua disperazione. E il Popolo é sceso nuovamente in strada. Blocchi stradali, pneumatici dati alle fiamme, scontri con la Polizia accorsa per spegnere l'incendio sociale. Ma non quello umano. Quello continuerà, alimentato da una crisi economica che costringe il Popolo alla fame. Ieri gridavano : " Povertà e Fame, non ci resta che il fuoco per bruciare " Agitavano taniche di benzina ,minacciando d'usarle su se stessi. La disperazione va oltre ogni altro ragionamento. Le parole non servono più. Ci vogliono atti, atti concreti. Ci vuole un programma serio d'aiuto al Popolo in difficoltà, alle migliaia di giovani senza lavoro e quindi senza prospettive. Stanno bruciando il futuro. Stanno bruciando la speranza. Noi regaliamo motovedette per respingere i fuggitivi. Noi mandiamo consulenti militari per arginare i Migranti. Noi affermiamo che la Tunisia é un "porto sicuro" pur di levarceli dai coglioni. Noi non abbiamo ancora capito nulla. Se vogliamo spegnere gli incendi umani, dobbiamo mandare trattori, non motovedette. Dobbiamo fornire aiuti pretendendo che vengano distribuiti ai poveri, non elemosine ma piani di sviluppo, aiutarli a ridurre i costi della vita quotidiana, favorire lo sviluppo delle infrastrutture, costruire aziende in grado di fornire lavoro e i cui introiti vengano nuovamente distribuiti per alimentarne altre. Se non si attua un piano di sviluppo sociale completamente diverso, la Tunisia continuerà a bruciare. E alla fine anche noi dovremo fare i conti con quelle fiamme. (Claudio Khaled Ser)
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paoloxl · 5 years
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Decreto sicurezza. L’ordinanza dettata dal decreto sicurezza. I sindacati: un colpo ai diritti dei lavoratori
Vietato protestare a Siracusa. Almeno fino al 30 settembre. Cassaintegrati, precari o lavoratori che intendessero farlo per difendere posti e diritti dovranno tenersi lontano dal petrolchimico, dai piazzali delle raffinerie, da bivi e rotatorie che portano nelle fabbriche. Per il prefetto Luigi Pizzi l’area industriale deve rimanere libera. Anche perché, e tra le motivazione è quella più incredibile, «le manifestazioni in argomento assumono ulteriori profili di criticità per l’ordine e la sicurezza pubblica, anche in considerazione della ormai avviata stagione primaverile-estiva».
Insomma, agli occhi dei turisti bisogna nascondere il disagio sociale. Ecco dunque il divieto a tempo. Per Cgil Cisl e Uil l’ordinanza firmata qualche giorno fa è «un segnale pesante di limitazione della libertà dei lavoratori a poter scioperare». Richiamando la «circolare diramata dal capo di gabinetto del ministero dell’Interno», il provvedimento del prefetto prevede che sull’ex statale 114 non ci potranno più essere «assembramenti di persone e automezzi» per evitare «ritardi nelle forniture di carburante ai porti e agli aeroporti della Sicilia orientale», «il rischio per la sicurezza degli impianti, che richiedono costante manutenzione e non consentono ritardi agli ingressi» e «il diritto alla libertà d’impresa».
Roberto Alosi (Cgil), Stefano Munafò (Uil) e Paolo Sanzaro (Cisl) parlano di «pericolosa deriva regressiva dei diritti dei lavoratori e delle libertà sindacali». Pippo Zappulla e Antonino Landro, di Art.Uno, definiscono il provvedimento «un sintomo, che rischia di essere inquadrato in un clima di crescente tensione nel Paese sul terreno delle libertà civili e sociali». «Mai nella storia sindacale della zona industriale di Siracusa, neanche nei momenti di scontri sociali più duri, si sono assunti provvedimenti restrittivi e così forti e gravi», accusa Zappulla .
Secondo il segretario generale della Cgil Sicilia, Michele Pagliaro, è evidente che si respira aria di limitazione delle libertà democratiche, o perlomeno di tentativi in questa direzione che ovviamente saranno contrastati dalla società democratica, come per ultimo dimostrato nel caso della professoressa di Palermo, ‘rea’ di avere garantito la libertà di pensiero e di espressione dei suoi alunni e per questo sospesa».
Pagliaro evidenzia che «il caso di Siracusa e quello della docente palermitana sono due episodi gravissimi, dallo spiccato sapore intimidatorio». «Noi – aggiunge – siamo con i lavoratori che legittimamente protestano nel rispetto delle leggi vigenti e siamo con la professoressa Dell’Aria che si è fatta solo garante della libertà di opinione ed è rimasta vittima di un clima di repressione che si spinge fino alla contestazione delle legittime opinioni e di chi ne garantisce l’esercizio».
Il prefetto però difende la sua ordinanza: «Non comprime in linea generale il diritto o la libertà di manifestazione mira esclusivamente a tutelare la sicurezza pubblica, degli impianti industriali e della circolazione veicolare e solo in quell’area della provincia». E richiama il decreto Salvini: «Anche in passato, come più di recente quel tipo di manifestazione ha dato luogo a consistenti rallentamenti, determinando veri e propri blocchi stradali, sanzionati dal decreto sicurezza». Ma la Cgil insiste. «E’ un chiaro attacco alla libertà dei lavoratori, garantita dalla Costituzione, di manifestare e unitariamente – afferma Pagliaro – Stiamo valutando la possibilità di ricorrere contro il provvedimento».
Alfredo Marsala
da il manifesto
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abr · 5 years
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Immaginate che in Italia avvengano manifestazioni di piazza contro il governo, anzi immaginate il G8 di Genova. Immaginate che chi manifesta abbia pure le sue valide ragioni ma che lasci dietro di se una scia di distruzione sulla proprietà privata e pubblica, scontri con la Polizia, blocchi stradali (...). Ora immaginate che un politico di primo piano francese, magari Macron in persona offra al movimento che incendia le piazze italiane aiuto organizzativo e supporto politico pubblico. Credete che la cosa non avrebbe conseguenze politiche sul piano internazionale? La Francia subito ha protestato poi sono arrivati finti comunicati di distensione con Roma, infine ha agito. Insieme alla Germania ( si noti bene ) ha chiesto e ottenuto che per la fusione fra STX e Fincantieri fosse aperto un supplemento di indagine da parte delle autorità antitrust, rallentando (per ora) la fusione che favorisce il controllo italiano. L’antitrust europeo (..) non dovrebbe bloccare la fusione, i presupposti sono debolissimi (...) per essere anche solo oggetto di indagine, tuttavia proprio perchè la segnalazione è arrivata sia da Francia che Germania, l’antitrust ha deciso di aprire un supplemento di indagine. Quindi si è una ritorsione, ed è piccola e proporzionata. Più che altro un avvertimento di non impicciarsi negli affari politici interni altrui. Tuttavia questa (piccola) ritorsione vede il supporto dei tedeschi il che rafforza l’ipotesi che si tratti di un preciso messaggio su quali sono e saranno anche nei prossimi anni le alleanze privilegiate e su quali sono i limiti della politica italiana, ovvero un conto è fare i fenomeni da BAR su facebook a uso interno, un altro è fare politica nel giardino degli altri.
più che raramente quoto funnyking, che considero nella sua involuzione l’anello di congiunzione evolutivo tra l’uomo e seminerio, ma anche un orologio rotto segna l’ora giusta due volte al dì. 
Qui segnala un fatterello notevole, una delle sue solite coincidenze sbandierate, da protogrillino senza saperlo quale è, che però stavolta suona convincente come correlazione. Aldilà delle sue deduzioni cheap: non perdiamo tempo per tentare di spiegargli come la politica sia SEMPRE rapporto-confronto di forze, quando fai il fenomeno ma anche anche quando fai il tappetino accondiscendente. 
via http://funnyking.io/archives/2994
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goodbearblind · 6 years
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#Repost @supercalifragilistiche • • • • • L'otto luglio 1962, a Torino in Piazza Statuto si verificano violenti scontri tra gli operai metalmeccanici in sciopero e le forze dell'ordine. Gli scontri proseguivano dal giorno precedente e continueranno fino al 9. Lo sciopero era stato indetto per il 7 da Fiom e Fim in solidarietà alle lotte portate avanti alla Fiat dall'inizio di giugno. Lo sciopero ebbe un successo assoluto: nella maggior parte delle fabbriche i picchetti bloccarono completamente la produzione, alcuni dirigenti vennero malmenati e fu impossibile per la polizia mantenere la situazione sotto controllo davanti ai cancelli. A Mirafiori ed in altri stabilimenti si ebbero scontri sin dal primo mattino e proprio nella mattinata si diffuse la notizia che fece scoppiare la rivolta di piazza Statuto: la Uil e la Sida erano giunte ad un accordo separato con la dirigenza della Fiat. La risposta operaia fu rapida e determinata: in breve tempo circa 7'000 operai si radunarono in piazza Statuto per dare assalto alla sede della Uil. Gli scontri iniziarono particolarmente intensi. Da un lato gli operai disselciano la piazza e spaccano le enormi e pesantissime lose dei marciapiedi, impugnano cartelli stradali e catene, dall'altro la polizia carica inondando di gas lacrimogeni la piazza e lanciando a folle velocità le jeep.
