Tumgik
#valle del po
ferris60 · 4 months
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Una splendida occasione (aka cosa ho fatto lo scorso week end)
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libero-de-mente · 5 months
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Questa è una storia vera.
Credo che fosse una notte estiva di circa diciassette, o forse diciotto, anni fa.
Avevo finito di lavorare abbastanza presto per gli standard a cui ero abituato in quel periodo. A mezzanotte chiusi il ristorante e a bordo della mia auto feci la strada per tornare a casa.
Non avevo cenato e i morsi della fame si facevano sentire, così decisi di fare sosta da Majd, un bravissimo e onesto kebabbaro che sapevo essere l'unico, in una città che chiude i propri locali sempre presto, che potesse darmi da mangiare. E poi il suo panino kebab "sensa salsa picante", come diceva lui, era buonissimo.
Una volta consegnatomi il "malloppo" caldo racchiuso con cura nella carta stagnola ci salutammo, uscii dal suo locale. Preferivo mangiarmelo a casa, non abitavo molto lontano da lui, con comodità e in relax. Mentre il resto della famiglia dormiva.
Appena uscito dal "Kebab di Aladino" sul marciapiede noto una ragazza, uno sguardo di sfuggita per non essere invadente ma che mi era bastato per notare il suo nei miei confronti.
La mia auto era a sette od otto metri da lei, appena oltre le linee gialle che delimitavano la fermala dell'autobus. Un autobus che lei stava aspettando.
Passandole vicino sento la sua voce chiedermi: - Disculpe, el autobús a Borgo Palazzo pasa por aquí?
- No - le risposi con il mio italspagnol - "Por aquí passa l'autobus por la Valle de Seriana Tu tienes la dirección al contrarios" (al contrarios, le dissi proprio così, vi rendete conto?)
Incredibile ma vero mi capì e mi guardò come se fosse terrorizzata per il suo errore.
- ¿Dónde está Via Borgo Palazzo? - mi chiese supplichevole.
Io con il dito le indicai la direzione. Puntando l'indice un po' in alto, visto che davanti a noi a un centinaio di metri passava un cavalcavia.
La ragazza rimase in silenzio e cominciò a guardarsi intorno stringendosi con le braccia incrociate davanti al petto. Avevo compreso che si era smarrita.
- Si quieres te porto io - le dissi.
Mi guardò con uno sguardo che sinceramente non saprei come definire ancora oggi, davanti a lei questo uomo buffo con un kebab fumante nella stagnola le stava proponendo un passaggio. Ed era quasi l'una di notte.
Le chiesi di getto - Come ti chiami? - al diavolo l'italspagnolo
- Maria - mi rispose
- Como mi madre - così d'istinto mi usci di dirle "come mia madre".
Credo che fu quella frase detta senza tanto pensarci, uscita con sincerità che la convinse ad accettare un passaggio da uno sconosciuto, vestito con un completo da uomo nero e una camicia grigia cangiante, con un kebab avvolto nella stagnola in mano.
In auto, mentre la portavo a destinazione, lei seduta al mio fianco stava con il suo corpo pigiata contro la portiera. Come per aumentare la distanza tra di noi.
Era bellissima, davvero. Mi raccontò che veniva dalla Bolivia e che era giunta in Italia da pochi giorni.
Non mi ricordo bene quali parole usai in auto per rassicurarla, per accennare una conversazione con lei. Il lavoro che faceva e perché aveva fatto tardi quella sera.
Mi ricordo bene invece quello che successe quando lei vide che l'avevo portata proprio sotto il palazzo dove abitava. I suoi occhi si illuminarono, si sentì sicura a quel punto. A quel punto, già proprio a quel punto, quello dove mi fermai lei evidentemente capì che l'uomo con la camicia cangiante non era cattivo.
Così prima di scendere e dopo avermi detto "Gracias", fece un gesto che mai mi sarei aspettato. Mai. Mi baciò sulla guancia destra. Un bacio rapido, come rapido fu il suo dileguarsi verso il portone. Però io nel momento del contatto con le sue labbra, allora non avevo la barba, sentii tanto calore e la sua paura che svaniva.
Ogni volta che sento di un femminicidio mi ricordo di questo mio aneddoto, perché mi diventa sempre più chiaro il rischio che Maria corse, la paura che Maria aveva e che io trovavo esagerata.
Perché Maria ha avuto buona sorte quella volta con uno sconosciuto, mentre Giulia ha avuto sfortuna con uno che conosceva molto bene. O pensava di conoscere bene. Ma che, come spesso è accaduto a tante altre sventurate come lei, non si conosce mai bene fino a quando non esce la bestia che vive in quella persona.
Per via di un "no" o di un "è finita".
Quello che posso fare io da uomo, da padre, è educare i miei due figli maschi a essere come quell'uomo goffo e impacciato, con un kebab in mano, che voleva essere d'aiuto verso una ragazza. Non lasciandola sola nel buio in una notte d'estate di diciassette, o forse diciotto, anni fa.
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tuttalamiavitarb · 7 months
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Kafka , de noattri
Da circa 6 mesi ho un dolore tremendo sotto un piede, provato di tutto umano ed equino, non passa.
Un amico mi dice, prova dal professor Coso, è un osteopata,ed è un genio
Il professore coso riceve su appuntamento ,vicino al piazzale Michelangelo, location che di solito vuol dire emorragia finanziaria.
Infatti il professore coso si prende 120 al nero o 150 con fattura
Propendo per il lato oscuro
3 volte , e risolviamo. mi dice il professore coso
240 euri spesi.
Mi ha massaggiato , tirato, scrocchiato , pestato dappertutto tranne nel punto interessato che fa male esattamente come quando avevo 240 euro in più.
360 euri spesi.
Provo a parlare col professore, facendo presente che ,per carità m ha ringiovanito di 20 anni dappertutto ma se magari provasse ad appoggiare le sue manine magiche sotto al mio piede sx magari ne usciamo un po' prima.
I problemi non si risolvono a valle ma a monte, si fidi di me.
Mi fido.
480 euri spesi .
non ho più un dolore in tutto corpo, mi piego come un fachiro, mi posso allacciare le scarpe da impiedi, ma il sotto del piede mi dà il tormento.
Punto della situazione difronte alla mia perplessità il professore Coso prende appunti.
Ha subito qualche trauma nella zona del volto nell' ultimo anno?
Si, ho perso un dente in una rissa.
Ed ha avuto altri traumi al volto in quella sede?
No, non è stata una vera e propria rissa, diciamo che una prostituta, offesa perché non intendevo usufruire dei suoi servigi, mi ha tirato un portagioie di avorio che ha colpito il dente, che è saltato. Fine
È colpa del dente
Il dolore sotto il piede è colpa del dente?
Si fidi , adesso che conosco la causa 5/6 sedute al massimo e risolviamo.
Dottore io mi fido, ciecamente, ma vede io faccio il contractor, a me mi pagano quanto il lavoro è finito.
Quindi Io mi fido e verrò tutte le volte che riterrà opportuno. Ma anche lei si deve fidare di me, ho intenzione di pagarla, in unica soluzione e senza battere ciglio, quando il dolore sarà migliorato.
Ecco l ha presa benissimo
ha iniziato ad urlare, battere i pugni sul tavolo, paonazzo in volto come se gli avessi messo π/2 la mamma.
