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Non sopporto più questo corpo, non sopporto più questa mente.
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study stud stu st s sl sle slee sleep
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Non so più cosa devo fare, non so cosa devo fare, non so cosa fare, io non lo so, non lo so, non lo so, non so cosa fare, ho bisogno che qualcuno mi dica cosa fare, qualcuno deve dirmi cosa fare, qualcuno per favore mi dice cosa cazzo devo fare?
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Quando da piccola mi dicevano che ero matura per la mia età avrei dovuto capirlo che era proprio quello il problema. Una mente che viaggia ad alta velocità.
Essere più maturi degli altri vuol dire sentirsi spesso fuori luogo
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Non voglio più uscire di casa, voglio chiudermi in questa stanza, voglio stare a letto per sempre, voglio non vedere nessuno, non sentire nessuno, solo il buio e il silenzio e un grande vuoto dentro. Le lacrime bruciano.
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“Il potere dichiara che il giovane arrestato di nome Gesù figlio di Giuseppe è morto perché aveva le mani bucate e i piedi pure, considerato che faceva il falegname e maneggiando chiodi si procurava spesso degli incidenti sul lavoro. Perché parlava in pubblico e per vizio si dissetava con l´aceto, perché perdeva al gioco e i suoi vestiti finivano divisi tra i vincenti a fine di partita. I colpi riportati sopra il corpo non dipendono da flagellazioni, ma da caduta riportata mentre saliva il monte Golgota appesantito da attrezzatura non idonea e la ferita al petto non proviene da lancia in dotazione alla gendarmeria, ma da tentativo di suicidio, che infine il detenuto è deceduto perché ostinatamente aveva smesso di respirare malgrado l’ambiente ben ventilato. Più morte naturale di così toccherà solo a tal Stefano Cucchi quasi coetaneo del su menzionato.”
Erri De Luca
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n’è niente– ricordo bene questa frase e la sua intonazione, pronunciata non da stefano cucchi ma da un mio amico con lo stesso livido viola in faccia. so’ caduto dae scale. a lui lo avevano perquisito dietro un cespuglio al parco, e mentre si tirava su i jeans gli hanno dato un cazzotto talmente forte da farlo rotolare per terra. aveva tipo diciotto anni. menare un ragazzino di diciotto anni perché non si sono trovate prove sufficienti per provare che spaccia, perché non ha detto da chi ha preso quella canna d’erba scrausa.  matté, denunciali. no, c’ho troppi verbali di perquisizione. già. all’artistico manco a dirlo, metà scuola aveva perennemente l’occhio livido. qualcuno perché aveva detto figlio di puttana a uno più grosso, ma tanti, tanti, erano stati menati dentro le pareti di una caserma, dietro un cespuglio, dentro un cesso da uno sbirro. noi lo sapevamo e loro tacevano. era tanto palese quanto inquietante. quando tornavo a casa a piedi passavo sempre per la statale, erano sempre due le categorie a fischiarmi, i muratori e gli sbirri. gli sbirri italiani che non hanno -che pensano di non avere- un cazzo da fare. che sono scontenti perché li pagano troppo poco. che si rompono il cazzo a stare in ufficio. allora escono, cercano un ragazzino con lo skate e lo menano. come i bulli alle medie. esigono rispetto perché hanno una pistola. e ora un taser. guardami negli occhi quando ti parlo. alzo la voce perché sono un essere a te superiore. non esisto per salvaguardarti. ma per controllarti minuziosamente. un periodo ho avuto il telefono intercettato, all’epoca mi cagavo sotto per ste minchiate. se ci ripenso rido, provo pena per loro. loro possono. possono picchiarti, possono fischiarti, possono pure stuprarti, tu non hai diritto di parola perché sono loro l’autorità. l’autorità. il maresciallo vicino che porta il cane a cagare davanti casa mia e pensa che non lo vedo che mi gira attorno, che mi segue in macchina, che attende il giorno propizio per trovarmi con cinque millimetri cubi di fumo. come ti senti a fine giornata, dopo aver menato un ragazzino dell’età di tuo figlio perché ti stavi annoiando a grattarti le palle in ufficio? il maresciallo. lo vedevo digrignare i denti sotto i baffi gialli quando gli passavo davanti in macchina. non sono tutti così. dice mio padre, che lo sbirro l’ha fatto anche lui. no, ma la maggior parte sì, lo sai. silenzio
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«che hai fatto?»
