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#PalazzoKoch
scienza-magia · 6 months
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Nessun meccanismo di supporto per le banche italiane
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No MES Meloni: impatto su banche, BTP ex Bce, spread. No MES dall’Italia di Meloni: l’ironia della sorte è che la bocciatura della ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità da parte della Camera potrebbe secondo qualcuno mettere in difficoltà proprio quelle banche che fonti di Palazzo Chigi hanno citato, ieri, a commento del voto dell’Aula. Non solo: esperti ed economisti parlano anche dell’effetto che quel no potrebbe avere sui titoli di stato italiani, dunque sui BTP e sullo spread. Riforma MES: il no di Meloni al backstop del Fondo di risoluzione unico All’indomani del voto della Camera, che ha spiazzato in primis chi credeva che alla fine la maggioranza avrebbe comunque ratificato la riforma del MES, nonostante l’opposizione manifestata più volte dal governo Meloni e dalla maggioranza, diverse sono le analisi su cosa potrebbe accadere ora all’Italia. Nel dire no al MES, l’Italia si conferma tuttora unico paese dell’Europa a non aver ratificato una riforma che viene considerata cruciale per mettere in sicurezza il sistema bancario europeo. A rimetterci, dunque, con quel voto alla Camera, è tutta l’Europa. Lo dice espressamente Bankitalia nella pagina dedicata a fugare tutti i dubbi su questo strumento, contro cui gli esponenti del governo Meloni, da tempo, hanno lanciato una vera e propria crociata: “La riforma attribuirebbe al MES una nuova funzione, quella di fornire una rete di sicurezza finanziaria (backstop) al Fondo di risoluzione unico (Single Resolution Fund, SRF) nell’ambito del sistema di gestione delle crisi bancarie”, spiega Palazzo Koch. L’Italia intanto si spacca tra chi plaude al voto della Camera e chi, invece, mette in evidenza una scelta suicida, che avrà gravi conseguenze per il paese, le sue banche e il suo debito. Per ora buy BTP, il sostegno dalle scommesse su tassi Bce Per ora, va detto, non c’è nessun effetto sui BTP e sullo spread BTP-Bund a 10 anni. La prospettiva di imminenti tagli dei tassi da parte della Bce di Christine Lagarde continua a sostenere i titoli di stato dell’area euro, che continuano a essere inondati di buy. Nella giornata di ieri, i tassi dei BTP a 10 anni sono scesi fino al 3,55%, al livello minimo dalla fine di agosto del 2022. Il risultato degli ultimi buy sui BTP (con contestuale discesa dei rendimenti), stando a quanto riporta Reuters, è che i titoli di stato a 10 anni si apprestano a terminare il mese di dicembre con il tonfo mensile dei tassi più forte dal 2013, pari a ben 64 punti base. Buy anche sui Bund tedeschi, con i rendimenti decennali che, nella sessione di ieri, sono capitolati al valore pià basso degli ultimi nove mesi, scendendo fino all’1,94%. Reuters ha ricordato che le aspettative di tassi di interesse più bassi, con l’arrivo di tagli da parte della Bce, si stanno “confermando un balsamo per l’Italia, alle prese con una mole di debito pubblico che si aggira attorno al 140% del Pil”. No MES e l’effetto su banche, ABI: ‘Con crisi useremo risorse nazionali’ Detto questo, cosa succederà ai BTP ma anche alle banche italiane con la decisione della Camera di dire no alla ratifica della riforma del MES? Antonio Patuelli, numero uno dell’ABI, ha spiegato che la conseguenza è che “senza il nuovo MES useremo le risorse nazionali per affrontare le crisi bancarie“. Cosa che tra l’altro è successo fino a oggi: “La questione non è entrare o meno nel Mes. Anche con il voto della Camera l’Italia continua a rimanere nel vecchio MES con tutti gli altri Paesi”, ha ricordato il numero uno dell’Associazione bancaria italiana. Patuelli ha fatto notare che il dibattito sul Meccanismo europeo di stabilità, in Italia, “si è caricato di eccessivi significati politici ed è per questo che non ci siamo mai pronunciati sul tema, nemmeno in occasione della nostra