Persona venale! Persona ingrata! Persona infida
Se ne vada! Vada via e non torni più pezzente
Io ho provato a farlo ragionare, e per tutta risposta lui ha iniziato a schiaffeggiarmi e spingermi.
Ecco adesso mi serve un osteopata ed un penalista.
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gregor-samsung · 1 month
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“ Si volevano bene: adesso lei non aveva più nessuno, e parlavano della fine della guerra, di quando si sarebbero sposati. Poi una volta Tom disse che era meglio sposarsi subito, in brigata si poteva fare, il Comandante era come un ufficiale di stato civile. Si sposarono una sera che un aereo inondava la valle di bengala. Pareva che volesse illuminare la cerimonia. Ma tutti dovettero mettersi a terra e stare immobili in quella luce; era pericoloso farsi vedere in tanti, potevano prenderli per tedeschi. Poi l'aereo se ne andò, rimase il buio, più buio dopo tanto bianco. - Forza! - disse Clinto. - Sta' in gamba, Rina, che tu non sposi un altro. - Attenti! - comandò Gim. In mezzo al quadrato dei partigiani disarmati, sull'attenti, c'erano Tom e la Rina, muti e commossi come in chiesa. Ma era una notte scura, non si vedevano che macchie nere, e una macchia più chiara, il vestito di lei. Il Comandante disse, con la sua voce quieta: - Voi tutti siete testimoni che quest'uomo che noi chiamiamo Tom vuole sposare questa donna che noi chiamiamo Rina. Tom, la vuoi sposare? - Si, - rispose Tom. La voce riprese: - Voi tutti siete testimoni che la Rina vuole sposare Tom. Rina, lo vuoi sposare? - E anche lei rispose: - Si. - Allora, - disse il Comandante, - in nome del governo libero che qui io rappresento, vi dichiaro uniti in matrimonio. Buona fortuna, ragazzi. - Riposo, - comandò Gim. E si udì lo scalpiccio dei piedi che si muovevano. - Bello, - commentò il Cino. - Ma potevate sposarvi di giorno. Siamo testimoni, e non abbiamo visto niente. Versavano il vino levando in alto il bicchiere per distinguere quando era pieno. Ridevano e dicevano delle frasi, qualcuna un po' ardita. Clinto domandò: - E l'Agnese? Non c'è? Non si vede la vestaglia dell'Agnese! - Sono qui, rispose lei. Era una grossa cosa bruna, confusa coll'ombra. Per fare onore agli sposi, s'era tolta la vestaglia e aveva indossato il suo logoro vecchio vestito di casa. “
Renata Viganò, L'Agnese va a morire, Einaudi (collana Nuovi Coralli, n° 23), 1976⁴; pp. 88-89. [Prima edizione: Einaudi, 1949]
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Sensaciones a flor de piel...
El cuero se desliza por tus formas con sutil parsimonia, venas y valles, curvas y poros...
Recorro tu cuerpo sin rumbo fijo pero con un objetivo claro, hacerte sentir, hacerte libre...
Ojos vendados a la realidad que ahora mismo te rodea, oídos alerta pendientes del mas mínimo estímulo que te dé alguna indicación de dónde o qué estoy haciendo....
Te sumerges en un mundo de pequeñas sensaciones, todas ellas sumadas conforman una amalgama que recorren tus neuronas en pos de tu centro de placer. Tus zonas erógenas responden trascendiendo la anodina realidad para trasladarse a un plano de placeres ininteligibles...
Tu suave cabello descansa sobre tus hombros, los pendientes que cuelgan de tus lóbulos, tu boca salivando ávida de los míos, el frío del metal rodeando tu cuello, tu clítoris palpita mientras tus labios se empapan de ganas, ganas de sentir, ganas de experimentar, ganas de correrte y perder el control sobre tu propio cuerpo...
Respiras de forma agitada a medida que trascurre el tiempo, ligeros gemidos brotan de tu boca a la par que se eriza la piel de tus muslos...
Tus pezones se muestran orgullosos, me apuntan osados solicitando mi atención, los rodeo con la fusta sin llegar a rozarlos siguiendo la senda que marcan tus aureolas...
Y ahora, sin más preámbulos, el cuero va ser sustituido por mis manos guiadas por las ganas que tengo de poseerte...
©Navegandoportumente
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abr · 11 months
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Egregio direttore, sono un agricoltore, ho più di 60 anni, ho fatto la terza media ma la mia carenza di istruzione non mi fa alterare la realtà. Le scrivo un po’ arrabbiato da Imola.
Vi informo su quello che è successo in Romagna:
1) le campagne sono state abbandonate, sopratutto nelle zone montane e nessuno tutela il territorio. Certe zone non danno o danno meno reddito;
2) la manutenzione dei fiumi non viene fatta: nei letti dei fiumi vengono fatti crescere molti alberi. A questi si aggiungono i molti rami secchi trasportati dalla corrente verso valle, che vanno a formare dighe lungo il corso dei fiumi. Questo riduce anche dell’80 per cento il deflusso delle acque piovane rendendo più facile la rottura degli argini.
A Spazzate Sassatelli (frazione di Imola) il livello dell’acqua è più basso di circa 4 metri rispetto a cinque chilometri a monte dove si è rotto l’argine del fiume Sillaro che ha inondato le campagne.
Se qualche agricoltore o persona di buona volontà intende pulire il letto del fiume, rischia sanzioni o la reclusione. Ci sono aziende che in cambio del legno asportato pulirebbero il corso dei fiumi a costo zero.
È semplicistico dare la colpa al cambiamento climatico, bisognerebbe invece dire che non si è stati in grado di capire come tutelare il territorio e aiutare nel territorio chi prova di sopravvivere.
È falso dire che i giovani ritornano in campagna. No, numeri alla mano nelle campagne i giovani diminuiscono continuamente anche perché in campagna c’è da farsi un mazzo così, con un reddito molto basso.
