Tumgik
seminostorie · 17 days
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Luna
“Hey, Luna, ma qui parlano di te! Ascolta…”
Luna e Maria si sono incontrate per caso. Una domenica di giugno, più o meno intorno alle sette, Maria si recò al parco per fare una passeggiata: fu allora che sentì quel miagolio gentile provenire da sotto una siepe. Si avvicinò e una palletta nera le venne incontro con la codina all'insù. Come nei migliori video di Instagram, Maria pensò: “Cat distribution system finally chose me!” E andò proprio così. Portò a casa il micino, gli fece un bagnetto e gli diede un po’ di carne in scatola (ovviamente, non aveva in casa tutto l’occorrente per occuparsi di un gatto!). Poi, prima di portarlo dal veterinario, lo guardò con attenzione e si accorse che era una bellissima femminuccia. “Ti chiamerò Luna!” Scelse quel nome perché la gattina non era totalmente nera, ma aveva un curiosa macchia bianca sul petto, che ricordava proprio una mezza luna. Erano passati sette/otto mesi, quel pomeriggio pioveva a dirotto. Maria stava studiando per un progetto del dottorato in storia, mentre Luna poltriva tranquilla sul divano. In un libro sugli usi e i costumi medievali, Maria lesse del destino riservato ai gatti neri. “Hey, Luna, ma qui parlano di te! Ascolta: nel medioevo, i gatti neri erano associati al diavolo e, spesso, nascere gatto nero significava andare incontro alla morte. Tuttavia, bastava anche solo una macchia di un qualsiasi altro colore per risparmiargli la vita. Curioso è il caso dei gatti neri con una macchia bianca sul petto. Quella macchia, infatti, prendeva il nome di “macchina della Madonna”, perché si credeva che fossero stati benedetti, e quindi salvati, dalla Madre di Dio.” La guardò: “Lo sapevi?” - chiese. “Miau!”- rispose Luna, ribaltandosi sul divano.   
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seminostorie · 4 months
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Salima
Un sorriso si disegna sul volto di Salima, che ritorna al suo quaderno e alla sua matita.
Salima guarda fuori dalla finestra, cercando l’ispirazione per un nuovo disegno. Le pareti bianche della sua stanza sono piene di sogni e speranze disegnati a matita. Lo sfondo è sempre, o quasi, il quartiere di periferia dove vive con la famiglia. Ma, nonostante la scala di grigi, in quei disegni la banlieue acquista una luce nuova, di speranza.
Salima alza lo sguardo e nota Petite nascosta dietro la tenda, intenta a scrutare l’orizzonte. Petite è una gattina bianca con sfumature grigie, che Salima ha trovato qualche mese prima in strada. Ora è parte attiva e amorevole della famiglia. 
Salima inizia a disegnare il profilo della gattina nascosta dietro la tenda, quando le sovviene una cosa che le diceva sempre nonna Rabia: “In Marocco, la tradizione vuole che se una persona ha un desiderio, lo deve confessare all’orecchio del suo gatto e poi dargli da mangiare: se accetta il cibo, allora il desiderio si realizzerà.”
Salima si alza e va in cucina a prendere una manciata di croccantini, si accosta a Petite, le fa una carezza e le sussurra qualcosa all’orecchio; poi le tende la mano con i croccantini. Petite annusa incuriosita, si lecca i baffi e piano piano inizia a mangiare.
Un sorriso si disegna sul volto di Salima, che ritorna al suo quaderno e alla sua matita. Poche ore dopo, una voce le fa interrompere il suo disegno. È di sua madre: “Salima, corri! Guarda chi c’è!”
È nonna Rabia: finalmente è riuscita a raggiungerla in Francia.
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seminostorie · 5 months
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Mamma, chi bussa alla porta?
Amore, non tutte le cose si possono spiegare.
John Talbot era un marinaio inglese, arruolato nella Compagnia britannica delle Indie orientali. Durante il suo ultimo viaggio nella regione sud asiatica, tra il 1703 e il 1706, fu di base a Puri, nell’attuale stato federato di Orissa, nella zona orientale del Paese. Nel tempo libero, che coincideva solitamente con il fine settimana, John e i suoi compagni si dedicavano all’esplorazione e alla caccia, fortemente motivati dal Colonnello Saint-Thomas, comandante della spedizione. Un giorno, esattamente sul finire dell’estate del 1706, decisero di avventurarsi circa ottanta chilometri a nord di Puri, in direzione della foresta di Chandaka, già esplorata in parte l’estate precedente. Colpiti da un improvviso temporale, il gruppo di dieci uomini si disperse nella fitta vegetazione. John Talbot cercò riparo in una grotta infrattata nella boscaglia. Entrandovi, si rese conto che non si trattava di una semplice spaccatura nella roccia, ma che quella grotta, in realtà, era collegata a tante altre, attraverso un’intricata rete di passaggi sotterranei. Decise di passare lì la notte. Accese un fuoco e si sedette all’asciutto, ma, presto, si rese conto di non essere solo. Fu attaccato da una creatura dalle fattezze umane, ma dalla forza di dieci bestie. Un essere pallido come la luna, con lunghi canini, artigli affilati, bava alla bocca e peli diradati qua e là su tutto il corpo. Fu morso ad una gamba, ma riuscì a mettere in fuga la creatura grazie al fuoco. Scappò via e vagò tutta la notte sotto la pioggia, in preda al dolore. Il mattino seguente, passata la bufera, fu recuperato da alcuni dei suoi compagni e riportato a Puri. Nessuno credette al suo racconto e nessuno si chiese mai come fece a guarire in quattro giorni da quella lacerazione così profonda. Nei mesi successivi, John iniziò a provare un forte malessere, anche se la sua forza e la sua resistenza aumentarono a dismisura. Una notte di luna piena, in pieno solstizio d’inverno, pochi giorni prima della partenza per il ritorno a casa, in Inghilterra, John Talbot assunse le sembianze della Bestia e trucidò tre giovani sfortunati che avevano deciso di rincasare tardi. Impaurito, si rivolse a uno sciamano: “Porti il sigillo della Bestia, John Talbot. È inciso lì, sulla tua gamba.” Gettò della polvere sul fuoco e continuò: “Solo le persone che ami potranno salvarti. Gli spiriti mi dicono che fra cinque mesi sarà luna piena anche nella tua terra. Tu uscirai di casa per non far del male a chi ami e chiederai loro di non aprire la porta, mentre sarai fuori di notte. Busserai tre volte e per tre volte loro non dovranno aprirti. Poco prima del sorgere del sole, busserai di nuovo e allora, quando varcherai l’uscio, sarai salvo dalla maledizione.” Quattro mesi dopo, John rientrò in Inghilterra e un mese dopo, poche ore prima del calare del sole, prese da parte sua moglie Angela e le disse quanto accaduto mesi prima e quanto profetizzato dallo sciamano. “Tu sei matto, John - disse -. Credi davvero a queste cose?” Lui: “So cosa ho visto, so cosa mi è capitato e so cosa ho fatto. Amore, non tutte le cose si possono spiegare. Se non vuoi farlo per me, fallo per la piccola Lily.” Lei lo rassicurò con un velo di superficialità, pensando ancora che stesse scherzando. Lui uscì. Passata la mezzanotte, John Talbot bussò due volte, in due momenti diversi. Angela non aprì, ma, stanca dalle fatiche della giornata, dopo la seconda volta crollò in un sonno profondo. Quando John si presentò di nuovo alla porta, bussando con insistenza, Angela aveva ormai perso la cognizione del tempo. La svegliò Lily, chiedendole: “Mamma, chi bussa alla porta?” Lei: “È quel matto di tuo padre” - disse sorridendo. Girò la chiave e la Bestia balzò dentro trucidando lei e la piccola. Il mattino seguente, John si rese conto di ciò che aveva fatto. Raccolse i due corpi e li avvolse in due lenzuola bianche. Diede fuoco al tappeto in sala da pranzo, incendiando casa, andò in camera da letto e si sparò un colpo in testa. Non tutte le cose si possono spiegare.
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seminostorie · 5 months
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Dove vanno a finire i calzini delle persone buone?
Una storia piccola piccola, per provare a dare una risposta a un mistero grande grande.
Martina ha cinque anni. Il prossimo anno frequenterà la prima elementare. Mamma Iolanda e papà Giacomo l’hanno già iscritta nel migliore istituto della città, ma è presto per pensarci. Lei, nel frattempo, si gode le vacanze di Natale, che inframezzano l’ultimo anno delle materne. A dire il vero, queste vacanze non sono iniziate proprio col sorriso. È la vigilia. Martina e i suoi genitori passeranno la serata e aspetteranno la mezzanotte a casa dei nonni materni, Imma e Matteo, insieme agli zii e ai cugini tutti. Ma Martina è triste e arrabbiata, perché dalla lavatrice è uscito solo uno dei “calzini rosa col gattino”, i suoi preferiti. Li voleva indossare anche quella sera, in attesa di Babbo Natale, ma l’altro proprio non si trova. “Cos’hai, Martina?” - chiese nonna Imma. “Non troviamo l’altro calzino col gattino” - rispose mamma Iolanda. “L’ha mangiato la lavatrice” - aggiunse papà Giacomo, palesemente divertito dalle smorfie di Martina. “Suvvia! Che sciocchezze!” - ribatté nonno Matteo - “Vieni qui, Marta. Nonno ti racconta dove vanno a finire i calzini delle persone buone. Io lo so, ci sono stato.” Martina, incuriosita, andò a sedersi vicino al nonno, che iniziò il suo racconto. “Devi sapere che esistono delle piccole fate che proteggono i bambini particolarmente bravi, un po’ come te. Queste fate abitano in un mondo magico e, che tu ci creda o no, l’unico modo per raggiungerlo è attraverso la lavatrice. Io lo so, perché ci sono stato. Quando avevo dieci anni, proprio perché non trovavo i miei calzini da calcio preferiti, mi sono addentrato nella lavatrice e sono finito nel loro mondo. Ognuna di queste fate ha una sua specialità: dottoresse, avvocati, maestre, panettieri, e ad ognuna è affidata la protezione di un bambino buono. Solo che in quel mondo magico fa molto freddo e, allora, quando nasce la fata di un bambino buono, per proteggerlo dalle basse temperature, la Regina delle fate prende, come pegno, uno dei calzini preferiti di quel bambino, per usarlo come coperta. Bene, Martina, stanotte è nata la fata che ti proteggerà per sempre. Sei contenta?” “Sì, nonno” - rispose Martina con un grande sorriso e corse a giocare felice con i suoi cuginetti.
