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blogmoviezone-blog · 7 years
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Qualcuno volò sul nido del cuculo
Quel qualcuno è Randle, nonchè un Jack Nicholson all’inizio di una carriera che sarà costellata di personaggi folli, sopra le righe, inaspettati. Il nido del cuculo è un’ospedale psichiatrico diretto dalla tiranna miss Ratched (Louise Fletcher). Randle finge di essere pazzo per sfuggire al carcere. Individuo pericoloso, aggressivo, con una naturale tendenza al caos, trova una comunità di burattini, mossi abilmente da miss Ratched in una democrazia fasulla, regolata da orari rigidi e attività ricreative che non aiutano queste persone ad andare verso un miglioramento. 
Ogni personaggio in questo film ha il suo spazio. Ad ognuno è concesso di spiegarsi, in scene singole e ancora meglio nelle corali. Il regista Milos Forman non si è limitato a creare un gregge di strambi, ma dei personaggi ben definiti, a cui è impossibile non affezionarsi. Billy (Brad Dourif), il più giovane della compagnia, balbuziente, docile, un agnellino smarrito che rivede in Randle il suo pastore a cui diventa subito fedele, ha tentato il suicidio, terrorizzato dalla figura materna, non riesce ad avere sani rapporti col mondo femminile. Taber, nonchè il mio preferito, nonchè Christopher Lloyd, caratterizzato da due occhi perennamente fuori dalle orbite, è aggressivo e il suo unico divertimento è stuzzicare e far venire crisi di nervi al signor Harding (William Redfield) omossessuale represso che non riesce a capire come mai sua moglie lo tradisca. Cheswick (Sidney Lassick) un bambino viziato mai cresciuto, estremamente dolce ed educato e allo stesso tempo una furia quando non si fa come dice lui, Martini (Denny de Vito) talmente innamorato dei giochi con le carte da non poter mai aspettare il suo turno, non molto bravo nel nascondere che bara, sceglie una parola e la ripete fin quando non ti ha martellato il cervello. Infine, il Grande Capo, un indiano che finge di essere sordo muto solo per non doversi rapportare con nessuno, che sogna di evadere ed essere libero di nuovo, ma non trova il coraggio. 
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Questa squadra di svitati è semplicemente un gruppo di persone represse ed insicure, Randle sarà la scintilla della ribellione ad un sistema sbagliato, dove l’unica terapia è il mettere a tacere e somministrare psicofarmaci. Randle ricorderà a tutti che una via d’uscita dalla propria gabbia mentale c’è sempre e se non c’è non è difficile costruirla. Li tratterà come esseri umani, porterà allegria, come un bambino che costruisce da sè il suo parco giochi, li ascolterà e gli ridarà un motivo per esistere o resistere. Li porterà anche a pescare, ma questa scena non ve la racconto. 
Come sappiamo bene, son poche le vote in cui i leader di una ribellione tornano a casa senza ferite, senza pagarne le conseguenze. Sulla strada per la giustizia e la libertà si frappongono ostacoli e fallimenti, il suicidio di Billy, fughe mal riuscite e non per ultima la lobotomia. Sarà questo l’unico modo che avranno per piegare e zittire Randle, un personaggio simbolo, un personaggio creato per una pellicola del 1975, ma quanto mai attuale. Non temete però, a salvare la sua anima sarà Grande Capo, che alla fine, troverà il coraggio che gli mancava. 
Il lieto fine è amaro, non quello che ci si sarebbe aspettati, ma pur sempre un bellissimo finale. 
Qualcuno volò via dal nido del cuculo.
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Dalla vostra fidata filmomane, 
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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Il cigno nero
Film del regista Darren Aronfosky, con una magnifica Natalie Portman, vincitrice di un Golden Globe e di un Oscar come miglior attrice protagonista.
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Nina è una ballerina perfetta per la parte del Cigno Bianco, ma questa versione del Lago dei Cigni di Cajkovski è tutta incentrata sulla metamorfosi. Ritroviamo il tema del doppio. La regina dei cigni non solo dovrà essere perfetta, ma capace di impersonare il cigno bianco ed il cigno nero. Nina è pura, casta, dalla voce lieve e mille insicurezze. Verrà messa alla prova dal coreografo Thomas (Vincent Cassel), spietato padrone di un harem di balletto, che sceglie la sua prima ballerina e ne fa la sua amante, per poi lasciarla e passare ad un’altra in maniera leggera, solo per desiderio sessuale. 
Il sesso è protagonista prepotente in questo mondo di tutù sporchi di sangue, piroette che spezzano le caviglie e ragazze che si ucciderebbero fra loro per avere una parte. Nina è disposta a tutto pur di riuscire, anche a sminuire una mamma troppo apprensiva che conosce bene il mondo della danza che ha abbandonato per dare al mondo sua figlia, anche a vomitare ogni giorno, anche a masturbarsi come non aveva mai fatto, anche ad andare a letto con Thomas, anche a scendere nei meandri del suo io per trovare la femme fatale che è in lei, che le succhierà via la forza, forse addirittura la vita.
Il ritmo di ogni scena è un crescendo, è incalzante, come un martello che picchia nelle tempie di Nina fino a farla impazzire. Non è un film incentrato sulla danza in sè, dell’opera finale vediamo solo alcuni stralci, il regista ha poco interesse nei passi, molto di più sulla fatica, il sudore, lo strazio che c’è dietro una prima ballerina alla ricerca della perfezione. Il tema del balletto è trattato da punto di vista maschile, di femminile c’è solo la delicatezza di Nina ed un gran numero di attrici donne. 
L’alter ego di Nina, il cigno Nero, la perseguita, la trasforma, le graffia la pelle, entra nei suoi sogni e le spezza le gambe e nella sera del debutto finalmente vince e prende possesso del corpo di Nina. Non avrà scampo. Questo è il suo momento. L’ultimo momento, l’ultimo balletto spinto da una forza potente e malvagia che lo rende addirittura perfetto. 
Una pellicola, mille ossimori. Da vedere e rivedere. 
La vostra fidata filmomane, 
Daniela d’Amito. 
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blogmoviezone-blog · 7 years
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Hugo Cabret
“Tanto tempo fa conoscevo un ragazzo di nome Hugo Cabret, che viveva in una stazione..”
Questo film del 2011, diretto da Martin Scorsese, riadattato dal libro “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret” scritto da Brian Selznick, è una bella favola, una finestra aperta sulla dolcezza del passato e su di un tipo di fantasia che forse abbiamo perduto. 
Hugo (Asa Butterfield) è un orfano di padre orologiaio, morto durante un incendio. Vive nella stazione di Montparnasse, dove si prende cura degli orologi, proprio come faceva suo padre. Intanto, cerca anche di far funzionare di nuovo un automa lasciatogli da suo padre. L’unico pezzo mancante è una chiave a forma di cuore che troverà al collo della bella Isabelle (Chloe Grace Moretz) una bmba dagli occhi sognanti, amante dei libri e delle avventure, anche lei orfana, tirata su da Papà Georges (Ben Kingsley) e Mama Jean (Helen McCrory). Papà Georges ha un negozio di giocattoli nella stazione e spesso Hugo ruba dei pezzi da questo negozio per far funzionare l’automa, ma i furti vengono notati dal burbero Georges che lo prende a lavorare per farsi ripagare dei danni. 
Sbloccato l’automa, Isabelle e Hugo riceveranno l’ultimo messaggio del padre di Hugo. Un disegno. Un ricordo d’infanzia. Una luna con un missile incastrato nell’occhio, uno dei primi film visti dal padre di Hugo. Da questo messaggio comincerà la loro avventura, che li porterà e ci porterà al vero protagonista della storia. Papà Georges, un regista, attore, mago, che ormai non crede più in sè stesso e ha perso l’amore per la fantasia. 