Non intendo essere offensivo, spero che abbia capito il senso della mia mail. Grazie dell’attenzione
Roberto Baroncini
via https://www.ilsussidiario.net/news/lettera-macche-cambiamento-climatico-i-fiumi-sono-lasciati-a-se-stessi/2539338/
"Il cambiamento climatico" è la nuova grande scusa plurivalente omnicomprensiva The Blues Brothers style, I swear to God (e la gente se la beve come la ragazza di Jake):
youtube
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arreton · 2 months
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La nuova casetta in provincia di Bergamo è buttata in una valle in mezzo alle montagne: apri la finestra e puoi fare lo yodel, la gente giù nella zona residenziale ti sentirà e risponderà a pieni polmoni. È grande e luminosa ed io mi sento già scomparire in mezzo a tutta quella luce. I mobili sono brutti, c'è troppo legno e sento l'odore di vecchio già a guardare le foto, ma c'è un orologio a pendolo che mi piace: mi ricorda l'orologio che vedevo a casa della mia prozia, il ticchettio costante e l'oscillazione ipnotizzante del pendolo e il brusco risveglio dall'ipnosi dato dal suono che faceva ogni tot. Mi vedo girare scalza per la casa silenziosa, quando non c'è nessuno, e guardarmi intorno dicendomi: forse ho esagerato quando dicevo che mi sarei rintanata in una casa sul cocuzzolo di una montagna. Certo che, se ci penso, passare dal mare alla montagna è veramente radicale come scelta, mi sorprendevo l'anno scorso quando mi giravo intorno a vedevo solo montagne quando io ho sempre visto solo mare acqua e spiaggia. Saranno solo un paio di mesi – chissàchissà – ma quella casa già è mia: immagino librerie lungo tutte le pareti nel salone, un tavolinetto con un paio di sedie sul balcone; angolo ufficio e angolo trucchi nella camera da letto, cameretta adibita a stanza per il computer; planetaria, macchinette per il caffè, forno, forno a microonde in cucina, col bancone per preparare il cibo separato dai fuochi e dal lavello; vedo tanti tappeti per la casa e me che lavo a terra perché tra tutte le faccende domestiche che in generale odio e schifo lavare a terra è l'unica che mi rilassa e mi diverte. Il padrone di casa dice che c'è un cane lì nel cortile, dice che non entra mai in casa e che è una pecorella talmente è buono, allora mi immagino che torno da lavoro io che apro il cancello e vedo un cane pastore grosso e mansueto battermi la coda e farmi le feste. Sono pensieri felici, forse un po' illusi, mi sembra quando da bambina mi mettevo a fantasticare robe talmente assurde che sembravano reali e fattibili. Ma a far venire i pensieri intrusivi ci vuole un attimo, d'altronde da piccola le mie fantasticherie venivano in poco tempo buttate giù ed infangate: i primi tempi mi sa dalle persone a me vicine, in poco tempo poi imparai a farlo da sola. Ad esempio, se mi fermo un attimo, penso che mi fa paura questo cambiamento: temo di rimanere sola abbandonata a me stessa e di non sapermi gestire. Questo perché questa notte ho sognato letteralmente di impazzire: avevo gli occhi furiosi, un odio che partiva dal petto e saliva in gola, gridavo ma di un grido grosso e feroce, mi sentivo quasi posseduta come quella volta che gridai nel sonno terrorizzata perché mi sentivo posseduta. In questi giorni poi sono tornata a fare sogni nervosi, dove litigo con la gente, addirittura con dei miei ex colleghi della pizzeria coi quali invece non ho mai avuto problemi. Guardo le mie reazioni inconsce e mi spavento all'idea di rimanere da sola in un posto così lontano. Però guardo anche le foto, vedo tutta quella luce e penso che sarà ottima per fare le foto e allora penso che mi servirà un cavalletto e altre cianfrusaglie varie. Chissà, magari un giorno realizzerò anche il sogno di mio padre di avere un telescopio. Intanto però mi dico che: se passati questi due mesi sarò costretta a ritornare giù al sud, sarà la volta buona che impazzirò definitivamente.
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filorunsultra · 2 months
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Dakota Jones, l’aria inquinata, la panchina di Chamonix
Dunque c’è questa foto, ripubblicata su Instagram mesi fa, che ho salvato nella certezza che un giorno sarebbe tornata utile. Si vedono tre persone su una panchina, a Chamonix Mont-Blanc, lungo la pista ciclabile. Si chiamano Scott Jurek, Goeff Roes e Dakota Jones, e tutti e tre si sono appena ritirati dall’Ultra-Trail du Mont Blanc 2011. Sono seduti su quella panchina ad aspettare di vedere Kilian Jornet vincere il suo terzo UTMB. Sono giovani—uno di loro lo è ancora oggi, mentre gli altri due appartengono già all’Olimpo dell’ultrarunning. Ripostando la foto, qualche giorno dopo aver fatto podio a CCC, nel 2023, Jones aveva scritto: “In my recent post I mentioned sitting on a bench in Chamonix after dropping out of UTMB 2011. Scott Jurek sent me the photo! This is from that day! I can’t remember who these two other people are. They probably aren’t important to the history of trail running… I look such an idiot on this picture”.
Tra quella panchina e noi ci passano tredici anni, ere geologiche e generazioni di corridori, ma c’è chi è riuscito ad attraversarle indenne, arrivando dall’altra parte meglio di come era partito. Non molti, a dire il vero, e dei tre in quella foto uno soltanto. Nel frattempo, Jurek è diventato una divinità, Roes è stato semidimenticato (forse perché vive ad Anchorage, Alaska, ai confini del mondo conosciuto), ma solo Jones ha continuato a correre ad altissimi livelli, e forse più alti di allora—questo e altri sono i vantaggi di iniziare a correre ultramaratone a 18 anni. Ne riportiamo brevemente la carriera, testimoniata nelle agiografie e consultabile su UltraSignup: Jones corse la sua prima 50 chilometri nel 2008 a Moab, la cittadina dello Utah in cui è nato. Il maggio successivo corse la sua prima 50 miglia, mentre nel 2010 la prima 100 miglia, Bear 100, chiudendo in settima posizione in 22 ore e 15 minuti e vincendo la Bear 50 miglia dieci giorni dopo. Il giorno della foto sulla panchina a Chamonix Jones non ha ancora 21 anni e ha da poco corso la sua prima Hardrock 100 (secondo in 27h10’). Da lì in poi ha corso ogni gara che qualunque corridore coscienzioso sognerebbe di correre, e, oggi, dà l’impressione di essere in questo sport da sempre, pur avendo a malapena 34 anni e avendo appena raggiunto la fase migliore della sua carriera. Si spiega anche solo così, almeno per chi è sensibile a questo genere di cose, perché sia avvolto da un certo fascino. Tocca contare e ricontare aiutandosi con le dita per convincersi che siano passati solo tredici anni, tanto sono cambiati questo sport e il suo sapore.
Flash-forward. È un pomeriggio di febbraio, da qualche giorno #inquinamentopianurapadana ha preso il posto di #palestina nei trend di X e di Instagram. Da una settimana vengono pubblicate ovunque cartine geografiche molto colorate, anche se tutte un po’ diverse tra loro. Dati indecifrabili ai più, ma con un significato chiaro a tutti. Per gli empiristi e i dubbiosi, da qualche giorno dalla collina est di Trento si distingue un denso strato di foschia che copre il fondo valle anche nelle giornate limpide. C’è dunque un’altra foto, destinata a restare negli annali del Trento Running Club: c’è Martina Valmassoi in piedi su una panchina panoramica della Marzola, al tramonto, con un cielo giallo e azzurro e le classiche nuvole estive di fine inverno, e sotto, sulla valle, quella lingua di polveri sottili che copre migliaia di persone. Noi otto—io, Pass, Micky, Martino, Tommy, Mario (il di lui cane), Martina e Dakota—siamo dall’altro lato della fotocamera, a 900 metri e in maniche corte (Mario no, è un cane). Dakota sta imparando l’italiano e ha ben chiara una frase: “giovedì, merda”. È nota l’affezione dell’italiano per la perifrasi, ma quella è fin troppo chiara, così approfittiamo dell’ultimo giorno di bel tempo per portarli sulla Marzola, al di sopra della malaticcia foschia che adombra la valle.