assemblea annuale”. In ogni caso, ha continuato il numero uno dell’ABI, “tutte le crisi bancarie dal 2015 a oggi sono state affrontate con risorse nazionali. Quella del Montepaschi con risorse di Stato e le altre con risorse delle banche concorrenti. Per fortuna adesso nessuno paventa più crisi bancarie, ma nei momenti più difficili, e in vigenza del vecchio MES, abbiamo fatto da noi. Abbiamo persino salvato la Popolare di Bari, che poi è andata allo Stato”. La frase  fa capire dunque che, allo stato attuale delle cose, in caso di crisi bancarie l’Italia continuerà a far uso di risorse nazionali. E certo non si può dire che questa sia una buona notizia per i contribuenti italiani, che hanno già salvato il Monte di Stato Mps Monte dei Paschi di Siena, esempio citato tra l’altro proprio da Patuelli. No MES: scelta in vista delle elezioni europee 2024 Su Il Sole 24 Ore, nell’articolo “MES e Patto di stabilità: miopia istituzionale e incroci pericolosi“ Francesco Renne, commercialista e revisore, faculty member CUOA Business School, formatore in materie finanziarie e fiscali, commenta il no al MES mettendo in rilievo che “la partita ‘vera’, sotto il piano tecnico, non può che spostarsi dunque sul cd. MES ‘bancario’, cioè la vera novità del trattato in questione, che prevederebbe la possibilità di attivare i fondi in caso di crisi sistemiche bancarie, affiancandosi ai metodi ordinari europei (i.e. ‘bail in’) di risoluzione delle crisi bancarie stesse”. “In tal caso, in linea teorica, potrebbe ravvisarsi un segnale di ‘impossibilità finanziaria’ del singolo Paese nell’intervenire autonomamente, causando un rialzo del rischio percepito sul proprio debito pubblico”. Ma Renne scrive nella sua analisi, anche, che con il NO al MES “ci si dimentica che l’implementazione di un meccanismo ‘salva-banche’ europeo era una necessità (europea) per il completamento del quadro delle regole cd. di ‘unione bancaria’, teso alla definitiva creazione di un framework regolamentare finanziario comune (e condiviso) e, in tal senso, necessario anche alle nostre Banche nella competizione europea stessa”. Insomma, “il MES ‘condivisibile’ sacrificato sull’altare delle elezioni”, ha fatto notare l’esperto. Con No MES attenti a doom loop banche-BTP Il pericolo No MES per i BTP e dunque il rischio che senza lo strumento pensato per sostenere il Fondo di risoluzione unico i titoli di stato italiani finiscano sotto attacco è stato messo in evidenza in un articolo pubblicato su Domani anche dall‘economista Alessandro Penati. Penati ha ricordato il fenomeno del doom loop, ovvero l’abbraccio mortale tra i BTP e le banche. Queste ultime, per chi non lo ricordasse, detengono infatti in pancia una bella mole del debito pubblico italiano. “A chi ha votato in Parlamento rammento che le nostre banche detengono 665 miliardi di debito pubblico, a fronte di un patrimonio netto complessivo di 358 miliardi”, scrive Penati nell’articolo pubblicato su Domani “L’azzardo dei sovranisti fa crescere i rischi sui Btp”. Un fattore che rende le banche italiane vulnerabili a eventuali crisi del debito italiano. Penati spiega di fatto che, “in caso di crisi del nostro debito, il suo valore crollerebbe e trascinerebbe le banche italiane”. La crisi del debito infetterebbe le banche italiane, proprio a causa di quell’abbraccio mortale o anche relazione tossica, che esiste tra i BTP e gli istituti di credito. Relazione tossica ormai storica, che ha fatto scattare più volte sull’attenti il mondo degli investitori internazionali. Ma se una eventuale crisi del debito pubblico finisse per travolgere gli istituti di credito italiani, si chiede l’economista, “senza il MES, chi ricapitalizzerebbe le banche in crisi?” Niente crisi del debito pubblico, per ora, così sembra. Ma, nel caso dell’Italia con casse dello Stato perennemente in affanno, Penati ha  ricordato che gli investitori stranieri detengono 763 dei 2.844 miliardi di debito pubblico. E che, nel caso in cui l’area euro finisse per scivolare in recessione, questi investitori