Ambientato negli anni Trenta, in questa stazione che è come un’utopia, un luogo dove le persone vanno e vengono, il rifugio di Hugo, tutto quello che gli resta per capire la sua solitudine. Sarà proprio questa ricerca di uno scopo che lo guiderà verso la salvezza dell’anima di Papà Georges e verso la scoperta della storia del cinema.
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Scorsese voleva tornare indietro, raccontare di un’arte, quella del cinema, che è andata avanti, ha seguito la storia, i bisogni e i gusti del pubblico, ma forse si è dimenticata un passato magico, si è dimenticata dei suoi padri fondatori riempiendoli di cenere, si è dimenticata di quanto fosse dura creare degli effetti speciali, di come si colorassero a mano le pellicole, del rumore di una macchina da presa. 
Un film ed un regista impregnati di malinconia, in una favola francese, dai colori caldi, dal ritmo incessante degli orologi e dal messaggio finale pieno di dolcezza e speranza. 
Promosso a pieni voti, non per un cast stellare, non per le luci migliori del mondo, non per le riprese innovative, ma per quello che questa storia vuole rappresentare e raccontare. 
La vostra fidata filmomane, 
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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È solo la fine del mondo
Pellicola di Xavier Dolan, premiata al Festival di Cannes, candidata a 5 Cesar, di cui ne ha vinti 3.
Louis, uno scrittore famoso e pieno di talento, decide di tornare a casa dopo un’assenza di dodici anni, colmata solo da cartoline spedite dai suoi svariati viaggi, composte da tre parole. Decide di tornare a casa per annunciare alla sua famiglia della sua imminente morte. Louis è interpretato da Gaspard Ulliel, attore che conosciamo da “Hannibal Lecter- le origini del male”, capace di bucare la telecamera con lo sguardo, capace di comunicare senza dire una parola. Il suo personaggio non è semplice come sembra, uno scrittore gay, con un rapporto difficile con sua madre dopo la morte del padre che tanto amava, con un fratello maggiore violento,Antoine (interpretato da Vincent Cassell), poco propenso a capire gli altri e una sorella minore che nemmeno conosce davvero, Suzanne (Lèa Seydoux). 
Questo film è incentrato sui rapporti familiari, su quanto siano complicati, su quanto non ci sia, a volte, il modo giusto per esprimersi. Un film sfiancante, fatto di incroci di sguardi tra i personaggi, di silenzi alternati ad urla, di ritmi incalzanti e scene lente, quasi immobili. 
Spesso si sente la parola “paura”. Ogni personaggio ha paura di qualcosa o qualcuno. Louis ha paura della sua malattia e di dover affrontare le persone da cui è sempre scappato, Antoine ha paura delle responsabilità che gli vengono addossate da sua moglie e sua madre solamente perchè è il figlio maggiore, il surrogato di padre che non vuole essere, Suzanne ha paura di non piacere a Louis, ha paura di non riuscire a creare un rapporto con il fratello con cui non ha mai vissuto, la madre di Louis ha paura di vederlo andare via per l’ultima volta. 
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Dolan lavora sul verosimile. Difficile non riconoscersi in un dei personaggi, difficile non associare un proprio pranzo di Natale al pranzo di questa famiglia tutta francese dove si parla di tutto e di niente.
I dialoghi sono ben scritti e hanno un ritmo meraviglioso, ma spesso la trama del film la capiamo dai silenzi, dai piccoli gesti di Louis, dai flashback accompagnati da colonne sonore azzeccatissime. 
Gaspard Ulliel è un ottimo attore ed è adatto alla parte, la piccola fossetta sulla guancia, lo sguardo intenso, la gestualità delicata lo rendono pienamente Louis. Vincent Cassel nella parte dello spostato e violento è sempre a suo agio, ma forse la migliore, a mio avviso è la moglie di Antoine, Catherine (Marion Cotillard). Una donna insicura, quasi balbuziente, che parla in continuazione di cose che non interessano a nessuno solo per coprire il silenzio che la mette a disagio, una moglia completamente sottomessa che chiede il permesso del marito anche solo per parlare, ma l’unica che riesca a capire chi ha di fronte, l’unica dotata di empatia, non concentrata su sè stessa, l’unica che capisce quale segreto pesi nel cuore di Louis. 
La scena finale è poesia. Ma riuscirà Louis a dire la verità?
Film promosso a pieni voti, 
dalla vostra filmomane
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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Partisan
Pellicola del 2015, 98 minuti, regia di Ariel Kleiman, attori protagonisti Vincent Cassel e il piccolo Jeremy Chabriel.
Film debutto per questo bravissimo regista e per Chabriel. Da molti definita una favola nera, questa storia è in un tempo e in uno spazio inesistenti. Una storia per fare andare a dormire i bambini, una storia per spaventarli o ricordargli che devono fare i bravi, altrimenti arriva l’uomo nero e se li porta via. Altrimenti arriva Gregori. 
Vincent Cassel interpreta mirabilmente questo personaggio ambiguo e contorto, Gregori, uomo duro e sensibile allo stesso tempo, che salva delle donne sole, vittime di violenze, abbandoni, sfruttamento e le porta con sè. Le porta in un’utopia che lui ha creato per loro e per i loro figli. Un enorme casale abbandonato che lui ha rimesso in piedi, ci ha costruito delle case, con dei letti comodi, delle cucine, un giardino dove ballare nelle sere d’estate con una piccola piscina, un orticello dove insegnare ai suoi piccoli come prendersi cura delle piante, un pollaio, un garage. Lo spazio non finisce mai. E nemmeno i bambini, tra cui il primogenito, il pupillo di Gregori, Alexander (Jeremy Chabriel). 
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I colpi di scena non mancano, danzano su dialoghi scarni ed una fotografia piena di significato. Gregori è un mostro o un gentiluomo? Salva queste donne dalla solitudine, salva i loro bambini e li cresce come fossero suoi, secondo delle regole per fare in modo che vengano su sani e forti, ama i difetti e i pregi di ognuno, ma qualcosa di marcio c’è. Lo si capisce sin dalla prima scena. Il viso di Cassel e la sua capacità attoriale si prestano perfettamente. Gregori istruisce questi bambini per eseguire omicidi su commissione. Hanno una pistola ciascuno, una via, una porta a cui bussare e una persona a cui togliere la vita, per poi tornare sereni a casa a mangiare il pollo arrosto. 
Nel regime dittatoriale di Gregori, l’unico che può sovvertire l’ordine è proprio Alexander, il preferito, il più grande ma sopratutto il più sveglio. Un ragazzino di undici anni che inizia a farsi delle domande e inizia a capire cosa sono il bene e male. Come dicevo prima, son poche le battute riservate ad Alexander perchè non ce n’è alcun bisogno. Il dramma e la lotta fra due pensieri traspare dall’incontro dei loro sguardi. 
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Un film angosciante, lo assocerei ad un cuore pulsante con un finale volutamente aperto. Kleiman lascia un punto interrogativo sperando che qualcuno abbia il coraggio di formulare una risposta. 
Non ho potuto non pensare a quanti bambini soldato esistano al mondo, a quanti uomini mischiano la violenza e la famiglia come fosse un gioco, a quanto siamo insensibili ai drammi di cui siamo circondati. 
Finora uno dei film più crudi e cinici che ho recensito, ma non potrei non promuoverlo o consigliarvelo. Ogni cosa che possa smuovere le coscienze, che sia un film, una canzone, un articolo di giornale, un libro, un saggio o una scritta sul muro, ha il mio pieno appoggio. 