Avevo visto Dakota Jones per la prima volta in mezzo al deserto, mentre mi superava a un metro e mezzo da terra al terzo giro di Javelina Jundred. La seconda, a Chamonix, a qualche metro dall’ormai proverbiale panchina, aspettando il suo passaggio all’ultimo chilometro di CCC; in compagnia, io, di uno scatenato Francesco Puppi e di un commosso Dylan Bowman, per amore del gesto atletico il primo e per patriottismo il secondo. Anche Martina—già notissima ai più assidui frequentatori di questa rivista, ma mica solo a loro—l’avevo incontrata soltanto di sfuggita. Escluse queste fugaci apparizioni, il primo surreale incontro con entrambi doveva evidentemente avvenire qui, in un parcheggio della Marzola, sopra a Trento, in un anodino pomeriggio di febbraio. La scusa, una serata a cui li abbiamo invitati circa un mese prima con un prosaico messaggio su Whatsapp, per venire a raccontare le loro storie ai corridori di Trento, davanti a una birra, schiacciati in una saletta troppo piccola e con due telecamere in faccia e un registratore sulle ginocchia. Perché le epifanie vanno registrate e tramandate, e riascoltate in loop, anche in forma di aforisma, come un reel, che una volta che finisce ricomincia daccapo. È ancora questa, nonostante tutto, una delle ultime cose che ci illude di vivere ancora uno sport di nicchia, rievocato da quella foto sulla panchina: invitare un atleta a raccontare delle cose a caso a gente a caso in una birreria a caso, e a correre un giorno a caso in un boschetto a caso. E senza sponsor, o senza nominare, nemmeno per sbaglio, le scuderie degli atleti. Questo è il motivo per cui quell’amalgama di individui che chiamiamo comunità (inciso: comunità fisica, non mediatica), individui ancora troppo poco adulti per abbandonare il pronome plurale (chi ce lo dirà, tra vent’anni, che quel noi era solo un’illusione?), continuerà a essere grata e devota.
“Ma la cosa che conta di più è lo sforzo, il viaggio che facciamo allenandoci ogni giorno, la routine, e soprattutto condividere questo viaggio con persone che capiscono, persone come voi. Questo è il modo per abbracciare questa comunità. Non stiamo facendo uno sport individuale, anche se tecnicamente quando corriamo siamo da soli, ma facciamo gare per stare con altre persone e perché così possiamo condividere i nostri obiettivi e la nostra passione con altre persone. Ed è una cosa che non capisco del tutto, è una specie di domanda senza risposta: perché significa così tanto per me? Ma essere in grado di viaggiare per migliaia di chilometri e incontrare un gruppo di persone come voi, che probabilmente sentono la stessa cosa che sento io per questo sport, è qualcosa di potente.”
Una banda di matti. Questo, almeno, deve aver pensato chi passava fuori dal locale e vedeva attraverso le vetrate quella piccola folla ascoltare queste parole. Tutti matti, idealisti e sognatori, che poi in fondo sono la stessa cosa.
C’è questa scena bella e violenta, che in pochi minuti spazza via ogni sogno adolescenziale con un colpo di spugna, qualunque sogno, mio e vostro; è il momento in cui diventiamo adulti, in cui scopriamo che tutto quello in cui credevamo non era che un gioco. È l’ultima scena di Quadrophenia, di Franc Roddamm (1979), che, come tanti film che parlano di queste cose, è diventato il manifesto di un movimento pure facendolo a pezzi. C’è quindi questo Jimmy, sulle scogliere di Dover, che dopo aver trovato nella controcultura mod—ma metteteci quello che volete—il senso della sua vita di adolescente disadattato, e dopo aver fatto a pezzi lavoro e famiglia in nome di quello stile di vita, vede i suoi pilastri crollargli addosso a uno a uno, scoprendo che per tutti gli altri—i suoi amici, i mod—era solo un gioco: un modo di vestire, un modo di comportarsi: niente di esistenziale. Così Jimmy torna a Brighton, il luogo in cui per la prima volta aveva sentito di appartenere a qualcosa, e in cui aveva creduto, nel modo più alto, di essere nato per quello. Qui scopre che il suo idolo ribelle, Ace Face, fa il facchino in un hotel, e deluso ruba la sua Lambretta e la getta dalle scogliere. La fine del noi.
Tutti abbiamo la nostra Brighton, e prima o poi Brighton muore. Però c’è qualcosa che di volta in volta si rinnova, qualcosa di cui continuiamo a portare l’illusione, un noi, che sono poi persone con nomi e cognomi, non certo entità astratte, con cui condividiamo il processo, o se non altro dei momenti, momenti che magari non hanno nessun significato, parole al vento che tra vent’anni nemmeno ricorderemo, ma che sono comunque momenti reali. E siamo disposti a fare a pezzi le nostre vite in nome di questo, e a sacrificare il nostro tempo, il nostro denaro, i nostri dolori, e in una certa misura anche alcuni pezzi della nostra felicità. Chiunque corra le 100 miglia è disposto a farlo, almeno in parte, è una forma di privazione. Una gabbia di matti. Sono modi per sopravvivere, tutti insieme, e per dare un senso a qualcosa che non ce l’ha. Maschere, forse, e allora datecene un’altra, un’altra maschera ancora.
Per capire a che livello la mia condizione sia patologica, questa notte ho sognato di andare in questo posto (foto): è il Twede's Cafè di North Bend, Washington, il diner RR di Twin Peaks. Nel sogno non avevano la crostata di mirtilli, bastardi. Poi perdevo treni e aerei e accadevano le classiche cose dei sogni, in cui di solito vivo la perenne condizione dell’out of time man.
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susieporta · 5 months
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(AL FUNERALE CON CAINO) - L’avviso di un sms arrivato: “Mi accompagneresti tu?” mi scrive l'altro giorno un signore che, nel tempo lungo della galera, mi è diventato un po’ amico. “Dove devi andare?” gli chiedo via sms. “Vorrei andare al funerale di Giulia. Ma da solo non ho il coraggio”. Lui è un signore ancora giovane che, anni fa, quand'era ragazzo, ha commesso la stessa mattanza che ha commesso Filippo. Oggi, dopo aver scontato tutta la pena che la giustizia gli ha inflitto, è un libero cittadino che si sta rimettendo faticosamente in piedi.
“Certo che ti accompagno, così andiamo assieme!” gli rispondo. “Non voglio entrare in chiesa, però: stiamo fuori, in Prato della Valle. Poi ti riconoscono e io non voglio le telecamere addosso. Mi bastano ancora quelle di quella volta”. Colgo la più bella delle occasioni inaspettate: partecipare al funerale di Giulia con Alessio (nome di fantasia) che è come fosse Filippo. Una cerimonia da brividi: guardavo il volto di lui, il volto di quelli vicini a lui, respiravo il silenzio freddo delle esequie funebri. Il silenzio della piazza attonita.
Al momento della comunione, un signore vicino a noi due, vedendolo così preso dalla cerimonia, gli chiede: “Ma se ti capitasse una cosa del genere, tu cosa faresti?” Non sa che quest'uomo, accanto a me, ha ucciso anche lui una donna. Quella che avrebbe voluto fosse "sua". Il mio amico scrolla la testa, tace, la abbassa. Io capisco tutta la sua fatica, l'altro capisce che anche il mio amico, in un'occasione simile, non saprebbe come comportarsi. Dall'altare parla il papà di Giulia: Alessio mi stringe la mano e da come me la stringe percepisco che le parole di Gino Cecchettin stanno incidendo la sua memoria come fossero un punteruolo. Aspettando il tram, mi dice: “Oggi, per me, è finita la galera: dovevo vedere coi miei occhi, respirare, le conseguenze di un gesto simile a quello che ho fatto io, visto che quella volta il funerale di lei io non l'ho visto nemmeno per televisione. Mi sono sempre chiesto cosa si provasse”. Colgo la palla al balzo: "Cosa si prova, Alessio?" Mi allontana dolcemente con la mano.