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benzinazero · 3 months
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Circa un terzo degli automobilisti ammettono di non rispettare i limiti di velocità. Gli uomini li infrangono molto più delle donne [Facile.it]
Secondo un sondaggio di Facile.it commissionato agli istituti mUp Research e Norstat, il 27% degli automobilisti italiani ammettono di non rispettare i limiti di velocità. Inoltre gli uomini sono più indisciplinati e spericolati delle donne: 35,3% degli uomini non rispetta i limiti di velocità 18,8% delle donne non rispetta i limiti di velocità Come si vede la percentuale di uomini che non…
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Israele: 'Giorno paralisi', nuove proteste contro la riforma
(ANSA) – TEL AVIV, 23 MAR – Sit-in sotto le abitazioni di esponenti del governo, cortei, blocchi stradali, scontri con la polizia e arresti stanno segnando l’ennesima protesta nazionale in molte parti di Israele contro la riforma giudiziaria del governo di Benyamin Netanyahu. La tensione maggiore è a Tel Aviv dove, secondo i media, finora sono state arrestate 18 persone nell’ambito dei cortei con…
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lasola · 3 years
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Le Male Storie
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"Mentre in Europa vi bombardavate, a Bogotà costruivamo biblioteche". A un amico intellettuale piaceva ripetere questo aneddoto quando parlava della Capitale come dell'Atene dell'America Latina. Mi mostrò anche i piani urbanistici di Le Corbusier che aveva previsto tutta una serie di svincoli stradali e quartieri periferici prima ancora che l'ondata di urbanizzazione iniziasse, quando Bogotà era una piccola cittadina a 2600 metri sopra il mare, unica capitale lontana dalle coste (se si esclude La Paz) con lo scopo di unirle nel paese che ha sbocchi sia sul pacifico sia sull'atlantico. Poi però, mentre l’Europa ripartiva dalle macerie, la Colombia sprofondava in un’epoca di violenze che non sono ancora terminate.
Per alcuni scienziati sociali ed attivisti, l'assassinio, nell'aprile del 1948, del primo leader populista del continente, Jorge Eliecer Gaitan, rappresenta un momento simbolico dei cammini politici colombiani. Era di origini indigene, sindaco di Bogotà ed aspirava alla poltrona presidenziale. Idealmente la sua morte diede il via ad un’epoca tristemente famosa e ricordata come “la violenza” in cui vecchie divisioni politiche tra conservatori e liberali si mischiarono ad odi più intimi. Vi furono ondate di uccisioni e linciaggi spesso troppo locali per essere propriamente intesi politicamente nelle successive ricostruzioni storiche (1, 2, 3, 4). Mentre il resto del mondo coloniale entrava dentro guerre di decolonizzazione e si liberava del nemico straniero, la Colombia sembrò dover fare i conti con il suo passato in forme del tutto diverse. Lo scontro avvenne dentro le relazioni di patronato basate ancora su organizzazioni radicate nel colonialismo como il sistema delle haciendas\latifondi (la piantagione) e delle miniere. Le clientele e gli assoldati si schierarono per un Patròn o per l’altro e solo in alcune aree del Paese mossero verso un rinnovamento delle relazioni produttive. "La violenza” è ancora oggi ricordata come un’epoca buia, quasi di imbarbarimento generalizzato anche perchè fu uno scontro tra elite emergenti e\o al potere da tempo. Fu una guerra tra potentatati, di quasi-regni alleati o in guerra, organizzati intorno a poteri tanto burocratici quanto militari. Non ci fu però una chiara demarcazione territoriale. Al contrario, la fedeltà ad una fazione piuttosto che l’altra rimaneva locale, legata allle relazioni nelle piantagioni o nelle miniere e non riguardava necessariamente più ampie richieste di emancipazione.
Dopo circa 20 anni ed almeno 200.000 morti, quei conflitti intestini si  riconfigurarono e furono reinterpretati attraverso la lotta di classe producendo attacchi più mirati verso un ideale centro del potere. Gli obiettivi rimasero la terra e le sue haciendas. Riguardavano ancora il complesso mondo delle miniere. Ma guardavano anche alle istituzioni urbane emerse negli scontri precedenti che iniziavano a produrre modelli sempre più invasivi di consumo e sfruttamento dei territori. Iniziò così una seconda epoca di “violenza” segnata dalla proliferazione di gruppi armati e dalla guerra fredda che si è conclusa, almeno ufficialmente, nel 2016, con circa 230.000 morti. Lo scontro avvenne dentro due macro fazioni opposte. Da un lato c’erano i guevariani dell'ELN, i marxisti-leninisti delle FARC, i maoisti dell'EPL, i situazionsiti del M19, la guerriglia indigena del Quintin Lame, il movimento delle autonomie afro con i Cimarrrones. Dall’altro si contavano eserciti privati di mercenari organizzati da ricchi propietari terrieri o dai diversi clan dediti al narcotraffico e le forze regolari, l’esercito e la polizia. Questa costellazione di forze e volontà armate produceva periodicamente incontri\scontri ed alleanze\tradimenti che scombinavano le originali divisioni ideologiche e di parte. Le categorie sono quindi da considerarsi fluide. Nel corso degli anni, si registrarono molti casi di disertori o gruppi che cambiarono fazione in base alle condizioni del conflitto. In circa 40 anni vi sono stati anche diversi cambi di influenza e di controllo da parte degli attori armati sui territori. Localmente queste “trasformazioni” hanno prodotto una confusione quasi ontologica tra gruppi in armi che segnerà una specifica esperienza quotidiana della guerra da parte della popolazione civile. Ad agenzie che danno nomi e definiscono un gruppo rispetto all’altro, corrispondono infatti gli abitanti di villaggi e quartieri nei margini che rispondono alle loro necessità di vita adattandosi alle diverse entità armate ed alla loro fluidità, per esempio, avvicinandosi ai voleri degli uni o degli altri in base alle diverse condizioni del conflitto.
Un mondo siffatto potrebbe essere interpretato seguendo i parametri hobbesiani, di una guerra civile protratta, in cui il contratto sociale viene periodicamente messo in discussione. Ma potrebbe anche svelare qualcos’altro. Per esempio che questa guerra civile è una condizione permanente e non un’anomalia. Seguendo questa analisi il conflitto in atto sarebbe una matrice sulla cui base “possono e devono” intendersi non solo le tattiche e le lotte di potere ma anche specifiche forme di accumulazione di capitale e le locali relazioni produttive o di scambio (1). Invece di una guerra di tutti contro tutti, si delinerebbe un capitalismo violento e predatorio ordinato intorno all’economia bellica. Bisogna quindi provare a ripensare radicalmente i sistemi politici colombiani, quelli andini, amazzonici o costieri, a partire dalla funzione produttiva della violenza, adattando teorie e studi già esistenti, per esempio, sull’indigenismo amazzonico (1) o sui sistemi politici africani (1) o indiani (1) Ma si tratta anche di ripensare le relazioni tra attori armati (regolari e non), entità economiche nazionali ed internazionali (le private corporate) e la popolazione civile.
Per poter seguire appieno queste traiettorie bisognerebbe riconoscere prima di tutto l’impossibilità di adottare visioni weberiane e, per certi versi, eurocentriche, dei processi politici in esame. In questa direzione, alcuni studiosi, hanno descritto, in Colombia, una democrazia ibrida e “violentemente plurale” (1, 2, 3) in cui l’incapacità dello Stato di affermare il monopolio sull’uso della forza non rappresenta un fallimento dell’apparato burocratico, ma la manifestazione di una sua inerente molteplicità. Nella fondazione delle istituzioni locali, sarebbe cioè latente un conflitto irrisolvibile tra poteri ufficiali e di fatto. La loro stessa esistenza si sostanzia in una contesa quotidiana per legittimità, spazi di influenza e risorse. In questa lotta, i diversi “corpi sovrani” si compenetrano, si confondono, si escludono vicendevolmente e mutano insieme al cambiare delle necessità economiche e delle condizioni politiche del conflitto. Si potrebbe così meglio intendere la coesistenza di istituzioni apparentemente democratiche con prolungati livelli di violenza armata.
