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#il libro del riso e dell’oblio
moonyvali · 11 months
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“Per liquidare i popoli” diceva Hübl, “si comincia col privarli della memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di una nuova cultura, inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo comincia lentamente a dimenticare quello che è e quello che è stato. E il mondo intorno a lui lo dimentica ancora più in fretta.”
Milan Kundera
[Il libro del riso e dell’oblio]
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(chu-lan-maria)  🎶  playlist ||一根菸的時間 Time for a cigarette 
"……美要被感知,需要最低限度的沉默……美早已消失。 它已經消失在噪音的表面之下——文字的噪音、汽車的噪音、音樂的噪音——我們一直生活在其中。 ......只剩下這個詞,其含義年復一年地變得越來越難以理解。
…e la bellezza, per essere percepita, ha bisogno di un minimo grado di silenzio…la bellezza è ormai da tempo scomparsa. È scomparsa sotto la superficie del rumore- il rumore delle parole, il rumore delle automobili, il rumore della musica – in cui viviamo costantemente. …Ne è rimasta solo la parola, il cui senso è di anno in anno meno comprensibile."
- Milan Kundera, Il libro del riso e dell’oblio 米蘭昆德拉《笑忘書》-
(PS. I don't own any music and songs right, I just make the playlist for listening easily and enjoy all musicians your works and love to share it only. all copyright belongs to musician & singer. If you want me do delete yours from the playlist, please tell me then I will do it. Blessings! Thanks! Lan~*)
photo : Kristen Stewart 克莉絲汀·史都華 
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oubliettemagazine · 2 years
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Il libro del riso e dell’oblio di Milan Kundera: ridere per non dimenticare
Il libro del riso e dell’oblio di Milan Kundera: ridere per non dimenticare
Alla domanda che rivolge a sé l’autore se “Il libro del riso e dell’oblio” sia un romanzo, egli risponde serenamente: “Io credo di sì. Il romanzo è una meditazione sull’esistenza vista attraverso i personaggi immaginari.” – che è come chiedersi se Gavassa è una città: sì, essendo un vasto agglomerato di case. Intorno ve ne sono di analoghi (Massenzatico, Mancasale, Pratofontana) e tutti dipendono…
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francescacammisa1 · 3 years
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La donna che Jan ha tanto amato aveva ragione di dire che ciò che la teneva attaccata alla vita era il filo di una ragnatela. Basta così poco, un piccolo soffio di vento e le cose si spostano impercettibilmente e quello per cui un secondo prima si era disposti a dare la vita appare di colpo come un non–senso in cui non c’è nulla. Milan Kundera – Il libro del riso e dell’oblio Ph Mars Shangareev
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L'estetica senza etica è cosmetica
Fin da bambino ho sempre avuto una particolare predisposizione per la fotografia; pensate che, benché i miei mi riempissero di attenzioni e di giocattoli, i due due “giochi” che preferivo erano la vecchia reflex e la videocamera di mio padre. Ho passato ore ed ore a giocare con questi due strumenti tanto complessi per me e allo stesso tempo tanto affascinanti, al punto che, oltre ad averli distrutti, ancora oggi quando vedo una fotocamera o una videocamera impazzisco. La fotografia... che mondo affascinante e complesso; ancora più affascinante quando diventa oggetto di una performance. L’artista di cui voglio parlare oggi è venuto a mancare da poco, e nello stesso tempo ha vissuto l’intera esistenza nell’ombra dell’ex compagna, ma, dal mio punto di vista, è stato ideatore di qualcosa di innovativo e geniale. 