Siamo andati via dopo le parole di Gino, attaccate addosso come fango e diamanti: “Io non so pregare, ma voglio sperare”. Ha messo i soldi nella macchinetta, ha comprato il biglietto del tram, anche per me: “Prossima fermata: stazione”.
Anche oggi, per l'ennesima volta, Dio mi ha rieducato: mi ha fatto partecipare al funerale di Abelegiulia accompagnato (e invitato) da Cainoalessiofilippo. Ci sono giorni, questo è uno di quelli, che il Vangelo ti scotta in mano. Ma non lo puoi passare come se stessimo giocando in oratorio a “palla avvelenata”: devi accettare di tornare a casa con le tue ustioni.
Seduto accanto a Caino che non parla più.
E ad Abele che, nel frattempo, potrebbe essersi messo in moto per andare a recuperare il suo Caino personalizzato.
Cosi sia #sullastradadiemmaus
Don Marco Pozza
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jartitameteneis · 18 days
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La aparición de los talibanes está relacionada con la caótica situación en Afganistán tras la partida de las fuerzas soviéticas en 1989. El régimen comunista afgano cae tres años más tarde. En abril de 1992, entran a Kabul los muyahidines, grupos armados que habían combatido al Ejército Rojo con apoyo estadounidense y pakistaní, pero no logran ponerse de acuerdo en torno a la forma de administrar el país. Entonces estalla una guerra civil que duraría 4 años y causaría cerca de 30.000 víctimas y por lo menos 100.000 heridos. El país estaba totalmente destruido, y la población, acorralada y agotada.
En ese contexto surgen los talibanes, literalmente los “estudiantes”, una fuerza compuesta por estudiantes de escuelas islámicas situadas mayormente en el sur del país. El movimiento, emanado principalmente de la comunidad pastún, fue fundado en el otoño boreal de 1994 por el mulá Mohammed Omar Akhunzada en la ciudad de Kandahar, y contaba con un activo apoyo de los servicios de inteligencia pakistaníes. Gozaba de una fuerte legitimidad religiosa y prometía liberar al país de los señores de la guerra.
En abril de 1996, el mulá Omar es declarado “Comandante de los creyentes” en Kandahar, y los talibanes entran a Kabul el 27 de septiembre de 1996.
UN ARRAIGO TRIBAL
Los talibanes controlaban todo el territorio afgano salvo el valle de Panshir, en el noreste, que seguía bajo el mando del comandante Ahmad Shah Masud. Los nuevos adalides de Kabul se presentaron como un movimiento capaz de llevar la paz y encarnar el orden moral. Estaba respaldados por la organización tribal pastún del sur. También recibían apoyo de Pakistán, el país vecino que los considera cercanos ideológicamente y los ve como una promesa de estabilidad, una apertura hacia las rutas comerciales de Asia Central y un aliado contra India.
Apenas tomaron el poder, los talibanes instauraron un régimen que descansaba enteramente en una interpretación extremista de la ley islámica, la sharia. Las mujeres estaban obligadas a llevar el burka azul que recubre enteramente el cuerpo y el rostro. En caso de adulterio o falta de pudor, corrían el riesgo de sufrir la lapidación o latigazos. No tenían acceso a la educación ni al empleo, y solo podían salir acompañadas por un hombre. También terminó el entretenimiento: cine, música y televisión ya no eran tolerados, al igual que la posesión de dispositivos de captura de fotos. Los homosexuales eran condenados a muerte, y la comunidad hazara, de confesión chií, era particularmente perseguida.
A comienzos de 2001, los talibanes destruyeron los budas de Bamiyan, símbolo del patrimonio cultural afgano y joya del arte iraní-búdico.
LA DERROTA POS 11 DE SEPTIEMBRE
El gobierno de los talibanes solo fue reconocido por Pakistán, los Emiratos Árabes Unidos y Arabia Saudita, cuyo apoyo no sorprende, ya que Riad había contribuido a financiar la guerra contra los soviéticos y había enviado combatientes árabes a Afganistán. Desde 1996, se instala en el país el movimiento Al Qaeda de Osama bin Laden, quien se había casado con la hija del mulá Omar.
Luego de los atentados del 11 de septiembre de 2001, Washington solicitó la extradición de bin Laden, pero los talibanes se negaron a entregarlo. Alegando su voluntad de venganza, pero sobre todo “la guerra contra el terrorismo”, Estados Unidos y sus aliados –principalmente los británicos en un primer momento– comenzaron a bombardear el país el 7 de octubre de 2001. Sus operaciones acompañaban el avance en tierra de los soldados de la Alianza del Norte del fallecido comandante Masud. Las ciudades controladas por los talibanes cayeron una tras otra. Kabul fue tomada sin combate el 13 de noviembre de 2001.
Los talibanes y Osama bin Laden pasaron a ser fugitivos. El acuerdo de Bonn de diciembre de 2001 apuntaba a construir un Estado afgano sin ellos, que se atrincheraron en Pakistán antes de reaparecer en la provincia de Helmand en 2003, principal centro de cultivo de amapola. Con el paso de los años, volverían a conquistar cada vez más ciudades. Las fuerzas gubernamentales, respaldadas por tropas enviadas por la ONU y la OTAN, no dejaron de combatirlos, pero sus esfuerzos fracasarían, al igual que la instauración de un gobierno central fuerte en Afganistán.
Los diferentes anuncios de retiro de las tropas de la OTAN y luego de las estadounidenses permitieron abrir el diálogo en 2017 entre los talibanes y el gobierno de Kabul, en vista de “reconciliar el país”. El Acuerdo de Doha, firmado en febrero de 2020 entre Washington y los talibanes, deja constancia del retiro definitivo de los estadounidenses a cambio de una garantía de seguridad. El 15 de agosto, es decir dos semanas antes del retiro del último soldado estadounidense de Afganistán, los talibanes entraron a Kabul, sin efectuar, una vez más, un baño de sangre.
orientxxi.info
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De Afganistán aprendimos, desgraciadamente, un término que utilizo mucho. Talibán. Hay mucho talibán fuera de Afganistán. En mi misma calle, en mi trabajo, en mi familia. Nos cruzamos con ellos a diario, gentes que nos regalan sonrisas, que nos saludan, que se interesan por saber cómo estamos, que no te tiran piedras físicas. Pero quisieran. Gentes radicales que todo lo juzgan con un prisma inamovible, sesgado, rotundo, inmisericorde. Salvador Navarro
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t-annhauser · 11 months
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Sopravviveva ancora nei nonni, come un evento di proporzioni bibliche, il ricordo dell'alluvione del Polesine del '51. La piena del Po minacciava allora proprio i comuni in cui abitavo, Sermide, Bergantino, Castelmassa, dove il grande fiume descrive una grande curva che finisce per sopportare tutta la pressione delle piene. Le cronache ci dicono che i cittadini volenterosi di Bergantino e Castelmassa avevavano lavorato alacremente per innalzare le soglie degli argini di almeno un metro, mentre quelli di Occhiobello, che si trovavano qualche chilometro più a valle, procedevano svogliatamente, quasi rassegnati. La mattina del 14 novembre 1951 si era diffusa fra gli occhiobellesi la falsa notizia che il Po aveva rotto a Bergantino, sicché, credendo ormai sfogata la piena più a monte, avevano smesso di lavorare alle opere di fortificazione: conseguenza fu che le acque del fiume tracimarono proprio in quel punto portandosi via tutto l'argine. Sfogata la piena sulla riva sinistra, quella che guardava a nord, gli abitanti di Moglia di Sermide, che si trovavano sulla riva destra, potevano dirsi in salvo. Ancora negli anni ottanta sopravviveva nel racconto dei nonni il ricordo di quel sollievo, mors tua vita mea, un sollievo affranto, rovinato dal pensiero per la sorte che era toccata agli altri, ma che aveva comunque permesso loro di salvarsi. In tutto questo non mancarono gli infami che appollaiati sull'argine sicuro sbeffeggiarono gli sfollati dell'altra parte, perché la gente è cattiva, e meschina.