La vostra fidata filmomane, 
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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Why so serious?
Il titolo dovrebbe subito rimandarvi al film o almeno al personaggio a cui appartiene questa domanda. Sì, parlo di Joker e nello specifico del Joker nel “Cavaliere oscuro”. 
Capolavoro di Nolan che ho ribeccato ieri in televisione con mia grande gioia. Non sono mai stata fan di Batman, ancora meno lo si può essere in questa pellicola, anche se c’è da ammettere che Christian Bale è il Batman che sopporto di più. Un attore che fa il suo lavoro per bene con un personaggio complicato, il paladino della giustizia, l’orfano ricoperto di cicatrici, ma anche un uomo viziato, poco attento al suo lavoro, incapace di avere relazioni affettive normali. Christian Bale non pecca di arroganza, non rende Batman insopportabile, ma umano. 
Il titolo della recensione l’ho scelto non solo per Joker, ma per la pellicola in sè. Tetra, riflessiva, profonda, priva di un vero e proprio lieto fine. Conoscendo Nolan, non ci si poteva aspettare altro. Questo regista prende Batman e Joker e li mette sullo stesso piano, il bene e il male che per esistere non possono fare a meno dell’altro. Il caos è il vero protagonista, non se ne esce. Le luci, le inquadrature cambiano spesso, in linea con i caotici stati d’animo dei personaggi.
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Questo Joker è difficile da trattare, mentre scrivo sento il peso di Heath Ledger, un attore che ammiravo molto, che in questo film rende al massimo, ecco il motivo dell’Oscar come attore non protagonista nel 2009 e che alla fine delle riprese non ha retto il contracolpo. 
Quello su cui vorrei concentrarmi, anche se so che sarò banale è l’impegno di Ledger per entrare nel suo personaggio. Ruolo non semplice, basta pensare che l’ultimo era stato interpretato da Jack Nicholson in “Batman Begins” di Burton. Sei settimane di solitudine, studio di fumetti come “Arkham Asylum” o personaggi come quelli di “Arancia Meccanica”, ma quello che amo di più sono i dettagli, i tic, la risata, la voce, la camminata, la gestualità. Ledger ha avuto un onore enorme, insomma chi non vorrebe impersonare Joker? L’antagonista per eccellenza? Nolan ha avuto piena fiducia in lui, lasciandogli carta bianca e il risulato è stato eccezionale. 
Aaron Eckhart, Due facce, Harvey Dent. Un altro attore fatto apposta per il suo personaggio, trovo che sia azzecatissimo, che non sbagli nel rendere il personaggio un po’ meno spaccone del solito due facce. Vi è della sofferenza e molto rancore in lui, ancora lo zampino di Nolan che pur rispettando i personaggi dei fumetti, li avvicina al suo pubblico e li rende amabili. 
Il film ruota su di una domanda. Chi siamo? Chi siamo davvero?
Batman, eroe che vive nell’isolamento, che non gode degli applausi che un eroe merita, che protegge e nasce da una città corrotta che vive di male. Joker, un sociopatico perverso che non ha alcun piano o obiettivo se non quello di veder bruciare il mondo e dimostrare a Batman che è un mostro quanto lui, che non vi è una vera morale, ma tutto è scandito da violenza e sopraffazione. Le due facce della medaglia. E al centro? Harvey Dent, il Cavaliere della Luce, il procuratore distrettuale che vuole combattere l’illegalità con la legalità, un pazzo per Gotham City, quanto Batman e Joker. 
Chi avrà la meglio? Chi è il vero eroe di Gotham?
Testa o croce?
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La vostra fidata filmomane, 
DAniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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La la land
Scritto e diretto da Damien Chazelle, candidato a 14 premi Oscar, dove ha collezionato un bruttissimo momento, che io non chiamerei gaffe, e vincitore di una marea di Golden Globe. Protagonisti sono Sebastian e Mia, interpretati Da Ryan Gosling ed Emma Stone. 
Ci sono troppe cose da dire e troppe questioni aperte su questo film, ma proverò a snocciolarle un po’, anche se in ritardo.
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Io amo non identificarmi nelle cerchie, nelle masse. Non posso dire di odiarlo e nemmeno di amarlo. Facciamo una cosa. Contiamo le critiche, che ne dite?
Non regge il confronto con i Musical citati
Il jazz non è quella roba lì
Emma Stone fa troppe faccette
Sebastian è uno snob, per altro non di colore che è convinto di conoscere il Jazz, che anche nel 2017 (assurdo) è considerata musica solo per chi è di colore.
Troppo colorato
Troppo favoletta
Pieno di cliché
Non sanno cantare e ballare
Non può piacerci, perchè è troppo popolare e noi siamo “particolari”.
L’ultima è quella da cui vorrei iniziare. Sinceramente, quando vidi il trailer non ne ero attratta, per questo l’ho visto con così tanto ritardo, eppure frastornata dalle miriadi di critiche, mi sono stupita del fatto che non è così brutto come dite. Il dubbio è subito affiorato in me. Come mai era tanto atteso e le prime reazioni erano tutte positive? Poi magicamente quando in America si è passati da 5 sale che lo trasmettevano a quasi 2000 in meno di una settimana, tutti a puntare il dito sui difetti. Forse quelli commerciali siete voi. 
La storia d’amore di Sebastian e Mia, due personaggi banali, un musicista squattrinato che corre dietro al passato, innamorato dei grandi protagonisti del jazz e un’aspirante attrice che ha lasciato la piccola casa di mamma e papà per andare a Los Angeles, la città dove niente ha valore, dove ci sono troppe feste a cui partecipare, troppe idee da realizzare, pochi talenti e poche occasioni. Eppure trovo che la loro storia d’amore sia sincera, forse già vista, ma sincera. Il film rallenta terribilmente quando i due si separano, quando cercano di inseguire i loro sogni per poi realizzarli, ma volete dirmi che non è così? Quando si sta lontani dalla persona che si ama per anni per pensare solo al lavoro il tempo vola? Sicuri? 
I nostri due attori non cantano nè ballano benissimo. Sono d’accordo, ma credo che questo abbia salvato la parte musicale. Li preferisco agli urli infiniti di Ewan McGregor nel Moulin Rouge, tra l’altro film citato nella scena del ballo fra le stelle (scena che io avrei tagliato). La musica quì serve solamente a rendere chiari i sentimenti della coppia e niente, è un musical quindi deve starci. La questione è che non sono ballerini, nè cantanti. Sono attori e che abbiano fatto un buon lavoro non può negarlo nessuno. E poi, ragazzi, Emma Stone fa sempre quelle facce, dal primo film in cui ricordo di lei, “Lettera Scarlatta”, non riesce a tenere a freno quel viso. Questo non fa di lei una pessima attrice.
Ora vi riporto quello che è stato scritto su Mtv News :  «Se devi fare un film che parla di un artista che rimane fedele alle origini del jazz nonostante le molte difficoltà e le reinvenzioni del genere (da parte di musicisti bianchi come per esempio Mayer Hawthorne) verrebbe da pensare che quell’artista debba essere nero». 
Davvero devo commentare questa cosa? Per favore.
Poi se vogliamo parlare di Jazz, mi associo, da amante del genere, nel dire che non è quella roba lì. Eppure Damien Chazelle fa passare il suo pensiero su questo genere attraverso il bellissimo Jhon Legend : “Come puoi essere un rivoluzionario se resti attaccato al passato?” 
Amiamo tutti Chuck Berry, Muddy Waters, Howlin Wolf, Aretha Franklin eccetera eccetera, ma come pretendere di ricreare lo stesso sound adesso? Nel 2017? Un po’ visionaria come cosa. 