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seminostorie · 6 months
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Il violino del diavolo
Alcune storie restano nell’ombra, aspettando solo di essere riscoperte. Alcune note, invece, non dovrebbero mai più essere suonate da anima viva.
Le Noir, il violino nero di Antonio Stradivari, è saltato fuori in tempi molto recenti, dopo anni di silenzio assordante. È stato donato al maestro Guido Rimonda da una signora sicuramente benestante e, probabilmente, anche di origine nobile, con la semplice promessa di farlo suonare nuovamente. 
Fin qui nulla di strano: la classica storia di un ritrovamento di un oggetto perduto, neanche tanto appassionante. 
Ciò che rende speciale questo violino, è il suo nome, Le Noir, per via di due macchie nere, causate da uno dei suoi più famosi proprietari, il compositore francese Jean-Marie Leclair, assassinato nell’ottobre 1764 e ritrovato, due mesi più tardi, mentre stringeva ancora a sé il suo prezioso strumento. 
Ecco, le macchie nere sono state provocate da questa stretta prolungata, intensa, quasi a suggellare un passaggio di anima.
Un altro nome, che spesso è stato accostato al violino nero di Stradivari, è “la voce degli angeli” o “la voce dell’angelo”, credo per via del suono etereo e angelico.
Ma questa storia non riguarda Le Noir, né Stradivari, né alcuna delle figure citate fino a questo momento. Ebbene, un professore di storia dell’Università di Salerno, ormai più di qualche anno fa, mi raccontò un aneddoto su un altro liutaio cremonese, decisamente meno famoso di Stradivari, ma la cui vita, forse, è ancor più misteriosa.
Massimiliano Del Vecchio, figlio unico di Alfonso e Lucrezia, contemporaneo di Stradivari, anche lui di Cremona, anche lui liutaio. Queste sono le uniche note biografiche certe. Non si conoscono le date di nascita e morte, non si sa se avesse moglie e figli. Niente di niente.
Non sappiamo da dove derivi la sua formazione, né quanti violini abbia realizzato. Eppure, il suo nome è avvolto da dicerie e racconti… strani.
Si dice, infatti, che fosse un liutaio di media bravura. Si dice anche che Del Vecchio fosse geloso del lavoro e del successo del suo concittadino. Si dice che lo odiasse a morte. Più che un abile costruttore, si dice che fosse un bravo riparatore. Infatti, gli capitava spesso di dover mettere delle toppe a lavori già realizzati: sostituire e tendere le corde, riparare gli archi.
Una cosa, però, gliela si deve riconoscere: la perseveranza. Sì, perché nonostante un talento palesemente limitato, Del Vecchio non demordeva dal suo sogno di costruire il violino perfetto. 
Sul finire del ‘700, Del Vecchio entrò in contatto con un medico francese, un tale Bernard Pascal, che gli aveva commissionato, durante alcuni anni di permanenza a Cremona, una serie di interventi riparatori su alcuni dei suoi violini e altri strumenti musicali (il dottore ne era un vero appassionato).
Il rapporto tra i due, almeno secondo Del Vecchio, sembrò essere molto amichevole. Così tanto da spingerlo a presentare il suo violino, il suo “capolavoro”, al medico. Ma Pascal non era suo amico e, soprattutto, era un fine intenditore di musica. Gli bastarono due note per scagliare a terra quello strumento e definirlo “un abominio per l’anima e le orecchie”.
Del Vecchio era distrutto. Raccolse i pezzi del violino e si rinchiuse nel suo laboratorio, nel disperato tentativo di ricostruire la sua creatura. Ma non sapeva veramente dove sbattere la testa e da dove cominciare. Provava e falliva giorno dopo giorno, fino a quando uno sconosciuto non bussò alla sua porta.
“È il legno - disse l’uomo -. Prova ad intagliare questo ceppo, vedrai che andrà molto bene”.
“Chi siete?” - domando Del Vecchio. E poi aggiunse: “Cosa volete da me?”
L’uomo: “Sono un semplice estimatore del tuo lavoro. So con quanto impegno stai lavorando al tuo violino e so quanto sia stato difficile accettare le critiche di quel francese. Accetta questo legno e da esso ricava il tuo capolavoro. Non voglio nulla in cambio, solo che tu incida questo simbolo sul retro: sono le mie iniziali, ci terrei davvero tanto. Poi, consegnalo al dottore francese, vedrai quanti complimenti ti farà.”
Del Vecchio, lusingato e incuriosito dalle parole dell’uomo, accettò senza controbattere. Due settimane dopo, il violino era pronto. Ma a che prezzo? Del Vecchio sembrava sull’orlo di una crisi di nervi ed era invecchiato tantissimo, quasi come se il tempo fosse andato al doppio della velocità. Era debole, con lo sguardo smorto.
Fece giusto in tempo a consegnare il violino al dottor Pascal, che di lui si persero le tracce, come se fosse sparito nel nulla. La sua casa e il suo laboratorio furono trovati intatti. L’unica nota fuori posto era una macchia in terra, sull’uscio del laboratorio. Era come una sorta di bruciatura, come se qualcuno avesse arroventato lo zoccolo di una capra e poi fatta appoggiare, con forza, la zampa, sul pavimento in legno.
Nel frattempo, Pascal, che stava rientrando in Francia, aveva molto apprezzato il lavoro di Del Vecchio e un po’ si dispiaceva per come lo aveva trattato. Rientrato nel Sud del suo Paese, la sera si dedicò a suonare quello strumento. Neanche lui seppe mai da dove venne fuori quella melodia incalzante. 
D’un tratto, fu pervaso da un fuoco e da una serie di visioni mistiche, che riuscì a placare solo con del vino e delle polveri oppioidi. Si risvegliò confuso, con gli abiti sporchi di sangue. Sera dopo sera, suonava come se fosse posseduto da una forza maggiore e, ogni mattina, si risvegliava in un bagno di sangue. 
Centottanta lunghi giorni, centottanta morti inspiegabili nel piccolo paesino del Sud della Francia. Sullo sfondo, il nuovo regime istituito dopo la Rivoluzione. Uno Stato che insabbiò tutte queste morti inspiegabili e che, semplicemente, si limitò a giustiziarne, nel silenzio più totale, l’esecutore: Bernard Pascal. 
Il violino fu venduto all’asta ad un collezionista, incuriosito dalla fattura e dalle iniziali incise sul retro. 
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seminostorie · 11 months
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El Tío
C’è una canzone di Naughty Boy, “La La La” (uscita nel 2013), che riprende un’antica leggenda boliviana legata a El Tío, una figura demoníaca paragonabile a un guardiano infernale o al diavolo stesso. La storia è, più o meno, questa. (Mi sono concesso una personalizzazione).
Miguel è un ragazzino di dieci anni, orfano di madre, morta durante il parto. Miguel vive a La Paz, in Bolivia, con il padre, un uomo disilluso e sconfitto dalla vita, che ha venduto la sua anima alla bottiglia. 
Miguel è sordo-muto dalla nascita e, come se non bastasse, è additato dal padre come la causa di tutte le sventure della sua famiglia. La morte della moglie, la povertà, lo sfruttamento, l’alcolismo.
Miguel non ha amici, non va a scuola, è sordo-muto dalla nascita: non riesce a dialogare con gli  uomini, ma riesce a sentire le voci dell’anima, le voci del dolore, della disperazione.
Un pomeriggio, mentre il padre è chissà dove a ubriacarsi, Miguel scorge dalla finestra un uomo ben vestito, con tanto di auto di lusso e autista. Ha con sé un cagnolino, un meticcio dal pelo corto. Miguel lo osserva incuriosito, fin quando l’uomo non lo nota e gli fa cenno di raggiungerlo.
L’uomo elegante riesce a entrare nella mente di Miguel, parlano attraverso una forma di telepatia. L’uomo elegante non è un mortale qualunque: è Ekeko, il dio dell’abbondanza, della ricchezza, della prosperità. Parla a Miguel di un viaggio, gli racconta una storia, gli parla del dono di riuscire a sentire le voci dell’anima, del dolore e della disperazione.
Miguel annuisce, prende con sé il cucciolo e si incammina verso sud-est. 
Dopo qualche isolato, Miguel incontra un altro uomo vestito elegante, ma a differenza di Ekeko, questi ha l’abito tutto strappato e impolverato. Alcuni ragazzi gli tirano delle pietre, mentre le donne dai palazzi lo insultano a gran voce. Solo l’arrivo della polizia riesce a sedare il caos che imperversa per la strada fangosa. 
L’uomo, Ramon, dice di chiamarsi Ramon, corre a nascondersi sotto un porticato. È un ex-imprenditore immobiliare, che è stato accecato dal potere dei soldi. Ha osato paragonarsi a Ekeko e, ora, si ritrova con un pugno di polvere e vessato per la sua superbia. Fa un gesto per scacciare Miguel e il piccolo Paco (così si chiamerà da questo punto in poi il cagnolino), ma quando il ragazzo parla alla sua anima addolorata e disperata, Ramon capisce che è arrivato il momento della sua redenzione.