«so’ cascato dalle scale»
«quand'è che la smetterete con sta scusa delle scale?»
«quando le scale smetteranno de menacce!»
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“È stato morto un ragazzo - Federico Aldrovandi che una notte incontrò la polizia.”
Si parla di 13 anni fa.
Era il 25 settembre del 2005, a Ferrara.
Le sei della mattina.
Federico, un ragazzo di diciotto anni.
Quattro poliziotti.
Due manganelli spezzati.
Cinquantaquattro lesioni.
L’ambulanza trova Federico morto, “riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena”.
Eppure… qualcuno si azzardò a sostenere che Federico fosse morto per via di un arresto cardiaco.
E ancora una volta, qualcuno credette a quelle assurde parole.
Poi, per fortuna, c’è chi ha deciso di non abbassare la testa davanti al potere e la verità l’ha pretesa (e tutti noi dovremmo pretenderla, sia chiaro!), iniziando così a combattere una lunga battaglia per ridare valore alla vita di Federico.
Tre anni e sei mesi di galera per i quattro poliziotti che hanno ucciso di botte Federico.
Dopo sessanta giorni, all’unica donna dei quattro poliziotti (Monica Segatto), le vengono concessi i domiciliari, mentre le richieste degli altri tre vengono respinte.
Gennaio 2014.
Su quattro poliziotti, tre ritornano in servizio ed uno rimane a casa, a causa di una malattia.
Questi tre poliziotti lavorano in sedi lontane da Ferrara, ma ancora portano addosso quella DIVISA SPORCA DI SANGUE.
Ma no, Federico non meritava di morire (men che meno tra le loro mani) e loro non meritano di indossare quella divisa. Ed oggi voglio urlare a gran voce che anch’io esigo giustizia per Aldro! Quindi… #VIALADIVISA !
Ci tengo a ricordare a tutti che il 29 settembre, al parco Alfonso l d’Este a Ferrara, dalle ore 18.00 avrà inizio il concerto in memoria di Federico Aldrovandi. Oltre a sentir cantare alcuni meravigliosi artisti, sul palco saliranno anche Ilaria Cucchi (sorella di Stefano Cucchi) e Fabio Anselmo (avvocato del caso Cucchi e del caso Aldrovandi).
❤️
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Sulla mia pelle.
Stanotte ho guardato “sulla mia pelle”, il film che racconta gli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi.
Stefano Cucchi era un ragazzo come tanti altri, aveva problemi di droga da parecchi anni e, in qualche modo, stava riprovando a prendere in mano la sua vita.
Certo, Stefano non era un santo e qualche errore lo aveva commesso. Ma Stefano non ha avuto la possibilità di imparare dai suoi errori, perché delle guardie hanno deciso che la loro divisa valeva più della sua vita.
Stefano è morto da solo, in silenzio. E’ morto chiuso in una cella dell'ospedale Sandro Pertini, in un triste giorno di fine ottobre. Correva l'anno 2009, quando Stefano Cucchi ha chiuso gli occhi per sempre, ricoperto da grossi ematomi sul volto, con una mascella rotta, con una frattura all'addome e al torace, con un'emorragia alla vescica e con delle vertebre rotte.
Stefano fu arrestato il 15 ottobre del 2009, ovvero una settimana prima della sua morte, poiché viene trovato con dodici pezzi di fumo addosso, tre bustine di cocaina e qualche pasticca… tra cui quella di un medicinale. Un medicinale che Stefano usava perché soffriva di epilessia. Un medicinale che gli viene sequestrato, insieme a tutte le altre sostanze che aveva con sé.