Sono troppi i musical che vengono citati, un enorme collage. Me li sono segnati. Per la stragrande maggioranza sono scene riprese da “Singin in the rain” e “West side story”. Aggiungedo un po’ di “Grease”, “Shall we dance”, “Boogie Nights”, “Sweet Charity” e nel finale abbiamo anche “An American in Paris”. Ora, è palese che il regista non voglia riproporli nella perfezione, sono richiami, c’è della malinconia evidente che è contagiosa. Io non ho potuto fare a meno di andare a ripescare quelle scene e quelle canzoni. Chazelle ha coraggio. Perchè ci sono sempre i bravi che puntano il dito e dicono “Questa scena non s’adda fare”, ma il passato non è un altarino, non sta nemmeno sotto una campana di vetro. Sta lì nell’Olimpo dei grandi e vuole essere guardato e rimaneggiato, nella speranza che si migliori ancora e venga creato qualcosa di altrettanto grande. 
La scelta di dividere i momenti col passare delle stagioni è troppo banale. L’ho visto troppe volte per farmelo piacere. 
Le luci son ben studiate, ma a volte banali. In alcuni momenti le ho trovate azzeccate, perchè semplici e piene di significato, in altri momenti le ho trovate hollywoodiane che spesso ha come sinonimo pacchiane. Scelta voluta? Forse, ma resta che non mi piace.
La cosa più importante, come sempre, resta il messaggio. 
La vita schiaccia i sogni.
E chiunque ne abbia uno lo sa bene, non può non rivedersi in tutti quei provini andati male, nella lacrime di rabbia, nel voler mollare, nel sapere che non si può eguagliare un passato troppo grande, nella costante ricerca di quel qualcosa che ti renderà speciale. 
Il finale è metamusical, un casino sul serio. Ma il modo in cui si arriva a quel caos è interessante. Mia è un’attrice di successo, sposata e ha una bimba, Sebastian ha aperto il suo locale dove si suona jazz. Per caso lei si trova nel suo locale, lui la vede e l’unica cosa che può suonare è la loro canzone. Quelle poche note ripetute all’infinito, a mio avviso, sarebbero state il finale perfetto perchè sembravano dire “Dovevo essere io” o forse “Ti amerò per sempre”.
Concludendo, non lo boccio. Promuovo l’idea e sostengo un regista il cui lavoro mi è sempre piaciuto. Non meritava l’Oscar a miglior film, ma se questa pellicola è uno sbaglio, allora spero si sbagli più spesso.
La vostra fidata filmomane
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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Split
Quanto l’ho atteso, non ne avete idea! Il nuovo thriller di M. Night Shyamalan. Uscito nelle sale dal 26 Gennaio, con me in prima fila e un amico che ho costretto con la forza, quasi rapito, per farmi compagnia. 
Personaggio protagonista è Kevin (Travis Mcavoy) che, come me, rapisce tre ingenue fanciulle e le rinchiude in un sotterraneo. Tutto questo spiegato nella prima scena in pochissimi minuti, Shyamalan sceglie di non andare in crescendo. Non ci sono punti culmine, la tensione e la velocità permeano il film intero. 
Come vediamo nel trailer, Kevin ha ben 23 personalità ed è in cura dalla dottoressa Fletcher (Betty Buckley). L’approfondimento sul disturbo dissociativo di personalità, in questa pellicola, è ottimo e mai noioso. Riceviamo informazioni in diverse scene, alcune nei colloqui fra i due, altre nella conferenza che tiene la dottoressa, altre nel rapporto di Kevin e i suoi ostaggi. L’unica banalità forse sta proprio in questo. Gli ostaggi. Due tipette cool e spaventate, che vogliono ucciderlo, scappare, piangere e una ragazzina solitaria, tenebrosa ed intelligente che invece cerca di comprendere il suo rapitore. Non che io voglia screditare la performance di Anya Taylor-Joy, attrice che veste benissimo la sua parte, ma si poteva fare di meglio. 
Vedendo il trailer pensai “O è il film migliore dell’anno oppure la più grossa caduta dell’anno”, perchè la domanda spontanea che sorge è :
“Come diavolo fai a mettere in risalto tutte queste personalità in un’ora e mezzo, massimo due e non cadere nel banale?”
Shyamalan trova una strada intelligente. La LUCE. Immaginate il cervello di Kevin come una sala di alcolisti anonimi, tutti seduti e zitti in cerchio. Uno alla volta si siedono al centro e prendono la luce, ovvero la parola, il controllo di Kevin. E nella pellicola sono tre le personalità che hanno deciso di prendere il controllo. Perchè? Perchè a quanto pare ci sia un 24esimo sgabello vuoto nella mente di Kevin, una personalità che sta nascendo in lui ed è molto pericolosa. 
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Travis Mcavoy mette alla prova le sue capacità attoriali e il risultato è ottimo. L’ho trovato pieno di sfumature e molto consapevole di sè stesso. Ogni personalità è una persona e un micromondo a sè. Non interpreta mai Kevin, se non in un piccolo frangente che non vi posso rivelare.
Lo spazio è reso bene dalle inquadrature. I continui primi piani non sono casuali, lo spazio della mente di Kevin è stretto e sovraffollato, così come il sotterraneo dove le tiene rinchiuse, per quanto abbia provato ad addobbarlo come fosse una casa, non può fare a meno di avere il fiato corto.
Ho letto, poi, delle lamentele. Dicono che il regista tratti la malattia mentale in maniera erronea e solo per fare paura. Non sono d’accordo. La malattia mentale di per sè fa paura. Ci fa rendere conto di quello che la mente umana può arrivare a fare e non sempre son cose belle. In più Shyamalan non ha paura di andare a fondo di questo disturbo, spiegarlo al suo pubblico, capirlo al meglio delle sue capacità.  Non punta il dito. Lascia ai posteri la sentenza, quindi lasciate perdere le solite lamentele da bar e andatelo a vedere.
Questa pellicola non annoia mai, ha continui colpi di scena, momenti di riflessione, flashback, un attimo di romanticismo e una finale intelligente. 
Anche questa domanda è sorta spontanea:”
“Va bene, bel film, ma come lo finisci? Non dirmi che muore. Banalissimo.”
E invece no, signori miei. Uscita dal cinema ero felice, ma davvero. Perchè Split è la prova che ci sono ancora registi intelligenti che non fanno film in base a quello che il pubblico vuole o si aspetta. Un finale aperto, con un riferimento ad un film precedente, che lascia un po’ l’amaro in bocca e qualcosa su cui riflettere.
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Solo chi ha sofferto potrà sopravvivere al mondo.
Promosso a pieni voti. Il film della settimana è lanciato.
Alla prossima, 
la vostra fidata filmomane
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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L’immortale Will Smith
Eccoci qui di nuovo per recensire un altro film. Oggi parleremo dell’uomo che sembra non invecchiare mai, colui che insieme a Morgan Freeman sembra aver trovato la Fonte della Giovinezza ma è troppo egoista per dividerla con noi poveri comuni mortali; signori e signore, oggi vi consigliamo “Zona d’ombra” interpretato dal solito magistrale Will Smith.
Film biografico piuttosto recente (2015), diretto dall’emergente Peter Landeseman, sconosciuto alle masse ma sicuramente dalla fattura più che lodevole, narra le vicende del Dottor Bennet Omalu interpretato proprio da Will Smith. (Nel cast non è irrilevante la presenza di attori del calibro di Alec Baldwin).
Il dottor Omalu è un neuropatologo forense nigeriano, emigrato negli Stati Uniti per lavorare nell’ospedale di Pittsburgh, Pennsylvania. “Niente di concreto”, starete pensando; “è solo la storia di un medico, che sarà mai”; non siete lontano dal vero. Il film non sembra accattivante, forse la trama si sviluppa anche abbastanza lentamente, ma la magistrale interpretazione di Smith rende tutto più facile e piacevole da digerire.