I tre si mettono in cammino verso sud-est.
Prima di lasciare La Paz, i viaggiatori incontrano quello che noi chiameremmo vigile urbano, solo un po’ diverso. Molto diverso. Veste un’uniforme in stile carnevalesco e il suo naso è una proboscide. Luis, così si chiama, è un poliziotto corrotto, che ha fatto affari con i cartelli della droga. Ora rispecchia la miseria e la povertà di spirito della sua vita, fatta di feste, droga e lusso effimero. Anche Luis fa per scacciare i tre, ma quando il ragazzo parla alla sua anima addolorata e disperata, Luis capisce che è arrivato il momento della sua redenzione.
I quattro si mettono in cammino verso sud-est. La meta è la cittadina mineraria di Potosì, a 647 km da La Paz. Ci vogliono 136 ore per raggiungerla a piedi, circa 6 giorni di cammino.
Attraversano foreste, scalano montagne, si perdono senza una guida e finiscono per attraversare il deserto di sale di Uyuni. Di giorni, per arrivare a Potosì, ce ne mettono 15. Arrivano stremati, ma decisi ad accompagnare Miguel fino al termine del suo viaggio.
Dopo qualche ora di riposo, ripartono per un nuovo cammino, questa volta di sole 2 ore, per la miniera di Cerro Rico, la casa di El Tío, una figura demoníaca paragonabile a un guardiano infernale o al diavolo stesso. Venerato dai minatori come signore dell’oltretomba, è la causa delle sofferenze e dei dolori del mondo.
Miguel, Ramon e Luis lasciano un irrequieto Paco davanti l’ingresso della miniera, mentre si addentrano nell’oscurità. Dopo molti metri, trovano una statua terrificante, illuminata da candele. Alle spalle della statua, vi è la porta degli inferi. Miguel sente un richiamo. Si volta e, in lacrime, saluta Ramon e Luis. Ecco lo scopo del suo viaggio, il motivo della sua sofferenza e il motivo per cui riesce ad ascoltare le voci dell’anima, le voci del dolore, della disperazione: il sacrificio del bambino, per la salvezza dell’umanità.
Miguel oltrepassa la porta degli inferi e svanisce nel buio.
All’uscita dalla miniera, Ramon e Luis hanno espiato i loro peccati: possono tornare alle loro fattezze naturali e sono pronti per ricominciare a vivere. Prendono Paco e si incamminano verso casa.
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seminostorie · 1 year
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Lettera 384
Gianni è stato rilasciato venerdì 12 maggio 2023, alle ore 11:43, dopo trentadue anni di carcere. Nei suoi pensieri c’era sempre la sua adorata: ora potranno riabbracciarsi.
11 maggio 2023
Mia adorata,
Ti scrivo questa lettera, la numero 384 da quando sono in carcere. Domani, finalmente, sarò fuori da questo incubo. 
Sai, verranno a prendermi Lidia e suo marito Matteo, i due volontari che mi hanno aiutato in quello che loro chiamano percorso di recupero. Mi hanno anche informato di avermi regalato un biglietto del treno.
Destinazione? Casa. Chissà come reagirà mio fratello Mario. Ma non m’importa, m’importa solo di te.
Sono passati, ormai, trentadue anni dal nostro ultimo incontro: non vedo l’ora di rivederti e raccontarti di come il tuo ricordo mi abbia aiutato a superare i momenti più bui. 
Gli agguati, i pestaggi, i pugni che ho dato e che ho preso; l’isolamento, l’amicizia con Marco, pace all’anima sua, e gli sguardi di disprezzo dei secondini. 
Tu, tutto questo già lo sai, te l’ho scritto 384 volte con questa, ma voglio raccontartelo guardandoti negli occhi.
Voglio farti vedere di persona il tatuaggio che porta il tuo nome: sì, proprio quella rosa che ti regalai al nostro primo appuntamento. Qualche giorno fa, l’ho abbellita con la tua iniziale. Ora sono un vero pirata!
Mia adorata, mi perderò di nuovo nei tuoi occhi azzurri. E sarò leggero, e sarà leggera la tua presenza, dopo tutta questa assenza.
A domani, mia adorata.
Tuo, Gianni.
Gianni è stato rilasciato venerdì 12 maggio 2023, alle ore 11:43, dopo trentadue anni di carcere. Nei suoi pensieri c’era sempre la sua adorata: ora potranno riabbracciarsi. 
Ad attenderlo fuori dal carcere ci sono Lidia e suo marito Matteo, due impiegati che nel tempo libero aiutano i carcerati a trovare la loro strada. Per Lidia, Gianni è stato un po’ come il padre che non ha mai conosciuto: “come può, un uomo così dolce, esser finito in un posto del genere?”
Gianni non le ha mai raccontato la sua storia, ma glielo si legge negli occhi che non è un criminale qualunque. Gianni ama leggere e scrivere lettere alla sua adorata: ora potrà di nuovo perdersi nei suoi occhi azzurri.
Sale in auto senza averi, ma Lidia e Matteo hanno davvero provveduto a tutto. Ecco per lui un borsone, con biancheria intima e due tute, una estiva e una invernale, per avere sempre un cambio pulito. 
Durante il viaggio non scambiano una parola. Lo fermano alla stazione dei treni, gli porgono la borsa e una busta con qualche soldo per campare nei primi giorni. Non dicono una parola, ma si lasciano andare in un lungo abbraccio.
Il viaggio in treno dura tre ore, quando finalmente la corsa si arresta nel suo paese natale. Gianni scende e si meraviglia: nulla è rimasto com’era, tranne il mare. Chiede in giro di suo fratello Mario, che però si è allontanato dal centro per alcune consegne.
Lentamente, si dirige allora verso la nuova casa della sua adorata. Il cancello è aperto e nel prato gli alberi sono in fiore. Se ruota il capo, vede il mare che hanno tanto amato. Sotto uno degli alberi, ecco una lapide dal bianco smorto.  
Gianni si siede di fronte ad essa e sussurra: “Eccoti, mia adorata. Ho fatto più presto che ho potuto. Questa è la rosa che porta il tuo nome”.
Restò a parlare con lei e a raccontarle gli ultimi trentadue anni fino a sera. 
“Ciao, mia adorata, tornerò a trovarti ogni giorno e passerò con te tutti i pomeriggi. Se uccidere per proteggere il proprio amore è una colpa, allora sono colpevole. Dio mi giudicherà e spero mi reputi all’altezza di sedere al tuo fianco in paradiso.”
Uscì dal cancello e ad attenderlo c’era suo fratello Mario: “Ciao, Gianni, bentornato a casa.”
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seminostorie · 1 year
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Perché i lupi ululano alla luna?
Anni fa, ho letto una leggenda che diceva, più o meno, così.
Era caldo. Insolito, soprattutto, perché la stagione invernale stava arrivando. Il sole si vedeva sempre più di rado, ma l’aria era ancora rovente. 
“Brutto segno” - dicevano i nativi. “Sarà un inverno gelido, da ghiacciare il fuoco degli inferi”.
I branchi iniziavano a migrare verso le foreste, in cerca di tane che fungessero da riparo. Alcuni animali non vanno in letargo.
I lupi si spostarono verso est, dove c’erano boschi con alberi che toccavano il cielo. Tra questi, c’era Jaci, una giovane lupa alla prima migrazione lontana dal branco della madre. Portava in grembo la prima cucciolata della sua vita.
Non aveva ancora abbastanza esperienza, ma aveva imparato presto a fare tesoro delle vicende quotidiane. Era una femmina dominante, in pratica, una di quelle che partecipavano attivamente alla caccia.
La migrazione richiese diverse settimane e tanta fatica. Jaci era allo stremo delle forze. 
Venne l’inverno. Così gelido da ghiacciare il fuoco degli inferi.
Tra una tormenta e l’altra, Jaci diede alla luce due splendidi cuccioli. Uno di questi, un maschietto, morì praticamente qualche giorno dopo, a causa delle temperature estremamente basse.
Koko, invece, la piccola lupacchiotta, riuscì a sopravvivere, grazie anche al supporto delle lupe anziane, che assistettero la giovane Jaci. 
La piccola Koko era rotondetta, con il manto nero che in alcune parti del corpo sfumava verso il marrone. Era identica a sua madre. Non solo come aspetto, ma anche come carattere: curiosa, tanto, e forte.
Riuscirono a superare indenni i mesi invernali e, ora, alle porte della primavera, i prati tornavano in fiore e si riempivano nuovamente dei loro soliti abitanti.
Lupi, orsi, cervi, bisonti, volpi, lepri, piccoli roditori, uccelli di ogni specie ritornavano alla vita.
Jaci aveva ripreso a cacciare, mentre Koko giocava spensieratamente con gli altri lupetti. A sorvegliarli c’erano le lupe anziane, vittime di buffi agguati da parte dei cuccioli e di mal di testa più o meno cronici.
Quelle pallette di pelo erano veramente un moto perpetuo. Non si fermavano mai.
Una sera, i cacciatori si aggregarono tardi al resto branco. Le mamme e i padri si riunirono ai loro piccoli e ai loro affini. Ma Jaci non trovò la sua piccola ad aspettarla. A dire il vero, anche altri due cuccioli erano spariti. Il branco si attivò immediatamente, compatto, nella ricerca dei tre.
Si spinsero fin sopra le montagne, dove, di giorno e lontano dai pericoli, le lupe anziane portavano i cuccioli a giocare e farsi le ossa. 