Nella foto, i lavori di chiusura della rotta di Occhiobello (notare che non si capisce più dove finisce il fiume e comincia la terra)
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kon-igi · 2 years
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NON SIETE STATO VOI
Post polemico politico in dirittura di arrivo e un po’ rimpiango quando mi sentivo distaccato dal mondo e farneticavo di eleuterìa, neotenie psichiche, distanziamento emotivo e valle della perturbanza ma ultimamente ciò che mi avviene attorno non è che io riesca ad ammortizzarlo così troppo bene e allora vediamo di concretizzare le mie vaghe considerazioni costanti.
Gli animali non sono feroci.
Quando in un articolo di giornale viene usato il termine ‘furia animale’, ‘aggressione bestiale’ e tutte quelle locuzioni che porrebbero l’uomo un gradino evolutivo sopra gli altri esseri viventi, invece a me viene proprio da pensare l’esatto contrario.
Non si tratta del solito discorso ‘gli animali sono meglio degli uomini’, ‘il tal animale non farebbe questo ai propri cuccioli’ e le solite baggianta romantiche da amanti dei pelosetti ma il fatto che l’aggressività di QUALSIASI ANIMALE è proporzionale al rischio che sta percependo e ai vantaggi e agli svantaggi che quel suo comportamento aggressivo gli porterebbe.
Un cane non morde se può abbaiare e non abbaia se può andarsene. Punto.
E così ogni altro animale che attraverso secoli di evoluzione ha imparato che ogni comportamento aggressivo porta più svantaggi che vantaggi e che quindi costituisce una extrema ratio.
Volete sapere quali sono quegli animali che invece sono ‘immotivatamente’ (per noi) aggressivi e si comportano in modo ‘irrazionale’ (per noi)?
Quelli che sono in trappola.
Quegli animali a cui è stato distorto l’ethos per il comodo dell’essere umano e che a un certo punto abbiamo dimenticato essere individui viventi, prendendo a considerarli solo ‘utili’. 
Quelli diventano feroci e si possono anche accanire in un modo che liberi in natura non avrebbero mai fatto.
Potrei dire molto più di così su quello che è successo a Civitanova Marche ad Alika Ogorchukwu, l'ambulante nigeriano ucciso da Filippo Ferlazzo, ma sono riuscito a trattenermi per uno o due giorni prima di commettere l’errore emotivo di legare quanto successo al razzismo, al clima politico e alle imminenti elezioni... come in modo più o meno velato stanno facendo un po’ tutte le testate giornalistiche.
Il fatto è che ci siamo messi in trappola da soli, con le nostre mani.
Ora ci si domanda dove fosse il tutore legale dell’uomo, tenuto a vigilare sulle sue problematiche psichiatriche (ma voi, geni sociali, avete idea cosa significhi convivere o gestire chi è affetto da problematiche psichiatriche?) ma a chi lo chiede è evidente che gli tremi il dito con cui fino a poco prima lo indicava, accusandolo di ‘razzismo’ e che ora deve subito trovare un nuovo colpevole.
Vogliamo accusare la gente che faceva i video con lo smartphone invece di fermarlo e scomodare i sociologi da talk show che parlano di ‘sindrome dello spettatore’?
Davvero me lo sta spiegando uno col clickbait nel titolo dell’articolo, su un sito infarcito di link a video anticipati come sconvolgenti e pubblicità di prodotti di bellezza che gli estetisti non vogliono che tu conosca?
Offendo il culo a dire che hanno la faccia come lui.
Vi prego... fate un passo indietro.
Non so come chiedervelo ma fermatevi e cercate di rendere il mondo un posto migliore con un piccolo gesto di gentilezza nei confronti delle persone che avete accanto, amori di una vita o passanti che siano, perché queste diatribe sono confezionate, proposte e vissute per intrappolarvi ogni giorno di più nella contrapposizione all’altro, nell’astio del diverso, del meno intelligente o colto di voi, coll’obiettivo di provocare un risentimento che non solo non vi rende migliori di loro ma vi cancella i colori del mondo dagli occhi e vi fa insensibili alla vera sofferenza, quella dei dimenticati.
Io sono sopraffatto, ogni giorno sempre di più, e non so ancora per quanto tempo riuscirò a dirmi disposto a farmi carico di questo peso immane.
Ho bisogno di sapere che non sono solo.
Grazie.
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Kung Fu Panda 4
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✔️ 𝐒𝐓𝐑𝐄𝐀𝐌𝐈𝐍𝐆 𝐎𝐑𝐀 𝐐𝐔𝐈 ▶
https://megavids.online/movie/1011985/kung-fu-panda-4?tumblrah
:: Trama Kung Fu Panda 4 ::
Mentre i Cinque Cicloni sono via per allenarsi dopo aver compiuto varie missioni, Po, destinato a diventare la guida spirituale della Valle della Pace, è costretto a cercare il suo successore come nuovo Guerriero Dragone mentre combatte insieme a una volpe ladra di nome Zhen, i nostri eroi dovranno sconfiggere un nuovo spaventoso nemico chiamato "La Camaleonte", una terribile ed infida strega che riporta in vita Tai Lung e gli altri nemici sconfitti dal panda nei film precedenti con l'unico scopo di governare la città di Juniper e la Valle della Pace grazie alle tecniche di kung fu che ruba a questi ultimi.
Kung Fu Panda 4 è un film d'animazione del 2024 diretto da Mike Mitchell e Stephanie Ma Stin.
Prodotto da DreamWorks Animation e distribuito da Universal Pictures. È il quarto capitolo del franchise di Kung Fu Panda, e sequel di Kung Fu Panda 3 (2016), e presenta Jack Black, Dustin Hoffman, James Hong, Bryan Cranston e Ian McShane che riprendono i ruoli dei film precedenti, con Awkwafina, Viola Davis e Ke Huy Quan che si uniscono al cast come nuovi personaggi.
Ai registi Jennifer Yuh Nelson e Alessandro Carloni venne chiesta la possibilità di un quarto film di Kung Fu Panda prima dell'uscita del terzo film nel gennaio 2016, con Nelson che in seguito affermò nell'agosto 2018 di essere aperta a un quarto capitolo. DreamWorks ha annunciato ufficialmente il quarto film nell'agosto 2022, con Mitchell, Ma Stine, e Rebecca Huntley rispettivamente come regista, co-regista e produttore nell'aprile 2023. La maggior parte del cast vocale principale è stato annunciato nel dicembre 2023, in seguito al casting di Awkwafina nel maggio di quell'anno.
