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federicodeleonardis · 2 months
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Bilbao: Anselmo vs Ghery
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Se nella terza decade del XXI secolo ha ancora senso usare l’aggettivo “figurativo”, è giusto applicarlo all’enorme ragno della Bourgeois che, ondeggiando sulle sottilissime zampe, percorre lo spiazzo antistante il fiume attorno al Guggenheim di Bilbao: chi durante una delle malattie infettive che perseguitano l’infanzia non ha sognato di essere imprigionato nella rete di Aracne e di finire nelle sue grinfie? Invece non ho remore a usare la parola “incubo” per connotare l’enorme edificio progettato da Frank Ghery.
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Mi dispiace per questo fantasioso architetto americano, rappresentante principe del postmodern internazionale, ma dal Ria, dal ponte che lo attraversa e da tutte le strade che lo circondano non si capisce proprio cosa sia destinato a contenere: un asilo per pazzi scatenati? anzi il principe degli asili per claustrofobici? il municipio di amministratori di una città uscita fuori dalla fantasia di uno Swift? Invece è il quarto e più famoso contenitore dell’immensa e prestigiosa collezione d’arte appartenente a una famiglia americana, raccolta soprattutto negli anni del surrealismo da Peggy, ricchissima erede di un magnate perito nel disastro del Titanic (e amante, se non vado errato -anche- di Max Ernst, l’unico di quel movimento di cui forse vale ancora la pena parlare; la collezione è poi stata arricchita successivamente di opere molto importanti un po’ di tutti gli artisti emergenti sulla scena). Il Guggenheim museum è emblema e baricentro di quella Svizzera marina che è la regione basca, di cui Bilbao è chiaramente la capitale (finanziaria e industriale).
La città, circondata da colline verdi e attraversata da un fiume, mostra chiaramente di essere una sede adatta agli agi di quella piccola borghesia che ormai trionfa su tutto il pianeta e in particolare in Europa. Qui si dimenticano volentieri le contraddizioni che ci propina quotidianamente internet, le guerre, le favelas, i mucchi di garbage in cui frugano “i dannati della terra”. A Bilbao, con un portafoglio tutto sommato medio, si vive bene: vino eccellente, alta cucina nei numerosissimi pubs sparsi un po’ dovunque (fortissima l’influenza dell’epoca vittoriana inglese coi suoi cottages e le sue ville revivals nel porto affacciato sul Golfo di Biscaglia), donne fresche di parrucchiere, marciapiedi immensi, non un graffito, parchi senza un filo d’erba fuori posto dove pullulano panchine e sculture rigorosamente del bronzo più retorico comune in tutto il mondo, ecc.  Sarà un caso che il quarto Guggenheim sia stato localizzato qui?
Basta con le maligne analisi urbanistiche, qui sista bene e tutte le strade conducono a Roma, pardon, al museo (non un angolo che non ne faccia pubblicità, anche nel centro storico (dove qualche graffito, è la prima volta vi confesso, mi tira un po’ su). Tutte, compresa quella che attraversa il Ria sul ponte frutto dell’’inventiva di un Calatrava, forse il più leggero che mi sia stato dato di attraversare. Ma che ci sta a fare questo tocco di eleganza nerviana (onore a te, Pierluigi, padre e mentore dello spagnolo) accanto al mostro gheryano, uno sputo nel mare ondeggiante dei suoi contorti e un po’ ridicoli volumi?
Per essere espliciti una volta per tutte e spero chiari: l’architettura è chiamata, sempre, a proteggere la vita nelle sue forme più varie e, nel caso di un museo, quella dell’arte e delle memorie dello spirito inventivo dell’animale più curioso sulla faccia della terra. L’architettura è decisamente un mestiere difficile, proprio a causa del suo diretto coinvolgimento con il sociale; insomma deve essere anche pratica, alla portata di ogni più elementare bisogno e non solo quello di proteggerci dalla pioggia o dai terremoti. Nel caso di un edificio museale è chiamata a conservare ed esporre la memoria della punta di diamante dello spirito, l’arte, di cui essa stessa fa parte. Ma per riuscirci deve fare non uno bensì più passi indietro. La sua funzione è quella di dare spazio ai colleghi, coloro che dovranno occuparlo, sia pure momentaneamente. L’ha avuto ben chiaro uno come Zumthorn a Bregenz, dove ha progettato un museo che rappresenta uno splendido esempio nel contempo di modestia, funzionalità e bellezza minimale. “Reduced” direbbe Wiener (un connazionale dell’architetto americano che campeggia in una sala a piano terra del G., a commentare le splendide e un po’ eccessive spirali di un altro americano, Richard Serra che, come tutti loro, pensa alla grande, alla rinascimentale. Il conflitto moderno-postmoderno, è un’invenzione recente di menti incolte: alla faccia di Ghery, Borromini muove lo spazio inventato da Brunelleschi e Piero, perché la vita, comunque precaria e difficile, non perde il suo rapporto con la religiosità. La tensione spirituale che dovrebbe impegnare l’arte contemporanea è il corrispettivo laico della fede dei secoli di Monteverdi e Bach: è un fatto innegabile. Ma se l’americano s’è agitato forsennatamente nello spazio è solo per esprimere la propria singolarità, la propria originalità, impedendo in qualche modo di parteciparla ai colleghi che espongono nelle viscere di quello da lui esibito. E’ proprio una questione di misura, la stessa che distingue i pesantissimi orpelli del S. Nicola di Bilbao dal S. Carlino o il S. Ivo di Roma. Una misura che manca del tutto all’edificio progettato da Ghery. Basta un’occhiata a denunciarlo: il museo mette a disposizione dell’esposizione forse nemmeno un terzo dello spazio occupato dai suoi contorti volumi: qualsiasi fotografia lo rende evidente senza bisogno di ricorrere a piante e prospetti.  
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E qui chiudo con il tanto osannato edificio. Ma ancora una domanda: che ci fa Giovanni Anselmo lì dentro? Come ha potuto confrontarsi con l’americano? Come ne è uscito?
2°  Oltre l’orizzonte
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Se ho tirato in ballo Piero, Filippo e il Francesco d’un secolo dopo è perché questo connazionale contemporaneo ne conserva la memoria. E che altro deve fare un artista se non ridire quanto già affermato dai colleghi che lo hanno preceduto e ridirlo con parole comprensibili nel secolo in cui è vissuto? Magari aggiungendo qualcosa per cui non si possa più tornare indietro? Sì, perché Giovanni Anselmo è stato il poeta che, col suo pallino dell’energia fisica, ha fatto tramontare definitivamente i “valori plastici”, faticosamente tenuti in vita dall’arte del secolo scorso, e lo ha fatto con la semplicità di un Piero della Francesca e la fantasia spaziale di un Borromini. Non ci sarebbe altro da aggiungere per commentare la sua retrospettiva ospitata al secondo piano dell’immenso edificio di cui ho parlato nel post precedente e mi auguro che questo sia sufficente a convincere tutti gli artisti che oggi intendono ancora lavorare a muovere le chiappe per constatare de visu la verità di quanto ho affermato: c’è trippa per gatti, per tutti, ad esclusione di quelli floreali di quel zuzzerellone di un Koons (davanti all’ingresso del monstrum).
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Ma la mia fiducia nella perspicacia dei visitatori non pigri può ingannarmi e mi rimane il compito certamente difficile di argomentarre un po’ queste affermazioni, senza tradire quanto deve prima essere constatato coi propri occhi. Sono venuto apposta da Milano nella lussuosa Bilbao perché il lungo sodalizio spirituale avuto con il torinese lanciato da Germano Celant lo esigeva: una retrospettiva completa è ben più complessa da organizzare di una sia pur impeccabile mostra come quella recente dalla Lia Rumma a Milano. Il compito dei suoi curatori è stato arduo, non solo perché si è trattato di mettere in piedi 70 anni di attività dell’artista, ma anche di farlo in un luogo che, l' ho cercato di dimostrare, fa a pugni con chi ospita in generale, ma in particolare con l’opera di quest’artista.
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Ho parlato di semplicità, ma devo specificare esclusivamente visiva e suffragarlo con qualche esempio: non basta dire energia della sofficità, bisogna vederla coi propri occhi in azione attraverso un cespo d’insalata piuttosto che una spugna; non basta sentire la stretta di un panno strizzato, occorre verificarlo attraverso la resistenza della sua massa compatta; non basta dire tramonto, ma dispiegare l’evento attraverso una sequenza di quanto più banale si possa inquadrare in cornicette modeste in fila indiana; e ancora, non basta parlare di paesaggio grigio  verso oltremare, ma occorre metterlo in scena nella sua drammaticità pesante (i tempi sono questi, ahimé) e a ciò è sufficiente la posizione audace e la dimensione ridottissima di un rettangolo spatolato di colore denso.
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Tutto è tensione nella retrospettiva, anche quella dolce della capillarità o di un panno tirato in orizzontale. Dico solo che vale la pena di un viaggio di cinque ore per immergersi in questo mondo poetico proprio per la sua semplicità, per la sua elementarietà, oserei dire per il suo ottimismo. L’orizzonte oltre il quale Anselmo ci invita ad andare (“Beyond the horizon” il titolo della mostra) è di una semplicità sconcertante, di un naturalismo calmierante (tutti oggi parlano di ecologia, ma chi lo fa senza tradirla?) L’architettura di riferimento per lui è l’universo attraversato dal lieve magnetismo indicato dall’ago di una bussola immerso nella pietra più dura della terra: il granito. I massi incombenti retti da un assembramento di tele intelaiate (lo strumento principe dell’arte del passato - sottolineo passato) sono dinamica pura, senza ambiguità, al limite del banale.