I primi due furono ritrovati, impauriti, sotto un cespuglio alle pendici del monte. Mentre di Koko nemmeno l’ombra. La notte, quella notte, era avvolta da una oscurità profonda. La ricerca si faceva sempre più complicata.
Presa dalla disperazione, Jaci salì sulla cresta più alta e iniziò incessantemente a rivolgersi alla luna, affinché la aiutasse nella sua ricerca, guidandola dall’alto. I suoi ululati riecheggiavano nella valle e arrivarono sino alla Signora del cielo che, mossa dalla compassione verso quella madre, s’illuminò, tutto d’un tratto, come non mai.
La sua luce, che sembrava quella di suo marito, il Sole, squarciò l’oscurità e ammantò la valle. E lì, da una crepa nella roccia, fece capolino il musetto di Koko, che s’arrampicò coraggiosa verso la madre. 
Da quella sera, Jaci e gli altri lupi consacrarono la loro vita alla Luna. E, in segno di devozione, ogni notte, dalle creste più alte di ogni regione, ululano e omaggiano la loro Signora.
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seminostorie · 1 year
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La volpe, il gatto e il passerotto
Una volpe che cresce un gattino? Già così sembra una favola di Sepulveda (cosa che mi piacerebbe molto, ma no: purtroppo è mia). E venne, poi, un passerotto.
Nina è una volpe che abitava nelle campagne inglesi. La caccia smodata per la sua pelliccia, la paura e il dolore per la perdita di alcuni cuccioli, l’avevano spinta ad avvicinarsi ai ktichen garden di un piccolo paesino al confine con la Scozia. 
In uno, in particolare, Nina trovò la sua casa, e una coppia, Terry e Adam, che spesso le lasciavano da mangiare vicino al piccolo deposito degli attrezzi. Terry e Adam erano una coppia di insegnanti, sulla quarantina, senza figli e un grande amore per gli animali. Il loro giardino era un piccolo rifugio perfetto: c’era uno stagnetto artificiale e la disposizione dei vasi creava delle calde cuccette dove passare la notte. 
Nina era una volpe dedita all’avventura. Girava per i prati e per le campagne circostanti e, proprio durante uno di questi giretti, le capitò di trovare un gattino, solo e impaurito, lasciato al freddo, alle porte dell’autunno. Lo prese con sé e lo portò in una delle cuccette del giardino di Terry e Adam. Lo svezzò col suo latte e, a distanza di un anno, George divenne un bel gatto tigrato, tutto l’opposto dello scricciolino rachitico di qualche mese prima. 
Nina e George. George e Nina. La dimostrazione che, per gli animali, la famiglia è una questione di presenza. Direte voi, sopravvivenza. Cinici. Per loro, è presenza. Nina c’era, quando George ne aveva bisogno; George ci sarà, quando Nina ne avrà bisogno. 
Era il secondo inverno che passavano insieme, mamma e figlio. Anche quel giorno, la pioggia aveva dato abbastanza come al solito e, verso sera, l’aria cominciava ad inumidirsi. Cinguettava lì intorno un passerotto. 
Spavaldo e curioso, sorvolava i giardini e cantava un bel canto. Non si curava dell’inverno che stava per arrivare, non si curava del freddo e non si curava di trovare un riparo. Passavano i giorni, il suo canto si faceva sempre più soave. 
Una sera, mentre cantava sul tetto della casa di Terry e Adam, intrattenendo Nina e George con la sua voce, il nord dell’Inghilterra fu colpito da una corrente di aria gelida, che costrinse il piccolo passerotto a cercare riparo su una delle querce che circondavano le case. Chiese il permesso, al grande albero, di potersi riparare tra le sue fronde, promettendo di sdebitarsi cantando, ogni sera, una ninna nanna dolce come il miele. La quercia accettò ben volentieri. 
Una mattina, il passerotto si ritrovò in un ambiente ostile, totalmente imbiancato dalla grossa nevicata che si era abbattuta durante la notte. Il passerotto osservava incuriosito Nina e George che giocavano a rincorrersi e rotolarsi nel giardino. Ancora più incuriosito, decise di unirsi a loro, saltellando qua e là sul soffice tappeto. 
Ma la curiosità di un passerotto, si sa, è grande come il mare. Allora decise di spostarsi nei giardini adiacenti. Poco più in là, scorse un cane che annusava, per qualche motivo, il magnifico tappeto bianco. Mentre gli si avvicinava, un colpo di vento lo spinse al suolo. 
Il passerotto cinguettò forte, tanto da attirare l’attenzione di Nina e George che si spinsero due giardini più in là. Ma il suo cinguettio stridulo attirò l’attenzione anche del cane, che gli si fece vicino minaccioso. 
Nina e George arrivarono giusto in tempo: la volpe distrasse il cane e il gatto acchiappò l’uccellino, portandolo nel giardino di Terry e Adam. Lì si presero cura di Lucky. Ci volle un mesetto prima che la zampetta si stabilizzasse del tutto. 
Lucky capì che la curiosità è cosa buona, se a piccole dosi. Ma, soprattutto, Lucky trovò una famiglia. Nel giardino di Terry e Adam, oggi giocano felici Nina, George e Lucky: la volpe, il gatto e il passerotto.
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seminostorie · 1 year
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Teia, simbolo di luce
In quel momento scoprì la sua umanità, vide la luce e ne restò ammaliato. Capì che anche una bestia può diventare uomo.
Quel giorno Teia compì diciassette anni. Siedeva spensierata alla pendici del grande monte, protetta dalle forti mura del piccolo villaggio, dove tutti vivevano in pace col prossimo e con la Natura.
Sua madre, però, aveva il viso cupo, ogni giorno sempre di più. Gli occhi erano cerchiati di un nero carbone. Dormiva poco, mangiava il giusto. Suo marito non riusciva a capire che cosa le stesse capitando. Erano due anni che si era chiusa in quel silenzio assurdo. Parlava solo con Teia, raccontandole storie di principesse guerriere, che avevano determinato da sole il proprio destino.
Quel giorno, Teia compì diciassette anni e un sussulto smosse le profondità della Terra. Mefisto era deciso a riscattare il suo pegno. La madre, in un momento di sconforto, si era rivolta a lui pregandolo di donarle un figlio e promettendogli qualsiasi cosa in cambio.
Mefisto non disse nulla, se non che avrebbe riscosso il suo pegno il giorno del diciottesimo compleanno del nascituro: bramava l’anima di una fanciulla innocente, che mancava alla sua collezione di dannati e che sarebbe stata la sua sposa.
Per recuperarla, decise di inviare il generale della sua armata delle tenebre, Zantor. Un nome che nessuno osava pronunciare, neppure Mefisto stesso. Un nome inciso sulle rocce dei “monti bui”, dove fu trovato mille anni prima, quando era solo un bambino indifeso e abbandonato. 
Vessato e sfigurato, Zantor ricevette da Mefisto una proposta che non poté rifiutare: in cambio della sua fedeltà, avrebbe avuto le armi per difendersi dai suoi nemici. 
Ed eccolo qui, diventò una bestia imponente, metà leone e metà uomo, tanto forte da smuovere un monte. La sua spada aveva mietuto vittime in tutto il mondo e aveva riscattato miliardi di anime in nome del suo padrone.
Teia è un nome greco, che simboleggia la luce. Teia è un’anima speciale, un trofeo che Mefisto bramava da secoli. Fu per questo motivo che decise di inviare Zantor per recuperarla. 
Risalì le viscere della Terra, venendo su da una grotta situata in una zona non meglio precisata del Tibet e iniziò il viaggio, che sarebbe durato un anno, per riscattare l’anima pura. Camminò giorno e notte, per mesi interi, fino ad arrivare alle pendici del grande monte. Teia era lì; a un anno di distanza, viveva ancora spensierata come sempre. 
Zantor si nascose incuriosito: è questa la felicità? Lui che era stato un bambino, ma aveva conosciuto solo dolore e lotte furiose per la vita. 
Proprio mentre stava per recuperare il pegno di Mefisto, il villaggio fu attaccato da un’orda di barbari che rasero al suolo e diedero alle fiamme le case, rapendo donne e bambini, tra cui Teia. 
Zantor non esitò due volte e, pur di recuperare ciò che apparteneva al suo padrone, si lanciò all’inseguimento della truppa barbara. Ingaggiò con loro uno scontro all’ultimo sangue, trucidando ogni singolo soldato. Con passo sicuro e fiero, recuperò Teia e iniziò il viaggio di ritorno. 
Teia era smossa dal terrore e i suoi pianti riecheggiarono in tutto il mondo. Zantor procedeva spedito, ma la sua missione stava per subire una brusca frenata. Tra le vittime della truppa barbara, vi era anche il figlio di Mogol, uno spietato e avido signore della guerra, che mandò alla ricerca della bestia un esercito di ventimila uomini, reclutando alcuni dei mercenari più spietati del regno. 
La caccia era aperta. Qualche settimana dopo, mentre Zantor e una Teia sempre più spaventata riposavano in una foresta, furono raggiunti dall’orda, che si avventò senza timore sul mostro. 
La battaglia infuriò rapidamente: Teia fu presa da un gruppo di soldati, mentre Zantor fu circondato e ferito molteplici volte. Ma la bestia era il generale delle truppe infernali: troppo orgoglioso per deporre le armi, troppo forte per cadere in battaglia. I ventimila divennero rapidamente polvere, pronta per essere modellata all’inferno e diventare soldati al servizio di Zantor.
Dopo lo scontro, Teia corse verso il suo salvatore e iniziò a curargli le ferite. Le sue mani erano morbide come la seta e i suoi occhi, lucidi per le lacrime, erano più profondi del mare. Zantor notò per la prima volta anche il profumo dei suoi capelli oro e quell’espressione che faceva con le labbra quando era indaffarata in qualche faccenda.
