Tumgik
#lei portava i tacchi a spillo
io-pentesilea · 2 months
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Ma come faranno le modelle a camminare così disinvolte coi décolleté... io invece...
Cenerentola, praticamente.
Barbara
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w/amelia
           Cᴏʀɪɴɴᴇ ᴀɴᴅ Aᴍᴇʟɪᴀ            Nᴇᴡ  Yᴏʀᴋ  Cɪᴛʏ            ᴊᴜɴᴇ,  20  2012             ━━━━ ⋆ ⋆ ⋆ ━━━━                Poco più di un mese era trascorso da quando Corinne, intraprendente e discussa figlia dell’ambasciatore francese Dubois, aveva sollevato l’ennesimo scandalo che mise in imbarazzo suo padre e la famiglia. Era bastato un viaggio di lavoro a Las Vegas in compagnia del suo datore di lavoro, James Taylor-Dimon, un po’ di alcol di troppo con cui avevano buttato giù una pastiglia di non ricordava bene cosa e una fuga dall’hotel per portare alla luce una notizia che i paparazzi avevano venduto al migliore offerente. Che la relazione fra James e Corinne fosse ampiamente seguita dalle riviste scandalistiche non era una novità: lo scapolo da 1.3 miliardi di dollari e la ribelle parigina che aveva insegnato alle americane l’eleganza della moda d’oltreoceano. In conclusione, non si può passare inosservati se sei l’erede del CEO della più importante società finanziaria americana e vai in giro con una bionda che adora mettersi in mostra. Fatto sta che dopo quel matrimonio all’insegna dell’irrazionalità (perché sì, questa era stata la notizia che li aveva seguiti nel viaggio di ritorno da Las Vegas) il padre di Corinne aveva preso le distanze dalla figlia, mentre questa nutriva le tasche di chi scrive a discapito delle vite degli altri. Per un mese, la notizia fu sulla bocca di tutti, fintanto che i due non siglarono il divorzio con il pacifismo di chi ha più maturità in seno di quanta ne voglia dare a vedere. Ciò però non era bastato a far riavvicinare il padre e la figlia, che adesso discutevano in un angolo della sala ricevimenti del Palace Hotel.
«Ma che vuoi che ne sappia perché James è qui, Armand. È il figliastro di Dimon, qualcuno li avrà invitati, no? Si sa che la politica si fa nel retro delle banche,» sbuffò la figlia al rimprovero dell’Ambasciatore, intimandolo con lo sguardo zaffiro di smettere. Distoglieva l’attenzione dal Valentino color cipria che aveva deciso di indossare per l’occasione.
«Smettetela voi due,» li interruppe Frédérique, la madre di Corinne e di cui portava il nome, «piuttosto, vedete la ragazza laggiù? E’ la figlia del Console Clarke a detta di Mary, la moglie di Keane.»
Dopo quella notizia, l’attenzione di Corinne si spostò sulla figura che la madre aveva discretamente indicato e il chiacchiericcio dei genitori divenne soltanto un sottofondo alle sue considerazioni. Se era davvero la bambina che aveva conosciuto quando abitava ancora a Parigi, Corinne non avrebbe saputo dirlo. Troppi anni a dividerle. Così passò all’azione, come suo solito, si incamminò verso la ragazza, attirandone l’attenzione con un colpetto sulla spalla.
«Perdona l’interruzione, sei la figlia di Clarke?» chiese senza troppi convenevoli o giri di parole la bionda francese in un inglese fin troppo macchiato dalla melodia della lingua romanza.