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Castello di Rivoli: sulla sinistra il sunset, sulla destra la mano che lo indica
Nella retrospettiva gli esempi si sprecano e io ora non ho nessuna voglia di proseguire nell’elenco. Ho parlato di ottimismo, un atteggiamento che, insieme alla convinzione che l’energia non sia solo fisica ma anche psichica, accomuna Anselmo a un altro grande artista, il tedesco Joseph Beuys. E poi, a girare attorno al concetto, ma questa volta senza alcun ottimismo, dobbiamo annoverare il lavoro di un altro italiano, Fabio Mauri che, in apparente contrapposizione, afferma essere l’energia anche politica, nel senso più nobile della parola. Essa cioè deve fare i conti con la storia, quindi l’ideologia, pena il precipitare inesorabilmente nei disastri planetari che nulla hanno a che vedere con quelli naturali; ne sono prova addirittura due guerre mondiali con un paio di olocausti di mezzo. Ma questo è un discorso che impegna uno spazio ben più ampio.
Devo proseguire?
Due parole ancora sul rapporto di Anselmo con l’architettura, quest’ancilla delegata a ospitare il suo grande teatro. Il penchant per il naturalismo lo porta oltre, appunto: beyond. L’architettura è l’universo del cielo stellato, delle forze elementari come la peso o la magnetica (mi stupisce che non abbia mai fatto niente con l’elettrica o la cristallizzante (l’energia intuita da Euclide 2500 anni fa): l’architettura è un incidente di percorso, che sia un Guggenheim, un Rivoli o un Maxi, non importa: il concetto di energia è puro, è quello offertoci da una mano disegnata a punta d’argento su un grande foglio di carta spolvero; la storia che coinvolge l’architettura, la memoria che si porta pesantemente appresso, sono fatti contingenti.
E le stelle stanno a guardare,
 le stelle che lo hanno accolto circa due mesi fa.
FDL
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federicodeleonardis · 3 months
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Anselmo vive
Poco meno di un mese fa moriva Giovanni Anselmo e il fatto mi ha colto di sorpresa: la mostra a Milano di qualche mese prima (nella galleria di Lia Rumma, da me commentata su questo foglio in un articolo precedente) mi era sembrata l’espressione poetica di una persona nel pieno delle proprie energie, più che una summa del suo lavoro. Dopo averla visitata, pur sapendolo molto anziano (aveva 89 anni) ho constatato che non aveva perso la verve giovanile che ha sempre dimostrato.
Come ho detto a suo tempo, attraverso gli interventi su questo foglio e sul mio blog, considero le sue opere, per rigore esecutivo, inventiva e coerenza, tra le poche oggi in circolazione veramente uniche.
Non si è riflettuto abbastanza su quanto importante è stato ed è tuttora il messaggio particolare che lui ha lasciato a noi con quella che si può ancora definire autentica scultura. Le categorie nelle quali si è portati a dividere il visivo sono da tempo superate, ma la confusione dei generi e gli sconfinamenti che hanno introdotto nell’arte visiva nuovi modi d’espressione, pur fecondi, a un certo punto hanno dato la stura al dilagare di una superficialità di cui soffriamo ogni giorno le conseguenze.
Anselmo da più di mezzo secolo ha affermato e tenuto in evidenza, con tenacia e coerenza poetica, una verità importantissima, che purtroppo è passata inosservata ai più, anche alle persone che si sono dimostrate vicine ad altri aspetti del suo lavoro e del lavoro di suoi sodali più stretti. In parole molto semplici: da quando l’uomo ha lasciato gli alberi e percorre il pianeta in lungo e in largo ha instaurato un rapporto particolare con l’energia e prima di tutto con la massa, nella sua espressione più elementare e diretta che è il peso. Lo sa bene qualsiasi vecchio ma anche, per fare un paio di esempi, la casalinga con i sacchi della spesa o un comune manovale costretto a scaricare quotidianamente sacchi di cemento in betoniere.
L’energia è alla base della vita. E’ una banalità, ma spesso sono le evidenze più comuni a costituire l’importanza di un lavoro. Infatti è proprio la presenza costante dell’energia fisica illustrata in tutte le sue forme nelle sue opere a far tramontare i cosiddetti “valori plastici”. Ed era tempo.
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L’aver tenuto fermo il dato di cui ho parlato sopra fa del lavoro di Anselmo un punto di riferimento imprescindibile che va sottolineato e sostenuto. Penso che questo sia il suo legato principale e più duraturo. La fisicità elementare sempre presente nei suoi lavori li rende particolarmente chiari e pregnanti. La Mano che lo indica, anche trasversalmente, come era cinquant’anni fa alla galleria di Salvatore Ala a Milano, è il raffinatissimo segno della leggerezza poetica con la quale quest’artista ci ha liberato del grigio e pesantissimo paesaggio che incombe oltremare su tutti noi.
P.s.  A giorni nel celebre Museo di Bilbao si terrà un retrospettiva dell’artista.
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Installation view of "Grigi che si Alleggeriscono verso Oltremare" (Grays Lightening toward 'Oltremare') (1984) by Giovanni Anselmo in the exhibition "The Knot: Arte Povera at P.S. 1" (October 6–December 15, 1985). Ph moma.org. Sopra : Mano che indica (Hand indicating), 1981. Drawing on paper. Courtesy Archivio Giovanni Anselmo, Turin. Photo Paolo Mussat Sartor
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federicodeleonardis · 4 months
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Ravatti
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I social network mettono alla prova la spocchia dei dotti, dei vecchi. La mia, per esempio. L’unico dovere degli artisti, se per costoro si può parlare di obblighi, è quello di occupare ogni spazio a disposizione. Alla faccia di quelli tradizionali, ormai quasi tutti resi innocui da solerti operatori d’arte impegnati a disinnescare le mine vaganti che per cambiare un po’ le cose i veri artisti cercano di collocare dove possono.
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La storia dell’arte è sempre stata infarcita di compromessi e sotterfugi e il periodo in cui viviamo non fa eccezione quanto a disastri, invasioni barbariche e Guerre dei trent’anni, quindi mai perdersi d’animo. Hanno inventato i social e qualcuno meno spocchioso del sottoscritto li adotta con successo. Beh, non un successo paragonabile per quantità a quello degli influencer vari, diciamo meglio, un successo di coscienza e di coerenza spirituale.
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Cosa troviamo nella “stanza” di quest’artista oltre al suo ritratto?  E’ difficile specificare. Come in tutti i ravattumi che si rispettino (ravatti è ligure, ciarpame in italiano, res nullius dicitura giuridica aulica), anche in questo i sostantivi surclassano gli aggettivi: 3 f, fica, ferita e fetore (Kaurismaki e Federigo Tozzi), il coltello del macellaio accanto al bisturi del corniciaio (Courbet accanto a Velasquez), il foulard di Hermes sul materasso sfondato del barbone.
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“Ancora quasi naturale”? Nient’affatto: il mare consuma e mimetizza sulla battigia le sue vittime: a Viareggio quarant’anni fa non distinguevo dai ravatti della mareggiata recente un barbone sdraiato al sole e coperto da sacchetti di plastica colorati. In quest’ambiente metropolitano da cui Lotto è fuggito per la campagna, domina un sentimento, anzi un dis-gusto: l’horror vacui.
Scappo, mi rifugio nel mio Vuoto.
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FDL
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federicodeleonardis · 6 months
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Il monumentalismo di James Lee Byars
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Si ripropone oggi in uno spazio d’avanguardia una grande mostra dell’artista americano morto 25 anni fa. All’Hangar Bicocca il monumentalismo è d’obbligo e il suo lavoro si presta all’ambiente dominato dalle Sette Torri di Kiefer. Il suo successo giustifica la spesa per le installazioni presentate, la grande colonna coperta da lamine d’oro all’ingresso e l’enorme parete di tessuto di seta anch’essa color oro a metà del capannone: oro a fiumi nell’ex officina di “black tires”. Sono i tempi! Le altre, di dimensione solo un poco più modesta e sapientemente illuminate, sembrano il risultato di una lezione d’arte (e di lusso): corpi geometrici e fantasie un po’ orientaleggianti in vari materiali piazzati su tavoli o per terra, sistemati nell’ambiente a creare prospettive ottiche rigorose, insieme con interni di tende di un colore smaccatamente intenso a giocare con quello del pigmento principale di un corpo di seduta piazzato proprio davanti all’ingresso (ovviamente senza nessuno seduto sopra). La lezione si conclude qui.
Confesso: ho rispettato l’appuntamento perché in passato avevo visto tre opere di quest’autore che mi avevano convinto: due molto vecchie e una recente. La prima quasi quarant’anni fa a Kassel 4, la seconda all’ingresso del Castello di Rivoli, almeno 20, e la terza recentissima, in una chiesa di Venezia (quest’ultima da me già commentata in un post precedente). Purtroppo esco dall’Hangar deluso: avevo sopravvalutato quest’artista, forse influenzato dal fatto che era amico del grande Beuys. Se ne parlo è perché questa mostra mette in evidenza come il mercato, il grande mercato degli artisti di successo che perdono tensione creativa, gioca loro  brutti tiri: il monumentalismo gratuito, cioè non sorretto da ragioni spaziali (e per spazio intendo quello che ha una storia oltre che una fisicità incombente), stride col messaggio che mi sembrava evidente nelle opere citate prima. Forse la lancia nel grande ingresso settecentesco del castello torinese ha generato tutte le opere dell’Hangar, ma l’ovattazione della luce nel capannone milanese nasconde la sua storia e rende il monumentalismo fine a se stesso: grande fisicamente non significa grande esteticamente e non basta la sensibilità per il colore a giustificare l’impiego di tutto quell’oro. Se questo aveva un senso nella chiesa veneziana, perché le lamine non erano spiaccicate sulla superfice della “caverna platonica”, ma vibravano lievemente al moto dell’aria, commentando così quello che mi sembrava un autoepitaffio, nello spazio milanese diventano pura esibizione di colore. Ma che altro deve essere un’opera d’arte? Si certamente questo gioca il suo ruolo, ma per dire qualcosa sulla vita. E sulla morte, come mi sembrava evidente a Venezia.