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Frank Uwe Laysiepen, in arte Ulay, nasce durante il secondo conflitto mondiale, sotto le bombe degli alleati, figlio di un gerarca nazista. Resta orfano precocemente rimanendo totalmente privo di legami familiari. Come molti suoi coetanei, cresce con il senso di colpa per i padri nazisti e nella tensione provocata dallo smembramento del paese, diviso in due fra territori filo-occidentali (la Germania Ovest) e filo-sovietici (la Germania Est). Vive quindi in maniera conflittuale le proprie origini, tanto da arrivare alla rinuncia del nome e della nazionalità tedesca.Alla fine degli anni sessanta l'insofferenza verso il proprio paese lo spinge ad allontanarsi, lascia la moglie e un figlio piccolo e si trasferisce ad Amsterdam, attratto dal movimento olandese Provo di ispirazione anarchica. Si iscrive alla Kölner Werkschulen di Colonia dove conosce Jürgen Klauke, artista fotografo con cui avvia una collaborazione ispirandosi ai lavori di Pierre Molinier, Hans Bellmer e Hannah Wilke. Presto Ulay inizia a provare interesse per discipline non previste nell'offerta formativa dell'università scelta, pertanto abbandona gli studi per avvicinarsi alla fotografia analogica e all'uso artistico della Polaroid. Intraprende una ricerca sulle nozioni di identità e corpo, documenta la cultura di travestiti e transessuali attraverso foto, aforismi e performance. Progressivamente l'approccio alla fotografia diventa sempre più complesso: l'espressione fotografica viene messa in stretto rapporto con la live performance come nella serie Fototot e in There is a Criminal Touch To Art, entrambe del 1976. 
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Lo stesso anno alla Galleria de Appel di Amsterdam conosce Marina Abramović, invitata a esibirsi per un programma televisivo dedicato alla performance; è il 30 novembre, data di nascita di entrambi. Tra i due nasce subito un'intesa artistica che sfocia in una profonda e travagliata relazione sentimentale. Realizzano insieme una serie di performances dal titolo Relation Works, una forma estrema di body art, che li porta ad esplorare i limiti della resistenza fisica e psichica. Dopo 12 anni di amore e di sodalizio artistico, decidono di lasciarsi e di sancire la fine del loro rapporto con un'ultima performance, The Wall Walk in China: entrambi percorrono a piedi tutta la grande muraglia cinese partendo dai capi opposti per incontrarsi al centro e dirsi addio. Seguono anni di ostilità e battaglie legali circa i diritti d'autore della produzione artistica: Ulay denuncia Marina per aver venduto autonomamente opere appartenenti ad entrambi. Nel settembre 2016 il giudice gli dà ragione e costringe Marina a versare 250 mila euro all'ex partner per violazione di un contratto firmato nel 1999, che regolamentava l'uso dei lavori realizzati insieme fra il 1976 e il 1988. Dopo la fine della relazione, Ulay concentra la propria attività sul mezzo fotografico affrontando il tema dell'emarginazione e ritornando su quello del nazionalismo. Nel 2009 si trasferisce da Amsterdam a Lubiana; qualche mese più tardi gli viene diagnosticato un cancro. Dopo una serie di trattamenti chemioterapici che migliorano il suo stato di salute, decide di partire con una troupe per visitare i luoghi più importanti della sua vita e incontrare compagni e amici per un ultimo saluto. Da fine 2011 la telecamera lo segue per un anno intero, dall'Istituto di Oncologia di Lubiana fino a Berlino, a New York e alla Amsterdam della sua giovinezza. Ulay tratta la malattia come il più grande e più importante progetto della sua vita, un'occasione per interrogarsi sulla natura della vita, dell'amore, della storia e dell'arte, e per raccontare la propria carriera attraverso interviste, video di archivio, fotografie e riproduzioni dei suoi principali lavori. Ne scaturisce un documentario uscito nel 2013, intitolato Project Cancer, diretto da Damjan Kozole. Durante tutta la carriera rimane fedele al proprio motto: "L'estetica senza etica è cosmetica". Preferisce lavorare senza compromessi, rigoroso e coerente, anche a costo di rimanere ai margini del mercato. Insegnava New Media Art presso l'Università di Arte e Design di Karlsruhe in Germania. Lavorava tra Amsterdam e Lubiana, città dove viveva da 10 anni. Muore il 2 marzo 2020 all'età di 76 anni a causa di un linfoma, conseguente al tumore diagnosticatogli undici anni prima. 