Amelia Elisabeth Clarke: Viaggio di cortesia, era così che i suoi genitori aveva convinto la giovane ragazza a prendesse il primo volo per la lontana America, per tornare in patria dalla propria sgretolata famiglia, e tornare alla ribalta in politica con il proprio partito repubblicano. Per fare questo grande passo c’era bisogno di unitarietà tra tutti i membri della famiglia cosa che negli ultimi anni era venuta a mancare, dopo il disappunto di Geneviève nelle scelte amorose della sua primogenita, troppo trasgressiva per le esigenze dell’etichetta e del partito che rappresentavano. Era da tempo che non partecipava ad una delle famigerate feste dell’alta società, quasi non ricordava nemmeno il comportamento ed il portamento che una signorina del suo rango doveva tenere. Sua madre l’aveva costretta a rappresentare la propria famiglia, in solitudine, a quel gala. Avrebbe ripreso contatto con dei vecchi amici di famiglia, ormai dimenticati e con i soliti ficcanaso che non avrebbero esitato a chiederle dei suoi ultimi vent’anni, dove li avesse passati e cosa ne fosse ora della sua vita. Non avrebbe resistito a lungo in una situazione del genere, perciò il suo piano era quello di entrare, rimanere sulla bocca di tutti, stringere qualche mano per poi svignarsela alla svelta. Con la Rolls-Royce di famiglia arrivò al grande palazzo dove la festa era già in atto, chissà se le sarebbero bastati i due whisky pregala per superare quella serata. Alla sua entrata nella calò il silenzio, quasi tutti furono sorpresi di quell’entrata, riconoscere Amelia era difficile, forse era dovuto a quello il silenzio. La sorella l’aveva aiutata con l’abito da indossare, ovviamente niente di troppo pomposo non era nel suo carattere, serio e che fosse di un’importante presenza scenica. Non a caso aveva optato per un abito di Giorgio Armani, uno stilista italiano che ha fatto della sua impresa una tra le firme più conosciute del mondo, e dello stile italiano la sua musa ispiratrice che ogni anno rinnova con perfette creazioni. Aveva sempre amato gli abiti della madre cuciti a mano per le grandi feste che all’ambasciata erano parte della vita mondana, solo lei aveva un gusto così affine a quello di Amelia, peccato che le due non andassero d’amore e d’accordo. Quel abito fatto di tulle nero e ricamato appunto dello stesso colore, sembrava fatto apposta per lei, lungo fino alle caviglie, smanicato e con un delle pieghe lungo la gonna quasi impercettibili. A definire tutto il suo outfit c’erano i suoi amati tacchi a spillo, ne aveva una collezione dalla quale, unicamente per quella serata, aveva indossato le sue Louboutin classiche a punta, in vernice e con la suola rossa. La sala era affollata di aristocratici ben vestiti, pronti a criticare qualsiasi cosa fori posto. Dopo un primo momento di stupore, il chiacchericciò tornò a riempire la sala, era così trasportante la musica classica in sottofondo. Si gettò subito su un cameriere che passava per un bicchiere di champagne, ma un tocco sulla spalla la distrasse, chi era il primo a farsi avanti? Si aspettava una donna di mezza, già un po’ brilla e con la lingua lunga, ma ciò che l’aspettava era tutt’altro. Si girò con eleganza annuendo appena alla domanda fattale da una voce flebile, dall’accento più che riconoscibile francese ma ben deciso. «Ho perso la scommessa con me stessa, avevo calcolato altri cinque secondi prima che qualcuno me lo chiedesse!» La sua lingua tagliente aveva da ridire a proposito ma a tutti gli effetti, era rimasta sorpresa dalla schiettezza della ragazza, si aspettava chissà quale discorso prima della fatidica domanda. «Comunque sì, se tu intendi il signor Clarke burbero, sempre impeccabile e finto francese, allora si sono sua figlia Amelia…» Rispose incrociando finalmente lo sguardo a quello della bionda. Le era un viso famigliare ma ancora non sapeva bene a chi ricondurlo, doveva ritornare ai ricordi di una quindicenne ormai rimossi da una mente così piena di incarichi. 