La storia di Gaitan dice però anche qualcos’altro. Il numero di leader sociali uccisi o scomparsi infatti non pare mai arrestarsi. E’ una ripetizione storica degli stessi dispositivi di potere che seguono una precisa strategia di contenimento del dissenso. Le vite di tanti messia del popolo vengono sistematicamente interrotte prima che possano realmente incamminare una rivoluzione o un cambiamento radicale. Uno degli effetti di questa improvvisa assenza è la diffusione di leggende su “padri” che seppero parlare al cuore ma cui non venne mai dato il tempo di fare. Fondarono così una patria inconclusa, sempre a metà del cammino, da qualche parte che non si sa bene dove sia, a volte nei colori della squadra di calcio nazionale, altre in quelli dell'esercito, altre ancora in quelli dei suoi movimenti pacifisti o dei suoi sindacati. Ma se esiste un'origine del pensiero ribelle colombiano credo dovrebbe ricercarsi proprio nell'attitudine a non credere in dei ed eroi per evitare delusioni, a non aspettarsi mai grandi cose perchè tanto tutto cambia molto in fretta e, insieme, a saper vivere la passione della rivolta, perchè la rivolta in Colombia è un fatto ineludibile e necessario che periodicamente prende forma tra le strade delle città maggiori per poi espandersi a quelle dei margini e viceversa.
In questa prospettiva racconterò come il maggior porto commerciale del Paese, Buenaventura, venne bloccato da una rivolta popolare causata dai continui razionamenti di acqua corrente resi ancora più duri da un inaspettato periodo di siccità che lasciò vuote le cisterne delle case di molti quartieri non collegati all’acquedotto cittadino. La rivolta provocò il blocco di tutte le vie di acceso alla città per circa due settimane, nel gennaio del 2011, 10 anni fa. Si tratta di un evento che non ebbe grossa risonanza mediatica nazionale e che anzi sembrò partecipare di una certa normalità della vita politica del paese di quegli anni. I blocchi stradali erano una delle forme di protesta più comuni nelle zone meno urbanizzate o lontane dai riflettori mediatici. I blocchi indigeni della via panamericana nel distretto del Cauca avevano ormai un'aura magica, quasi di rito di iniziazione cui ogni luchador social aveva partecipato almeno una volta nella vita. Ma anche quelli non facevano notizia, segnavano semmai dei solchi tra le forme della lotta e le ritorsioni della polizia e delle squadre antisommossa, emanazione, se non proprio riciclo, dei gruppi paramilitari che di "notte" commettevano assassini selettivi.
Il blocco del Puerto invece costrinse un'interruzione prolungata di alcune industrie nazionali (soprattutto trasporto e metalmeccanica) che si trovarono senza componenti visto che molte navi rimasero in mare in attesa di poter scaricare il loro carico. La portata dell'evento produsse effetti e ritorsioni che durarono alcuni anni, in forma stranamente lenta rispetto alle normali dinamiche politiche colombiane, in cui la vendetta di solito veniva consumata a caldo e nel minor tempo possibile, in modo da chiarire subito gli ordini di forza in campo. Nel caso del blocco del Puerto accadde qualcosa forse di inaspettato perchè fuori da vere e proprie dinamiche organizzative note alle agenzie di controllo. Emerse spontaneamente dalla stanchezza e dalla rabbia ed ebbe la funzione di ricucire, per alcuni giorni, un tessuto cittadino lacerato da anni di guerre intestine. Questo espose una capacità di organizzazione politica dal basso che non si era vista da molto tempo e che intaccò le certezze di dominio dei vertici politici e militari del paese. Per questo venne trattata con estrema cautela ed altrettanta intransigenza. Mentre da un lato si riconoscevano pubblicamente le richieste della cittadinanza con promesse e proclami, dall'altra si osservava chi prendeva parola, come lo faceva e dove si rifugiava. A distanza di 3 anni dagli eventi, alcune delle persone più attive in quei giorni furono costretti a rifugiarsi fuori da Buenaventura (anche se per ragioni diverse dal blocco), alcuni furono ritrovati morti (ufficialmente “per debiti non pagati” o per “regolamenti di conti tra bande” non relazionabili alla rivolta), altri iniziarono a dedicarsi con assiduità a droghe ed alcool. Altri ancora si trovarono ad essere superati da nuovi leader del movimento afro, supportati dal ministero degli Interni. Come e perché ciò accadde non sarà propriamente il tema delle prossime pagine.
Si tenterà invece una ricostruzione degli eventi a partire da un'indagine antropologica. Si racconterà cioè cosa implicò e dove condusse la rivolta in un quartiere all'ingresso della città non direttamente toccato dai blocchi stradali ma sempre in ascolto, quasi eccitato in quei giorni di ribellione. I modi in cui le storie di quartiere si intrecciarono a quelle della città ed alla rivolta sono l'elemento di vero interesse di questo racconto. Come cioè personaggi locali iniziarono ad avere un ruolo in quegli eventi e come quegli eventi divennero più grandi di loro fino a non sapere più se ci fossero stati spinti dentro per eccesso di curiosità o se avessero veramente chiaro cosa stava accadendo. Non c'era nessun Che Guevara tra loro. Erano anzi sbeffeggiati in quanto reietti (bavosos) se non proprio definiti come individui pericolosi da settori più vicini alla polizia.
In quei giorni improvvisamente però riaccesero una scintilla in più di qualcuno. A bordo delle loro moto o sulle loro scarpe consunte si indaffaravano a portare vettovaglie ai blocchi ed a rifocillare gli occupanti. Attraverso i loro occhi più d'uno o una sembrarono cogliere che qualcosa stava accadendo per davvero e che valeva la pena dare una mano a chi stava laggiù sull'avenida del libertador. Il vero evento fu che molte di queste persone solevano mantenersi dentro le barricate casalinghe per paure ormai consolidate della guerra che si combatteva in città da almeno un decennio. Poco alla volta, invece, chi più chi meno, iniziò a cucinare un pò di riso in più o metteva da parte un cesto di banane da mandare a quei locos che bloccavano il Porto. Un fischio al motoratton che passava di lì ed ecco che partiva del cibo, un pò di frutta appena raccolta, acqua con erbe miracolose e chissà cos'altro. Poi certo, tutto si spense e ricominciò l'insulto quotidiano. Ma come imparai in quei giorni, quella resistenza che decideva per l'ennesima volta di assumersi un grande rischio che molti avrebbero pagato a caro prezzo poteva essere intesa solo da dentro una condizione di incertezza permanente, per cui gli eroi morivano sempre e per questo non ce n'erano più. Bisognava invece imparare a "giocare da vivi" e seguire le maree. Quando l'acqua lo permetteva si lasciavano i propri 5 centesimi di contributo. Quando si era in tempesta non si poteva far altro che riparare in casa e cercare di capire come salvarsi dall'ennesima mareggiata.
Va detto che centrare l'attenzione su quegli eventi, su cosa li scatenò e cosa accadde poi è una scelta arbitraria, forse propriamente antropologica, frutto di una decisione di chi scrive piuttosto che di una reale necessità di ricordare quei fatti. Anzi durante il mio ultimo viaggio a Buenaventura , nell'aprile 2014, in molti risposero con un sorriso e un non ricordo ai miei tentativi di parlare ancora di quei giorni. Proprio questo oblio ha però reso ai mio occhi più interessante quel blocco. Nella mia vita mi è capitato di assistere e partecipare a diversi blocchi stradali di natura politica. Fin dall’anti G8 di Rostock nell'ormai lontano 2007 per poi arrivare agli interminabili Chaka Jam nepalesi del 2008 e 2009 in cui l'unica arteria del paese, la Mahendra highway, veniva bloccata periodicamente per settimane intere, fino all'Italia del movimento No Tav, e i giorni del blocco della autostrada A32 nel 2012. In ogni circostanza era possibile ricordare e discutere di cosa accadde in quei giorni e per quali ragioni stava avvenendo.
Nel caso di Buenaventura nello stesso quartiere in cui trascorsi la prima settimana del blocco, quella memoria era stata se non proprio cancellata, resa futile dalle necessità della vita che non lasciavano spazio a rimemorazioni di proteste tanto eclatanti e rischiose. Si doveva andare avanti. La memoria fu poi quasi sovrascritta dai successivi scioperi civici che riguardarono tutta la città e che quasi a cadenza annuale riuscirono a fermarla anche se non in forma così netta e rabbiosa come accadde all’inizio del 2011. Solo in quei giorni infatti la logistica si fermò per davvero e le strade principali furono illuminate da falò notturni. Come appresi successivamente, le ragioni di questo oblio erano multiple ma ce n'era una che forse produceva silenzio più delle altre.