Passata la notte, i due si rimisero in viaggio. Teia aveva infinite domande: dove stiamo andando? Tu, chi sei? Perché sei metà leone? Alle non risposte di Zantor, la fanciulla iniziò a raccontare la sua storia e le storie che le aveva raccontato la madre.
Ricordava i giorni felici, prima di quel lungo viaggio, e affettuosamente si prendeva cura delle ferite della bestia.  
Zanotor iniziava a essere confuso: perché una creatura simile dovrebbe marcire in un posto come l’inferno? Perché il suo padrone era così ossessionato da quell’anima? Forse iniziava a capire.
Alle porte degli inferi, Zantor bussò tre volte e i guardiani s’inchinarono dinanzi alla sua figura. Teia era spaventata come non mai e si strinse forte alle braccia possenti del mostro. La bestia fu sorpresa e sentì i battiti del suo cuore crescere progressivamente.
Arrivati al cospetto di Mefisto, s’inchinò e presentò Teia. Il suo padrone la strattonò per un braccio e, rivolgendosi ai dannati, proclamò la sua vittoria.
In quel momento, Zantor scoprì la sua umanità, vide la luce e ne restò ammaliato. Capì che anche una bestia può diventare uomo. Capì che Teia meritava una vita migliore. 
Si scagliò con violenza contro Mefisto, prese la fanciulla e la riportò all’ingresso degli inferi. Le ordinò di correre senza mai voltarsi indietro, mentre una lacrima di sangue gli rigava il viso. Teia lo ringraziò e, col cuore in mano, corse verso i boschi. Zantor trucidò le guardie infernali, chiuse le porte e si preparò ad affrontare il destino che aveva scelto di crearsi qualche istante prima.
Affrontò i dannati in una lotta sanguinosa, fino a sfidare Mefisto. Lo scontro fu brutale, l’angelo caduto si rivelò per quello che era veramente: una bestia deforme a tre teste, simile a un drago, ma non nobile nel portamento. Infuriato, riuscì a sconfiggere Zantor, che fu gettato nella lava al centro della Terra. Mentre veniva consumato dal fuoco, si accorse che era passato il termine per consegnare l’anima a Mefisto: passata la scadenza, l’anima non poteva più essere riscattata. Teia era salva. 
Zantor aveva scoperto la sua umanità, aveva visto la luce e ne era rimasto ammaliato. Aveva capito che anche una bestia poteva diventare uomo.
Resta un quesito: un diavolo può amare?
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seminostorie · 1 year
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Anche questa passerà
Condivido con voi una delle mie leggende preferite. La sua origine si fa risalire addirittura alla cultura persiana, mentre io vi riporto una delle tante versioni europee, che mi sono permesso di riscrivere.
C’era una volta un vecchio Re, che governava in un antico regno del Nord Europa. 
Era un sovrano giusto, leale, che aveva a cuore il destino dei suoi sudditi. Per loro costruiva case, scuole, ospedali ed era sempre pronto a dare il suo aiuto. 
Non era rispettoso solo verso i suoi sudditi (che per lui erano concittadini, così li chiamava durante i discorsi pubblici) o i suoi soldati (“fedeli amici”), ma anche verso tutti gli altri regni della regione. In trent’anni di reggenza, mai il suo esercito aveva attaccato un’altra città, semmai il contrario, rispondendo sì con le armi, ma anche con la diplomazia.
Era un Re dalla profonda conoscenza del mondo, sicuro che un popolo in salute e ben scolarizzato fosse la base per un grande regno. Era amato da tutti, ad eccezione di suo cugino e dei suoi servi (questi sì che erano servi!) più fidati.
Un giorno, per festeggiare una vittoria in battaglia, a difesa della sua splendida città-Stato, organizzò una grande festa a palazzo e chiese, ai concittadini più dotati, di costruire, scrivere, teorizzare qualcosa che potesse renderlo un Re migliore. 
Era questa la sua dote più grande: l’umiltà di comprendere che nella vita si può sempre crescere come persone.
Gli artigiani costruirono armi e armature; i farmacisti prepararono pozioni revitalizzanti; i dotti scrissero trattati sulla guerra, sulla pace e sui buoni costumi. Il Re apprezzò molto gli sforzi prodotti, ma restò insoddisfatto di tutte quelle cose già viste, lette o usate in battaglia.
Un orafo, che in verità era prima di tutto un alchimista e un profondo pensatore, noto e molto apprezzato dal Re, si presentò con un anello: “Maestà, questo anello contiene un messaggio che vi potrà essere d’aiuto, ma vi chiedo di aprirlo solo in un vero momento di disperazione, quando la situazione che starete vivendo vi sembrerà scivolare dalle mani e senza vie d’uscita. Voglia Dio che questo giorno non abbia mai alba”. 
Il Re, incuriosito, decise di indossare quell’anello e di fare come detto dal saggio. 
Qualche tempo dopo, durante una celebrazione religiosa che prevedeva il coinvolgimento in parata dell’esercito, suo cugino, il malvagio, ebbe l’occasione per attuare il suo piano di conquista della città. 
Con un esercito di mercenari, di poco più di duemila uomini, riuscì a decimare l’esercito del Re buono (che ne contava circa 300, di soldati), ma fallì nel tentativo di assassinare il Re, che fu costretto a scappare con la famiglia e i soldati rimasti nei boschi che ricoprivano le alture intorno alla fortezza. 
La città tornò indietro di cent’anni, le malattie presero il sopravvento e la popolazione moriva di stenti. In un anno, la situazione era diventata insostenibile.
Spesso, il buon Re si affacciava dalla collina più alta e inorridiva vedendo il degrado e la morte che avevano colpito la sua splendida comunità. Ogni volta il cuore gli batteva forte e sembrava essere trafitto da uno sciame di vespe.
Un giorno, in preda allo sconforto, pose la mano sul cuore, nel tentativo disperato di strapparselo dal petto, quando si ricordò di avere, appeso al collo, l’anello donatogli dal saggio. Lo aprì e lesse il biglietto che vi era all’interno. Lo lesse una prima volta a bassa voce e rimase interdetto. Lo rilesse, ma ad alta voce e scandendo le tre parole che conteneva: “anche questa passerà”. 
Il saggio aveva ragione, le situazioni brutte sono destinate a passare. Così, il buon Re mandò a chiamare il suo fido generale. Gli chiese di contare quanti soldati fossero in grado di sostenere una battaglia e di mandare degli esploratori per capire lo stato delle difese nemiche. 
I mercenari al servizio di suo cugino il malvagio erano rimasti in circa 300, mal addestrati e stanchi di non ricevere da un po’ la paga mensile. Era l’occasione giusta per riconquistare il regno. E così andò. 
Al suo ritorno sul trono, iniziò l’opera di ricostruzione della città. Le brutture di un anno furono superate in pochi mesi.
Il buon Re organizzò allora una grande festa in onore del saggio, le cui parole lo avevano aiutato nel momento di massimo sconforto. Fece preparare anche due casse piene d’oro e d’argento, ma il saggiò, felice per il ritorno del suo sovrano, disse: “Maestà, sapete bene dei miei studi. Io non voglio arricchirmi di ricchezze, ma voglio arricchirmi di spirito e sapere che le mie parole vi siano state d’aiuto arricchisce per metà il mio spirito. Ma lasciate che vi chieda un’unica cosa, così da arricchire totalmente il mio spirito ed estinguere quello che voi considerate un debito nei miei confronti: rileggete, per piacere, il messaggio contenuto nell'anello. Due volte, una a bassa voce e una ad alta voce, scandendo bene le parole”. 
Il buon Re fece come richiesto dal saggio. “Anche questa passerà”. Il saggio aveva di nuovo ragione: anche le situazioni favorevoli, quelle felici e che ci riempiono l’anima, sono destinate a passare, ma è nostro compito far sì che durino nel tempo. E laddove sembra non esserci speranza, che ci sia fede, in ciò che si vuole.
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seminostorie · 2 years
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Sottopelle
La storia di Ciro e di ricordi indelebili.
Ciro nacque nei Quartieri Spagnoli il 4 febbraio 1950, in quel periodo di transizione fra la guerra e il miracolo economico. Come tanti, crebbe tra mille difficoltà, arrangiandosi con furtarelli e lavori occasionali: lustrascarpe, cartonaro, venditore ambulante. Per un breve periodo, intorno al ‘64, iniziò a frequentare i mercati con suo zio, che all’epoca faceva il fruttivendolo.
Un giorno fu mandato al porto a ritirare delle casse di frutta. Per la prima volta, quei luoghi che aveva sempre frequentato con gli amichetti gli apparvero sotto un’altra luce. Tanto fece, che di lì a poco chiese di arruolarsi su una nave commerciale, che scambiava merci con gli altri porti d’Italia.
Ciro scoprì il suo animo avventuriero. Rimase folgorato dai colori e dalla durezza di quegli uomini di mare, che a suoi occhi sembravano invincibili.
Viaggiando, all’epoca quattordicenne, entrò in contatto con le leggende e le superstizioni tipiche dei marinai: sirene, mostri marini, il divieto di fischiettare a bordo. 
Fu anche quello il periodo in cui iniziò a notare che tanti dei suoi compagni avevano dei simboli e delle scritte incise sulla pelle. Si affacciò al mondo del tatuaggio con gli occhi di un bambino che soffia sulle candeline il giorno del suo compleanno.
Negli anni a venire, iniziò a interessarsi sempre più a questa che allora non era vista come un’arte. Iniziò a notare che in ogni porto c’erano uomini e donne che si lasciavano marchiare la pelle. Iniziò a farsi marchiare la pelle.