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“Senza distruzione non c’è creazione e la sua performance ne è letteralmente un esempio: creare fotografie con lo scopo di distruggerle come parte di un’opera d’arte”, scrive Noah Charney in Il museo dell’arte perduta (tr. it. Irene Inserra e Marcella Mancini, Johan & Levi 2019). Da una parte Charney accosta Fototot alla scena iniziale de Il libro del riso e dell’oblio di Milan Kundera, dall’altra evoca Fototot II, remake del 2012 in cui la galleria viene immersa in un buio pesto. Opera concettuale e post-situazionista, Ulay realizza una sorta di polaroid all’inverso, un medium di cui è stato uno dei primi artisti a servirsi. Il titolo lo riprende da un film-performance di Claes Oldenburg, Fotodeath (1961, 16mm). Estate 1976. Gli spettatori sono invitati a entrare nella galleria de Appel di Amsterdam, uno spazio cieco fondato appena un anno prima. Su tre pareti, sopra la testa della ventina di spettatori, campeggiano nove fotografie in bianco e nero di 1 m x 1 m. Banale il soggetto: una persona intabarrata nel suo cappotto evolve su un viale alberato; è quanto perlomeno s’intravede nella tenue luce giallo-verde, simile a quella utilizzata in camera oscura. Quando la porta della galleria viene chiusa, si accende una lampada ad alogeno. Quello che accade lascia basiti gli spettatori: hanno appena il tempo di cogliere il soggetto che, nell’arco di 15-20 secondi, le stampe fotografiche si anneriscono e svaniscono. In questo modo fanno esperienza di quello che il titolo funereo della performance – Fototot I – promette a chiare lettere: la morte della fotografia o meglio la morte dell’oggettività fotografica, il disvelamento dell’immagine fotografica come mera illusione. Gli spettatori restano soli con queste stampe di grandi dimensioni, monocromi neri che incombono su di loro.
Valerio Hank Vitale
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onone-san · 4 years
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Capitemi bene: non ho detto che era innamorato di sé stesso, ma del proprio destino. Sono due cose completamente diverse.
Milan Kundera, Il Libro Del Riso E Dell’Oblio
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pangeanews · 4 years
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Qualcuno si è dimenticato di lui: è ora di rileggere Luigi Meneghello e il suo capolavoro, “Libera nos a Malo”
“Pater noster qui es in caelis/ santificetur nomen tuum/ adveniat regnum tuum/ fiat voluntas tua/ sicut in caelo et in terra/ panem nostrum quotidianum da nobis hodie/ et dimitte nobis debita nostra/ sicut et nos dimittimus debitoribus nostris/ et ne nos inducas in tentationem/ sed libera nos a malo”.
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Lì dove finisce la preghiera in latino inizia la storia. L’invito non è sfuggito all’acume veneto-british-veneto di Luigi Meneghello, nato in provincia di Vicenza e poi professore all’Università di Reading . Colpevolmente l’intellighenzia italiana e la sua cricca di critici si è dimenticata di lui. Molto colpevolmente: se non fosse stato per l’illuminato Daniele Luchetti, il regista che nel 1998 ha girato I piccoli maestri, se non fosse stato per due attori veneti eccezionali, Natalino Balasso e Marco Paolini, e un altrettanto illuminato regista piemontese, Gabriele Vacis che insieme – era il 2005 – hanno portato in tournée teatrale Libera nos, spettacolo creato dai testi di Meneghello, il velo dell’oblio sarebbe calato (ancora colpevolmente) sulla sua scrittura terrigna e dialettale, sulla sua capacità straordinaria di raccontare un paesino de màgnagàti, aggrappato inconsapevolmente alla coda del Pater noster.
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L’invocazione del Pater noster viene ovviamente travisata dai compaesani in una più goliardica “Libera nos amaluàmen”. Sembra di sentirli recitare assieme, tra un bianchèto e una graspèta, come una formula quasi magica, uno scongiuro contro le brutture e gli orrori della vita: di più, contro l’incombenza della morte, non solo o non tanto fisica quanto morale. “Liberaci dal luàme, dalle perigliose cadute nei luamàri, così frequenti per i tuoi figlioli, e così spiacevoli: liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago! Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro; del cane in Piazzola a cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando dal sottopancia; del maiale svenato che urla in cima al cortile; del coniglio muto, del topo di chiavica che stride tra il muro e il portone nel feroce trambusto dei rastrellatori. Libera Signore i tuoi figli da questo luàme, dalla sudicia porta dell’Inferno”.