Da qualche tempo nei quartieri in cui vivevo erano sorti dei gruppi di autodifesa autoctoni che controllavano entrate ed uscite di persone "esterne". Non era la prima volta che una cosa del genere accadeva. In verità rappresentava una ripetizione delle dinamiche di controllo territoriale della città. Su questi gruppi locali di solito si innestava il gioco facile degli agenti del caos che producevano nuove battaglie alla bisogna. I media a volte li definivano come pandillas (gang o bande o maras)  ed altre volte li associavano a un gruppo dedito al traffico di droga allora attivo a Buenaventura, i Rastrojos. Gli abitanti invece si riferivano a loro in altro modo, come il combo (il gruppo) o come i muchachos (ragazzi).
La nozione di “pandilla” era di solito utilizzata nel gergo poliziesco per definire qualsiasi gruppo giovanile che si assembrava in una zona marginale. La parola “combo” invece delimitava un sottogruppo della “pandilla” indentificabile in un territorio specifico e limitato. Per la polizia quindi diversi combos componevano una pandilla. A queste pandillas la Polizia affidava poi nomi che utilizzava normalmente per distinguere diverse zone ma non sempre i nomi identificavano vere e proprie reti territorializzate e organizzate di persone. Spesso gli stessi gruppi di giovani non sapevano di essere una pandilla o di avere un nome dato loro dalla Polizia. Potevano però riferirsi a loro stessi come al “combo” per identificarsi come gruppo di fratelli\amici. In molti casi, era impossibile definirli in base alla loro organizzazione interna, quindi attraverso capi o leader riconoscibili o attraverso riti di affiliazione. Inoltre molte “pandillas”, così genericamente definite, non erano armate oppure non disponevano di armi da fuoco ma usavano coltelli e pugnali “per difesa personale”. La loro identificazione però era utilizzata dentro le macrocategorie dell’insicurezza e partecipava dei dati su cui si pianificavano le azioni di controllo dei Quartieri. In ragione di queste politiche di identificazione, il numero di pandillas di città come Cali e Medellin, ma anche di Buenaventura, raggiungeva numeri decisamente allarmanti con più di 200 bande attive. Questo poi giustificava i fondi e gli investimenti nella “Difesa”. 
Rimanendo invece alle definizioni locali e del quartiere, alcuni combo che conoscevo nella comuna presero parte al blocco. Secondo alcune ricostruzioni, la loro presenza ebbe un ruolo non di secondo piano nel cessate il fuoco temporaneo che fu imposto e che riguardò anche le forze armate regolari. E’ evidente che la questione dell’accesso all’acqua aveva creato ponti tra settori della popolazione altrimenti non in contatto. Tuttavia a Buenaventura non si sparò per due settimane e, all'epoca dei fatti, le sue strade registravano i tassi di omicidio tra i più alti della Colombia. Spiegare quindi quali dinamiche si misero in moto per rendere possibile questa rivolta che ribaltò il mondo conosciuto è molto complesso. Se però vi fu qualcosa di particolare e di innovativo, bisogna ricercarlo in quella solidarietà che riaffermò un “noi” che incluse inaspettatamente ragazzi che di solito “portavano la guerra in casa”. Gli abitanti li riconobbero pubblicamente invece di mantenerli nell'ombra o ai margini della vita sociale. Invece di neutralizzare la loro esistenza, attraverso l’esilio o l’assassinio, ne fu assimilata la sostanza. Questo atto permise la sovversione del mondo e fece vacillare le certezze di dominio.
Mi limiterò allora a descrivere chi si era attivato e come questo avesse procurato simpatia da settori del quartiere normalmente schivi se non proprio antisociali. Il fatto che tre di loro vennero poi uccisi, uno fu linciato ed un altro dovette rifugiarsi fuori da Buenaventura rappresenta un seguito della storia che solo in parte spiega il tentativo di aiuto che molti vollero riconoscere loro, come se già sapessero che quei "locos" stavano rischiando grosso. In parte credo che quell'aiuto arrivò perché più d'uno nel quartiere credeva che questa volta i "locos" non si stavano sbagliando. Questo a sua volta diede forza ai locos che osarono come da troppo tempo non accadeva. Vorrei allora provare a spiegare meglio questo dubbio che si instillò nelle menti di alcuni e che permise la creazione di un campo aperto dove prima c’erano frontiere psichiche difficilmente valicabili. Raramente mi è capitato di leggerne nelle narrazioni sulla guerra e la pace in Colombia.
"La Sola" nasce per sopperire a questa mancanza.
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tarditardi · 5 years
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Oltre 250 morti per overdose in Italia nel 2018... ma i media raccontano solo la tragedia della discoteca Jaiss di Vinci (FI)
Il problema di come i media trattano le discoteche, luogo simbolo del divertimento giovanile, c'è. Sia chiaro, non c'è per le discoteche. Chi le frequenta i media 'seri' non li segue più. Il problema è prima di tutto dei media "seri", che sembrano ormai attivi solo nel rivolgersi ai loro lettori / utilizzatori / ascoltatori, tutti over 30, spesso over 50.
C'è ormai una distanza abissale tra ragazzi e informazione, che non racconta cosa fanno, come vivono, se non per le paure spesso folli di chi giovane non è più, se non quasi sempre per tragedie che non rappresentano la realtà.
Andiamo con ordine. Gli incidenti “del sabato sera” non esistono. Sulle strade si muore h24, soprattutto muoiono gli adulti. Qualche giorno fa ho fatto una analisi precisa dei dati Istat sugli incidenti stradali (è disponibile qui: bit.ly/2ms6NHY): ogni giorno muoiono 9 persone sulle strade in Italia. Se una notte muoiono 2 o 5 ragazzi "dopo la discoteca", non è, purtroppo, una notizia. Si muore di mattina e di pomeriggio, soprattutto con il buio, non di notte (dati Istat).
E in discoteca la droga quasi non c'è. Lo dicono i numeri sulle morti per droga. Ma se una singola tragedia coinvolge una ragazza in una discoteca toscana (il Jaiss di Vinci - Firenze), la notizia domenica 20 ottobre entra in tutti i tg. E' una tragedia, sia chiaro, ma ce ne sono di più grandi numericamente. Ad esempio i mai abbastanza raccontati immani problemi degli adulti con il gioco d'azzardo online le macchinette mangiasoldi (slot machine): gli italiani hanno spesso 106 miliardi in tre anni (dati ADM). 
Ma cosa fa il Corriere della Sera venerdì 18 ottobre, qualche giorno prima? Lascia una pagina a Susanna Tamaro che, dall'alto della sua distanza abissale e non conoscenza dei problemi dei ragazzi, inizia la sua pagina intera legando discoteche, eccessi, incidenti... sembra di essere fermi agli anni  '80 - '90 e e alle mitiche "mamme antirock".
La realtà delle morti per droga in Italia è un'altra: nel 2018 in Italia ci sono state 253 morti per overdose, di cui 167 per eroina (che nulla ha a che fare con i locali) e solo 9 per mix di alcol e droghe (dati Geoverdose.it). E l'età media dei decessi è alta: 38 anni e mezzo.
Dopo il terribile episodio della Lanterna Azzurra di Corinaldo (6 morti dopo che alcuni criminali hanno creato il panico usando spray al peperoncino in un locale probabilmente troppo affollato), tutte le discoteche italiane sono diventate l'inferno. Sono diventate causa di ogni male possibile.
Il coro stonato dei media in ambito giovanile continua. Si parla dei ragazzi solo quando ci sono problemi di ordine pubblico o tragedie, come se del calcio si parlasse solo quando ci scappa il morto negli scontri tra tifosi. 
C'è anche un banale motivo tecnico che chi non lavora con i media stenta a capire: le consuete "stragi del sabato sera" in discoteca avvengono in ore strategiche. Di sabato i politici parlano poco, di domenica riposano, per cui le pagine di giornale, i minuti di TG da riempire e i click da fare online sono di più con meno contenuti. Ovviamente nel weekend anche i giornalisti non sono tutti al lavoro. E allora perché non concentrarsi sui soliti incidenti stradali o rare tragedie che colpiscono tutti, perché la morte di un ragazzo fa male a tutti gli adulti? Il giornalista che sa lavorare colpisce dove sa di 'far male'.
La terribile conseguenza, detto da uno che a 16 anni leggeva e rileggeva Repubblica ogni giorno (lo comprava e lo compra ancora il mio babbo), è che i ragazzi i media li usano pochissimo. Perché conoscono la loro realtà. E' un male perché è solo leggendo e rileggendo che si capisce davvero, rielaborando le informazioni. 
Chi ha oggi 16 - 25 anni ha un grande problema mai raccontato: le prospettive per il futuro sono difficilissime. O vinci X Factor o fa l'influencer sennò come fai a campare? Il lavoro è pochissimo, la crisi non molla (...). Di questo, ovviamente, non scrive nessuno, perché le soluzioni sono poche e il lavoro da fare immane. Raccontare amenità invece lava la coscienza ed è facilissimo.