Prima una scarpa; poi una mela; poi un teschio con le ossa incrociate; poi un’ancora; poi la Vergine Maria; poi due mani con la scritta “fedeltà e fratellanza”.
Ma Ciro si spinse oltre. Durante le traversate, con un ago sterilizzato con la fiamma di una candela e con un inchiostro di bassa qualità, di quelli facilmente reperibili per le penne stilografiche, incideva quei simboli che tanto lo affascinavano sui corpi dei suoi compagni.
Ogni porto aveva il suo “incisore”, ogni città le sue tradizioni, ogni individuo una storia da raccontare e ricordare, indelebile. 
Nelle pause tra una consegna e un rifornimento, rubava il mestiere ai più bravi e provava e incideva e riprovava nei posti più disparati: retrobotteghe, osterie, vicoli.
Diventò bravo, veramente bravo. I marinai facevano lunghe file per farsi incidere da lui. Agli occhi delle signorine era visto come un ribelle e alcune, andando incontro alle ire dei padri, si fecero decorare i polsi, le spalle o le caviglie con fiori delicati.
A Genova toccò a Melissa, figlia di un potente commerciante. Melissa, “Mela” per le amiche, volle una mela uguale e identica a quella di Ciro. Si amavano, così dicono, e nel ‘68 lui decise di restare lì. Si appoggiava nel magazzino di un negozio di liquori, tra bische e riunioni di quartiere. Disegnava su pelle e accarezzava i capelli di Melissa.
Quell’amore, ovviamente, fu osteggiato dal padre di lei, che arrivò a rinchiudere la figlia in convento, accecato da una sua convinzione di onore, e ad aggredire fisicamente Ciro. I suoi uomini gli spezzarono una gamba e la mano destra, quella con cui tatuava, poi, incosciente, lo gettarono nelle acque del Fereggiano.
Fu ritrovato su una sponda e portato all’ospedale, da dove uscì circa tre mesi dopo. Ridotto a camminare col bastone, la mano destra gli fu resa inutilizzabile. 
Venuti a conoscenza del fatto, alcuni dei suoi ex compagni di viaggio lo andarono a prendere per riportarlo a Napoli. Viveva alla giornata, sentendosi inutile e dimenticato da Dio. 
Nel ‘72, ricevette una lettera. Era una cosa inaspettata, perché nessuno gli aveva mai scritto una lettera. Era di Melissa, diventata crocerossina e ora in servizio a Venezia. 
“Trova te, poi trova quello che vuoi fare di te. Trova il tuo posto, sceglilo bene: che sia felice, che sia essenziale”. 
Ciro, con la mano sbagliata, incise il nome di lei sulla sua gamba sinistra, quella che gli recava tanto dolore; sottopelle.
Da allora incise fino all’anno della sua morte, nel 1991.
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seminostorie · 2 years
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Quando mi sognerai a mezzanotte
Cosa succede quando si supera il confine tra folclore e realtà?
Ogni popolo ha i suoi miti e le sue leggende, che inevitabilmente si scontrano con la cultura del razionale. Ma cosa succede quando si supera il confine tra folclore e realtà? 
Molti parlano di isteria di massa e manipolazione, quando, spesso, si tratta solo di paura.
C’è una casa, nel mio paese, dove oggi non abita più nessuno. Una volta ci vivevano Andrea e sua madre. 
Lei, una donna anziana molto riservata, che si vedeva poco in giro, se non per andare in chiesa e a fare la spesa. 
Lui, un ragazzo perduto: silenzioso, solitario, educato, ma caduto nel mondo della droga e dell’alcol troppo presto. La cosa, però, che lo rendeva diverso dai soliti ragazzi perduti era la sua incredibile lucidità nei tanti momenti di sobrietà. Una lucidità che gli permetteva di coltivare quel poco di terreno che avevano dietro casa, di leggere (molto) e di vagare con la fantasia. 
La madre, in settembre, si occupava di vendere le nocciole raccolte e messe a seccare dal figlio e, qualche volta, arrotondava con le verdure coltivate nell’orticello.
Andrea e la madre si portavano dietro una famiglia segnata dal dramma e dalla malasorte: il padre di Andrea, cioè il marito della signora, era scomparso molti anni prima. Era uscito una sera e non aveva fatto più ritorno a casa. E così suo nonno, il suo bisnonno e il padre del suo bisnonno. 
“È una famiglia maledetta”, si diceva nel vecchio paesino del Veneto, da cui provenivano. “In quella famiglia vive il diavolo”, dicevano altri; e ancora: “che Dio li perdoni, perché sono corrotti dalle fiamme dell’inferno”. Dicerie, solo dicerie. 
Anche se un giorno, molti anni dopo il loro arrivo, accadde davvero qualcosa di soprannaturale, qualcosa che anche le vecchie memorie del posto associavano al male. 
Era già da un po’ di tempo che il comitato nazionale per la salvaguardia e il ripristino della flora e della fauna territoriale aveva avviato un programma di reintroduzione, in natura, dei maestosi lupi, signori dei boschi, portati sull’orlo dell’estinzione dalla nostra avidità. Negli ultimi dieci anni, la loro popolazione si era decuplicata, riportandoli, per forza di cose e di spazio, sempre più a contatto con l’uomo. 
Non passò molto che antiche storie di bestie “mangia bambini” e “mangia uomini” si riaffacciarono nell’immaginario collettivo. Così come risuonarono, a gran voce, gli avvistamenti di un mostro dalle sembianze canine, di lupo per essere precisi, che svettava in posizione eretta e che attaccava minacciosamente le greggi e i pastori.
Anche Padre Mattia, durante le sue omelie, metteva in guardia, con sacro fuoco, dalle tentazioni del male, indicando la presunta bestia come una punizione per la mancanza di morale dei nostri giorni. 
Squadre di presuntuosi cacciatori s’avventuravano nei boschi a caccia di gloria, rientrando puntualmente con le mani vuote e le brache sporche dalla paura.
Il dramma accadde una notte di giugno. Il piccolo Giuseppe giocava nel grande giardino dietro casa con i suoi cani pastore, Stella e Tobia, quando un urlo strozzato fece scattare fuori i suoi genitori. La scena fu da film horror: il piccolo Peppe interamente ricoperto di sangue e i due cani dilaniati e ridotti in brandelli, irriconoscibili. 
Preso dall’impeto e dalla rabbia, Carmine, il padre di Peppe, imbracciò il suo fucile e seguì, fra gli alberi, la scia di sangue. Potete capire che, non rientrando a casa, la mattina dopo partì una spedizione per cercare l’uomo, che fu sì ritrovato, ma solo quel che ne restava. 
Dopo quella notte, gli ululati si fecero sempre più vicini alle case e gli avvistamenti della bestia sempre più frequenti. Ci furono diverse aggressioni a bestiami e anche a due uomini, tanto fortunati da poter raccontare dell’incontro con il… lupo mannaro. 
Scossa, la comunità si ritrovò nella sala consiliare per affrontare il problema. Le frasi più gettonate furono: “Bisogna chiamare l’esercito” o anche “e i carabinieri che fanno?” e ancora “è una punizione divina”, “siamo maledetti”. 
Tutte queste voci si sovrapponevano le une sulle altre, fin quando si fece avanti Andrea: “io so come mandare via la bestia e lo farò stanotte stessa”. I borbottii si trasformarono in stupore. 
Lui si avvicinò alla madre e le sussurrò: “quando mi sognerai a mezzanotte, allora tutto sarà finito e potrai riposare”. Detto questo, se ne andò, sparendo nella selva che circonda il giardino dietro casa. 
Come suo padre, e così come suo nonno, il suo bisnonno e il padre del suo bisnonno, anche Andrea uscì di casa quella sera e non fece più ritorno. Da quel giorno, però, la bestia svanì nel nulla. 
Due anni dopo, una mattina, la madre di Andrea fu trovata morta in casa dalla vicina: qualche ora prima, a mezzanotte, aveva sognato il suo amato Andrea.
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seminostorie · 2 years
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Mundial '82: l'importanza di quella vittoria a quarant'anni dall'impresa
A cura di Gerardo D’Amato
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L'11 luglio 1982 si compiva un'impresa storica: la nazionale italiana di Enzo Bearzot batteva, a sorpresa, la Germania dell'Ovest e si laureava Campione del Mondo. Paolo Rossi si ergeva a eroe, il C.T. a totem; di Marco Tardelli, l'immagine simbolo.
Con il giornalista e scrittore Marco Ciriello, analizziamo il contesto e il valore di quella vittoria "all'italiana": tra sofferenza, teatralità e passione.
IL CONTESTO STORICO, POLITICO E CULTURALE
La fine degli anni ‘70 e i primissimi anni ‘80 hanno rappresentato uno spartiacque nella storia dell’Italia.
Sono gli anni delle morti di Moro e di Giovanni Paolo I, della strage di Ustica e della bomba alla stazione di Bologna, del terremoto in Irpinia e dell’attentato a Giovanni Paolo II. E non ci siamo fatti mancare neanche i massoni con la P2 e Livio Gelli.
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Era un'Italia ingenua, dove, però, c'era ancora spazio per la cultura, quella con la C maiuscola. Si pensi al vincitore del Premio Strega 1982, Goffredo Parise con il suo "Sillabario n. 2". Si pensi anche alla classifica del Festival di Sanremo, che vide primeggiare Riccardo Fogli con "Storie di tutti i giorni" e il premio della critica consegnato a Mia Martini per la canzone "E non finisce mica il cielo" (scritta da Ivano Fossati). E addirittura, la partecipazione al festival di Padre Cionfoli: un francescano che faceva musica!