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“Le cose andavano così: c’era il mondo della lingua, delle convenzioni, degli Arditi, delle Creole, di Perbenito Mosulini, dei Vibralani; e c’era il mondo del dialetto, quello della realtà pratica, dei bisogni fisiologici, delle cose grossolane”.
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Libera nos a Malo apparve in un momento letterario che non poteva non provocare equivoci poiché da pochi anni erano usciti i romanzi di Pasolini I ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), quest’ultimo contemporaneo al Calzolaio di Vigevano di Mastronardi, secondo Segre “esperimenti in cui il dialetto aveva un ruolo centrale ma funzioni molto diverse, tra realismo espressionistico e mimesi appassionata del parlato, tra critica della società e deformazione fantastica”.
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Libera nos a Malo è stato pubblicato nel 1963. Il titolo è un gioco di parole tra l’espressione evangelica “liberaci dal male” e il suo paese natale, Malo. Meneghello qui propone, in una sorta di rivisitazione autobiografica, gli usi, i costumi, le figure tipiche, la vita sociale che ha conosciuto nel corso della sua infanzia e giovinezza e traccia un ritratto della provincia vicentina, della sua gente e della sua cultura dagli anni Trenta agli anni Sessanta. Dunque un passato incavicchiato nel presente, raccontato in un’opera che è un libro della memoria e insieme un libro della realtà.
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Il fil rouge della vicenda è la vita dell’autore, in particolare la sua infanzia. Fanno da sfondo il Fascismo, la vita della famiglia, l’istruzione, la religione cattolica. Gli stessi elementi che emergono nella pellicola Amarcord di Federico Fellini, a pensarci bene.
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“Il primo nucleo del libro si è formato a Malo nel corso di due estati (le mie vacanze accademiche che passavamo appunto al mio paese, nella casa di mio padre). Tre mesi circa nel 1960 e altri tre nel 1961. Mi ero messo a scrivere su certi fogli sciolti, alla sera quando si tornava dal caffè, le conversazioni e le chiacchiere che avevamo fatto con gli amici, o anche le cose sentite in paese durante il giorno. Uno, due, tre fogli per sera, in tutto saranno stati un centinaio. Non avevo intenti esplicitamente letterari. Volevo fermare qualcosa che mi era piaciuto, fatti o discorsi, per lo più cose senza importanza. Qualche scossa di terremoto durante la notte, e la gente raccontava le sue impressioni: l’Annamaria aveva immaginato, per un attimo, che ci fosse un toro (Annamaria! un toro?) sotto il letto… Mio papa si era svegliato, e aveva pensato: ‘Orcocàn, tenporale n’altra volta’… Ho scritto questi fogli in due serie nelle due estati che ho detto. Nell’intervallo, in Inghilterra o altrove, ogni tanto mi veniva in mente uno spunto e aggiungevo qualche altra cosetta dello stesso tipo. È stato soltanto nell’autunno del 1961, tornando in Inghilterra per l’inizio dell’anno accademico che mi è venuta l’idea di utilizzare questo materiale: sentivo (credo per la prima volta in vita mia, e non senza sorpresa, essendo io abituato a scrivere cose che poi non mi piacciono), sentivo che quegli appunti mi piacevano, non nel senso che li credessi molto belli, ma nel senso che corrispondevano a ciò che c’era davvero dentro di me, io ero così, non qualcos’altro”. Luigi Meneghello.
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Meneghello è uno scrittore veneto quanto Verga uno scrittore siciliano e Dante uno scrittore fiorentino. La sua terra – e il cielo e tutto lo spazio di confusione e ispirazione e disperazione tra questo e quella – è l’invenzione del linguaggio. C’è una ricercatezza formale e musicale dissimulata nell’ambientazione più modesta possibile, c’è la costruzione di una lingua non nuova ma rinnovata, riscaldata, rampicante, potentissima.
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“Attraverso il microcosmo di Malo viene fissata e trasmessa compiutamente al futuro la vicenda di tutta la nostra società, nel breve periodo in cui passa da una statica e secolare civiltà contadina alle forme più avanzate della modernità, la vicenda addirittura di tutto il nostro mondo con le fratture che hanno segnato la sua precipitosa evoluzione”. Lo ha scritto Giulio Lepschy.