Non si sarebbe potuta aspettare altro la bionda Corinne se non un commento tagliente, che espresse il ben palesato disappunto dell’essere associata alla figura familiare del padre. Almeno fu quello che la francese dedusse, allargando un sorrisetto soddisfatto, affatto toccata dalla punta affilata di quel sarcastico commento. No, Corinne era così avvezza all’ambiente da capire quanto ciò non solo fosse normale, ma quanto a lei piacesse. Così spostò il peso sulla gamba destra, incrociando le braccia sotto il seno messo in mostra con suadente decoro; no, non avrebbe lasciato andare la ragazza facilmente, non adesso che la sua curiosità poteva esser soddisfatta. Amelia, da quanto ricordava, era una delle poche bambine che riusciva a tollerarla e a tenerle testa, nonché la prima delle due ad abbandonare Parigi. Ma il motivo, Corinne non lo aveva mai realmente saputo. C’erano speculazioni, certo, ma Armand e Frédérique non avevano mai parlato apertamente della faccenda con la figlia, il che aveva portato l’architetto a supporre che neanche loro erano al corrente di quello che era successo alla famiglia Clarke. «Perso la scommessa, dici? E cosa avevi scommesso, di preciso?» chiese Corinne, afferrando due flûte di champagne dal vassoio del ragazzo del catering e porgendone uno alla figlia del diplomatico. Sebbene consapevole che no, probabilmente non aveva mai scommesso con se stessa – anche perché, che senso ha farlo? Si scommette per ottenere – la francese insistette comunque su quel tasto, quasi a voler rimarcare la sua indifferenza all’esposizione del disappunto. «In ogni caso, sì, è proprio lui.» E così la pettegola Frédérique aveva fatto centro, aveva trovato una bambina ormai diventata donna, proprio come Corinne, ma probabilmente meno problematica di lei. Chissà se aveva saputo di come la bambina con la finestra ai denti era diventata donna da paparazzi, pronta a vincere la battaglia contro la limpida coscienza e morale dell’ambasciatore. «Ne è passato di tempo… Come mai il trasferimento?» incalzò ancora, portando alle labbra il bicchiere di fine cristallo di Boemia, «Mio padre continua a sostenere di non saper nulla al riguardo. In caso te lo stia chiedendo, sono Corinne Dubois, i nostri genitori erano intimi amici, un tempo.» Avrebbe volentieri aggiunto un “almeno fintanto che non siete spariti” ma se lo risparmiò, preferendo riconciliarsi con la vecchia amica in modo pacifico e consono alla situazione. Aveva già gli occhi di Armand puntati sull’esile figura a causa della presenza di James, figurarsi cosa sarebbe successo se solo avesse provato a combinare guai.
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aposello-blog · 7 years
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Lessi di un episodio avvenuto al Caffè Florian di Venezia, non so in quale anno del boom economico. Un giovane direttore d’orchestra che avrebbe fatto una bella carriera incontrò, per caso. un corpulento signore oltre la settantina, dalla chioma bianca un poco scapigliata. Esuberante, raccontò di essere non solo un famoso tenore ma anche il rivale di Enrico Caruso al Metropolitan di New York. Disse di aver cantato con Arturo Toscanini.
“Ah, ah, ah! Lei lo conosce?» chiese il direttore d’orchestra al critico musicale che raccontava il fatto su una rivista, non ricordo se questi fosse Rodolfo Celletti o Giorgio Gualerzi.
«Ha detto che il suo nome è Giovanni Martinelli”, mettendo implicitamente in dubbio la veridicità delle parole. Insomma un fanfarone da caffè di lusso.
Il signore «canuto» aveva raccontato, né più né meno, la verità.
Tenore lirico-spinto, gli americani consideravano Giovanni Martinelli l’erede del grande cantante napoletano, uno dei protagonisti della Golden Age del Metropolitan. Nacque nel 1885 a Montagnana, vicino a Padova, città assai fortunata quanto a tenori, poiché diciotto giorni dopo la nascita di Martinelli nacque Aureliano Pertile.
La cosa paradossale di questo episodio fu che, narrando la verità, il celebre tenore passò per un pittoresco racconta frottole. Come non sapere chi fosse Giovanni Martinelli?
Sic transit gloria mundi.
Andando al Circolo Lirico Bolognese, soprattutto quando era nella sede di Palazzo Tanari vicino a casa mia, si incontrava una certa varietà di innocui gradassi. Spesso tenori che, a detta loro, avevano tutti voce da tenori spinti o drammatici. I ruoli erano Pollione, Manrico, Alvaro, Andrea Chenier, Turiddu, Canio, Calaf e Otello. A proprio dire, possedevano voci migliori sia di Franco Corelli che di Mario del Monaco. Le rare ed ovviamente deludenti esibizioni al Circolo Lirico si concludevano con complimenti sperticati davanti ma, dietro le spalle, tutti li derivano. Macchiette non completamente innocue.