potrebbero orientare i loro buy su asset più sicuri, a fronte del riemergere del “problema della sostenibilità del debito pubblico dell’Italia”. Che dire inoltre di quegli istituzionali italiani, che detengono 345 miliardi di euro di debito pubblico? Come si può pensare che, in caso di crisi, la loro priorità sarebbe quella di blindare i BTP? Penati ricorda a tal proposito che “loro dovere è salvaguardare il risparmio dei clienti, non dare l’oro alla patria”. Stessa cosa le banche, con i loro bilanci intasati da 665 miliardi di debito, che, più che tutelare le casse dello Stato, devono “tutelare gli interessi degli azionisti, in prevalenza stranieri”. Dunque? In caso di crisi chi farebbe davvero da scudo ai BTP (e di conseguenza, a causa del doom loop), alle banche italiane? D’altronde i BTP, dunque i titoli di stato italiani, sono stati  mollati ulteriormente dalla Bce di Christine Lagarde che, nel suo ultimo atto del 2023, ha annunciato la tempistica con cui manderà definitivamente in soffitta il PEPP, ovvero QE pandemico, dopo avere staccato già la spina al QE tradizionale. Read the full article
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Erma di Corinna #palazzokoch #canova #antoniocanova (presso Palazzo Koch, Banca D'italia) https://www.instagram.com/p/B0I9qb8I1at/?igshid=11hb70n2x5sbg
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scienza-magia · 7 months
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Debito pubblico italiano verso quota 3000 miliardi di Euro
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L’(in)sostenibilità del debito pubblico. Il debito pubblico italiano resta su livelli elevati ed è destinato a crescere ancora. Numeri che tornano a preoccupare anche gli investitori internazionali. C’è chi lo definisce un fardello, chi un macigno. Qualunque sia l’etichetta che gli venga attaccata la crescita inarrestabile del debito pubblico italiano, tra i più alti d’Europa e del mondo, è proiettata verso quota 3.000 miliardi di euro. A impensierire gli osservatori è la sua sostenibilità nel lungo periodo. La temono i mercati, ma anche le organizzazioni internazionali come l’Fmi che ha esortato il Governo ad intervenire visto che il rapporto debito-Pil dell’Italia potrebbe restare ancora al di sopra della soglia del 140%, almeno fino al 2028. Dalle pagine del Financial Times anche il governatore uscente dalla Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha sollecitato il premier Giorgia Meloni ad affrontare i timori crescenti degli investitori.Appelli che si sono intensificati dopo la pubblicazione a fine settembre dei numeri della NaDef (Nota di aggiornamento del Def, la cornice economica della Legge di Bilancio). Le indicazioni sul futuro dei conti pubblici hanno riportato agli occhi degli investitori internazionali il ‘caso/rischio Italia’. In particolare, è stata mal digerita l’intenzione di fare più deficit. Nella nota di Palazzo Chigi si legge che “nello scenario programmatico il deficit è del 5,3% nel 2023 (stimato al 4,5% lo scorso aprile) e del 4,3% nel 2024”. Debito proiettato verso quota 3mila miliardi. L’esecutivo stima per il 2023 un debito pubblico pari a 2.874 miliardi, con un aumento di 116 miliardi rispetto a fine 2022. Le prospettive non appaiono rosee. Anzi, l’escalation è destinata a proseguire: partito lo scorso gennaio da quota 2.757 miliardi ha raggiunto a luglio 2.859 miliardi. “Da qui in avanti la dinamica sarà più regolare, con oscillazioni verso l’alto e verso il basso, per terminare in una fascia compresa tra 2.839 e 2.875 miliardi”, segnala Mazziero Research nell’ultima pubblicazione dedicata ai conti pubblici italiani. In termini assoluti, però, il debito continuerà a crescere con una dinamica accentuata che porterà, secondo le stime della NaDef, a sfiorare i 3.000 miliardi di euro il prossimo anno, per poi superare stabilmente questa soglia dal 2025. Il debito, una storia che ha radici lontane. Il problema debito non è una novità per l’Italia, ma una questione che ha radici lontane. Certo, gli