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Un libro fondamentale della cultura paesana e della lingua della prima metà del Novecento: unisce umorismo leggero a sensibilità e cultura linguistica. Spassoso, certo, ma anche dissacrante e tenero. Il dialetto diventa così l’ultimo veicolo identitario e riporta il lettore in un Veneto che in parte esiste ancora, soprattutto nei paesini di provincia, e che continua a vivere grazie anche alla sua lingua.
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Libera nos a Malo è una “cronaca del ritorno” di Meneghello nel paese (e nella comunità) di Malo. All’incipit – “Si comincia con un temporale. Siamo arrivati ieri sera e ci hanno messi a dormire come sempre nella camera grande” – corrisponde simmetricamente una didascalia finale, “Abbiamo riso a lungo imbarazzati, e poi siamo andati via. Volta la carta la ze finia”.
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“Il motivo della liberazione, di quel ‘libera nos’ da parte mia non corrisponde affatto a un desiderio di evadere dal paese, di essere liberato: non ne ho mai sentito il bisogno o la voglia, se non in un senso molto largo, che riguarda specialmente il paese, […] il doppio aspetto della mia relazione di fondo con Malo: da un lato essere (e sentirsi) all’interno della materia e parlare con l’autorità di chi vede le cose dall’interno; dall’altro la condizione opposta, il distacco senza del quale non c’è prospettiva in ciò che sai e che dici. Sono due aspetti ugualmente essenziali”.
Alessandro Carli
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punti-disutura · 7 years
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Il futuro è solo un vuoto indifferente che non interessa nessuno, mentre il passato è pieno di vita e il suo volto ci irrita, ci provoca, ci offende, e così lo vogliamo distruggere o ridipingere. Gli uomini vogliono essere padroni del futuro solo per poter cambiare il passato.
Milan Kundera, “Il libro del riso e dell’oblio”.
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outofthebluebells · 7 years
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Quando un giorno (e sarà presto) dentro ogni uomo si risveglierà lo scrittore, saranno tempi di sordità e incomprensione universali.
Il libro del riso e dell’oblio, Milan Kundera, 1980
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doppisensi · 10 years
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L’uomo, pur essendo egli stesso mortale, non può raffigurarsi né la fine dello spazio, né la fine del tempo, né la fine della storia, né la fine di un popolo; egli vive sempre in un illusorio infinito.
Milan Kundera, Il libro del riso e dell’oblio
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francescacammisa1 · 3 years
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Sapete quando due persone chiacchierano. Uno parla e l’altro gli toglie la parola: Proprio come me, io … e si mette a parlare di se stesso, finché il primo non riesce a sua volta, a dire: Proprio come me, io … Questa frase proprio come me, io …, può sembrare un modo di inserirsi per approvare, per continuare una riflessione dell’altro, ma è un abbaglio: in realtà essa è una rivolta brutale contro una brutale violenza, uno sforzo per liberare dalla schiavitù il proprio orecchio e per occupare con la forza l’orecchio dell’avversario. Giacché tutta la vita dell’uomo tra i suoi simili non è altro che una lotta per impadronirsi dell’orecchio altrui. Milan Kundera – Il libro del riso e dell’oblio Ph Vivian Maier
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francescacammisa1 · 3 years
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Ogni relazione amorosa è basata su convenzioni non scritte che gli innamorati concludono imprudentemente durante le prime settimane del loro amore. Si muovono ancora in una specie di sogno, ma nello stesso tempo, senza rendersene conto, redigono da giuristi intransigenti le clausole dettagliate del loro contratto. Siate prudenti, amanti, in quei primi pericolosi giorni! Se portate al vostro partner la colazione a letto, dovrete portargliela per sempre, o sarete accusati di tradimento e disamore. Milan Kundera – Il libro del riso e dell’oblio Ph Saul Leiter
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francescacammisa1 · 3 years
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La bellezza è una scintilla che scocca quando, all’improvviso, attraverso la distanza degli anni, si incontrano due diverse età. Che la bellezza è l’abolizione della cronologia e la rivolta contro il tempo. Milan Kundera – Il libro del riso e dell’oblio Ph Harvey Leroy Harvey
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