Nell’ambito dell’opera, in pochi anni, ho conosciuto tre millantatori con i fiocchi, un soprano bolognese, un altro ferrarese e un tenore statunitense. Millantatori che costruirono le prove per dare veridicità alle menzogne.
Conobbi la prima millantatrice, quella bolognese, attraverso un vicino di classe del liceo con il quale non mi ero più visto da prima della mia Maturità. Era il 1977.
Entrambi collezionavamo dischi e opere dal vivo ma avevamo gusti musicali differenti: io ascoltavo dalla musica del romanticismo fino a quella contemporanea, Tullio si arrestava alla musica romantica. Adoravamo entrambi tre soprani, Magda Olivero, Montserrat Caballè e Joan Sutherland. Tullio, a differenza di me, non sopportava Maria Callas perché la sua voce ballava e gli acuti erano strillati.
Magda Olivero
Montserrat Caballé
Joan Sutherland
Maria Callas
Da quella conversazione uscì fuori che tutti e due cantavamo in casa sopra ai dischi come i matti del Circolo Lirico. Io tenore, lui basso.
Quando Tullio sentì questo gli si illuminarono gli occhi. Mi raccontò che faceva divulgazione lirica: essendo la madre maestra, Tullio cantava davanti agli bambini, mimando l’azione con costumi e qualche semplice oggetto di scena. Allevava una nuova generazione di frequentatori del melodramma. Non solo si esibiva personalmente ma aiutava la madre nello spiegare le opere ai bambini prima di accompagnarli alle spettacoli che il Teatro Comunale riservate alle scuole. L’ultima opera che i bambini avevano visto al Teatro Comunale fu Il Signor Bruschino diretto da Donato Renzetti, e tra i cantanti c’erano Saverio Durante, Silvia Baleani, Franco Federici e l’amico Floro Ferrari. Già in quegli anni si rilevava una crisi delle vocazioni liriche tra i giovani e tutto questo mi parve una piccola attività degna di qualche interesse.
Tullio, però, aveva in mente qualcos’altro. Quasi fosse un impresario, pensava di allestire una breve stagione lirica da rappresentare nella classe della madre: di lì a poco avrebbe messo in scena La Serva Padrona di Pergolesi. Era quasi pronta, aveva terminato le prove con il soprano, a suo dire molto bravo e con una voce bellissima. Una semiprofessionista. A Tullio mancava qualcuno che facesse Vespone, ruolo da mimo. E dopo l’opera di Pergolesi sarebbe venuto L’elisir d’amore. Per questa non aveva ancora trovato il tenore per il gravoso ruolo di Nemorino.
«Tu tenore? Splendido, ti scritturo. Puoi fare sia l’uno che l’altro».
Questa proposta non mi entusiasmò perché ben conoscevo la mia scarsa propensione ad apparire davanti al pubblico, seppur costituito da «cinni» delle elementari. Io ero un cantante che si esibiva in stanza da bagno, mica in una sala da concerto!
E poi, se adoravo L’Elisir d’amore, La Serva Padrona mi faceva addormentare. Tutt’ora con questo intermezzo mi faccio dei bei sonnellini.
La mia risposta fu, dunque, «no».
Ma Tullio non mollò. Ci eravamo, infatti, scambiati il numero di telefono, e il giorno dopo mi telefonò: mi invitò a casa sua per due chiacchiere, qualcosa da mangiare, per vedere la sua collezione di nastri, ascoltare po’ di musica. Infine per presentarmi Evelina, il soprano.
E andai.
Ascoltammo nastri, dischi e poi venne il turno di una registrazione di Evelina.
Ascoltammo È strano, Ah forse è lui, Sempre libera degg’io, un bel biglietto di presentazione.
Il brano aveva l’accompagnamento orchestrale. Tullio mi raccontò che il ragazzo di Evelina, caballeiano a trecentosessanta gradi, aveva trovato la base orchestrale dall’edizione completa diretta da Georges Prêtre senza, appunto, Montserrat Caballé.
Il soprano Evelina aveva una voce di timbro molto gradevole, ben emessa, agilità perfette e sciolte. Forse solo un po’ fredda come interprete, se proprio si voleva cavillare qualcosa. Non potetti che dire belle parole e, soprattutto, sincere.