E anche nella stanza di Kassel, resa praticamente accecante dal bianco assoluto con il quale era stata rivestita e illuminata. Una promessa non mantenuta di tabula rasa sul terrorismo dell’immagine.
FDL
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federicodeleonardis · 8 months
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Pistoletto impazza
                                                           Specchio, specchio delle mie brame
                                                           Chi è il più bello del reame?
                                                            Sei tu, sei tu Sansone
                                                           Il più bello del rione1
                                                                       Da Il Mistero buffo di Dario Fo
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Richard Serra: Spirale
Faccio fatica a prendere la cosa sul serio, c’è da non credere ai propri occhi, “un grande evento”: su Artribune scorrono le immagini del rogo della Grande Venere degli stracci di Napoli, in piazza del municipio davanti al Maschio Angioino, e poi sulla performance del Grande Autore alla stampa. Sansone ci spiega, magnanimo, che occorre un po’ di pietà nei confronti del miserabile barbone, in carcere perché ha appiccato fuoco alla sua gigantesca scultura. Un tempo, quando ancora non s’era bevuto il cervello (ma sapeva già comunque da che parte era imburrato il proprio panino), in formato ridotto l’aveva chiamata “dell’Arte Povera” (i compagni della rispettabilissima scuderia di cui faceva parte - staffiere Germano Celant- avevano mal digerito lo scippo d’un cotale titolo). Lungi da me i sospetti di orchestrazione dell’evento, del “rumore”, assicurato in tempi come questi, oltre che infernali per clima, funzionali a tutti i “gazzettieri” (Carmelo Bene). Ma, non bastavano la Mela di Piazza Diaz a Milano, la “Donna col mal di testa” a Firenze (Porta Romana), la miriade di Terzi paradisi con i quali ha cosparso mezza Italia (ma tutti con la furbata della tripla giravolta del simbolo (eh, si sa, occorre qualcosa di nuovo, una zampata di genio! Non mi chiamo Michelangelo?)?
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FDL Specchio Roma,Nuova Pesa, 1996
Per carità non facciamo paragoni, almeno questo! E’ da quel dì che Pistoletto ha subìto la metamorfosi. Qualcuno mi sollecita a essere serio, a trattare questa tragedia col rispetto dovuto a un artista che una volta aveva pur prodotto qualcosa di buono (che so, il lavoro per Arte all’Arte al Chiostro di Volterra, il mappamondo rimpicciolito di giornali, l’ultima sua mostra di grandi specchi da Sergio Casoli a Milano, gli autoritratti coi riflessi nelle bacinelle della Camera oscura, forse qualcos’altro che ora non ricordo); devo impegnarmi. Onore al merito, grande o piccino che sia (lo decideranno i posteri), ma le origini di cotale ubriacatura mentale sono già a metà della carriera. Gli specchi serigrafati con cui ha cosparso il cosiddetto Mondo dell’arte (che per la verità è molto piccolo e si specchia solo in se stesso) erano una genialata, titillavano il narcisismo di tutti (”ci siamo anche noi”, colleghi, amici, gente di potere ecc), una trovata popartistica anticipatrice del postmodern. L’arte, a partire dall’impressionismo, s’era buttata alle spalle la vecchia pratica della ritrattistica, che aveva dato da mangiare un po’ a tutti per almeno cinque secoli, ma ci sono voluti Warohl e Pistoletto a rimetterla in auge: quel Mondo non ne poteva più di cotanto rigore, Pollock, gli Action Painters e poi questi fracassoni di poveristi, per non parlare di tipi come Agnetti o Mauri!
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Richard Serra, Spirale a NY, 2001
E’ un fatto che la genialata era funzionale al mercato: troppa fatica mantenere la tensione della creazione e allora mettiamoci a scopiazzare in giro: gli stracci sono di Boltanski (altra levatura, altro spessore), le rotture (beh, lasciamo andare, siamo in tanti; per citarne solo uno: Mario Merz), la Venere stessa è pescata nell’armamentario del ben più serio Paolini. Devo proseguire? Per carità il furto deriva anche dall’ammirazione per un collega; chi non ruba, chi non ha mai rubato? Ma a guardar bene nessun furto serio riesce in pieno, per lo meno a chi non può dimenticare la propria originalità, la propria ossessione, la propria tensione. E’ il rispetto per il linguaggio a giustificalo, per l’arte. Che non appartiene a nessuno.
Ripescarlo oggi nella cloaca maxima del mercato è diventata un’impresa.
Sì, il discorso andrebbe approfondito, ma il rogo non lo merita.
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Richard Serra, Spirale, Biennale di Venezia
1 Sanità del, questo sì Grande, Edoardo De Filippo
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federicodeleonardis · 9 months
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Lisboa- Milano, guida all’ascolto del sassofono di Manuel Teles
Guida all’ascolto, titolo imbarrazzante per un amateur, un dilettante come il sottoscritto fabbricatore d’immagini, come si considera: con quale diritto occuparsi di introdurre i compositori scelti da Manuel Teles per regalarci alcune delle sue intepretazioni? Ma in arte non esistono confini, come non ne esistono nell’umana scatola cranica. Il miscmasc neuronico è appannaggio anche dei cretini come me, appassionati ascoltatori, ma anche convinti sostenitori che la specificità del linguaggio elettivo si alimenta comunque a trecentosessanta gradi, cioè attraverso tutti gli organi del contatto col mondo donatici da Domeneddio per esistere e soprattutto per comunicare: l’orecchio è fra questi; non ultimo.
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Pastorale Martesana di FDL, 2023
Guida all’ascolto, titolo imbarazzante per un amateur, un dilettante come il sottoscritto fabbricatore d’immagini, come si considera: con quale diritto occuparsi di introdurre i compositori scelti da Manuel Teles per regalarci alcune delle sue interpretazioni? Ma in arte non esistono confini, come non ne esistono nell’umana scatola cranica. Il miscmasc neuronico è appannaggio anche dei cretini come me, appassionati ascoltatori, ma anche convinti sostenitori che la specificità del linguaggio elettivo si alimenta comunque a trecentosessanta gradi, cioè attraverso tutti gli organi del contatto col mondo donatici da Domeneddio per esistere e soprattutto per comunicare: l’orecchio è fra questi; non ultimo.
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A tempo! di FDL
La Musica dei pezzi scelti da quest’esecutore nel Cd di cui sto facendo pubblicità (ohibò) è tutta dei nostri giorni, anche se alcuni dei compositori potrebbero essere benissimo padri o addirittura, come il sottoscritto, suoi nonni. E qui vorrei spezzare una lancia in favore della classicità: l’anagrafe in arte non mi interessa: ascolto Quella della Fuga esattamente come l’ultima composizione del non ancora quarantenne Vincenzo Parisi (E gridare…). Ridimensioniamo per favore il mito molto contemporaneo del contemporaneo: il contemporaneo ha come non ultimo compito quello di aiutarci oggi ad ascoltare Bach o Monteverdi attraverso tutti i grandi artisti 1 - compresi i visivi, sottolineo - che hanno lavorato dopo di loro; niente di meno. Ma cerchiamo di essere più specifici. Per esempio, ho ascoltato l’interpretazione di Tracce eseguita dal norvegese Nyström non molti anni fa e poi quella di Teles e ho avuto conferma della grande responsabilità che hanno gli interpreti nei confronti di un compositore, della loro libertà di manovra nell’eseguire uno stesso pezzo musicale. Nello specifico ho trovato il primo eccessivamente preoccupato della contemporaneità della composizione, di rendere cioè l’indiscusso penchant del giovane Francesconi nei confronti del Jazz, mentre nel secondo quest’amore arretra, per accogliere invece la sensibilità introdotta potentemente da Berio e presente poi in tutte le composizioni successive di quest’autore.
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Allora cosa è il contemporaneo per un amateur se non un nuovo modo, più allargato, più dotto e più colto di ascoltare un pezzo? Dell’anagrafe ce ne freghiamo, ci interessa semplicemente la costruzione, ambigua, sempre discussa, sempre rinnovabile e aperta di ciò che aspira a diventare classicità. Viktor Sklowskij diceva 2 che la cattedrale dell’arte è costruita con le pietre delle eresie artistiche. Vero, ma io sottolineo nel suo aforisma la parola Cattedrale.
Tirem innanz 3: sono onorato che Teles m’abbia incaricato di introdurre alcuni dei suoi pezzi di bravura al sassofono e non so se sono all’altezza del suo ascolto: ho registrato la presenza di un’ancia capace di passare improvvisamente, nella composizione di Bochmann (Essay XIII), dai toni dolci, atmosferici, a quelli “gridati” da un soffio potente e un uso dello strumento estremamente colto, quando, come ho detto prima, deve interpretare il primo Francesconi (Tracce è di quasi quarant’anni fa) alla luce delle sue composizioni successive. Per tornare al concetto di cultura dell’ascolto, l’epoca è chiaramente presente nella composizione del portoghese Bochmann (classe 1946), perché il clima della dittatura salazariana ha lasciato le sue impronte evidenti nella cupezza della prima parte del pezzo, cupezza che va progressivamente sciogliendosi nella seconda: l’arte, lo sappiamo, è soprattutto catarsi, se no che ci sta a fare? Il pezzo di Oliveira, più giovane del collega portoghese di quattro anni, sembra addirittura composto prima della tragedia della seconda Guerra mondiale e impegna l’interprete in un virtuosismo di pianissimi in accordo proprio allo spirito del Fado, ma ricco di sfumature che non si incontrano nel canto popolare. Sarebbe idiota cercare di sostituire con le parole ciò che la musica esprime direttamente con il timbro generato dall’ottone dello strumento, per esempio il suo modo di produrre il pizzicato degli archi con improvvisi stacchi ecc, presenti soprattutto, ma non solo, nei pezzi di Parisi e di Sciarrino.