Lorenzo Tiezzi x AllaDiscoteca
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spazioliberoblog · 5 years
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di CLAUDIO GALIANI ♦
IL PROCESSO ALLA RESISTENZA
Siamo alla vigilia del 18 aprile, data delle elezioni del primo Parlamento della Repubblica Italiana.
La campagna elettorale è avviata con toni che subito si infiammano: l’ Italia è divenuta il ”punto caldo della guerra fredda”.
I due schieramenti si scambiano accuse reciproche di piani insurrezionali e di colpi di stato, di volontà di scardinare l’ordine democratico appena costituito.
Anche Civitavecchia, insieme ad alcuni Comuni limitrofi, è marginalmente coinvolta in una sistematica operazione di sequestro di armi che le forze dell’ordine compiono in tutta la provincia di Roma.
Il 22 marzo si verificano incidenti presso il Cinema Isonzo, dove si svolge una manifestazione dell’Uomo Qualunque.
Interruzioni di comizi nelle piazze comportano varie denunce, con processi che si chiudono poi con assoluzioni.
L’appuntamento elettorale è troppo importante e tutti  i partiti mobilitano le loro migliori energie.
La piazza di Civitavecchia è visitata dai grandi leader nazionali.
Il 3 marzo una grande folla accoglie Togliatti e dopo il suo comizio un imponente corteo sfila per le strade cittadine.
Togliatti a Civitavecchia (3 marzo 1948)
Il Fronte Democratico Popolare è completamente isolato in una competizione dominata da una propaganda perfettamente orchestrata dalla DC, con il sostegno diretto della Chiesa e quello meno visibile degli Stati Uniti.
La croce e il piano Marshall si abbracciano nella lotta al demone rosso.
L’asse del conflitto è ormai capovolto: non più antifascismo contro fascismo, ma comunismo contro anti-comunismo, occidente contro oriente, religione contro anticlericalismo.
Il risultato nazionale segna una sconfitta storica del Fronte Popolare.
Il voto di Civitavecchia continua invece a rappresentare un’anomalia assoluta rispetto al quadro regionale e nazionale.
Il Fronte conquista oltre 10.000 voti con una percentuale del 47%, contro il 31% nazionale, la DC 8.128 voti con il 37% , contro il 48,5% nazionale. La lista Unità socialista guadagna 1.326 voti, con il 6% e i repubblicani 1.093 con il 5%.
A definire il nuovo quadro politico entra in scena anche il Movimento Sociale Italiano che ottiene 415 voti, pari all’1,91%.
Sulla carta geografica Civitavecchia continua a essere una macchia rossa, fastidiosa agli occhi del Governo.
 L’attentato a Togliatti, la rivolta, il processo
In questa atmosfera avvelenata, di rottura rancorosa della solidarietà antifascista, di sospetto  tra le forze politiche sulla lealtà istituzionale, l’attentato del 14 luglio a Togliatti è una miccia accesa in una polveriera.
Alla notizia esplode un sommovimento nazionale, ” lo sciopero più esteso e completo della storia d’Italia”, come è stato definito.
Anche a Civitavecchia parte spontaneamente lo sciopero generale, con una propagazione rapida tra le varie categorie.
Le manifestazioni tumultuose nelle piazze tra le giravolte delle camionette della Celere, i blocchi stradali  e del porto, l’ attentato dinamitardo ad un traliccio che blocca la linea ferroviaria, assumono i connotati di una situazione pre-insurrezionale.
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Vengono prese d’assalto e messe a soqquadro le sedi dei partiti governativi, la DC, il PSLI, il  PRI e le ACLI.
Viene invasa anche la Direzione dell’Italcementi, che pochi giorni prima ha notificato il licenziamento a 90 lavoratori.
La stessa Camera del Lavoro è colta di sorpresa, cerca di guidare la protesta e di incanalarla in un alveo di legalità, come testimonia nelle sue memorie Giovanni Massarelli.
Da Roma anche i partiti di sinistra invitano ad aderire all’ impetuoso movimento, ma cercano di controllarne gli eccessi, in base alle indicazioni date dallo stesso Togliatti dal letto d’ospedale.
Solo il 17 luglio, confermata la notizia che il leader non è più in pericolo, l’ agitazione rientra a fatica,  con una riunione turbolenta presso la Compagnia portuale, tra i mugugni e le critiche esplicite ai dirigenti sindacali.
Il 21 agosto si riunisce il Consiglio Comunale.
Benedetti svolge funzioni di Sindaco, in assenza di Pucci, già espatriato a Praga per il timore di azioni repressive.
Apre, tra vivi applausi, con un discorso conciliante: invia a Togliatti il fraterno saluto e l’augurio di pronta guarigione, augura a Pucci di poter riprendere il suo posto, mentre esprime a Gatta Cheren il più vivo rincrescimento per i fatti accaduti.
Gatta Cheren, con tutto il gruppo DC, è assente dalla seduta.
Questo offre il destro a Barbaranelli per ripercorrere la storia dell’Amministrazione Comunale dagli esordi, lo spirito di leale collaborazione democratica che è stato offerto alla DC, il sostanziale tradimento da questa attuato al patto di maggioranza, i danni che il sabotaggio al Consiglio arreca alla popolazione.
”Quella diserzione ha uno scopo prettamente politico.Ciò è ormai noto a tutti. E dire che quei Signori disertori più volte hanno conclamato ai quattro venti che in Consiglio comunale non si deve fare politica. Ed è anche noto a tutti quale fine si sono prefissi, con le loro grandi manovre,i nostri molto onorevoli colleghi di destra: essi mirano, usando mezzi leciti e illeciti, onesti e disonesti, a provocare lo scioglimento dell’attuale Consiglio. Essi sperano molto:confidano nel loro ministro Scelba e in tutto il codazzo del gerarcume democristiano. E sperano molto nel risultato che potrebbero dare, secondo loro, delle nuove elezioni amministrative sul tipo di quelle del 18 aprile:con l’America,il Vaticano, i gesuiti, l’inferno e tutti gli altri accidenti e vergogne!……Noi siamo e saremo qui al nostro posto, pronti a collaborare con tutti, senza rancori nè odii.”
L’ opposizione ha vissuto l’attentato come l’ anticamera di un colpo di stato, il Governo ha temuto lo scatenarsi di una guerra civile.
Vera o gonfiata che sia la paura del Governo, si è presentata l’occasione per attuare un’ esemplare repressione politica e giudiziaria, annunciata dal Ministro dell’Interno Scelba nel suo intervento in Parlamento.
Parte la macchina processuale e nel mese di novembre la città diviene teatro delle manovre dei mezzi di polizia, che circondano vari palazzi ed effettuano platealmente  una serie di arresti.
Non si può procedere a tutte le catture programmate, perchè nel frattempo si sono resi latitanti sette imputati, tra cui il Sindaco Renato Pucci, Anna Bargiacchi, Nemesio Piroli e Alessandro Foschi.
Gli imputati sono 64. Tra questi, come immaginabile, molti uomini della Resistenza: Fernando Barbaranelli, Ennio Piroli, Adele Cima, Renato Piendibene, Rinaldo Montecolli, Amilcare Urbani, Anna Luciani, Giulio Del Duca, Alessandro Foschi, Secondiano Antonini, Umberto Ciliberti, Spartaco Ciliberti, Eldo Volpi, Nemesio Piroli, Nicola Mori.
Rimasti ignoti gli autori dell’attentato al traliccio, le accuse riguardano reati commessi nei confronti di persone e cose.
Sono alcuni esponenti politici: Cheren Gatta, consigliere comunale  e membro del Comitato provinciale della DC, è stato trascinato in strada e malmenato dopo un’irruzione nella sua casa; Carlo Ferrari, consigliere democristiano, è stato sorpreso presso la sede del partito e colpito con una randellata; accuse minori riguardano le minacce di morte rivolte ad Alfredo Vergati, esponente del PSLI e ad altre persone.
Il trattamento più duro è stato usato nei confronti del Direttore dell’Italcementi, Antonio Cremaschi, gravemente percosso durante l’irruzione nella fabbrica.
I bersagli degli assalti sono chiari. Da una parte i politici identificati con la crisi della Giunta e dell’unità antifascista, dall’altra il responsabile di un’ azienda che licenzia.
La rivolta sociale si intreccia con lo scontro politico.
I capi d’accusa sono pesanti e vanno dalla violazione di domicilio al sequestro di persona, alla violenza continuata.
Se facciamo però un confronto con tante altre città italiane, dove sono avvenuti scontri armati con la polizia, occupazioni in stile militare di fabbriche, morti e feriti da una parte e dall’altra, la dimensione di massa del processo allestito a Civitavecchia appare evidentemente sproporzionata.
Un’accusa specifica rivolta al Sindaco Pucci, di avere istigato la rivolta e avere addirittura programmato la sommossa  in una riunione di partito, viene smontata durante il processo.