Ripeto, il film non “sembra” accattivante, perché nei primi minuti si può solo osservare il lavoro di un qualunque patologo “americano”. Mi soffermerei sulla parola americano, o meglio, statunitense, analizzando questa frase di George Will: “Il football americano caratterizza due dei peggiori aspetti della vita americana: violenza e riunioni di comitato”.
La chiave di volta del film, ma soprattutto della vita del dottor Omalu, è proprio il Football Americano.
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Bennet Omalu, suo malgrado, si trova tra le mani il cadavere di uno dei più grandi ex giocatori dei Pittsburgh Steelers, squadra di Football della NFL (National Football League), Mike “Iron Mike” Webster, morto in circostanze sospette dopo aver presentato segni di follia e squilibrio mentale.
Dopo l’autopsia sul cadavere del giocatore e l’analisi approfondita delle cellule cerebrali, il dottor Omalu si rende conto che Mike Webster non era impazzito senza una ragione. La causa della follia del giocatore, sua come di altri in seguito, secondo il dottor Omalu era dovuta alla forte esposizione del cervello a traumi ripetuti, come avviene in una partita di Football, che lentamente portavano all’insorgere di patologie neurodegenerative.
Il dottor Omalu, primo ad aver dato un nome a questo fenomeno: CTE (Encefalopatia Cronica Traumatica), pubblica la sua scoperta su una rivista scientifica, sentenziando la pericolosità di questo sport e attirandosi le ire di tutta la popolazione affezionata a questo sport. Da qui la sua strada sarà tutta in salita.
Questo film narra le vicende di un qualunque medico emigrato negli Stati Uniti, che forse per fortuna e per grande dedizione, si ritrova a combattere con la più grande istituzione del Paese, venendo più volte sfiduciato ed etichettato come ciarlatano.
Un uomo solo contro la NFL, cuore pulsante dell’economia americana.
Omalu si ritrova a perseguire la verità, una verità negata proprio dalla violenza di questo sport e dalla più potente riunione di comitato statunitense.
Un uomo contro un intero Stato. Una verità contro una menzogna.
Come andò a finire? Beh, non vi resta che scoprirlo.
Ricordatevi che c’è Will Smith, datemi ascolto.
Andrea Cotturone.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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Twice Born
Meglio conosciuto per noi Italiani come “Venuto al mondo”, film del 2012, di Sergio Castellitto, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini. Preferisco il titolo inglese perchè questa lingua rende quasi sempre meglio il significato dell’intera storia. Nato due volte, nato da due storie, nato da due donne, da due luoghi. 
Film matrioska, girato tra Roma, Torino, Sarajevo e Curzola, elimina qualsiasi ordine temporale e per raccontare intreccia tre momenti storici diversi. L’inizio, la catastrofe e la fine. Penelope Cruz interpreta Gemma, ragazza italiana che nel 1984, anno delle Olimpiadi invernali, va a Sarajevo per ricerche utili alla sua tesi. La sua guida è un poeta, un orso, un ragazzo enorme dal cuore buono che dice tante parolacce. Gojko (interpretato da Adnan Haskovic) , che è un po’ il filo conduttore tra le anime di questa storia. Sarà lui a presentare a Gemma un suo amico fotografo, Diego (interpretato da Emile Hirsch). Fra i due nasce un’intensa storia d’amore. Diego sogna ad occhi aperti, sogna una casa, una famiglia, un figlio, una vita lunga e felice. 
Ho amato la scelta di passare da un momento storico all’altro senza il “dieci anni dopo”. Cambia la luce, l’inquadratura, cambia il momento storico. Gemma è sposata, ha un figlio ormai grande e riceve una chiamata. Gojko la invita a tornare a Sarajevo per una mostra fotografica sul tema dell’assedio. 
“Ci sono anche le foto di Diego”
Ogni scena ha le sue luci e i suoi colori, nei momenti migliori di Diego e Gemma il mondo è blu o arancione, durante l’assedio del 1992 non c’è nulla che non sia grigio, nel ritornare a Sarajevo, nel rivedere Gojko e sapere finalmente la verità si vede solo una luce forte, tutto è bianco perchè il dolore è lontano.
Ultima, ma non ultima è Aska, una ragazza che vive di musica. Sarà una figura fondamentale nella vita di Diego e Gemma. Li aiuterà e li dividerà, per poi alla fine ricongiungerli. Odierete forse il suo essere superficiale, amerete gli abbracci tra lei e Gemma, non capirete gli sguardi di Diego. La precarietà esistenziale di questo film è in ogni minimo dettaglio. 
Non aggiungo altro, in rispetto di chi non lo ha visto. 
Una pellicola come questa non può essere definita con poche ma sentite parole, perchè è poetica e storica, tragica e comica, cruda e impregnata di sogni. Ogni personaggio ha qualcosa di oscuro e qualcosa che brilla dentro di sè. Il cast è perfetto, a mio avviso vediamo Penelope Cruz in una delle sue migliori performance. L’unico che stona è Pietro Castellitto. Attore che dà naturalezza al suo personaggio, ma non riesce a sostenere il livello dei suoi colleghi. Tra la narrativa contorta, ma allo stesso tempo semplice e diretta di Margaret Mazzantini e l’occhio del regista che non ha alcuna voglia di speculare sul dolore, ma solo di riportare la verità di Sarajevo, il risultato è perfetto. 
Ogni volta che lo riguardo, mi sembra di cogliere una denuncia leggera, un monito o una domanda. “Voi dove eravate quando Sarajevo era devastata dall’assedio?” e non credo di sbagliarmi. Ogni volta che lo riguardo, mi vien voglia di uscire e camminare, per ore, col vento che scompiglia i capelli e mi spinge verso qualcosa che non posso sapere. Forse verso Sarajevo. 
Una mia cara amica che ama questa città mi ha detto che :
“Sarajevo è il mondo intero, racchiuso in una città sola.”
 Un mondo distrutto, ricostruito, che ha conosciuto la guerra, la distanza e la poesia. 
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Non credo ci sia bisogno di dire se è promosso o meno. 
Il film della settimana è lanciato, 
dalla vostra fidata filmomane
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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La bellezza collaterale
Per questa settimana, ho scelto uno degli ultimi film del 2016, Collateral Beauty, di David Frankel. Ringraziando calorosamente il cinema2day che mi ha permesso di starmene seduta in poltrona con accanto un tizio che mangiava cose puzzolenti, dietro delle giovanotte che non sono mai state zitte per tutto il tempo e che mi ha permesso di ammirare i vari selfie di rito al cinema. Qualcuno ancora si chiede perchè preferisco lo streaming?
Torniamo al film và, parlando del titolo, io lo trovo molto interessante. Intriga, ti attira, ti porta a chiederti cosa sia la bellezza collaterale. La risposta la si trova nella pellicola, disseminata in varie scene e questo non l’ho trovato giusto. Il senso della bellezza collaterale viene sottovalutato, come se fosse sottinteso. Il regista forse credeva che gli attori e le vicende parlassero da sè, ma come mi son potuta rendere conto nella sala quando si sono riaccese le luci, pochi ci hanno capito davvero qualcosa.