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FDL in posa leonardesca dietro la sua Tagliatella
Non è da tutti passare dalle intemperanze del primo, molto attuali, molto postmoderne, all’evidente influenza nella musica di Francesconi di un compositore come Berio, sia in Tracce che in Notturno. E’ evidente il lungo esercizio necessario a rendere tutte le potenzialità di uno strumento. Si può apprezzare in pieno la gamma di sfumature possibili, dal colpo netto al sottilissimo fiato sussurrato nel tubo metallico, soprattutto nell’interpretazione dell’ultima delle composizioni: riusciamo a cogliere la sicilianità di Sciarrino, l’importanza dell’influenza del barocco nelle sue leggerissime invenzioni. Proprio quest’ultimo pezzo motiva l’invito che Teles mi ha fatto di partecipare attivamente alla messa in funzione del suo CD: se L’orologio non è descrittivo e molto visivo, mi ritiro in buon ordine, ma anche nella musica dei due portoghesi rappresentati (Bochmann e Oliveira) l’ambiente locale è evidente. E’ quasi superfluo ricordare quello in cui visse l’autore moderno più importante di tutto il Portogallo. Per suffragare il mio discorso iniziale sottolineo che si tratta di uno scrittore 4: la scatola cranica umana al suo interno non ha confini.
Ah, dimenticavo: Manuel Teles ha vent’anni (21, per la precisione e per il discorso sulla contemporaneità!)
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  1.        Ricordo che Cage e Scodanibbio sono autori, fra tanti, di splendidi d’après dai Madrigali di Monteverdi
2.       Ne La mossa del cavallo, 1923
3.      Per non dimenticare gli eroi: celebre frase in milanese pronunciata da Amatore Sciesa, costretto dagli austriaci, prima dell’impiccagione, a passare in manette davanti a casa sua perché si decidesse a denunciare i compagni cospiratori: “Passiamo oltre” (1848)
4.      Fernando Pessoa, alias Alberto Caeiro, alias Riccardo Reis, ecc, autore, sottolinea Oliveira nel suo pezzo, del Dessassosego
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federicodeleonardis · 10 months
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Antidesign
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FDL, quattro Alba e a sinistra Pasifae alla Duodial a Milano, 1985
 Design, a foreign word used in Italian with a single sense. The literal translation is a project but, with the uncritical genuflection towards the Anglo-Saxon language, in ours it has almost exclusively taken on a single specific meaning: a project aimed at the production of everyday objects. Antidesign, which I have used for some time, also has a single meaning: the production of objects "of use and of charm", as Pierre Restany suggested in the distant 80s.
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FDL, Flamenco (lampada da tavola, 2003) su Ballerina 1 (tavolo in acciaio di cantiere e vetro, 1970)
Anti-design has its ambitions and the main one is to minimize the enslavement of the people who contribute to the production of the above objects. By slavery I mean that which, for reasons of survival, forces millions of unfortunate people to keep up with mass production machines, from the simple ones for making a screw to the more complex ones called five-way pantographs or robotics (the new frontier of technology, which tends to eliminate the mechanical work of the unfortunate - but also workitself tout court): have you ever met them on the assembly lines of small and large industrial production companies? The immense sadness of these poorly paid young people is standard. In short, to return to ambition, if you can reduce the screws or eliminate them altogether (we have understood each other).
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FDL, Pasifae, tavolo da studio in quattro mezze pelli intere di vacca, 2011
Cutting it short: I'm interested in reducing slavery without affecting the volume of production: the first can be lessened by also entrusting the second to the consumer: if I'm able to make my own dining table, why buy one? But we are not so utopian and we take into account the old, the handicapped, “la casalinga (housewife) di Voghera” and the lazy because fatigue makes me a slave to execution. But maybe I'll get a taste for it! Of course, but I must have the tools, at least elementary if not complex, tools that are  produced by others, thus expanding the ranks of unfortunate non-robots. In short, anti-design brings with it a lot of contradictions, not to mention that humanity in the last 50 years has gone from 3 to 8 billion individuals who need tables and not utopian discourses
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FDL, Berenice, lampada in scarti di vetro pirex e scarti di rame, 1986
I do not make the preposterous claim to a solution to the arduous problem of slavery, not even in passing. Equipped with a minimum of dexterity, I stress minimum (my mother, since I wasn't studying, sent me to be a carpenter's apprentice in the eighth grade), however I suggest that you take into consideration that there is the concrete possibility of building your own objects of use (if not of charm) necessary to sit down at banquets, converse in the living room, perhaps sitting on an armchair, illuminate one's book with an abatjour or lamp of another type, place the same in a cheap bookcase, etc. I suggest, I don't impose. On the contrary, I follow up the suggestion with some practical advice that requires manual skills to a minimum, visual advice.
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FDL, Meridiana, tavolo da salotto in crosta di marmo Pario e legno di segheria,1987
Don't worry, there is no copyright (another contradiction, the use of the hated English): the suggestion can be followed by anyone without problems. But you have to know how to look: my objects, that is, those produced to furnish my home and that of a few admirers (too few to be a hero - quote from Carver) are very simple and can be copied by any housewife. Just have a little optimism.
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FDL, Vie minate, lampada in vetro e pietre, Ballerina e Pastorale, 1995
Of course you must like the suggestions, but the materials that I am attaching to the project (ohibò, design) are the cheapest and most common: no plastic, “ravaneto” marble, wood already used or recovered from any landfill, scrap iron from the forge, scrap glass from neon production etc. In short, a real trash can. But who doesn't have a trash can available?
FDL
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federicodeleonardis · 10 months
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L’antidesign
Design, parola straniera usata in italiano con un unico senso. La traduzione letterale è progetto ma, con la genuflessione acritica nei confronti della lingua anglosassone, nella nostra ha assunto quasi esclusivamente un solo significato specifico: progetto finalizzato alla produzione di oggetti d’uso. Antidesign, da me usato da tempo, ha anch’esso un unico senso: la produzione di oggetti “d’uso e d’incanto”, come suggeriva Pierre Restany nei lontani anni 80.
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FDL, Aracne, poltroncina 1987, legno e rete
L’antidesign ha le sue velleità e la principale è quella di ridurre al minimo la schiavitù delle persone che concorrono alla produzione degli oggetti di cui sopra. Per schiavitù intendo quella che per ragioni di pagnotta costringe milioni di malcapitati a star dietro a macchine di produzione di serie, da quelle semplici per fare una vite a quelle più complesse chiamate pantografi a cinque vie o robotiche (la nuova frontiera della tecnica, che tende a eliminare il lavoro meccanico dei malcapitati - ma anche il lavoro tout court): li avete mai incontrati alle catene di montaggio delle piccole e grandi aziende della produzione industriale? L’immensa tristezza di questi giovani malpagati è di casa. Insomma per tornare alla velleità, se puoi riduci le viti o eliminale del tutto (ci siamo intesi).
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FDL, Ballerina, Tavolo da pranzo in tubi e vetro, 1977
Tagliando corto: mi interessa ridurre la schiavitù senza intaccare il volume della produzione: la prima è ridimensionabile affidando la seconda anche al consumatore: se sono in grado di fare il mio tavolo da pranzo, perché acquistarne uno? Ma non siamo così utopici e teniamo conto dei vecchi, degli andicappati, delle casalinghe di Voghera e dei pigri perché la fatica rende me schiavo dell’esecuzione. Magari però ci prendo gusto a menar le mani! Certo, ma devo avere gli strumenti, almeno elementari se non complessi, strumenti che producono altri, allargando così la schiera dei malcapitati non robotici. Insomma l’antidesign si porta dietro un sacco di contraddizioni, senza contare che l’umanità negli ultimi 50 anni è passata da 3 a 8 miliardi di individui che hanno bisogno di tavoli e non di discorsi utopici.
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FDL, Orma, tavolino da salotto in scarti di forgeria e vetro, 1987
Io non ho l’assurda pretesa di una soluzione all’arduo problema della schiavitù, neanche di sfuggita. Dotato di un minimo di manualità, sottolineo minimo (mia madre, visto che non studiavo, in terza media mi mandò a fare l’apprendista d’un falegname), suggerisco però di prendere in considerazione che esiste la concreta possibilità di costruirsi i propri oggetti d’uso (se non d’incanto) necessari a sedersi in convivio, conversare in salotto, magari seduti su una poltroncina, illuminare il proprio libro con un’abatjour o lampada d’altro tipo, riporre lo stesso in una libreria economica ecc. Suggerisco, non impongo. Anzi faccio seguire il suggerimento da alcuni consigli pratici che impegnano al minimo le abilità manuali, consigli visivi.
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FDL, Pasifae, Tavolo di sole 4 pelli di 1/2 vacca intere, 1986
Tranquilli, non c’è nessun copyright (altra contraddizione, l’uso dell’odiato inglese): il suggerimento può essere seguito da chiunque senza problemi. Però bisogna saper guardare: i miei oggetti, cioè quelli prodotti per arredare casa mia e quella di pochi ammiratori (troppo pochi per fare l’eroe – citazione da Carver) sono molto semplici e copiabili da qualsiasi casalinga. Basta avere un minimo di ottimismo.