Il giorno dell'arresto, Stefano non era nelle condizioni in cui tutti noi lo ricordiamo. Pesava poco più di quaranta chili, ma non presentava alcun tipo di trauma fisico. Ma il giorno dopo, durante il processo, Stefano aveva già difficoltà a camminare e a parlare, per via delle gravi lesioni che le guardie gli avevano procurato.
Stefano è stato picchiato a morte perché era un “tossico di merda”… Questo è ciò che vantava in giro una delle guardie che lo ha fatto morire.
Stefano, in quella settimana, aveva confidato a qualcuno di esser stato picchiato dai carabinieri che lo avevano arrestato. Lo confida anche a Marco, un ragazzo che aveva chiesto di esser messo in cella con lui. Richiesta che, ovviamente, viene declinata da un agente. 
Qualcuno era fisicamente presente mentre Stefano veniva picchiato violentemente dalle guardie.
C'è chi ancora dice che Stefano avrebbe dovuto parlare, che la colpa è sua, perché non avrebbe dovuto rifiutare il ricovero. C'è chi sostiene che durante un arresto qualche schiaffo può volare.
Ma Stefano non ha parlato per paura. Stefano non ha parlato perché sapeva che, se lo avesse fatto, sarebbe stato peggio. Perché in fondo Stefano aveva già provato sulla propria pelle l’abuso di potere ed ormai aveva capito che se uno sbrirro può metterti le mani addosso fino a fratturarti tutte le ossa della faccia e del corpo, uno sbirro può anche decidere la tua sorte.
Quando muore, il personale del carcere dichiara di non aver picchiato Stefano. Così, con quella falsa ingenuità che ancora oggi, a distanza di anni, continua a farmi ribrezzo come allora, vengono formulate diverse ipotesi sulla sua morte.
Dunque, qualcuno sostenne che Stefano fosse morto di anoressia e tossicodipendenza. Qualcuno disse che era morto perché aveva rifiutato il ricovero al Fatebenefratelli. Quel qualcuno, poi, si pentì di aver dichiarato il falso e si degnò di chieder scusa alla famiglia di Stefano… Almeno quello.
Il peggio, però, è che qualcun altro ha seriamente creduto a queste puttanate. Perché c’è stato chi, guardando il corpo distrutto di Stefano, non ha saputo mettersi una mano sul cuore ed è riuscito a mettere a tacere la propria coscienza.
I cinque medici che hanno lasciato morire Cucchi, difendendosi dicendo che era lui a voler rifiutare le cure, sono stati assolti nel 2016.
A febbraio del 2017, tre carabinieri vengono sospesi dal servizio.
Ma in tutto questo caos, Stefano non ha ancora riavuto indietro la sua dignità.
Stefano oggi riprende vita nel film “Sulla mia pelle”, di Alessio Cremonini, grazie a Alessandro Borghi che riesce ad immedesimarsi perfettamente nel personaggio.
Questo film ci fa piangere, ci fa riflettere, ci fa incazzare. Questo film è in grado di farci sentire sulla nostra pelle il dolore e la cattiveria che Stefano ha sentito sulla sua.
Sulla mia pelle è un film ricco di emozioni, che racchiude in 100 minuti ciò che Stefano ha sentito addosso in quei sette schifosissimi ultimi giorni della sua vita.
Ed è bello vedere che dove non è arrivata la giustizia italiana, è arrivato il nostro cinema.
È bello vedere che c’è gente che ancora, a distanza di anni, vuole sapere cosa è successo dentro le mura di quelle celle di sicurezza del tribunale di Roma.
Perché gli anni passano, ma quello che è successo a Stefano Cucchi non bisogna mai dimenticarlo. Stefano deve continuare a vivere dentro ognuno di noi, oggi e per sempre.
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