Sul cast ho qualcosa da dire. Will Smith si rivela sempre un bravo attore, bravo nel solito ruolo che gli affibbiano, dato che a quanto pare nessuno oserebbe mai pensare a lui come un cattivo. Non sia mai! Eresia! In ogni caso, la sua performance mi è piaciuta, è sempre sincero nel fingere, cosa difficile se non impossibile. Keira Knightley pessima, e meno male che interpreta un’attrice nel film. Insomma interpreta male quello che di solito fa male nella vita reale. su Edward Norton, Kate Winslet e Helen Mirren poco da dire, sempre di classe. La vera rivelazione di questo cast è un ragazzino, su cui nessuno punterebbe due spicci, Jacob Latimore, ma che vale un sacco di soldi a mio parere. Quando vedrete il film fate attenzione alla sua performance, interpreta il Tempo.
Eh sì. perchè questa pellicola era una scommesa, un’idea di modernizzare il Christmas Charol Dickensiano. Howard, il protagonista (non protagonista dato che serve solo come punto attorno a cui far girare la storia) ha perso la sua bambina di sei anni da poco. Distrutto, non lavora più, non ha motivi di vita, tanto da cercare la morte, dimentica perfino il nome e il viso di una delle persone più importanti della sua vita. Trova solo la forza di scrivere tre lettere, destinate a Morte, Amore e Tempo. 
Lettere che verranno ritrovate dai suoi amici/colleghi, che per aiutarlo (ovvero farlo dichiarare pazzo e licenziarlo) assumeranno tre attori che interpreteranno queste astrazioni e daranno fastidio ad Howard, cercando di smuoverlo, di farlo reagire. Eppure ogni astrazione avrà il suo bel lavoro da fare con ognuno dei tre amici di Howard. La mano che prenderà quella di Howard e lo riporterà a galla sarà quella di qualcun altro. Basta Spoiler. 
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Mi piace la sensazione di speranza che pervade il film e mi è piaciuto illudermi come una bimba che forse quei tre attori non erano attori, ma davvero Amore, Morte e Tempo, però in fin dei conti, l’idea alla base del film era troppo pretenziosa, Will Smith viene sfruttato malissimo e il finale alla Walter Disney mi fa abbastanza tristezza, il film è finito perchè doveva finire e allora dai mettiamoci il lieto fine, quello vuole la gente! Non si fa così. Buon tentativo, ora mi sento terribilmente crudele dato che molte cose le ho apprezzate, ma non posso promuoverlo.
Se volete contraddirmi o mandarmi a quel paese sono sempre disponibile.
Il film della settimana è lanciato, alla prossima!
La vostra fidata filmomane 
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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The Butler
Diretto da Lee Daniel e scritto da Danny Strong , questo film è del 2013, adattamento cinematografico dell’articolo  A Butler Well Served by This Election, scritto dal giornalista Wil Haygood e pubblicato sul The Washington Post, che narra la vicenda di Eugene Allen, maggiordomo della Casa Bianca per più di trent'anni. Nel film il nome del protagonista è stato modificato in Cecil Gaines.
Tema ormai logoro quello dei diritti civili, dell’eguaglianza tra bianchi e persone di colore, delle lotte civili americane, del razzismo, di Martin Luther King, Malcolm X, eppure questo film non è banale o scontato. Una storia nella Storia. Sì, perchè ci muoveremo dagli anni ‘20 al 2008. Detto da una che non ha mai amato studiare la storia, questo film è riuscito a non banalizzare o riassumere eventi e leader di un certo calibro. 
Cecil Gaines, bimbo di colore che non conosce altro tranne che le piantagioni di cotone, diventerà “negro di casa”, pian piano imparerà che il suo mestiere richiede precisione, stakanovismo, pulizia, eloquenza e due facce, i due volti che una persona di colore, in quegli anni e forse non solo in quegli anni, era costretta ad indossare. Arriverà ad essere maggiordomo alla Casa Bianca, conoscerà Kennedy, sentirà risuonare nel petto quello sparo, ascolterà Nixon proporre di concedere qualche diritto civile solo per un 3% in più di voti, perderà suo figlio. Fermiamoci su questo ultimo punto. Se Cecil lavora e come spesso ripete “non si intende di politica”, suo figlio Louis al contrario seguirà le orme di Martin Luther King, cercherà di combattere l’odio con l’amore, sarà costretto a combattere anche le idee di suo padre, che forse vuole solo proteggerlo o forse non ha il coraggio di non avere più paura. 
Cecil è mirabilmente interpretato da Forest Whitaker, uomo dal viso e dallo sguardo più che espressivo. Un attore che ha bisogno di muovere solo un centimentro del volto per tirarci un pugno dritto allo stomaco e magari commuoverci. Cecil affronterà tante battaglie, quella dell’alcolismo di sua moglie, interpretata da Oprah Winfrey, la guerra in Vietnam per cui partirà il figlio minore, la paura di sentire alla tv che Louis in una delle proteste per strada è rimasto ucciso. E la cosa che ho più apprezzato è che le affronterà sempre con freddezza e lucidità.
Questa pellicola ti costringe a schierarti. Dalla parte dei bianchi? Dei neri? Delle minoranze? Degli Americani? Dei lavoratori sottopagati? Degli idealisti? Del padre? Del figlio? Questa pellicola ti costringe a capire che il razzismo non è stato sempre e solo univoco. Ha portato odio da entrambe le parti. Ha fatto calare un velo davanti agli occhi di molti, ragazzi, militari, Presidenti. Questa è la pellicola dove i veri sovversivi sono coloro che senza nemmeno accorgersene demoliscono l’odio raziale, senza bisogno di discorsi o armi.
Io, in conclusione, mi sono schierata dalla parte della giustizia, che non guarda al colore della pelle, che non ascolta le parole, ma giudica i fatti e ti guarda dentro per sapere che persona davvero sei. 
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Concludo con la massima che apre il film :
“Darkness cannot drive out darkness, only light can do that” Martin Luther King
Il film della settimana è lanciato, alla prossima.
La vostra fidata filmomane, 
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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Whiplash
Il secondo film di Damien Chazelle, candidato a cinque Oscar per film, sceneggiatura, montaggio, missaggio audio, attore non protagonista. Per me, poteva prenderseli tutti, ma, sta di fatto, che c’era Birdman con cui lottare e la sconfitta era più che sicura.
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Questa è la prima recensione del 2017. Questo è un film che amo tanto. 
Partiamo dalla storia, Andrew (MIles Teller) studia batteria allo Shaffer Conservatory of Music, una delle migliori scuola del paese (riferimento chiarissimo alla Julliard) e tutti gli allievi hanno terrore e aspirano ad essere scelti da lui, il Professore, Terence Fletcher (J.K.Simmons). Andrew ha un dono e verrà subito notato da Fletcher che lo porterà nella sua orchestra e gli farà passare le pene dell’inferno. Fletcher non è un tipo facile, anzi, l’aggettivo severo è un dolce agnellino se messo accanto al suo nome. Simmons è un attore con le palle e non c’era parte migliore per il pelato dagli occhi di ghiaccio. Un leone che ruggisce e chiede semplicemente “un batterista che sappia portare il cazzo del tempo”. Tutto e tutti spariscono nella relazione tra allievo e maestro. Uniti solamente dalla musica, dai sogni e da un odio che li avvicinerà davvero l’uno all’altro. Anche Teller è un bravo attore, completamente nella parte. Un ragazzo che non sa fare nulla, ma dico nulla se non suonare, messo da parte e poco calcolato nella sua famiglia, incapace di rapporti sociali, trova la sua condanna e la sua àncora nel maestro.
Il ritmo del film è un continuo crescere e calare, ci sono delle scene assordanti e non perchè l’orchestra alza il volume, è il battito interiore del film, un battere che non si spegne mai fino alla fine. La fotografia è meravigliosa, con riprese mobili lungo i corridoi, riprese inframmezzate da finestre o porte, primi piani del viso di Teller che ha un’espressività da paura. 