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FDL, Libra, libreria in assi di scarto di cantiere e tubi Innocenti, 1975
Naturalmente devono piacere i suggerimenti, ma il materiale che allego al progetto (ohibò, design) sono dei più economici e dei più comuni: niente plastica, marmo di ravaneto, legno già usato o recuperato in qualsiasi discarica, ferro di scarto di forgeria, residui della produzione di neon ecc. Insomma una vera pattumiera. Ma chi non ha una pattumiera disponibile?
FDL
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FDL, Cinderella, lampada ozonizzatrice in solo vetro e scarti di neon, 1990
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federicodeleonardis · 10 months
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FDL, Alba (Stelle nere), 1985, Statuario di ravaneto di Carrara
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federicodeleonardis · 10 months
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Bill Viola at Milan’s Palazzo Reale
It is challenging to exercise one's polemical verve with a "great artist" (according to the definition of the exhibition's authors), because great is an adjective that is always debatable: great is Pontormo, great perhaps are, in BV's favorite subjects, de Hooch, ter Borch, certainly Vermeer and Rembrandt, and, in the exercise of their exclusive tool, Beuys, Warhol, Bela Tarr and certainly Carmelo Bene. But I didn’t mentioned the Dutch and Pontormo randomly, because the deference paid to them by BV is explicit (see the captions) as well as indubitable at a glance. And this makes the exhibition at Palazzo Reale perfect and its author, if not great, at least, very good. In fact, one of the indispensable tasks of an artist, of any self-respecting artist, is precisely to help look at art with new eyes, to revive it, to protect it from the multitude of idiots bombarding it from all sides. But there’s more: a skillful and undoubtedly very bold use of the favored medium: large-format video. Meanwhile, there is a characteristic that has been evident since his first works appeared on the scene (I’m thinking of the famous dive shot in slow motion and up close, exhibited at the Venice Biennale many years ago): I am talking about the slowness, the potential of slow motion, pushed to the extreme by new digital technologies.
I didn’t mention the Hungarian film-maker and the famous fathers of video, Warhol and Beuys, randomly: they not only preceded him in the use of slowness and the fixed frame (if you think about Chelsea Girls, 24Hours, the stillness of the German artist seated impassible in the foreground for 15 minutes) but also revealed the dysfunctions of Cinema through their works It is certainly a merit the fact that BV takes advantage of today’s last technical possibilities and means to improve his creations. Every artist should.
Then what leaves me unsatisfied?
Modern-day art shows a dangerous weakness precisely in its uncritical kneeling to last new technologies. BV rightly decides to pursue those obsessions that make up human spirituality, those that make us different from animals, such as the concept of life, birth, decay, death, the unexpected event, the act of praying, but at the same time and to his discredit he minimizes the contact with matter (in physical terms) (in this case, water and fire) to a merely digital expression. Is this the result of the limitation imposed by the digital means? Imperfection, vulgarity, the human evilness (so clear in an artist as Bela Tar); the love for detail, the beauty of dirtiness, so evident in Pelešjan’s work and, with a more than justified excess, in Carmelo Bene; the barochism, so important in the European culture from Borromini onward (toward which artists like Carmelo Bene and Beuys show great attention); all these things are completely absent in his work. Everything is perfect, the “painting” accurately portraits the memory of Visual Arts. Nevertheless, however unfair I may sound towards a very meaningful and communicative work such as BV’s, I would summarize with a Rococo line: "Perdrix, perdrix, toujours perdrix! Un peu de merde [s’il vous plait]” (my contribution to Louis XIV’s quote).
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Bill Viola, Catherine’s Room, 2001 Color video polyptych on five LCD flat panel displays mounted on wall, 38x246x5,7 cm 18:39 minutes Performer: Weba Garretson Photo: Kira Perov © Bill Viola Studio
Bill Viola a Palazzo Reale di Milano 
E’ impegnativo esercitare la propria verve polemica con un “ grande artista” (secondo la definizione degli autori della mostra), perché grande è un aggettivo sempre discutibile: grande è Pontormo, grandi forse lo sono, nei soggetti prediletti da BV, de Hooch, ter Borch, certamente Vermeer e Rembrandt e, nell’esercizio del suo strumento esclusivo, lo sono Beuys, Warhol, Bela Tarr e certamente Carmelo Bene. Ma non ho citato gli olandesi e Pontormo a caso, perché l’ossequio tributato a costoro da BV è esplicito (v didascalie ) oltre che indubbio a colpo d’occhio. E questo rende la mostra a Palazzo Reale perfetta e il suo autore, se non grande, almeno bravo, molto bravo. Infatti uno dei compiti imprescindibili di un artista, di qualsiasi artista che si rispetti, è proprio quello di aiutare a guardare l’arte con occhi nuovi, a farla rivivere, a proteggerla dalla marea di cretini che la assediano da tutte le parti. Ma c’è di più: un uso sapiente e senza dubbio molto audace del mezzo prediletto: il video a grande formato. Intanto c’è da sottolineare una caratteristica evidente fin dalle sue prime opere comparse sulla scena (sto pensando al famoso tuffo ripreso al rallentatore e da vicino, esposto alla Biennale di Venezia molti anni fa): parlo della lentezza, delle potenzialità del rallenty, spinto all’estremo dalle nuove tecnologie digitali. Ma non ho citato a caso nemmeno l’ungherese e i famosi padri del video, Warhol e Beuys, non tanto perché lo hanno preceduto nell’uso della lentezza e del quadro fisso (si pensi per es. a Chelsea Girls,  a 24Hours, all’immobilità del tedesco dietro la camera che lo riprende seduto in primo piano), perché le deficenze del cinema, anche quello d’autore, diventano scoperte proprio in virtù del lavoro di costoro. Che BV ne tenga conto usando le potenzialità del mezzo odierno è titolo di merito: un artista ha il dovere preciso di sfruttare al meglio i propri mezzi. E lui lo fa.Cosa mi lascia insoddisfatto allora?L’arte dei nostri giorni mostra una debolezza pericolosa proprio nella genuflessione acritica alla tecnologia d’avanguardia. BV decide giustamente di percorrere le ossessioni che producono la spiritualità umana, quelle che lo differenziano dalla bestia, la vita, la nascita, la decadenza, la morte, l’evento imprevisto, la preghiera, ma assoggetta il contatto con la materia, in questo caso l’acqua e il fuoco, al solo mezzo digitale. E’ il limite della scelta del mezzo? La sbavatura, la volgarità, la cattiveria umana (così pregnanti in un artista come Bela Tar), l’amore del particolare, la bellezza della sporcizia, evidenti nell’opera di Pelešjan e, con un eccesso più che giustificato, in Carmelo Bene, il barocchismo, così importante nella cultura europea da Borromini in poi (verso il quale artisti come appunto Carmelo Bene e Beuys mostrano grande sensibilità) sono in lui completamente assenti. Tutto è perfettissimo, il quadro sposa la memoria dell’arte, però se non passassi per eccessivamente ingiusto nei confronti di un lavoro che fa riflettere, sintetizzerei con una battuta, datata appunto rococò: “Perdrix, perdrix, toujours perdrix! Un peu de merde” (SVP, aggiungo io a Louis XIV).   
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federicodeleonardis · 11 months
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Ann Veronica Janssens at Hangar Bicocca in Milan
How nice to be an artist! How nice, with a space available like the Hangar, and not just the space, also the organization, the money to do what you want. Everything is conceived on a grand scale, walls are assembled, spaces closed, lights of all types, screens of the size you want, jets of steam, sounds;  you can go up to twenty and more meters in height to hang your fantasies, like sprinkling the floor with whatever you like. Even Melotti, at the entrance, the shy, minute, imaginative sculptor of the delicacy of welded brass wire, the introducer of music into visual art, even he at the Hangar indulges in the monumental (the long pillars of corten , they are not all erect, three or four have fallen forward. But not by chance: as if they have fallen into the well-kept grass of the garden, to allow the spotlights to have their effect – but I allow myself the suspicion: it will really be all his or his drawing translated into a gigantic ad usum delphini?
How nice to be an artist at the Hangar! Do I emerge enriched?
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Well, nothing new under the sun, under its eclipse, under the sea that reflects the moon, in the artificial fog that obscures the football match at the stadium. Nothing new under the immense wall overloaded, but neatly, with B&W photos of the same size: that’s life, man! They are life, the line of cars passing in the monotony of a highway, the pebbles rounded by the sea and scattered on the floor are life. Even the sense of great solitude of the interstellar spaces, the telescopic penetration into the swarm of stars of the Galaxy, the moon crossed by our clouds; bright jokes on TV screens are life. It takes work to put everything together with perfection and cleanliness in order to enjoy them all next to each other,  that is great professionalism: hats off to you, teacher!
I repeat, nothing new. But perhaps precisely for this reason and for this cleanliness, this purity, beauty, far from the decomposition and daily crap that today’s life dispenses us in spades; if we have a moment to stop and contemplate, if life allows us to “disconnect”,  to overcome the obsession of having to think about the daily loaf of bread, of human wickedness and cunning, when for a moment you are allowed to forget death (is it possible ?) .
Everything is very clean, even the beam on the ground, all shiny and of course also the glass and mirrors scattered everywhere to reflect the dark charm of the ancient Pirelli. There is no doubt that the lady has visual sensitivity to sell, just think of the large crepe, pleated panel hanging high up in front of the natural side lights, the curtains that filter the light in front of the garden entrances, the small prisms placed on the glass: the dimensional play between the mammoth and the crystal is the bread of any self-respecting work and those of Ann Veronica is self respecting. There is no filling, we are not overwhelmed, everything is calibrated and studied to the millimetre, the space is not cluttered.