Tredici imputati restano incarcerati per più di tredici mesi, per tutta la durata della vicenda giudiziaria: Bruno Tombolelli, Renato Piendibene, Adele Cima, Anna Luciani, Emilio Antonini, Gino Feoli, Rinaldo Montecolli, Amilcare Urbani, Fernando Barbaranelli, Manlio Giacchini, Loris Foschi, Ennio Piroli, Secondiano Antonini.
Nel luglio 1949 vengono rinviate a giudizio 56 persone e il 13 dicembre si riunisce la 9^ Sezione del Tribunale di Roma per emettere la sentenza.
Come sono stati individuati gli autori materiali dei reati, avvenuti in una situazione di caos, ad opera  di una folla eccitata, che si sposta in modo tumultuoso da un posto all’altro?
Valgono le dichiarazioni comprensibilmente confuse delle vittime, le testimonianze  di alcuni presenti ai fatti, le annotazioni di alcuni poliziotti spesso sopraggiunti al termine degli avvenimenti.
E’ chiaro che si tratta di un processo al corpo vivo del PCI e ad alcuni noti personaggi della Resistenza.
Nel frattempo l’ Amministrazione comunale è stata decapitata del Sindaco, sostituito nelle funzioni da Vincenzo Benedetti, e di un assessore, Barbaranelli.
La solidarietà agli arrestati
Naturalmente Civitavecchia non è un caso isolato. Per tutto il periodo del processo viene organizzato un sostegno morale e materiale ai detenuti e alle loro famiglie, spesso in gravi difficoltà.
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Natale 1948: Distribuzione di doni natalizi alle famiglie degli arrestati.
Lo testimonia la lettera inviata il 7 gennaio 1949 a Fernando Barbaranelli, recluso, da Aldo Natoli, Segretario della Federazione Romana del PCI, che tra l’altro aveva elogiato in un Direttivo il comportamento del partito di Civitavecchia in quelle giornate.
 ” Caro compagno, all’inizio del nuovo anno, quando si fa il bilancio della nostra attività e delle nostre lotte, non potevamo non pensare a te e agli altri compagni che, come te, sono forzatamente lontani da noi. Non potevamo non rivolgere a voi, che in queste lotte siete stati all’avanguardia, il nostro pensiero grato e l’augurio più sincero che presto possiate tornare tra noi per riprendere il vostro posto di battaglia.
Il sacrificio che voi, forti della giustezza della causa, avete affrontato con animo saldo e sereno è stato di sprone a tutti i comunisti e ai lavoratori di avanguardia di Roma per continuare a battersi con sempre maggiore energia….
Nel corso di questi mesi si è sentita la vostra assenza, si è sentita però non come un ostacolo, ma come un incentivo a fare di più e meglio per rimpiazzare l’attività che vostro malgrado voi non potete dare.
Questo i compagni e i lavoratori romani hanno voluto esprimere prodigandosi nell’opera di assistenza per voi e le vostre famiglie, che pur con le deficienze e la sua insufficienza è stata realizzata fino ad oggi…..
E’ questa la dimostrazione che il Partito Comunista Italiano, malgrado gli sforzi dell’avversario e la sua offensiva ideologica, politica e poliziesca è saldo e si rafforza sempre più, che la sua linea politica è giusta e adeguata alle condizioni oggi esistenti in Italia.
A questo, compagno, hai contribuito anche tu, con la tua azione e con il tuo esempio.
E’ con la certezza di rivederti tra breve, insieme a tutti gli altri compagni che per la loro abnegazione sono oggi in carcere, di nuovo in prima linea rafforzato nel tuo spirito di lotta dalla nuova dura esperienza che stai vivendo, che a nome di tutti i comunisti romani, ti invio il più affettuoso e fraterno saluto”
Una sentenza importante
Nel corso del procedimento emergono contraddizioni dell’ accusa, incertezze o ritrattazioni delle vittime e dei testimoni.
La sentenza finale risulta molto mite rispetto alle premesse. I reati più gravi sono derubricati e  gran parte degli imputati sono assolti ”perchè il fatto non sussiste” e per insufficienza di prove.
La soddisfazione per l’ assoluzione non ripaga molti di loro dei lunghi mesi passati in carcere.
Ma l’aspetto più interessante sul piano politico è la motivazione con cui la Corte concede le attenuanti specifiche e generiche, che rovescia la filosofia iniziale del processo.
”La reazione della folla non fu inconsiderata ma ebbe un motivo inequivoco, cioè la consumazione di un delitto di eccezionale gravità per il quale fu in gioco la vita del capo del partito Comunista Italiano, la reazione si verificò proprio nel momento in cui temevasi, a giusta ragione, che l’attentato dell’On. Le Togliatti       gli esiti letali.
Ora si consideri che tutti gli imputati sono aderenti al Partito Comunista Italiano, che taluno di essi ricopre nel partito cariche di rilievo, non può disconoscersi la ricorrenza, nel loro operato criminoso dell’ attenuante di avere agito per motivi di valore morale e sociale in ciò che l’attentato, oltre a rappresentare un sistema sleale e deprecabile della lotta politica, esponeva tutti gli interessi della classe operaia, con l’ eventuale perdita del suo rappresentante, ad incerte, oscure vicende.
Può apparire giusto concedere le attenuanti generiche, giacchè i fatti furono effetto di uno stato d’animo collettivo e largamente diffuso nel ceto operaio e quindi l’azione dell’uno fu influenzata da quella dell’altra, oltre a ciò, la maggior parte degli imputati oltre a essere costituita da incensurati, agì per sincera fede nell’ideologia comunista professata.”
Parti della sentenza del processo per l’attentato a Togliatti
I fatti di luglio hanno intanto avuto una grave conseguenza sociale: la rottura dell’unità sindacale.
Nel settembre 1948 si è distaccata dalla CGIL la componente cattolica, seguita nel maggio 1949 dalla componente repubblicana e socialdemocratica, per formare distinte organizzazioni.
1949: Dopo la scissione sindacale Giuseppe Di Vittorio incontra i lavoratori di Civitavecchia.
A Civitavecchia, comunque, la CGIL continua ad avere un seguito di massa e a guidare importanti lotte per il lavoro e lo sviluppo.
Proprio in questo periodo si verifica una lotta originale nella storia cittadina: Civitavecchia partecipa, con tutto il comprensorio, all’imponente movimento di invasione delle terre incolte, che riceve una convinta solidarietà del movimento operaio cittadino, fino alla proclamazione dello sciopero generale, nel momento dell’arresto del Segretario camerale.
Un altro importante fatto istituzionale ha interessato il Comune.
Nel mese di ottobre 1949 si sono distaccate estese porzioni di territorio, con la nascita del Comune di Santa Marinella, comprensivo della frazione di Santa Severa, e con l’aggregazione di Ladispoli e Palo al Comune di Cerveteri.
Decade la Giunta e sopraggiunge un lungo periodo di governo commissariale.
Soltanto nel 1952 la città può tornare al voto per eleggere i suoi rappresentanti.
La macchia rossa si è ridotta sulla carta da oltre 11.000 a poco più di 6.000 ettari.
Non viene meno, però, il carattere battagliero e antifascista.
Lo dimostrerà, dopo un decennio, la grande mobilitazione popolare di solidarietà  con i lavoratori dell’Italcementi, che hanno occupato la fabbrica contro le minacce di licenziamento, e, nel 1960, la partecipazione alle intense manifestazioni di piazza che porteranno alla caduta del Governo Tambroni e all’apertura di una nuova fase politica in Italia.
Il contributo dei partigiani  alla vita cittadina.
Non è qui possibile tracciare un quadro completo del contributo degli uomini della Resistenza alla vita sociale e politica della Civitavecchia democratica.
Molti di essi negli anni successivi hanno partecipato alla vita politica, nelle file della sinistra, con passione e dedizione, militanti della politica come erano stati militanti della guerra partigiana.
Semplici iscritti al partito, diffusori della sua stampa, protagonisti del tesseramento, organizzatori delle feste e delle manifestazioni, accesi sostenitori durante le campagne elettorali, presenti in tutte le mobilitazioni sociali e politiche, hanno rappresentato, con semplicità e generosità, il tessuto connettivo dell’epoca dei partiti di massa.
Penso di non far torto a tutti gli altri, ricordando alcuni nomi, come Libero ed Araldo Urbani, segretario di sezione nei primi anni ’50, Antonio e Sandro Foschi, Rinaldo Montecolli, Secondiano Antonini, Riccardo Conti, Adele Cima, Domenico Peris, Ugo e Primo Tartaglia, Augusto Carucci, per un periodo Console della Compagnia Portuale, Nemesio Piroli, impegnato nelle lotte per la terra ai contadini e Eldo Volpi, che durante quelle lotte è stato arrestato.