Ha ricevuto tantissime critiche sul messaggio che trasmette. Ho letto che molti hanno criticato il metodo di insegnamento, la mancanza di vera e propria musica, la poca presenza di risate o momenti leggeri nel film. Questo credo perchè non tutti sanno cosa significhi lottare per i propri sogni e quanto sforzo richieda farlo. Io ho avuto un maestro del genere, non in campo musicale, ma poco importa. Non mi son mai sentita dire che ero brava o che stavo migliorando, solo quando davvero lo avevo stupito, i suoi occhi mi dicevano che era orgoglioso. I contentini non hanno mai fatto crescere nessuno e tantomeno hanno creato talenti. 
La battuta chiave :
Vuoi il posto? Guadagnatelo!
Nulla di più vero e crudo, come il nostro Whiplash. Ogni volta è un piacere rivederlo, perchè sì mi ricorda che il mondo è una giungla ed è difficilissimo far sì che i miei sogni si realizzino, eppure mi fa venire sempre una gran voglia di non smettere!
il film della settimana è lanciato, 
buon 2017
dalla vostra fidata filmomane
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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Battle Royale
Pellicola scandalo uscita nel 2000, girata dal registaFukasaku alla veneranda età di settant’anni, ispiratosi al romanzo di Koushun Takami.
Perdonatemi se sbaglio a scrivere qualche nome, ma che ci vogliamo fare. so’ Giapponesi. 
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In che razza di film mi sono imbattuta. Partiamo dal principio, Battle Royale è un survival program, una legge messa in atto dal governo nipponico che non sa più come reindirizzare una nazione che ha perso i propri valori. Gli adulti non hanno morale, come potrebbero avercela i giovani? E allora che si fa? Si sceglie a caso ogni anno, una classe di terza media fra le tante città e la si butta su un’isola deserta. Tre giorni, collari al collo, armi alla mano e parte il film. I ragazzi dovranno eliminarsi fra loro, uccidersi, trucidarsi. Solo uno può rimanere. Il vincitore, manco fosse no sport olimpico. Se ti comporti male, il collarino ti fa esplodere come un botto di capodanno. 
Il professor Kitano è alla direzione di questa follia. Un uomo di sani principi, un po’ solo e che ogni tanto lancia coltellini in testa ai ragazzi, ma che sarà mai!
Come da copione, si formano subito dei gruppetti. L’isola è una scuola di vita, ai limti dell’assurdo, ma lo è. C’è la stronza di turno che uccide anche le migliori amiche pur di salvarsi la pelle, i nerd che vogliono hackerare il sistema, il folle che ha scelto da sè di andare sull’isola, le coppiette amorevoli che si proteggono a katana tratta (fa ridere solo a me sta battuta?) e il ciccione che dura venti secondi di film.
Se dobbiamo parlare della recitazione lasciamo perdere. Un melodramma assurdo e delle facce che forse facevano meglio a prendere me come protagonista. Alcune scene di violenza sono proprio telefonate, accade esattamente quello che ti aspetti accada. Le riprese sono da videogioco e così anche le ambientazioni. 
Ma allora fermi tutti. Definito “Scandalo” e “Film che ha cambiato il volto alla cinematografia giapponese”. Come diavolo è possibile?
Ve lo dico io. Il nostro caro Fukasaku è un regista con le palle e lo è sempre stato anche nelle pellicole precedenti. Fu il regista della rivoluzione. Ci prende palesemente in giro. Ride della futile preoccupazione di una nazione intera nell’essere sempre impeccabile. Ovvio che non si può essere perfetti, logico, ma questo i Giapponesi non son molto bravi a capirlo. Allora Fukasaku crea Battle Royale, che rappresenta il delirio della ricerca della perfezione, di adulti che pur di non prendersi responsabilità sacrificano i loro figli e li riempiono di colpa, aggiunge alla ricetta un po’ di splatter e la combo musica classica e armi e ...... Vince!
Dico la verità, per i primi 40 minuti ho odiato il film e la persona che me lo ha consigliato, ma non giudico mai un film dal trailer e meno male. Poi, ragazzi arrivate al finale, ve ne prego. Io l’ho adorato, perchè ha davvero poco senso o forse ne ha troppo.
Promosso anche questo!
Alla prossima settimana, 
la vostra fidata filmomane
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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La parola chiave è Giustizia!
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Se non le riconoscete e non vi parte subito il motivetto di “You don’t own me”quando vedete questa foto, avete bisogno di leggere la recensione e correre a caricare lo streaming. 
Vi avverto, questo film risveglia sempre la femminista che è in me, quindi maschietti non prendetevela troppo. “Il club delle prime mogli” esce nel 1996, regia di Hugh Wilson. Tutta la storia parte dalla notizia del suicidio di Cynthia, la quarta amica, il pezzo mancante che però resta presente per tutta la pellicola. Sceglie di togliersi la vita dopo che suo marito la lascia per sposare una più giovane, sceglie di mettere fine a tutto perchè sola, amareggiata e buttata via come un calzino vecchio. Prima di andarsene, però, manda una lettera alle amiche dell’università. 
“Prendetevi cura l’una dell’altra”
Sarà proprio questo che faranno Elise (Goldie Hawn), Annie (Diane Keaton) e Brenda (Bette Midler), diverse in tutto, accomunate solamente dal divorzio e dalla nuova minorenne fiamma dell’ex marito. Voi non avete idea di cosa siano capaci di fare tre donne ferite quando si mettono in testa qualcosa.
Non stiamo parlando di vendetta o di rabbia inespressa, parliamo di giustizia e di autostima. Quante volte siete state trattate come se non valeste niente? Quante volte non eravate altro che un pezzo di carne da portare solo a letto? Quante volte siete state lasciate con frasi patetiche del tipo “non sono pronto a qualcosa di serio” oppure “ho paura di soffrire”? Frasi che spesso nascondono un “non mi piace ma non ho le palle di dirtelo”.
Va bene, non sono tutti uguali, non faccio di tutta l’erba un fascio, sbagliano anche le donne, sbagliamo tutti. Pace. 
Questa cosa non credo la direi se venissi mollata dopo anni di matrimonio e scarifici per una marmocchia. 
Ma torniamo al film, altrimenti inizio a blaterare cattiverie. In un’adorabile atmosfera anni novanta, queste tre donne si prendono per mano, si urlano addosso, si dicono la verità anche se fa male, si divertono e si rendono conto che l’amicizia è qualcosa di magico e che ha una forza incredibile. Tre donne che hanno perso sicurezza in sè stesse e credono di aver sempre bisogno di un uomo per vivere bene, guariscono da questa malattia imposta sfortunamente dalla società e capiscono che amare sè stesse è l’unico vero amore che si possa provare, l’unico sentimento che non potrà mai farti piangere e mangiare cioccolata.
Non gli darei un Oscar per la fotografia o per le regia, insomma, non glielo darei e basta, ma non posso bocciarlo o scartarlo. Ammetto che me lo rivedo almeno una volta al mese. 
E poi ha questa colonna sonora, dai!
https://www.youtube.com/watch?v=uWCMhL5qxlE
Il film della settimana è lanciato, 
dalla vostra fidata filmomane
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 7 years
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Still Life
Questo flm esce nel 2013, vince nello stesso anno il Premio Orizzonti per la miglior regia di Uberto Pasolini alla Mostra Internazionale di arte cinematografica la Biennale di Venezia. Attore protagonista : Eddie Marsan.
Bene, dopo le formalità, vorrei partire ammettendo che per me è molto complicato recensire questa pellicola. Non è un film qualsiasi, con un attore qualsiasi. Al contrario, trattasi di un’idea interessante, girata in maniera del tutto personale da Pasolini, che vede come protagonista un attore che lascia a bocca a aperta. Quindi sarò molto contraddittoria nel recensirlo, perdonatemi.