It’s a lot today. A.V. he even manages to overcome certain Turrell-like effects, to play with emptiness even better than the first Kapoor; in one work, one of the best, the influence of Beuys can even be felt: on a large screen an old man (archistar Oscar Niemayer) smokes a toscanello on a loop in front of his library, he is austere, meditative (thinking of death? It is probable, he’s very old and doesn’t give a damn about anything). But no plagiarism: the whole is authentically by Janssens, its measure, its cleanliness, its visual balance are rare.
Very good.  And what about the novelty that every artist owes to  their audience? The era is distracted, stupid, full of itself and ignorant: it must be re-educated to look, to stop in front of the immensity of the universe; this serves as a lesson to it: the most cruel and intelligent beast on earth perhaps drops its crest. It is a lot, I agree, and it justifies the wealth of spaces and means made available: one of the cleanest and most spectacular exhibitions in the Hangar. Let’s give credit where credit is due.
But the hangar? The sound of the old presses of the ancient workshop, the noise of the bridge cranes, of the blow torches, of the trolleys transporting everyone’s intimate clothes accumulated by Boltanski not many years ago? Where did they end up in the darkness of the sheds masked by impeccable paint? Where is the work, where are the traces of dirt, of the sludge on the hands that such work gives us every sacred day? Where has the memory gone? In counterpoint the towers of Kiefer swayed precariously and in the air of the immense steel trusses the aerial seeds of the poplars had penetrated to recall the nature of the spermatic, vegetal, philo-anemonic, light, casual, unexpected, white, luminous pollution.
I’ll go look for them outside. But before leaving, I passed into a small 2×2 room: a single small photo of a wood inside a simple simple frame, with a pencil scrawl next to it, not even a question mark. Beautiful, authentic: poetry passed through it. I started, its shiver shook me: art doesn’t need large spaces, theaters of entertainment, it must also be in the most insignificant and miserable corners: it is the fruit of a moment, it does not belong to you, it belongs to no one.
Art, he said, is part of private history long before it is part of the history of art proper, art, he said, is private history… and the matrix of private history is secret history (Roberto Bolaño)
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federicodeleonardis · 11 months
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Una lettera sul Pitocchetto
Caro Piero 1, ho visto: Lotto, Palma il vecchio, Cariani, Savoldo, Romanino, Morone, Moretto e poi ancora Fra Galgario, Piazzetta, 
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e perché no, Baschenis, Bettera ecc. tutti operativi nei due secoli d’oro della pittura Bergamasca e Bresciana (che allora però era sotto Venezia).
Perché no il Ceruti? No, non il Gino di Gaber, che “lo chiamavan drago”; Ceruti Giacomo soprannominato il Pitocchetto (Milano 1698- 1767), quello di Miseria e Nobiltà. No, non la commedia del grande Eduardo napoletano, quella del Museo di S. Giulia nella Brescia Capitale della Cultura dell’anno del Signore 2023 appena cominciato e bisognerà pure precipitarsi a Bergamo, associata  per la grande occasione!
Perché no il Pitocchetto? A parte un paio di nature morte decenti della cucina bresciana (polenta e usei + graspa da raspi di Franciacorta filtrata nel cappello del montanaro, ah indelebile ricordo dell’amico ospite egregio negli anni ’60 / ‘61), pura fotografia, pura documentazione realistica della faccia di popolani e di signori. Sì, anche di quelle dei poveracci. Si occupa uno spazio un po’ negletto (ma l’idea non fu solo sua, è un po’ nell’aria spagnola-asburgo-veneta, e anche del grandissimo Velasquez) e si soddisfa una clientela con senso di colpa. E cosi il ritratto di chi ti dà del pitocco, perché non ce la fa a comprartelo,finisce nella sala da pranzo con camino fumante, insieme con la granseola appena arrivata da Venessia: Toh, l’è propio l’ciabatin, l’è lu!
La somiglianza non è facile a cogliersi! Allora perché no il Pitocchetto?
Perché l’arte non è solo mestiere, non imita la realtà, è invenzione. Per rendere la somiglianza poi di mestiere ne basta poco e ammesso e non concesso che ci sia, l’arte non è solo la toppa nel vestito, lo straccio, il cappello sfondato. La realtà, tutta la realtà è transeunte: una teoria di facce scomparse, nobili e poveraccie. Cosa crei a imitare la realtà ? l’arte è luce, tocco, sorpresa; è oltre la realtà. Al massimo, se ci riesce, consolazione per la morte. Qui casca l’asino, mentre il colore meravigliato nell’occhio di Fra Galgario è invenzione, aggiunta a qualcosa che non c’era, irrealtà. Perfino il parruccone in grigio matita del von austriaco (non mi ricordo più come si chiama) è luce autentica, sensibilità delicata dell’occhio del Piazzetta, lì nella stessa sala!
Ma allora perché tanto casino, tanto rumore (“Un grandissimo pittore” gli organizzatori) per questo produttore in serie di scatti fotografici su stracci ineccepibili? Ma è logico: è la democrazia! W il ritratto dei poveri migranti, quelli scampati alle carestie con la polenta delle americhe spagnole o ai naufragi nel Canale di Sicilia (7.3.23): mettiamoglieli in casa a sti borghesi arricchiti! Hai visto come siamo democratici? oggi come ieri e senza bisogno della cura suprema dell’atmosfera, alla Chardin, o più modesta, alla Baschenis (bergamasco con liuto cremonese). Oggi come ieri, perché anche oggi siamo furbi e sappiamo sfruttare le mode, le orde di piccoli schiavi della burrrocrazia (non è un lapsus) a caccia di patenti intellettuali, intruppati dietro le guide museali, biglietto 28 Euri sonanti (14 Museo di Villa Giulia + 14 Martinengo) per un centinaio, dicesi almeno cento, fotografie antelitteram, come quelle dei telefonini odierni alla portata di tutti i cretini, anzi soprattutto di genere femminile, cretine: è così bello apparire con la propria coiffure nel selfie davanti al Pitocchetto della Capitale della cultura!
Bah, che nausea, caro Piero! Perché ho scelto quel mestiere? Che nausea la realtà, i telefonini, le mostre di fotografia, la democrazia, il Pop. Sfoglio un contemporaneo del pitocco, niente popò di meno che Denis Diderot: “l’imagination ne crée rien, elle imite, pour creer il faut avoir de l’exprit critique” (1750 o giù di lì e Oscar Wilde 1880, citato da Carmelo Bene 2002). W la tabula rasa (3)  
1  ½ Botta, che mi ha consigliato la mostra.
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Ann Veronica Janssens all’Hangar Bicocca di Milano
Che bello fare l’artista! Che bello, con uno spazio a disposizione come l’Hangar, e non solo lo spazio, anche l’organizzazione, i soldi per fare quello che vuoi. Tutto è concepito in grande, si montano pareti, spazi chiusi, luminarie di tutti i tipi, schermi della dimensione che ti pare, getti di vapore, suoni; puoi salire a venti e passa metri d’altezza ad appendere le tue fantasie, come cospargere il pavimento di quanto ti pare. Perfino Melotti, all’ingresso, il timido, il minuto, fantasioso scultore della delicatezza del filo d’ottone saldato, l’introduttore della musica nell’arte visiva, perfino lui all’Hangar s’abbandona al monumentale (le lunghe strisce di cortens non stanno tutte ritte, tre o quattro son cadute in avanti. Ma non per caso: come cadute nell’erba curata del giardino, per permettere ai fari dell’illuminazione di avere il loro effetto – ma io mi permetto il sospetto: sarà veramente tutto suo o un suo disegno tradotto gigante ad usum delphini?)
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Che bello fare l’artista all’Hangar! Ne esco arricchito?
Beh, niente di nuovo sotto il sole, sotto  la sua eclissi, sotto il mare che riflette la luna, nella nebbia artificiale che impedisce lo spettacolo della partita di calcio allo stadio. Niente di nuovo sotto l’immensa parete stracarica, ma ordinatamente, di foto in BN della stessa dimensione: è la vita, amico! Sono la vita, la fila di macchine trascorrenti nella monotonia di un’autostrada, sono la vita i ciottoli arrotondati dal mare e sparsi sul pavimento. Perfino il senso di grande solitudine degli spazi interstellari, la penetrazione telescopica nello sciame di stelle della Galassia, la luna attraversata dalle nostre nuvole; gli scherzi luminosi sugli schermi televisivi sono la vita. C’è del lavoro a mettere insieme tutto ciò con la perfezione e la pulizia che li fa godere tutti uno accanto all’altro, c’è grande professionalità: tanto di cappello, maestra!
Ripeto, niente di nuovo. Ma forse proprio perciò e per questa pulizia, questa purezza, bello, lontano dalla decomposizione e dalla merdanzia quotidiana che la vita odierna ci dispensa a iosa; se abbiamo un attimo per fermarci a contemplare, se la vita ci consente di “staccare”, di vincere l’ossessione di dover pensare alla pagnotta, alla cattiveria e furbizia umane, quando per un attimo ti è consentito di dimenticare la morte (è possibile?) Tutto molto pulito, perfino la putrella a terra, tutto lucido e naturalmente anche i vetri e gli specchi sparsi un po’ dovunque a riflettere il fascino buio dell’antica Pirelli. Che la signora abbia sensibilità visiva da vendere nessun dubbio, basta pensare al grande pannello tutto crespato, appeso in alto di fronte alle luci naturali laterali, alle cortine che la filtrano davanti agli ingressi sul giardino, ai piccoli prismi piazzati sui vetri: il gioco dimensionale  fra il mastodontico e il cristallo è il pane di ogni opera che si rispetti e quelle di Ann  Veronica si rispettano. Non c’è riempimento, non siamo sopraffatti, tutto è calibrato e studiato al millimetro, lo spazio non è ingombrato.