Un film (in Italiano anche pellicola) è una serie di immagini che, dopo essere state registrate su uno o più supporti cinematografici e una volta proiettate su uno schermo, creano l'illusione di un'immagine in movimento.[1] Questa illusione ottica permette a colui che guarda lo schermo, nonostante siano diverse immagini che scorrono in rapida successione, di percepire un movimento continuo.
Il processo di produzione cinematografica viene considerato ad oggi sia come arte che come un settore industriale. Un film viene materialmente creato in diversi metodi: riprendendo una scena con una macchina da presa, oppure fotografando diversi disegni o modelli in miniatura utilizzando le tecniche tradizionali dell'animazione, oppure ancora utilizzando tecnologie moderne come la CGI e l'animazione al computer, o infine grazie ad una combinazione di queste tecniche.
L'immagine in movimento può eventualmente essere accompagnata dal suono. In tale caso il suono può essere registrato sul supporto cinematografico, assieme all'immagine, oppure può essere registrato, separatamente dall'immagine, su uno o più supporti fonografici.
Con la parola cinema (abbreviazione del termine inglese cinematography, “cinematografia”) ci si è spesso normalmente riferiti all'attività di produzione dei film o all'arte a cui si riferisce. Ad oggi con questo termine si definisce l'arte di stimolare delle esperienze per comunicare idee, storie, percezioni, sensazioni, il bello o l'atmosfera attraverso la registrazione o il movimento programmato di immagini insieme ad altre stimolazioni sensoriali.[2]
In origine i film venivano registrati su pellicole di materiale plastico attraverso un processo fotochimico che poi, grazie ad un proiettore, si rendevano visibili su un grande schermo. Attualmente i film sono spesso concepiti in formato digitale attraverso tutto l'intero processo di produzione, distribuzione e proiezione.
Il film è un artefatto culturale creato da una specifica cultura, riflettendola e, al tempo stesso, influenzandola. È per questo motivo che il film viene considerato come un'importante forma d'arte, una fonte di intrattenimento popolare ed un potente mezzo per educare (o indottrinare) la popolazione. Il fatto che sia fruibile attraverso la vista rende questa forma d'arte una potente forma di comunicazione universale. Alcuni film sono diventati popolari in tutto il mondo grazie all'uso del doppiaggio o dei sottotitoli per tradurre i dialoghi del film stesso in lingue diverse da quella (o quelle) utilizzata nella sua produzione.
Le singole immagini che formano il film sono chiamate “fotogrammi”. Durante la proiezione delle tradizionali pellicole di celluloide, un otturatore rotante muove la pellicola per posizionare ogni fotogramma nella posizione giusta per essere proiettato. Durante il processo, fra un frammento e l'altro vengono creati degli intervalli scuri, di cui però lo spettatore non nota la loro presenza per via del cosiddetto effetto della persistenza della visione: per un breve periodo di tempo l'immagine permane a livello della retina. La percezione del movimento è dovuta ad un effetto psicologico definito come “fenomeno Phi”.
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gregor-samsung · 2 months
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Mi ricordo
“ Mi ricordo che una volta la Valle d'Aosta aveva il mare. Era abitata dai Salassi (che in greco vuol dire «popolo del mare») che per le navi di passaggio avevano costruito sul Cervino un faro alto almeno come Mike Bongiorno. Adesso, con gli anni, il mare si è ritirato ed è rimasta soltanto la Dora Baltea, ma prima, al posto delle trote c'erano i delfini salmonati. I delfini più belli venivano catturati e portati a Cogne dove, invece delle acciaierie, c'era un acquario e se si girava cadeva la neve finta. Bisognava stare attenti, però, perché usciva tutta l'acqua e i delfini senza acqua muoiono, quasi come gli uomini. Mi ricordo che al porto di Courmayeur si arrivava in skilift. Dalla banchina partiva il motoscafo più alto del mondo; si saliva e poi via, ottocento chilometri di piste. Sci d'acqua, naturalmente. Mi ricordo che il Piccolo San Bernardo era un'isola e il Gran San Bernardo era un'altra isola, ma più grande ed era piena di cani da valanga che passavano le giornate a guardarsi in faccia e a dirsi: «Boh?» Per quello gli è venuta la bocca all'ingiù. Oggi risulta chiaro che i cani da valanga erano fuori luogo, ma oggi, col progresso, si sanno tante cose che una volta non si potevano capire.
Per esempio allora ci si chiedeva perché tutti i rifugi del Cai si chiamavano «Miramare» e perché un antico proverbio pugliese diceva più o meno: «Se Aosta avesse i monti sarebbe una piccola Sestrière». «Che cosa c'entrano i monti», pensava il guardapesca ributtando in mare un camoscio che gli era rimasto impigliato nella rete. Già allora i camosci erano una razza protetta. Li tenevano al Gran Paradiso assieme alle foche, due panda e qualche Duna giardinetta. Mi ricordo che i valdostani cantavano in coro un'antica canzone di montagna. «Giù pei ponti/ giù pei ponti che noi andremo/ coglieremo/ coglieremo le stelle marine/ per donarle/ per donarle alle bambine…» Mi ricordo che l'aquila faceva – abbastanza bene – il verso del gabbiano e tutt'intorno c'era un delizioso profumo di spaghetti alle vongole e di fontina. Erano i marinai che tornavano con le loro greggi di tonni. Passavano sotto l'Arco di Augusto (che allora era un ponte), baciavano le loro mogli e andavano a rifocillarsi al bar «Caa custa quel caa custa viva el battagliùn d'Aùsta». Era un nome un po' lungo per un semplice bar dove si beveva soltanto genepì e si mangiava soltanto genepesca. Per questo i marinai familiarmente lo chiamavano «Caa custa». Mi ricordo che fu quando il «Caa custa» venne venduto a Maria Josè (una nobildonna che aveva curiosamente il nome di Altafini ma lanciava i piatti come Suarez) che incominciarono a cambiare le cose. Al «Caa custa» prese piede irreversibilmente la Nouvelle Cuisine e nella zuppa di pesce comparvero i primi savoiardi. Era troppo. I valdostani chiesero aiuto a una città amica, Bergùm de Hura e al suo re, Mais, che a tappe forzate occupò Aosta e impose su tutta la Valle la polenta. I savoiardi vennero mandati in esilio e il mare si ritirò a Cascais. “
Gino & Michele, Saigon era Disneyland (in confronto), Milano, Baldini & Castoldi, 1991¹; pp. 107-108.
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vintagebiker43 · 11 months
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Io non lo so cos’ha questa terra, per farsi amare così tanto.
Sarà che ce lo insegnavano da piccoli a tenerci stretti, gli uni con gli altri, a giocare insieme nei cortili, a non voltare mai le spalle al sole, a cadere bene, a non piangere quando ci si sbucciava le ginocchia.
Sarà che i nostri nonni avevano sempre la medicina giusta da darti, un sorsino di sangiovese, il panino con lo zucchero e le preghiere, anche quando non le volevi dire.
Sarà che abbiamo imparato a fare da mangiare solo con l’acqua e un po’ di farina, che a chi verrebbe mai in mente, dico io, di tirarci fuori una piadina? Sarà che condiamo la tavola anche con le erbe che forano tanto e ti pungono le dita, che siamo cresciuti fra i filari dell’uva, i campi del grano, che abbiamo imparato a saltare i fossi, ad affilare una falce, ad avere sempre nostalgia di casa.