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Jhon May è un uomo speciale. Lavora al municipio di Kennington e la sua mansione è quella di cercare i parenti dei defunti rimasti soli prima e dopo la morte. Occupazione singolare, che richiede molta attenzione e delicatezza. il signor May è meticoloso, ripetitivo, asettico. Segue uno schema ben preciso, da quando si sveglia a quando va a coricarsi.
Non solo è protagonista della storia, ma della pellicola. Questi suoi attrubuti si riflettono nelle riprese e nella scelta dei colori. Cosa che non sono riuscita ad apprezzare. Il ritmo non esiste, o meglio esiste ma è lentissimo, segue lui. Molte scene si ripetono e sono tutte riprese di May che cammina in un mondo fermo, che non va da nessuna parte. Eppure devo ammettere che la scelta è azzeccata. Quel mondo è il mondo interiore di May, ricercatore di amore dopo la morte, non lo si poteva dipingere diversamente.
Un’altra cosa singolare è la presenza del colore bianco, in casa di May, nel suo ufficio, nei palazzi per strada, nell’obitorio, al cimitero, in treno. Addirittura il ragazzo che lavora all’obitorio di chiama “signor White”. Perchè? Non ne sono troppo sicura. A volte quel colore mi ha ricordato l’atmosfera di un ospedale, altre volte di un cimitero, altre volte ancora di pace. Quella che tanto vorremmo dopo questa vita, no? Effettivamente dev’essere così. Bianca, monotona, silenziosa e ripetitiva.
May non riesce quasi mai a trovare i parenti di queste persone. I solitari, i poveri, gli anziani, i vagabondi. Quella macrocategoria di dimenticati, quelle persone che non guardiamo e che evitiamo di guardare. Non si direbbe un uomo affettuoso, non parla mai, le battute nel film si contanto sulle dita di una mano, ma Pasolini sceglie di far parlare gli oggetti e i gesti.
May organizza i funerali per queste persone ed è sempre l’unico a partecipare, scrive delle ultime parole per loro, anche se non li conosce, si sforza di immaginare chi erano in vita e, per ultima cosa, tiene un album dove conserva le loro foto. Lui non li ha dimenticati e non intende farlo.
Non intendo raccontarvi oltre, dico solo che nella vita di May ci sarà un grosso cambiamento, di quelli che mandano in tilt qualsiasi persona normale, ma come ho precedentemente detto May è un uomo speciale e la vita non può abbatterlo perchè non si è lasciato buttar giù nemmeno da tanta morte. 
Non molti film riescono a commuovermi ormai, eppure il finale mi ha strappato qualche lacrima e fatto riflettere su quanto poco ci curiamo dei nostri cari in fin di vita, dei nostri nonni, zii alla lontana, amici che non vediamo da tanto. La mancanza di tatto dei vivi è spaventosa e nessun mazzo di fiori sulla tomba o cero accesso per ricordare i defunti potrà cambiare le cose. 
Nonostante alcune scelte non siano di mio gradimento, ho promosso questa pellicola dalla semplicità spiazzante e dal tema delicato. Ho promosso anche Eddie Marsan che non ha bisogno di troppe parole o espressioni facciali per farci entrare nel suo mondo e nel suo cuore.
Il film della settimana è stato lanciato, ora sta a voi.
La vostra fidata filmomane, 
Daniela d’Amito.
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blogmoviezone-blog · 8 years
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Locke
Non stiamo parlando del gran filosofo, ma del film della settimana. Uscito nel 2013, scritto e diretto da Steven Knight, che vede come protagonista Tom Hardy, una pellicola presentata fuori concorso alla 70° edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
« È stata una gioia ed una grande sfida realizzare Locke in una maniera totalmente nuova. Girato in real time, Locke è una novità: Hardy domina lo schermo da solo mentre la macchina da presa non stacca mai. » ci dice Knight.
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Unico volto che vedrete è quello di Ivan Locke, capocantiere che alla fine della giornata di lavoro, sale in macchina, mette in moto e guida verso un cambiamento enorme nella sua vita.
Mi prendo un attimo etimologico. Riflettendoci un po’, il nome stesso del nostro personaggio è qualcosa di ben ragionato. Come sappiamo l’aggettivo “locked” in italiano significa “chiuso” o meglio ancora “bloccato”. Il personaggio lo è, e non solo scenicamente nella sua Bmw, ma anche nelle sue scelte, nei suoi rapporti presenti e passati.
Una trama semplice, una storia spiegata non dai volti o dai gesti, ma dalle voci dei personaggi. Sarà Locke stesso, con le sue chiamate, fatte e ricevute, a spiegarci chi è, chi è stato, cosa sta facendo e come lo sta facendo. Nessuno quanto lui può dirigere uno dei lavori più importanti della sua vita, spiegarsi a sua moglie e a suo figlio, scrollarsi dei fantasmi di dosso, consolare una donna sola e spaventata, tutto contemporaneamente, tutto di notte, tutto al telefono e soprattutto, aggiungerei, bevendo poco caffè.
Vi ho incuriosito? Bene, allora aggiungo un'altra piccola trovata di Knight. Locke non è davvero solo, il personaggio fantasma del film, nonché destinatario dei brevi ma intensi monologhi di Locke è suo padre, idealmente seduto sul sedile posteriore ad accompagnarlo nella lunga nottata di guida. In quei monologhi vi rivedrete completamente o sarete in pieno disaccordo, ma la cosa più interessante è l’etica del personaggio stesso. E se tra voi lettori qualcuno è un aspirante scrittore, ritroverà dell’estro nella stesura di questi monologhi. Sappiamo bene che i sentimenti, se troppo spiegati, perdono di forza, non arrivano. E qui vengono rispettati dalle mani di Knight, trattati come se fossero fiori appassiti e riportati alla vita con acqua e tanta cura.
Ora dovete essere sinceri. In quanti film vi siete innamorati e addirittura schierati dalla parte del cattivo? Provo a citare qualche nome in maniera banalissima, Joker?
In quanti altri vi siete commossi alle parole di un personaggio fondamentalmente buono, costretto dalla vita a prendere decisioni sbagliate? Ritento, il dolce Hannibal?
Qui, il nostro uomo è all’opposto degli errori, un personaggio giusto che fa scelte giuste. Non quel tipo di bontà senza macchia e senza paura alla Superman o peggio ancora, Topolino (maledetto Walter Disney). Una bontà pura ed umana, una bontà imperfetta esattamente come ognuno di noi, ma pur sempre bontà ed ad essere buoni ci vuole un sacco di coraggio.
Tom Hardy è meraviglioso, finalmente spogliato delle solite maschere imposte in altri film, interpreta un uomo medio, dalla vita normale e il risultato è una performance superba. Anche Hardy tratta il testo con attenzione, tra le poche battute non ci sono mai eccessi, non cade mai nel melodramma tra urla, lacrime o sussuri pietosi. La sua voce, come il suo personaggio, sono sinceri.
La pellicola vi farà riflettere su come prendete le scelte nella vostra di vita. Siete davvero costretti a sbagliare o , a volte, fate finta che la strada giusta non ci sia? Non è forse che scegliere di sbagliare è più facile, più comodo? Lo so, vi sto ponendo troppi quesiti esistenziali, ma è a questo che la pellicola mira.
RIFLETTETE!
Il film della settimana è stato lanciato, ora sta a voi caricare lo streaming e trarre le vostre conclusioni.
Passo e chiudo.
La vostra fidata filmomane,
                                                                                      Daniela d’Amito.
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