E’ molto oggi. A.V. riesce addirittura a superare certi effetti alla Turrell, a giocare col vuoto meglio anche del primo Kapoor; in un lavoro, uno dei migliori, si sente addirittura l’influenza di Beuys: in un grande schermo un vecchio (l’archistar Oscar Niemayer) fuma il toscanello in loop davanti alla sua biblioteca, è austero, meditativo (pensa alla morte? è probabile, è molto vecchio e se ne sbatte di tutto). Ma nessun plagio: l’insieme è autenticamente della Janssens, la sua misura, la sua pulizia, il suo equilibrio visivo sono rari.
Benissimo. E la novità, quella che ogni artista deve al suo pubblico? L’epoca è distratta, stupida, piena di sé e ignorante: va rieducata a guardare, a fermarsi di fronte all’immensità dell’universo; questa gli serve da lezione: la bestia più crudele e più intelligente della terra forse cala la cresta. E’ molto, d’accordo, e giustifica la ricchezza degli spazi e dei mezzi messi a disposizione: una delle mostre più pulite e spettacolari dell’Hangar. Onore al merito.
Ma l’hangar? il suono delle vecchie presse dell’antica officina, il rumore dei carroponti, delle fiamme ossidriche, dei carrelli trasportatori  dei panni intimi di tutti accumulati  da Boltanski non molti anni fa? Dove sono finiti nel buio dei capannoni mascherati da una pittura impeccabile? Dove il lavoro, dove le tracce dello sporco, della morchia sulle mani che il lavoro ci procura tutti i sacrosanti giorni? Dove è finita la memoria?  In contrappunto le torri di Kiefer ondeggiavano precarie e nell’aria delle immense capriate d’acciaio  i semi aerei dei pioppi erano penetrati a ricordare la natura della polluzione spermatica, vegetale, filoanemonica, leggera, casuale, imprevista, bianca, luminosa.
Vado a cercarla fuori. Ma prima dell’uscita sono passato in una stanzetta 2x2: un’unica piccola foto di un bosco con accanto, dentro una cornice semplice semplice, uno sgorbio a matita, neanche un punto interrogativo. Bellissimo, autentico: la poesia è passata di lì. Ho trasalito, il suo brivido mi ha scosso: l’arte non ha bisogno di grandi spazi, di teatri dello spettacolo, deve essere anche negli angoli più insignificanti e miserabili: è frutto di un attimo, non ti appartiene, non appartiene a nessuno.
L’arte, disse, è parte della storia privata molto prima che della storia dell’arte propriamente detta, l’arte, disse, è la storia privata… e la matrice della storia privata è la storia segreta (Roberto Bolaño)
FDL
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Il Numinoso: un D,io laico a Milano
                                             Non è il sangue che ci unisce, ma un  sangue                                                        ben più tenace: il gusto
                                                    Autore ignoto citato su una bustina di zucchero
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 Una collettiva molto numerosa alla Building e a S. Celso, ma rara nella sua pulizia: poche le incoerenze, se mai qualche forzatura al tema, ma non stonano, non stravolgono il disegno del curatore. Non è facile oggi costruire qualcosa di coerente, quando la permissività e il mercato hanno sdoganato un sacco di tendenze e in cui si espone tutto e il contrario di tutto. E’ una mostra colta: Verzotti è andato a pescare opere del passato (opere laiche) che suggeriscono proprio il titolo: penso al feltro di Agnetti, all’uovo di Manzoni, al D’io di De Dominicis e all’Ecce Homo di Salvadori.
E’ antipatico mettersi a dare pagelle a ognuno degli invitati. Le opere esposte  appartengono un po’ a tutte le epoche del contemporaneo, da quella degli artisti nominati a quella dei giovani che hanno solo quarantanni. Come ogni collettiva numerosa, ma questa anche per lo sviluppo temporale dell’arte invitata, è la mostra del curatore.
La pulizia: la distribuzione dei lavori nello spazio a disposizione, lo sfruttamento discreto delle potenzialità offerte dall’architettura della galleria, piena di anfratti defilati, uno sviluppo su tre piani, l’affaccio a un cortile e una vetrina su strada e il tutto senza ombra di ingombro: nessuno degli artisti invitati pesta i piedi al compagno e in certi casi con la propria opera facilita le lettura del vicino. Che altro aggiungere che non sembri piaggeria? Il mio foglio esige considerazioni critiche.
Credo che una collettiva debba reggersi su due qualità essenziali: la prima è la coerenza e di questa abbiamo già detto, la seconda è l’evidenza di una linea. Nei due spazi l’essere tutte le opere indicative di un rapporto con la divinità sia pure laica mi sembra giustificato solo dalla particolare sensibilità del curatore (il che è perfettamente lecito, intendiamoci, visto che è la sua mostra), ma cosa non è numinoso nel mondo dell’arte?  Il Surrealismo, che ha inaugurato il “discorso”, con buona pace del grande e assente Fabro (avrebbe ben potuto esserci qualcosa di suo!) non sembra ancora tramontato. Mi concentro solo sulla scelta del tema e volevo chiedere a Verzotti: oggi non è più possibile indicare una linea che non sia stata sdoganata da quel movimento? Oppure l’apertura a largo raggio, in cui il postmoderno ha creduto di trovare la propria giustificazione, ha reso obsoleta qualsiasi linea? E’ vero, le linee, i movimenti non sono più di moda, hanno fatto il loro tempo ma, per essere anch’io Numinoso, “Sic transit gloria mundi”. Mi permetto di ricordare che l’idea (anche qui con buona pace di un altro grande assente, Fabio Mauri) non significa ideologia.
Voglio suggerirgli un nuovo titolo: Less is more. Con un’epigrafe opposta a quella che mi sono permesso di apporre al suo: L’artista non ha gusto, lo crea (Wittgenstein).
FDL
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Tabula Rasa 2: Giovanni Anselmo
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The audacity but at the same time the measure of the one who has occupied the space that has been offered to him without cluttering (Gallery Lia Rumma in Milan) speak immediately. A work of impeccable coherence and clarity: those who do not see are simply blind.
Giovanni Anselmo, class of ’34, still has a lot to teach: the opus in the center of the room on the second floor, from 1968, is of the same nature as his famous “Salad”, but Cotton tastes of Covid 2019/22: Time plays in the present by forcing the guest to feed the vase daily; and also plays on a sort of eternity: in the photographic images on the ground floor, in which the sun slowly sets over the sad Po plain itself.
And then he plays at the moment of catastrophe: in the apparent precariousness (but what is art if not appearance and precariousness?) of many of the works present, that of the 300 kg of granites metaphorically hung on painter’s canvases, in the tension present under the tip of the slab towards “Oltremare” or under the lopsided bas-reliefs over the observer, always on the ground floor. Not all of Anselmo’s works are at the Lia Rumma, however what is there demands maximum attention (as in the “Acrylics” superimposed on the squared blocks of granite on the wall of the intermediate floor).
Enough with the description, if you can, don’t miss it: such cleanliness is rare today. I only felt one absence: that of his “Hand that indicates” the variegated abstract and vaguely metaphorical landscape of the present. What is missing? Maybe the people, the people? But who cares, the people are oxen, art is elitist, dear Beuys, not out of pocket, but of antidotes against suffering; and then people don’t give a shit about cleanliness and rigor, they want to ignore death, they believe in the “casino”, in performances to the rhythm of rock.
Perhaps the sense of the weight of life? But here, without rhetoric, without indulging in romanticisms, there’s a lot of bullshit: it’s the physical effort of pulling up sacks and sacks of cement every day to put in the cement mixers. It is the real danger under the tip towards the sea of a small rectangle of blue applied with a spatula. It is the sense of solitude of a sad plain or of a firmament made of stars within easy reach, parallelepipeds brought to light. Dreamlike substitution, displacement, but with the language of sculpture. Euclid is alive and bursts with energy from every pore, it is what has always distinguished sculpture from simply plastic values.
Yes, to really want to be oneself, I’m missing something: the void filled by my imagination, indeed not only mine, collective, and emptiness not only mental, but physical, present. A fundamental step backwards: this is the maximum of cleanliness, time and energy.
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 L’audacia ma nello stesso tempo la misura di colui che ha occupato senza ingombrarlo lo spazio che gli è stato offerto ( Galleria Lia Rumma a Milano) parlano da subito. Un lavoro di una coerenza e di una chiarezza ineccepibili: chi non vede è semplicemente cieco.  Giovanni Anselmo, classe ’34, ha ancora da insegnare molto: l’opera al  centro della sala al secondo piano, del 1968, è della stessa natura della sua famosa “Insalata”, ma il Cotone sa di Covid 2019/22:  il Tempo gioca nel presente costringendo l’ospite ad alimentare il vaso quotidianamente; e gioca anche su una sorta di eternità: nelle immagini fotografiche del piano terra, in cui il sole cala lentamente sulla stessa tristissima pianura padana. E poi gioca all’attimo della catastrofe: nella precarietà apparente (ma cos’è l’arte se non apparenza e precarietà?) di molte delle opere presenti, quella dei 300 kg dei graniti appesi metaforicamente alle tele da pittore, alla tensione presente sotto la punta della lastra verso “Oltremare” o sotto i bassorilievi sbilenchi sull’osservatore, sempre al piano terra. Non c’è tutto Anselmo dalla Rumma, comunque quello che c’è pretende attenzione massima (come negli “Acrilici” sovrapposti ai blocchi  squadrati di granito sulla parete del piano intermedio).
Basta con la descrizione, se potete non perdetevela: tanta pulizia è rara oggi. Una sola assenza ho sentito: quella della sua “Mano che indica” il variegato paesaggio astratto e vagamente metaforico del presente.