Sarà che ci hanno insegnato non a lottare, ma a resistere, ad andarcene ma mai a scappare, a pulirci il naso nella manica dei grembiuli, a dosare le provviste, a non buttare via niente, a conservare fotografie nella scatola dei biscotti.
Sarà che ci hanno insegnato a odiare poco ma di più a comprendere, a bestemmiare col vicino perché “delle volte ci vuole” ma poi prestargli la vanga che “non si dice di no a nessuno”.
Sarà che non siamo fatti di strade e di confini, perché noi abitiamo di qua o di là dal mare, di qua o di là dalla ferrovia, a levante o a ponente, della valle di sopra o di sotto, e che tanto si capisce da dove vieni “tè” con quell’accento.
Sarà che la le nostre mamme ce lo hanno sempre insegnato che non c’è niente che dura per sempre, che come ti ho fatto ti disfo; che basta un temporale per guastare una stagione, e che usi poca acqua la sfoglia viene dura.
Sarà che di schiaffi ne abbiamo presi, che ogni marachella ha ancora il segno della ciabatta sulle gambe, che li scapaccioni ci sono serviti a capire che avevamo anche una testa e che dovevamo imparare a usarla, a guardare bene a destra e a sinistra prima di attraversare ogni strada.
Sarà che abbiamo il mare vicino e i lividi vanno via prima con l’acqua salata, sarà che abbiamo sorrisi facili e camminiamo sul tempo del valzer, che per ballarlo bene non devi guardarti i piedi, ma abbracciare l’altro e guidarvi insieme.
Io non lo so cos’ha questa terra per farsi amare così tanto, so solo che così lo abbiamo imparato dai nostri padri, e così lo abbiamo insegnato ai nostri figli.
Ce la facciamo, perché non siamo mica soli. Ma va là, guarda quanti romagnoli!
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firewalker · 2 years
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Eppure vi capisco, a voi "virologi" e "dietologi". Ovvero: io e l'energia nucleare
Ho fatto la mia tesi di laurea in virologia, l'ho studiata per un paio d'anni e qualcosa m'è rimasto. Ho delle conoscenze sicure e altre che dovrei ripassare un po', ma in generale quel che dico ha un fondo di conoscenza abbastanza buono.
Poi mi sono dedicato alla nutrizione, e ormai sono 12 anni che faccio diete, direi che posso considerarmi un esperto della materia, per quanto (side-b dell'effetto Dunning-Kruger) sono sicuro di dover ancora studiare parecchio su troppi argomenti.
In generale, quando si parla di biologia, e in particolare di immunologia, microbiologia e nutrizione, credo di poter dire la mia senza grossi problemi. E questo mi ha portato a litigare con un sacco di gente convinta di saperne più di me pur non avendo mai nemmeno aperto un libro di biologia alle superiori.
Queste persone hanno le loro convinzioni, date da... beh, da quel che hanno intorno. Non hanno fatto uno studio rigoroso della materia, hanno sentito esperti che dicevano A, esperti che dicevano B, hanno fatto la somma nella loro testa e sono arrivati alla conclusione C, oppure hanno sposato una delle due Chiese a occhi chiusi.
Insomma, molta gente s'è trovata "dal lato giusto" o "dal lato sbagliato" della conoscenza puramente per caso, fortuna, simpatia con il divulgatore (in senso lato) che gli piaceva di più. Ed è ovvio che sia così: gli architetti sanno di architettura, non di batteriologia, quindi devono affidarsi agli esperti se parlano di... che ne so, antibiotico-resistenza. E se si trovano a parlare con l'esperto "sbagliato", ecco che si arriva pure alla conclusione che l'architetto risulta convinto che i batteri non esistono. (Sì, lo so, troppe virgolette... addirittura nel titolo! Abbiate pazienza).
Dicevo che io questa gente la capisco. Perché tra i miei contatti ho fisici, ingegneri e laici che discutono di energia nucleare. Alcuni spingono per il nucleare, altri che invece portano a spada tratta il vessillo opposto. E io di energia nucleare non so nulla. So quello che ho visto nella serie su Chernobyl, so quello che sento nei documentari, posso pure andarmi a leggere questo o quel report, o articolo scientifico, o statistica mondiale... ma non ho il polso della situazione. Non so come siamo arrivati a questo punto, non so cosa si è fatto, non conosco le tecnologie utilizzate e quelle future, non conosco il contesto in cui ci si muove.
Quando leggo che l'IEEE produce un documento sulla possibilità delle rinnovabili, e trovo in quel documento che si contrappone l'uso delle rinnovabili al petrolio e al nucleare, arrivando quindi alla conclusione che le rinnovabili possono farcela, io sono portato a credere a questa cosa. Poi però, vado a leggere la pagina dell'Avvocato dell'Atomo che continuamente ci dice che il nucleare ci può portare fuori dalla crisi climatica, anche lui documentando le sue affermazioni.
E quindi... ? Io a chi cacchio do retta? Come mi formo una mia idea? Come posso capire se il partito che vuole le centrali nucleari sta cavalcando una moda e se è meglio puntare su quello che sponsorizza l'eolico? Devo laurearmi in fisica pure io? O magari in ingegneria, così so esattamente come funziona una centrale nucleare?
Mi trovo nella condizione di non saper decidere, perché sono questioni tecniche sulle quali solo gli esperti possono discutere a ragion veduta. La mia opinione sarà necessariamente viziata dal mio sentimento, dalla mia simpatia per questa o quella posizione. Posso dire al vegano che se non prende la B12 starà male... ma se facessero un nuovo referendum sul nucleare io dovrei prendere una decisione di pancia, non ragionata, perché per me è impossibile farlo.
Secondo me, il grafico del DKE è anche troppo ottimista
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Quella valle di fiducia in se stessi, quello sprofondamento nell'abisso dell'ignoranza consapevole, si trova molto più a sinistra rispetto alla "competenza media". Per essere nel picco iniziale non devi proprio mai aver sentito parlare dell'argomento, come la prima volta che ho smontato un rubinetto da solo e mi sono trovato a piangere con i pezzi in mano a chiedermi chi mai avesse rubato le viti che avevo in tasca. Ecco, già quella prima esperienza mi ha fatto sprofondare nella valle, e di certo non ho una "competenza media" nel cambio dei rubinetti.
L'unica differenza tra i "virologi" e i "dietologi" del titolo e me, è che io so di non saperne nulla di nucleare, e mi trovo nella valle. Ma il discorso può essere generalizzato a qualsiasi argomento. Io non so un cacchio di nucleare e non so come prendere una posizione, loro semplicemente hanno preso una posizione di pura pancia, tutto qui.
Il vero dilemma, quindi, è quello di decidere, da ignorante, da che parte stare e sperare di aver scelto "il lato giusto" della conoscenza. A caso.
Come capisco se il mio medico è un bravo medico? Non puoi, mi spiace. Devi fidarti. Solo un medico può giudicare un altro medico.
Come so che la dieta del mio nutrizionista mi farà bene? Lo sai perché lui ha studiato e sa più cose di te. Fidati. Come dici? L'altro nutrizionista dice cose diverse? Peccato.
Va bene se mi mettono una centrale nucleare a duecento metri da casa? Chiedilo ai tecnici che la montano, a quelli che ci lavorano, a quelli che la pagano. E spera che abbiano tutti la stessa opinione.
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