Antonino Foschi, Giulio Del Duca e Libero Urbani
Giulio Del Duca è stato per un periodo Segretario della sezione comunista e protagonista della Commissione interna dell’Italcementi nel corso delle lotte contro i licenziamenti.
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Araldo Urbani e Ennio Piroli
Discorso diverso vale per molti anarchici che, conquistata la Repubblica, sono tornati a coltivare la loro fede politica, costituendo una significativa comunità, tanto da riuscire ad organizzare a Civitavecchia il Congresso nazionale della FAI svoltosi nel 1953.
Settimio Salerni, al momento della morte nel 1973, e Amilcare Urbani, nel 1977, come altri loro compagni, sono stati ricordati con un commosso necrologio da ”Umanità Nova”.
Alcuni partigiani si sono dedicati alla vita amministrativa.
Nel 1952 ben otto ex partigiani che si sono presentati alle elezioni comunali nella lista ”Ottimo Consiglio”: Ottavio Arcadi, Fernando Barbaranelli, Giulio Del Duca, Nicola Mori, Antonio Morra, Renato Piendibene, Ennio Piroli, Vidio Pistolesi.
Di essi alcuni sono stati eletti e hanno proseguito il loro impegno nelle istituzioni.
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Barbaranelli, Piendibene e Mori in Consiglio Comunale
Renato Piendibene è stato consigliere comunale, ma si è soprattutto dedicato all’attività sindacale, chiamato per circa un decennio all’incarico di segretario generale della Camera del Lavoro.
Nicola Mori è stato più volte consigliere comunale, ha ricoperto anche l’incarico assessorile ed è stato, per un lungo periodo, stimato e rispettato Presidente della Compagnia Portuale.
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Nicola Mori incontra i portuali genovesi in lotta
La più lunga e autorevole esperienza in Consiglio Comunale è stata sicuramente quella di Fernando Barbaranelli, che, al netto dei periodi di gestione commissariale, ha partecipato all’attività consiliare ininterrottamente fino al termine degli anni sessanta.
Più volte assessore nelle Giunte di centrosinistra, alla Pubblica istruzione e ai Lavori Pubblici, ha rappresentato il Comune in vari organismi, come lo IACP o il Consorzio Autonomo per la Ricostruzione, ha partecipato a varie commissioni, come quella per la toponomastica che doveva intitolare le strade della città a quanti l’hanno illustrata con la loro attività.
Amante della storia locale, ha sempre combinato l’impegno politico con la sua passione per l’archeologia, la partecipazione a scavi, la pubblicazione di studi, l’ impegno per trovare una nuova sistemazione al Museo Civico, dopo la distruzione bellica della precedente sede.
Indubbiamente, sul piano della politica culturale, l’operazione più rilevante è stato il recupero della presenza a Civitavecchia di Stendhal.
Testimonianza ne è il suo volumetto ”Henri Beyle – Stendhal – Console di Francia a Civitavecchia”, pubblicato nel 1963 in occasione dell’apposizione sulla facciata della casa abitata dal grande scrittore di un’epigrafe marmorea, rifacimento di quella preesistente distrutta dalla guerra: un’operazione che lui stesso, in qualità di assessore, aveva caldeggiato e realizzato.
A coronamento di queste iniziative, l’organizzazione del convegno internazionale di studi stendhaliani ha radunato a Civitavecchia i più prestigiosi studiosi della sua opera.
La sua carriera amministrativa si è prolungata oltre l’ esperienza delle Giunte di sinistra.
Nel 1964 ha conquistato il suo ultimo seggio in un Consiglio che ha rappresentato la fine del lungo periodo di unità della sinistra e l’inizio del centro-sinistra cittadino, guidato prima dal Sindaco Massarelli e poi da Archilde Izzi.
Il 17 giugno 1969, il Consiglio Comunale, presieduto da Izzi, ha accolto le sue dimissioni, rassegnate per motivi di salute.
In quell’occasione, una parte della seduta è stata dedicata agli interventi dei rappresentanti di tutti i gruppi, alleati e avversari, tesi a onorarne la figura e ad esprimere la gratitudine della città per il contributo offerto alla sua rinascita civile, politica e culturale.
Esaurita l’esperienza del centro-sinistra cittadino, ultimo rappresentante della leva partigiana nelle istituzioni è stato Ennio Piroli, giovane staffetta della banda Maroncelli.
Dopo vari incarichi politici e amministrativi, è stato Sindaco dal 1976 al 1980, alla testa di una ritrovata coalizione di sinistra.
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Ennio Piroli ad un convegno di partito.
Ma siamo ormai dentro un’altra storia della città e del Paese.
Piroli è giunto a ricoprire l’incarico dopo un decennio che ha conosciuto prima il rapido esaurimento dell’esperienza del centro-sinistra cittadino, poi la sperimentazione di una formula di governo inedita.
Dal 1970 al 1972 il Comune è stato amministrato per la prima volta da un Sindaco democristiano, Pietro Guglielmini, alla testa di una giunta di centro-sinistra con il sostegno esterno di PCI e PSIUP.
Si è rivelata un’esperienza fragile, interrotta dopo due anni, con il recupero dell’unità a sinistra e l’elezione del Sindaco socialista Mario Venanzi.
Di quel caduco esperimento si è però parlato come di un laboratorio politico.
Anche in Italia si è ormai dissolto il centro-sinistra e il progetto del Compromesso storico ha aperto una nuova fase, profondamente travagliata, della vita politica.
E’ dimenticato il dopoguerra, si sta sciogliendo la guerra fredda, la città e il Paese sono  chiamati a importanti sfide di nuovo tipo.
La fluidità della nuova situazione politica porta anche a letture più articolate del fenomeno della Resistenza.
Si tenta di uscire dalla gabbia di letture contrapposte, di appropriazione politica dei suoi valori, sforzandosi di ricostruirne i reali percorsi storici e di farne il fondamento condiviso dell’Italia repubblicana.
E’ una ricerca difficile e intensa, che ai nostri giorni non si può dire esaurita.
Ancora oggi è utile e necessario richiamarsi alla lezione etica e politica della Resistenza, difendendo e allargando il campo dei valori democratici, di libertà e uguaglianza, comprendendo però fino in fondo l’aspetto drammatico e irripetibile di quell’esperienza.
Nel 1965, ventennale della Liberazione, a riconoscimento dell’attività dei partigiani del nostro territorio, in una cerimonia svolta alla presenza di Luigi Longo, capo della Resistenza italiana,  sono state simbolicamente consegnate 24 medaglie ad altrettanti partigiani, con un criterio di perfetta equità: dodici a combattenti della banda Maroncelli, dodici a combattenti della banda Barbaranelli.
CLAUDIO GALIANI
ANATOMIA DI DUE BANDE (XV) di CLAUDIO GALIANI ♦ IL PROCESSO ALLA RESISTENZA Siamo alla vigilia del 18 aprile, data delle elezioni del primo Parlamento della Repubblica Italiana.
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pangeanews · 4 years
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“Ripenso agli scontri frontali tra eccitati schizofrenici…”. Su “Crash”, il romanzo più controverso di James Ballard
Il romanzo Crash di James Graham Ballard è stato fonte di eterne controversie fin dalla pubblicazione, nel 1973. Tratta di un gruppo di maniaci che prova eccitazione sessuale per gli incidenti d’auto e cerca il massimo piacere nella messa in scena di articolati tamponamenti a catena nelle sinistre strade della zona ovest di Londra. Il narratore, James Ballard, è affascinato dal teppista intellettuale del gruppo, Vaughan, che sposa una nuova filosofia per autodefinirsi, un’estatica combinazione di psicologia moderna con l’ambito tecnologico e artificiale delle automobili e del sistema autostradale. Non esiste più una sessualità “naturale”, solo queste circostanze perverse, l’umano inserito nel sistema cibernetico, che promette di trasportarci in nuovi stati dell’essere. Infine Vaughan diventa la precisa incarnazione di ciò che Sigmund Freud definì “pulsione di morte”, il segreto impulso di tornare allo stato di non esistenza.
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Ballard mette a punto uno stile nitido, neutrale e disadorno nel riportare un clinico resoconto di questa logica perversa e letale con distacco amorale. In parte, sembra il risultato di un bizzarro esperimento psicologico. La prosa ha un ritmo ipnotico, accumula un elenco dopo l’altro di atrocità, di cui la maestosa avanzata dei periodi non fa che attenuare l’effetto. Una tra le prime frasi recita: “Ripenso agli scontri frontali tra eccitati schizofrenici e camioncini di lavanderia bloccati in strade a senso unico; a maniacodepressivi schiacciati nel corso di insensate inversioni a U su rampe d’accesso autostradali; a sfortunati paranoici lanciati a tutta velocità contro muri di mattoni in fondo a strade senza uscita note a tutti; a bambinaie sadiche decapitate in scontri invertiti a incroci complessi; a direttrici lesbiche di supermercati brucianti a morte nello scheletro rovinato delle loro minuscole auto sotto lo sguardo stoico di pompieri di mezz’età; a bambini autistici schiacciati in tamponamenti, gli occhi meno feriti nella morte; ad autobus pieni di deficienti mentali in atto d’annegare stoicamente insieme in canali industriali a lato delle strade”.