Cosa manca? Forse la gente, il popolo? Ma chissenefrega, il popolo è bue, l’arte è elitaria, caro Beuys, non di tasca, ma di medicine contro la sofferenza; e poi la gente se ne fotte della pulizia e del rigore, vuole ignorare la morte, crede nel casino, nello spettacolo a ritmo di rock. Forse il senso del peso della vita? Ma qui, senza retorica, senza indulgere a romanticismi, ce n’è a strafottere: è la fatica fisica di tirar su tutti i giorni sacchi e sacchi di cemento da infilare nelle betoniere; è il pericolo reale sotto la punta verso il mare di un piccolo rettangolo di blu a spatola, è il senso di solitudine di una pianura triste o di un firmamento fatto di stelle a portata di mano, parallelepipedi citati in luce. Sostituzione onirica, spostamento, ma col linguaggio della scultura. Euclide è vivo e sprizza energia da tutti i pori, è ciò che da sempre distingue la scultura dai valori semplicemente plastici.
Sì, a voler esser veramente se stessi, qualcosa mi manca: il vuoto colmato dalla mia immaginazione, anzi non solo mia, collettiva, e vuoto non solo mentale, ma fisico, presente. Un passo indietro fondamentale: questo è il massimo di pulizia, di Tempo e di energia.
FDL
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Tabula rasa
I do art. Mainly, in the sense that politics, economics, history and everything else are seen by me from the angle I have chosen to deal in. ” human being is an aesthetic creature before he is an ethical one" (Brodskij),  assuming it can still be argued that he has morals (Salgado docuit): this means that the above subjects and certainly also science must first of all have aesthetic criteria and that any philosophical conclusions (or if you prefer metaphysical and religious) can be drawn only after having well considered how they think about it, e.g., Caravaggio, Beuys.
Or Salgado. I deal with art in general, but in particular with the visual one and the image that opens this article alone justifies the previous suspicion about the morality of sapiens: it portrays a school in Rwanda and the balls you see are childrens’ skulls.
But will the same aesthetic trends, e.g. the dance of Pina Baush, be enough to save it? There is something to doubt, and not for justified distrust of the weakness of photography as a weapon of defense (Salgado himself had to sell thousands to repopulate some hundreds of deforested hectares of the flora of his Brazil and bring back the jaguars), but for the ferocity of the anthropomorphic monkey prince.
Art uses the weapons of passivity, discretion and silence, does not trade in economics and therefore has little chance of defeating human aggression in matters in which it is not a matter of copulating with someone, but of calming hunger, especially that of one's children. The matter is serious (if there are too many), but it must not question the priority of dance.
A simple look at the site you are visiting or at the images that will find you in a single day of your existence, starting from the passport photo you have in your wallet, can convince you, whatever the visual culture you possess, of the extreme pollution that impairs homo sapiens in one of the subjects that concern him more closely: the quality of what you have under your eyes is the most diverse imaginable and perhaps it is the most polluted on the planet between the sonorous, the respiratory and the constructed (in Italian “edile” from edire= to eat, in Latin).
Polluted by what? Mainly from the quantity, starting from the smartphone that you definitely have in your pocket to the billboards that have filled the surfaces of any city on earth and the countless roads that cross it. Nature, the aesthetics of the Good Lord (among sunsets there is but one a day and that suffices for us), even the non benign ones (floods and volcanoes) have taken a step back, forced precisely by the oil fires of the various Saddams, Kissingers, ecc. on duty and the various Brazilian deforestation workers  in the pay of large multinationals (American, Canadian, Chinese, European).
Far be it from me a mantra: I still have a lot of faith in art.
As long as it starts from a healthy Tabula Rasa.
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S. Salgado: Ex asilo (Rwanda)
Mi occupo d’arte. Principalmente, nel senso che la politica, l’economia, la storia e quant’altro vengono da me viste dall’angolo  del quale ho scelto di occuparmi. “ L’uomo è un animale estetico, prima che etico” (Brodskij), ammesso che si possa ancora sostenere che abbia una morale (Salgado docuit): ciò significa che le materie di cui sopra  e certamente anche la scienza devono avere un criterio prima di tutto estetico e che eventuali conclusioni filosofiche (o se preferite metafisiche e religiose) possono essere tratte solo dopo aver ben considerato come la pensano in proposito p. e. Caravaggio o Beuys.
O Salgado. Mi occupo d’arte in generale, ma in particolare di quella visiva e l’immagine che apre quest’articolo giustifica da sola il sospetto precedente circa la morale del sapiens: ritrae una fu scuola in Rwanda e le palle che vedete sono teschi infantili.
Ma l’estetica tendenziale dello stesso, p. e. la danza di Pina Baush, sarà sufficiente a salvarlo? C’è di che dubitarne, e non per giustificata sfiducia nei confronti della debolezza della fotografia come arma di difesa (Salgado stesso ne ha dovute vendere migliaia per ripopolare  di flora qualche centinaia di ettari deforestati del suo Brasile  e far tornare i giaguari), ma per la ferocia della scimmia antropomorfa principe.
L’arte usa le armi della passività, discrezione e silenzio, non commercia in economia e quindi  ha poche chances di sconfiggere l’aggressività umana nelle questioni in cui non si tratta di copulare con qualcuno, ma di calmare la fame, soprattutto quella dei propri figli. La questione è seria (se ne fanno troppi), ma non deve mettere in discussione la priorità della danza.
Una scorsa anche semplicemente al sito che state visitando o alle immagini che vi capiteranno sotto gli occhi in un sol giorno della vostra esistenza, partendo dalla fototessera che avete nel portafoglio, potrà convincervi, qualsisia la cultura visiva che possedete, dell’estrema polluzione che impania l’homo sapiens in  una delle materie che lo riguardano più da vicino: la qualità di ciò che avete sotto gli occhi è la più diversa immaginabile e forse essa è la più inquinata del pianeta fra la sonora,la respiratoria e l’edile (da edire=mangiare, in latino).
Inquinata da che? Principalmente dalla quantità, a partire dallo smartphone che avete sicuramente in tasca a finire ai cartelloni pubblicitari che hanno riempito le superfici di qualsiasi città della terra e le strade innumerevoli che l’attraversano. La natura, l’estetica del Buon Dio (ma di tramonti ce n’è uno al giorno e ci basta), anche quella non benigna (alluvioni e vulcani), ha fatto un passo indietro, costretta appunto dagli incendi petroliferi dei vari Saddam, Kissinger ecc di turno e dai vari deforestatori brasiliani al soldo delle grandi multinazionali (USA, Canadesi, Cinesi, Europee).
Lungi da me una giaculatoria: ho ancora molta fiducia nell’arte.
Purché parta da una sana Tabula Rasa.
  FDL (trad. Rachana Raizada)
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D’après Duchamp di FDL
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Gustav Sjöberg: una proposta
Neri Pozza propone un libro di poetologia, una sorta di attuale De vulgari eloquentia: La fiorente materia del tutto di Gustav Sjöberg, tradotto dal tedesco da Monica Ferrando.
Per sostenere una tesi veramente audace l’autore ha messo in piedi un coro di voci potentissimo, tale da far tremare la “cattedrale dell’arte” di Sklovskij: in un mondo dominato da un esperanto inadeguato a esprimere la complessità e la ricchezza delle culture del pianeta, attraverso la rete alla portata immediata di tutti, ma strutturata esclusivamente a una comunicazione di potere, la domanda di quale sia il compito della poesia (in quale lingua, con quale materia verbale?) è centrale. G.S., poeta il cui idioma materno (lo svedese) è condiviso da uno sparuto sei milioni di individui, avanza una sua proposta sulla base di una conoscenza profonda del pensiero occidentale e soprattutto del grande contributo offerto da quello italiano. L’autore ne dimostra una sorprendente conoscenza: in campo filosofico e letterario spazia da Dante fino ad Agamben, in quello visivo da Emilio Villa a Prini e affronta la questione appoggiandosi alla sponda di studiosi del calibro di Carchia e Melandri. Partendo da Dante e Campanella, la sua analisi poetologica prende le distanze con Giordano Bruno dal petrarchismo storico e, per rimanere all’attualità, dalla ”pappa omogeneizzata che si può modellare e tenere in forma nel modo più utile” (Jesi): la cultura di destra. Una qualsiasi sintesi di questo librino densissimo è un azzardo. Comunque…il suo obiettivo mi è sembrato quello di risuscitare un concetto di natura impostato dal grande nolano bruciato vivo appunto dal potere di allora: “non più subtrato passivo su cui si debba intervenire con un lavoro formale, bensì al contrario una molteplicità di forme che genera se stessa e con cui combacerebbe” (dall’introduzione della traduttrice). La questione è veramente complessa e rischia l’astrattezza in un mondo, l’attuale, in cui tutto (l’arte e la poesia in testa) è “destinato a edificare edifici funebri alle individualità che meglio si sono espresse” perché “…non è entrato nel corteo loquace della storia”. Personalmente, non essendo come lui “caduto sulla via di Nola”, mi limito a domandare: non è il vuoto assoluto che occorre perseguire, il vuoto per eccellenza, certo per prima cosa della materia del visivo che ha invaso di immagini il pianeta, ma anche della verbosità dilagante? Ma sempre il vuoto ha ancora un corpo, è ancora materia. E quale è la materia del vuoto in poesia? La morte in poesia si esorcizza con la perdita del controllo su di sé e questo forse è proprio un altro modo di esprimere l’abbandono alla fiorente materia del tutto. E’ senz’altro merito di S l’aver sottolineato  con autorità e competenza l’importanza a questo proposito del pensiero del nolano. Fa piacere comunque che esistano persone che avanzano una coraggiosa proposta all’ipotesi che, per sottrarsi alla fagocitazione della cultura dilagante “nella società di mercato, sia necessario cessare di scrivere poesia”.
FDL
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