Anche la squadra di giornalisti inviati a seguire il torneo era composta da eccellenze:
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Era un'Italia ingenua, ma che permetteva di sognare.
L’opinione:
IL CONTESTO SPORTIVO
"Hai strabiliato solo coloro che non te ne ritenevano degna, non certo coloro che sanno strologare a tempo e luogo sul mistero agonistico del calcio. La tua vittoria è limpida, pulita: non è neppure venuta dal caso, bensì da un'applicazione soltanto logica (a posteriori!) del modulo che ti è proprio, e in tutto il mondo viene chiamato all'italiana. Eri partita misera outsider, fra lo scetticismo di tutti coloro che prendevano alla lettera i principi enunciati dal tuo bravissimo e un po' fissato C.T." (Gianni Brera)
È stato il mondiale dello stupore. È stato il capolavoro del "Vecio". È stata una vittoria che, paradossalmente, ha creato un clamoroso precedente: credere di poter uscire epicamente vittoriosi ogni qual volta le cose sembrino andar male.
Sì, perché la nazionale italiana si avvicinava a quel mondiale con le ossa rotte.
Nell''80, ci fu il primo, grande scandalo di partite truccate nella storia del calcio italiano, passato alla memoria come il "Totonero": una tragedia sportiva, che aveva avvolto nell'ombra tutto il movimento e la sua credibilità.
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Seguirono le polemiche sulle convocazioni, con l'esclusione di Roberto Pruzzo, centravanti della Roma, a vantaggio del compianto Paolo Rossi, che sarà poi decisivo, ma coinvolto anche lui nell'inchiesta e squalificato per tre anni.
Come se non bastasse, l'Italia giocò un girone di qualificazione alla fase finale mediocre. Gli azzurri passarono il turno con tre pareggi e per via della miglior differenza reti rispetto al Camerun, e con l'accusa di aver truccato la partita contro gli africani. Altra benzina sul fuoco per i detrattori di Bearzot.
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Nella fase finale, però, scattò qualcosa. Venne fuori il carattere, lo spirito di rivalsa di una squadra formata da uomini veri. La partita simbolo è, naturalmente, quella con il Brasile degli invincibili: Zico, Falcao, Cerezo, Junior, Socrates.
Fu qualcosa di enorme. Paolo Rossi sembrava un dio. Ma vogliamo parlare della prestazione di Bruno Conti?
Lì si capì che quell'Italia era una squadra speciale, fatta di uomini speciali.
L'opinione:
IL VALORE DI QUELLA VITTORIA
"Campioni del Mondo, Campioni del Mondo".
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"Quella del Mondiale è stata davvero una favola." (Dino Zoff)
"(...) avevamo dato il via alla rinascita del Paese." (Marco Tardelli)
Che valore ha quella vittoria?
L’opinione:
E OGGI?
Dopo la vittoria del 1982, le competizioni internazionali ed europee hanno visto la nazionale di calcio italiana sul gradino più alto del podio solo in due occasioni.
La vittoria mondiale del 2006 resta un'impresa, certo, ma meno "epica" rispetto alla campagna spagnola. Anche qui, l'Italia si affacciava alla Coppa del Mondo con uno scandalo alle spalle (Calciopoli) e con diverse polemiche sulle scelte del C.T. Marcello Lippi (perché in Italia, quando si parla di calcio, siamo tutti allenatori. Con la nazionale un po' di più!).
Nell'importanza della vittoria, l'Italia non ha però affrontato avversari proibitivi e, soprattutto, aveva a disposizione tutti i migliori giocatori dell'epoca.
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Dopo una lunga serie di fallimenti e delusioni, è arrivata la meteora di Euro2020, presto smentita dalla seconda, cocente eliminazione consecutiva nelle qualificazioni mondiali.
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In che stato è il calcio italiano?
L’opinione:
Crediti
Il progetto è stato realizzato nell'ambito del corso “Giornalismo multimediale: come realizzare un reportage digitale” della Feltrinelli Education.
Voce: Marco Ciriello, scrittore e giornalista per Il Messaggero e Il Mattino,  dove cura le rubriche di critica letteraria Hitch22 e Herzog. È autore dei documentari Ezra Pound, Poeta e Leonardo Sciascia - Scrittore alieno , andati in onda su Sky Arte HD . Nel 2015, è stato tra i cento nomi dello sport di Gianni Mura. Tra i suoi romanzi: Il più maldestro dei tiri (Ad est dell'equatore, 2015); Maradona è amico mio (66th and 2nd - collana Vite inattese, 2018); Valentino Rossi, il tiranno gentile (66th and 2nd - collana Vite inattese, 2021). Intervista originale realizzata il 20/04/2022.
Immagini e video: dal web. Tali contenuti appartengono ai rispettivi proprietari e il loro uso ha uno scopo meramente didattico.
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seminostorie · 2 years
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Najya
Najya ha un obiettivo, una missione da portare a termine. Najya ha un sogno, che neppure la malasorte può fermare.
Najya vive in Inghilterra da sempre. Come molti, moltissimi pakistani, anche i suoi genitori sono emigrati in cerca di fortuna. 
Mamma Rabia e nonna Sumaira si occupano della casa, mentre papà Faizan, dopo una serie di lavori spacca schiena, ora è controllore sui tram. 
Vivono a Durham, nel Nord Est.
Potrebbero sembrare una famiglia conservatrice, ma hanno solo fatto di necessità virtù.
Najya ha un fratello maggiore, Amir, brillante studente dell’Università della città. Lei frequenta il college e, oltre ad eccellere nelle materie scientifiche, ha maturato, negli anni, una forte passione per la boxe. Ha iniziato a praticarla a tredici anni, iscrivendosi a un corso scolastico. Oggi frequenta la “Royal Knight Gym”, sotto lo sguardo attento di coach Kevin, ex-campione della contea.
Najya si allena duramente e, altrettanto duramente, studia, studia e studia. Casa-scuola-palestra-casa: non frequenta altri luoghi se non questi. Le amiche? Certo, ma solo il sabato pomeriggio. Najya ha un obiettivo, una missione da portare a termine.
Ha vinto 35 incontri e ne ha persi 6 ed è considerata, dagli esperti, la migliore promessa della boxe femminile inglese, ma lei ha un sogno: rappresentare il suo Pakistan alle Olimpiadi. Purtroppo, però, dalla Federazione non ha mai ricevuto una risposta. E, intanto, quella inglese spinge per averla in squadra. 
Najya non indietreggia di un passo, come sul ring. Continua ad allenarsi, continua a studiare, continua a vincere, continua a prendere buoni voti, aspettando la chiamata giusta. Coach Kevin ha già dato la sua disponibilità ad accompagnarla in questa avventura: le vuole bene come una figlia. 
Najya vince ancora: ora il suo record dice 42-6. Al college, ottiene anche una borsa di studio. Il suo progetto per agevolare la vita dei non vedenti ha ricevuto una menzione di merito dal ministero dell’istruzione: “il progetto di un trasformatore di onde di movimento in immagini 3D - si legge - è rivoluzionario e merita la nostra attenzione”. Rivoluzionario, ma Najya non è felice; lei ha un obiettivo, una missione da portare a termine: rappresentare il suo Pakistan alle Olimpiadi. 
Najya si allena duramente e il tempo sembra rallentare e l’aria farsi più pesante. A chi le dice di rinunciare e di accettare la proposta inglese, Najya risponde con il silenzio. Guarda avanti: un passo alla volta, un pugno alla volta, una ripresa alla volta. Rocky docet. 
Da qualche mese, ha iniziato a frequentare Michael, suo compagno di allenamento, un pugile élite dal glorioso avvenire. Lui studia storia, sempre alla Durham University e ha già ottenuto il pass olimpico, vincendo i campionati nazionali.
Najya brama con ardore quell’occasione: l’occasione della sua vita, l’occasione di realizzare il suo sogno. 
La svolta arriva un martedì sera. Papà Faizan rientra a casa dopo una giornata di lavoro e annuncia: “non chiedetemi perché, non chiedetemi come, ma oggi ho conosciuto telefonicamente il nostro ambasciatore e ha detto che sottoporrà la tua richiesta alla Federazione”.
Najya non sta più nella pelle, ma per la sua età, è abbastanza matura da non auto-alimentare false speranze, anche perché il tempo stringe e restano solo due tornei di qualificazioni per quattro posti.
La risposta arriva due settimane dopo, a quindici giorni di distanza dal primo torneo: Najya può rappresentare il Pakistan alle qualificazioni che si terranno in Francia, ma, se dovesse fallire l’accesso alla finale (che significa qualificazione), non potrà competere il mese dopo in Germania. 
A Najya non importa, due settimane le bastano per prepararsi. Questa volta, il tempo va via veloce ed è già tempo di partire. Giovedì sera, quarti di finale. Najya contro una pugile olandese: ai punti vince di strettissima misura. Colpa dell’ansia. 
Il sabato sera si gioca tutto contro una greca. Vincere significherebbe accesso ai Giochi, indipendentemente dal risultato della finale; perdere non è contemplato. Najya ha le gambe leggere, vola come una farfalla e punge come un’ape: è vittoria ai punti, senza discussioni di alcun tipo. Il suo urlo liberatorio si sente fino a casa, nel nord est.
La finale è pura formalità, ma per la cronaca: vittoria per TKO contro la tedesca di turno. Il suo record ora recita 45-6: Najya porterà il suo velo sul ring dei Giochi. Ora potrà provare a seguire le orme di Hussain Shah, bronzo a Seoul ‘88. 
Nei due mesi che la separano dai Giochi, Najya si allena duramente e, altrettanto duramente, studia, studia e studia.