Come dovremmo leggere un paragrafo del genere? Da un lato è l’impressionante manifestazione di un grave stato psicopatologico, innestato dall’ossessione. È questo il contenuto di cui il libro vuole invadere il lettore. Dall’altro lato una natura maliziosa attribuita agli elementi di questa prosa solenne la spinge verso l’assurdo. Perché le direttrici lesbiche guidano minuscole auto e muoiono di fronte a pompieri di mezza età? Tali aggettivi sembrano essere lì apposta per sabotare il tono grave del romanzo e spingere al limite la lunga lista di atrocità, fino a farla sfociare nel comico. Siamo forse nel regno della satira swiftiana, l’impassibile suggerimento di una modesta proposta?
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Le controversie iniziarono ancor prima della pubblicazione del romanzo. La relazione del redattore del manoscritto informava l’editore che a Ballard “non bastava uno psichiatra” (una descrizione che l’autore considerò un’unità di misura del successo del suo libro e che non si stancò mai di celebrare). Uno dei temi del romanzo precedente, La mostra delle atrocità (1970), una raccolta di racconti sperimentali estremi, era la morte di celebrità in scontri d’auto e Ballard si soffermò morbosamente sul fatale attacco al corteo di John F. Kennedy. Gli editori americani inorridirono e mandarono al macero l’intera tiratura della prima edizione, mentre nel Regno Unito un politico del partito conservatore si sentì in obbligo di scusarsi dalla Camera dei comuni con la famiglia Kennedy, per ogni offesa causata loro. In seguito alle sue ricerche, Ballard aveva anche allestito una mostra di auto distrutte, Crashed Cars, presso l’Arts Lab di Londra, nel 1970. La violenta reazione del pubblico all’inaugurazione (Ballard affermò che era stato evitato per poco uno stupro nel sedile posteriore di una delle macchine), convinse l’autore che una nuova psicopatologia stava emergendo e richiedeva un’indagine.
Crash, esito di tali ricerche, risultò così allarmante perché la neutralità del tono, combinata alla fusione tra autore e personaggio non fecero emergere alcuna posizione riguardo agli eventi estremi raffigurati. Cosicché molti lettori asserirono la posizione morale, che trovarono del tutto assente nel libro. “Un autore necessita di un punto di vista morale, un qualche sistema di convinzioni”, si oppose il critico Peter Nicholls. Senza ciò, Ballard “era fautore di uno stile di vita che potrebbe tranquillamente prevedere anche la repentina morte di sé stesso o dei propri cari”. Ballard non fu di nessun aiuto ai lettori in cerca di una rassicurante intenzione autoriale. In risposta a Nicholls, obiettò che il libro rispecchiava una “ironia atroce, in cui neanche l’autore sa dove si colloca”. La fusione tra l’autore e il protagonista James Ballard era l’indizio di tale complicità. In seguito, nella prefazione dell’edizione francese, Ballard affermò che il romanzo era “un monito, un avvertimento sul regno brutale, erotico, accecante che ci invita, sempre più persuasivo, dai margini dell’orizzonte tecnologico”. Senonché, in un secondo tempo, dialogando con Will Self, ritirò del tutto l’attestazione “di cui mi sono sempre pentito… Crash non è un racconto di monito… è un inno psicopatico”. Ballard lascia il lettore a mani vuote.
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In Francia, il filosofo sociologo Jean Baudrillard prese il romanzo di Ballard come esempio di una nuova condizione di “iperrealtà” e simulazione, dedicandogli un intero capitolo del suo importante libro Simulacri e simulazione (1981). Secondo Baudrillard, viviamo sempre più nelle reti mediate e nella circolazione di segni senza riferimenti. Baudrillard elogiò il modo in cui il romanzo di Ballard amalgamava il corpo e la tecnologia, “del tutto immanente, è il capovolgimento dell’uno nell’altro”. La morbosità con cui i personaggi osservano e riosservano le immagini di schianti d’auto, le rimettono in scena e si filmano, aiuta a spiegare il mondo della simulazione di Baudrillard. Il libro di Baudrillard fu alla base delle prime teorie sul “postmodernismo”, anche se il capitolo su Ballard venne tradotto integralmente in inglese solo nel 1991. A quel punto, quella limpida esaltazione della logica perversa di Ballard scatenò ancora una volta polemiche tra gli accademici, scandalizzati da tale sostegno amorale.
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Nel 1996 il regista canadese David Cronenberg diede vita a nuove controversie con il suo adattamento cinematografico di Crash. Il film divise l’opinione pubblica al festival di Cannes, ma la sua uscita in Inghilterra fu accompagnata da un panico morale montato dalle campagne pre-elettorali. Il quotidiano londinese Evening Standard dichiarò il film “oltre i limiti della depravazione”, mentre il Daily Mail chiese di vietarlo. Il ministro dell’ex Department of National Heritage inglese ne esortò il divieto, ma la British Board of Film Classification decise di proiettarlo non censurato, dopo aver commissionato degli studi per verificare se potesse effettivamente depravare o corrompere gli spettatori. Dal momento che le decisioni spettavano ai consigli locali, infine, stranamente i cinema del West End di Londra, sotto l’amministrazione del distretto conservatore di Westminster, si ritrovarono a vietare Crash, che invece fu approvato dal consiglio laburista di Camden. Inutile dire che Ballard pubblicizzò fermamente la pellicola e continuò a rivendicare, con lo stesso stile impassibile e satirico, sempre più sesso e violenza sugli schermi
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Dal momento che le pagine di J.G. Ballard sono custodite nella raccolta di manoscritti della British Library, è stato possibile tracciare lo sviluppo di alcune delle sue opere chiave. Intervistato, Ballard disse di essere dispiaciuto di non aver mantenuto l’assetto iniziale del romanzo, la tendenza a scrivere innanzitutto “rapporti” analitici, spogliati della maggior parte dei dialoghi e delle descrizioni romanzesche. Questi schizzi non sopravvissero, sebbene l’autore conservò l’invito alla sua mostra di auto distrutte e custodì con cura le foto della sua stessa auto schiantata (l’incidente avvenne subito dopo la stesura del libro, come una profezia che si autoadempie). Le due bozze complete che invece si sono preservate sono alquanto interessanti. Vi si trovano ancora più elenchi di celebrità, vive e morte, che ebbero incidenti stradali (Pablo Picasso, Maria Callas, il presidente Nixon, l’attivista per la sicurezza stradale Ralph Nader e il fondatore di Playboy Hugh Hefner). Questa lista di famosi si avvicina, nel metodo, alle provocazioni de La mostra delle atrocità. Per quanto riguarda il nome del protagonista, “Ballard” fu una decisione tardiva, la prima scelta fu Talbot e poi Ballantyne, entrambi già usati dall’autore. Per consolidare la complicità, Ballard sostituì anche quasi tutti i “mia moglie” del manoscritto con “Claire”, il nome della sua storica compagna. Corresse doviziosamente ogni pagina, con penne di almeno tre colori diversi e appare evidente lo sforzo per ottenere il tono freddo e la distanza clinica desiderata. Vaughan diventa sempre meno palesemente psicotico e sempre più ambiguo. Ci è dato inoltre di osservare il modo in cui Ballard affinò la precisione del suo mantra di atrocità in prosa. La frase citata sopra, “a direttrici lesbiche di supermercati brucianti a morte nello scheletro rovinato delle loro minuscole auto” era in principio “cassiere nevrotiche di supermercati”, poi trasformata in “direttrici ipertiroidee di supermercati”, per arrivare poi a un qualificativo meno vistoso, che meglio rispecchiasse l’equilibrio inquietante tra documentario e assurdità della versione definitiva. Le revisioni rivelano il lavoro meticoloso di Ballard nel plasmare un sentiero tra il sublime e il grottesco.
Roger Luckhurst
*Il testo, in origine pubblicato come “An introduction to Crash”, è tradotto da Valentina Gambino; la citazione tratta da Crash è riportata nella traduzione di Gianni Pilone Colombo per Feltrinelli
**In copertina: David Cronenberg sul set di “Crash” (1996), che a Cannes ottenne il Premio della giuria
L'articolo “Ripenso agli scontri frontali tra eccitati schizofrenici…”. Su “Crash”, il romanzo più controverso di James Ballard proviene da Pangea.
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