«Accidenti…che brava. Sai una cosa? Mi ricorda la voce di Anna Moffo».
Nella registrazione di Evelina c’era anche il tenore fuori scena:
«È il maestro di Evelina, R.A., un tenore del coro del Comunale», mi spiegò il solerte ospite.
«Evelina canta a teatro?»
«No, è al secondo anno di architettura»
«Come l’hai conosciuta?»
«Ė la ragazza di un mio amico. Insegnano catechismo nella stessa Parrocchia»
«Ha fatto audizioni presso agenzie o teatri?»
«Per ora i genitori non hanno piacere e vogliono che prima si laurei»
Suonò il campanello e Tullio, con uno sguardo che dimostrava di essere al settimo cielo, portò Evelina in salotto a braccetto.
La voce aveva evocato altre fisionomie e un altro modo di essere.
La Diva indossava una pelliccia di lince ottenuta da animali in peluche. Magra, bassa ma con tacchi a spillo, portava dei jeans attillatissimi per metter in mostra il sedere. Mora corvina, una frangia leggermente crespa arrivava oltre le sopracciglia. Il volto terminava con un mento a punta, il naso aquilino spuntava da due zigomi sporgenti, labbra sottili, occhi scuri vivaci leggermente ravvicinati. Non era bella ma, come si dice, «un tipo».
Evelina aveva un carattere estroverso, rideva fragorosamente e con facilità. Parlava starnazzando con la pesante cadenza delle mie parti e poi le essce, le szeta, le tci bolognesi, che avrebbero decimato eleganza e fascino perfino a Grace Kelly.
(Continua)
Tre millantatori all’Opera – Il soprano bolognese (Parte prima) Lessi di un episodio avvenuto al Caffè Florian di Venezia, non so in quale anno del boom economico.
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io-pentesilea · 3 years
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Le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre in tutte le direzioni, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia.
-Francois Truffaut
Ma le gambe!
Barbara
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io-pentesilea · 4 years
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Attese.
Foto Nicola De Luigi
Barbara
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io-pentesilea · 4 years
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Buonanotte.
Barbara
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io-pentesilea · 4 years
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Ok, tolgo i tacchi e me ne vado a dormire.
Buonanotte.
Barbara
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io-pentesilea · 4 years
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Comunque ste scarpe sono proprio belle!!
(Hashtag sonosoddisfattadelmioacquisto)
Barbara
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io-pentesilea · 4 years
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Di quella volta che.
Durante il lockdown ti mandai una foto in tenuta da ginnastica.
('Stai meglio coi tacchi'.
E grazie al... ehm ehm...
Avete presente il detto 'fritta è buona anche una suola delle scarpe'?)
Barbara
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io-pentesilea · 3 years
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Ti aspetto qui.
Nel caso ti venisse voglia...
(Di un caffè? Di parlare? Di giocare? Di me?)
Buona serata.
Barbara
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io-pentesilea · 4 years
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Le cose che amo.
I tacchi alti.
Dicono che abbia preso da mia nonna, lei non ha mai rinunciato al tacco, neanche quando l'età non era più... verde.
Nel tempo passato con te, credo tu mi abbia visto senza solo quando mi sono fratturata il dito del piede, un anno fa, e proprio non potevo metterli.
E quella volta che litigammo - per una mia bugia...
L'unica volta che ti aspettai a casa con una canotta e a piedi nudi.
Non volevo sedurti per fare pace...
I tacchi - e la lingerie - che portavo anche quando cucinavo, o quando facevamo sesso... che indossavo per te...
Barbara
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io-pentesilea · 3 years
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Rosso di sera...
(Voglia di pomeriggi in un letto a far l'amore)
Barbara
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io-pentesilea · 4 years
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Giornata pesante...
Meglio andare.
(Tra tacchi a spillo e carbonara)
Dedicato.
Buonanotte.
Barbara
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io-pentesilea · 4 years
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Le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre in tutte le direzioni, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia.
-Francois Truffaut 'L'uomo che amava le donne'
Buonanotte.
Pentesilea
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io-pentesilea · 4 years
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Passione.
Pentesilea
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io-pentesilea · 4 years
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Rouge...
Pentesilea
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