ultimi anni, tra la crisi finanziaria, quella del debito Ue e lo scoppio della pandemia quando il rapporto debito/Pil è volato oltre il 150%, hanno complicato lo scenario. Osservando l’analisi della dinamica del debito, Bankitalia ricorda come questa rifletta “essenzialmente il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche e l’andamento dell’economia”. Una dinamica che si è distorta sempre più negli anni con la spesa pubblica in aumento costante ed entrate fiscali in calo. Ora, la situazione resta difficile se si considera l’elevata inflazione e gli alti tassi di interesse. Tanto che nella NaDef si legge che nel prossimo triennio ci saranno diversi fattori a esercitare una maggiore pressione sul rapporto debito/Pil. “L’incertezza del contesto internazionale influirà negativamente sulla crescita economica che vedrà un rallentamento, almeno fino al 2024. Inoltre, una maggiore quota dei titoli di debito recepirà i maggiori tassi di rendimento derivanti dall’aumento dei tassi Bce, spingendo al rialzo la spesa per interessi”. Per le casse dello Stato, si legge nella NaDef, il quadro potrebbe ulteriormente peggiorare nei prossimi anni fino al 2026 con la spesa per interessi verso la soglia dei 100 miliardi. Chi ha in mano il debito pubblico italiano? Secondo i dati diffusi a ottobre da Palazzo Koch, la quota del debito detenuta dalla Banca d’Italia è lieve calo al 25,1%, mentre a luglio (ultimo mese per cui questo dato è disponibile) quella nelle mani dei non residenti e dagli altri residenti (famiglie e imprese non finanziarie) si attestano rispettivamente al 27% e al 12%. Per far fronte al proprio debito, il Governo continua a macinare emissioni, rivolgendosi sempre più ai risparmiatori italiani come nel caso del BTP Valore. Un modus operandi che continuerà: secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio nel 2024 le emissioni lorde dei titoli di Stato sono stimate a 479 miliardi rispetto ai 316 del 2022 e ai 437 miliardi di quest’anno. Read the full article
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scienza-magia · 4 years
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Bankitalia ha tonnellate d'oro nella «Sacrestia» di Palazzo Koch
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In Bankitalia 107 miliardi d'oro. C’è un tesoro che cresce in Via Nazionale. Sono i lingotti d’oro, depositati (solo in parte) nella cosiddetta «Sacrestia» di Palazzo Koch e che nel 2019, secondo l’ultimo bilancio della Banca d’Italia, rappresentavano un valore di quasi 107 miliardi di euro. Alla fine del scorso anno l’importo scritto nel patrimonio era pari a 106.742 milioni di euro con un incremento di 18.378 milioni rispetto alla fine dell’esercizio precedente. Non c’è stato nessun nuovo acquisto, però. La consistenza è rimasta invariata a 79 milioni di once, pari a 2.452 tonnellate, e la rivalutazione è dovuta esclusivamente alla maggiore quotazione del metallo. Rispetto alla fine del 2018 il prezzo dell’oro è aumentato del 20,8 per cento (da 1.120,961 a 1.354,104 euro per oncia).
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Vista l’evoluzione dei primi mesi dell’anno è ragionevole pensare (anche se il prezzo medio di carico è la media di quello dell’intero anno) che il tesoro sul quale siede il governatore Ignazio Visco sia oggi ancora più ricco. L’ultima quotazione disponibile, quella del 3 aprile scorso, è di 1.618 dollari all’oncia (il 16% cento in più). Non male come gioielli di famiglia. Anche se questo importo è una solo una frazione del debito pubblico rassicura sapere che a fronte di tutta la carta finanziaria emessa dal Paese, un minimo di sottostante (un asset fisico di garanzia) ci sia. Nessuno pensi di vendere però. Nemmeno qualcuno dalle parti Palazzo Chigi o via XX settembre alla ricerca spasmodica di cash per finanziare una delle crisi più dure del Paese dal dopoguerra. Non si può fare. La gestione dei lingotti è delegata al Ministero del Tesoro. Read the full article
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