Ma il fato sa essere crudele, molto. Najya esce per la sua solita corsa mattutina e Dio solo sa perché è toccato a lei incontrare quell’ubriaco al volante: frattura del perone, ma le poteva andare anche peggio. Addio Olimpiadi.
La famiglia è distrutta, coach Kevin pure, ma Najya no, è lei a dar forza ai suoi cari. 
Najya ha un obiettivo, una missione da portare a termine. Najya ha un sogno, che neppure la malasorte può fermare. 
Quattro anni non sono niente, per una che ha lavorato tanto per tutta la vita. 
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seminostorie · 2 years
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I tre minuti più lunghi di sempre
È capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di pensare che il tempo scorresse così lentamente da essersi fermato.
La palestra non è soltanto un luogo dove allenare il fisico. Il lavoro al sacco non serve solo a migliorare la velocità. Gli esercizi con i pesi non servono solo ad incrementare l’esplosività; e la corda non serve solo a migliorare la resistenza. Il ring non è solo un quadrato dove riempirsi di botte. Il pugilato non allena solo il fisico: forma la mente, forma la persona; prima di tutto.
Ed ecco che la palestra si trasforma in un confessionale, in un luogo di meditazione, di ricerca. Il Maestro pone le domande giuste: le risposte (o se vuoi, le verità), quelle che cerchi o che non sapevi di cercare, le hai solo tu. Uno bravo, una volta, disse “sono dentro di te”.
È capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di pensare che il tempo scorresse così lentamente da essersi fermato. A chi boxa capita un po’ più spesso.
E no, questa sensazione non la provi mentre sei sul ring, incontro o sparring che sia. Se hai la coscienza pulita, prima come uomo e poi come atleta, quando sali sul ring ti senti leggero e in pace col mondo.
Il tempo si ferma in palestra, durante l’allenamento, e sfido chiunque a dire che non si ferma proprio durante il lavoro al sacco fisso.
Se prima ho scritto di “un confessionale”, il sacco fisso è un confessore muto, che però dice tutto.
Il sacco fisso mette a nudo le debolezze tecniche e le fragilità mentali. Al sacco fisso siamo tutti uguali: professionisti, dilettanti, amatori. Il sacco fisso non è democratico, non dà a tutti le stesse possibilità.
E il tempo rallenta e quei tre minuti sembrano ore. I tre minuti più lunghi di sempre.
“Allora, ci siamo. Il Maestro ha detto: 1-2, passo indietro, 2. Proviamo!” 
Il sinistro non affonda per niente, il destro che te lo dico a fare; passo indietro, ma sto male sulle gambe: il rientro di destro è inguardabile; il sacco ride.
“Ok! C’è qualcosa che non va. Forse proprio tutto. Le gambe ora sono messe bene, forse mi conviene fare un mezzo passo indietro, per trovare meglio la misura. Ci riprovo: 1-2, passo indietro, 2.”
Manca sempre qualcosa. Riprovo allo sfinimento e mi chiedo se ne valga la pena. “In fondo, non combatti, hai quasi 31 anni e sei anche abbastanza scarso.”
Ritornano alla mente le discussioni della mattina in ufficio, i timori, le figuracce fatte a 7 anni. Il sacco fisso fa riaffiorare ricordi ormai sopiti, che con la boxe non hanno nulla a che fare; il sacco fisso lascia sfiorire qualsiasi velleità del futuro.
Viene spontaneo porgli delle domande, anche le più intime. Quando passi tanto tempo in un luogo, quel luogo finisce per diventare una parte di te. Vale la stessa cosa per l’arredo. Il sacco fisso non risponde, qualsiasi sia la domanda. Il sacco fisso giudica, in silenzio. E ti lascia sempre nel dubbio: “ma se…”.
Mi dico ancora: “1-2, passo indietro, 2. Faccio un altro mezzo passo indietro e allargo leggermente la traiettoria del passo in avanti con la gamba sinistra, magari trovo l’equilibrio perduto o mai avuto. 1-2, passo indietro, 2.”
Bam-bam… bam! Sento finalmente le braccia partire bene. Mi giro verso il Maestro: “Mae’, va bene così?" E lui: “fai vedere.”
1-2, passo indietro, 2. Mi sento felice. L’ho fatto bene.
“Sei troppo rigido sulle gambe - dice - e non giri bene le spalle: riprova. Devi essere più morbido e più esplosivo. Non m’interessa la velocità, ma che lo fai bene; prenditi una breve pausa tra un colpo e l’altro, tra un’azione e l’altra.”
Il sacco ride, soprattutto quello rosso. E mi sputa in faccia tutta la frustrazione che si è accumulata nel tempo. Riprovo: ancora, ancora e ancora.
Suona il timer: un minuto di riposo.
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seminostorie · 2 years
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Marco e il Grande Orso
Curioso e anche abbastanza incosciente, Marco seguì quella pista, spingendosi nel profondo della foresta. Dopo due ore di cammino, si ritrovò dinanzi a un grosso giaciglio, su cui stava riposando un grande orso.
Marco ricorderà per sempre l’estate del ‘72. Aveva compiuto diciannove anni in aprile e il venticinque giugno aveva sostenuto l’esame di maturità, presso il liceo Ungaretti, superato con voti 50/60.
Non era mai stato il primo della classe, ma un buon studente, questo sì. 
Viveva in provincia, in un paesino di montagna, di quelli che campano di agricoltura, taglio del legno e, più in generale, dei doni di madre terra. Un paesino che, nonostante i confini ristretti, riusciva sempre ad alimentare la sua fantasia.
Marco ricorderà per sempre l’estate del ‘72. Subito dopo il diploma e dopo essersi iscritto all’università, si dedicò ad aiutare suo padre nel riorganizzare l’appezzamento di terra che avevano dietro casa.
Lo faceva ogni estate, ma quello fu l’anno in cui divenne pienamente autonomo nello svolgere i compiti assegnati. “Non m’interessa come lo fai, basta che lo fai” - così gli disse suo padre il ventisei giugno. 
Marco si dedicava al taglio del legno e alla ricerca di piante da frutto endogene, da ricoltivare nell’orto di casa. Per farlo, si addentrava spesso nel bosco che circonda la proprietà.
Marco ne era stato sempre affascinato, soprattutto per via delle storie di streghe, spiriti e animali fantastici che le vecchie memorie del paesino erano solite raccontare.
Lui, di cose insolite, però, non ne aveva mai viste. Mai, fino all’estate del ‘72, quella che ricorderà per sempre.
Un pomeriggio, mentre cercava delle erbe aromatiche, notò una pista di animali molto più larga e trafficata del solito. La larghezza era almeno il doppio di quelle che vedeva abitualmente e poi era piena di impronte enormi: quelle di un grosso orso.
Curioso e anche abbastanza incosciente, Marco seguì quella pista, spingendosi nel profondo della foresta. Dopo due ore di cammino, si ritrovò dinanzi a un grosso giaciglio, su cui stava riposando un grande orso. 
Marco, nel tentativo di avvicinarsi, ruppe accidentalmente un legnetto con i piedi. Il grande orso si accorse di lui, ma restò immobile, emettendo un verso che era più simile a un borbottio e non a un ruggito. 
Marco si accorse che il grande orso era ferito ad una zampa, forse a causa della tenaglia di qualche cacciatore. Si avvicinò alla bestia e, delicatamente, si sfilò lo zaino dalle spalle.
Prese della carne secca e la porse all’animale sofferente; poi, versò dell’acqua sulla ferita, per pulirla, e la fasciò con un brandello della sua maglietta preferita. 
Gli animali provano emozioni e il grande orso sembrò capire e apprezzare il gesto di Marco, che, salutandolo, fece ritorno verso casa. 
Il pomeriggio seguente, con la scusa di andare in cerca di altre piante, Marco ritornò in quella radura. Il grande orso era lì, seduto, che aspettava. Marco gli porse dell’altra carne, che il gigante mangiò di gusto. La ferita stava molto meglio, ma non certo per le cure di Marco. Evidentemente, era già in fase di guarigione.
Marco si sedette di fronte all’animale e, quasi come se fosse un nuovo amico, iniziò a fare conversazione:
“Ciao! Io sono Marco e tu come ti chiami?”; 
“Brr” - rispose il grande orso;
“Piacere, Brr! Da dove vieni?”- chiese ancora; dopo un attimo di esitazione, il grande orso volse lo sguardo al cielo.
“Vieni da lassù?” - domandò ingenuamente Marco;
“Brr” - rispose il grande orso, scuotendo leggermente il capoccione.
Marco rimase un attimo interdetto, ma ormai si era fatto tardi e dovette rientrare a casa. 
Messosi a letto, ripensò a quanto “detto” dal grande orso. Ci pensò così tanto, che verso mezzanotte decise di raggiungere nuovamente la radura. 
Si avventurò, armato di torcia, in quel luogo spettrale, arrivò al giaciglio, ma non vi trovò il grande orso. 
Lo vide poco più in là, seduto su una grande roccia a fissare la luna.
Decise di non disturbarlo: lasciò dell’altra carne secca vicino al giaciglio e rientrò a casa. 
Nelle settimane successive, del grande orso si erano perse le tracce. Marco era molto triste, sentiva di aver perso un amico.
Così, una sera, decise di ritornare nei pressi di quel masso; e lo fece addirittura quella stessa notte.
Ancora una volta, del grande orso nemmeno l’ombra. Marco, deluso, andò a sedersi su quella grande roccia e volse lo sguardo verso le stelle. 
Notò un bagliore nel cielo e, incredulo, gli parve di scorgere il grande orso seduto sulla luna. Un sorriso e una lacrima gli segnarono il viso: allora erano vere, tutte quelle storie delle vecchie memorie sugli spiriti dei boschi.
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